Messaggi del 12/08/2011

L'uomo di ferro

Post n°382 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una foresta maledetta nella quale nessuno osava entrare. Un giorno un cacciatore decise di entrare nella foresta con il suo cane che si diede subito da fare per far alzare qualche animale, ma dopo i primi salti si trovò impantanato in un acquitrino che l'arrestò nella sua corsa e un braccio nudo uscì dall'acqua per afferrarlo.
Il cacciatore aveva visto tutto, fece dietro front e ritornò con tre robusti giovanotti armati di secchi e fece svuotare loro l'acqua dello stagno. Sul fondo intravidero, lungo sdraiato, una specie di selvaggio enorme che aveva il corpo color ruggine e con capelli lunghi fino alle ginocchia che gli coprivano completamente il viso. Lo legarono con corde e lo portarono fino al castello, dove tutti lo guardarono con stupore.
Il re lo chiuse in una gabbia di ferro che lasciò in un cortile. Solo il figlio del re, che aveva otto anni, l'aveva in simpatia e gli offriva frutta e dolciumi.

Un giorno il selvaggio gli chiese di liberarlo. Il ragazzo eludendo la vigilanza delle guardie riuscì ad aprire la gabbia, poi, per paura di essere sgridato fuggì con il selvaggio. Quando si trovarono al riparo nel cuore della foresta si fermarono per riposarsi. Il giorno dopo, quando il ragazzo ebbe dormito sul letto di muschio che il selvaggio gli aveva preparato, lo condusse ad una sorgente.
- Vedi - gli disse - l'acqua di questa sorgente d'oro è chiara e trasparente come il cristallo; tu devi restare qui e vegliare sulla sua purezza. Nessuno deve toccarla e non deve caderci dentro niente. Io verrò questa sera a controllare che tu mi abbia obbedito.
Poiché il tempo non passava più, tentò di distrarsi guardando il suo volto nello specchio dell'acqua. Come si spinse più avanti per vedersi meglio, ecco che i suoi lunghi capelli, che gli cadevano fin sulle spalle, scivolarono e toccarono l'acqua. Si ritrasse dietro in fretta, ma ormai la sua capigliatura era già tutta dorata e brillante come il sole. Potete immaginarvi che paura ebbe il ragazzo. Pertanto, per non farsi accorgere dall'uomo, prese il suo fazzoletto e si coprì la testa come se fosse un berretto. Ma a che scopo? L'uomo, arrivando la sera sapeva già tutto e le sue prime parole furono:
- Togli il tuo fazzoletto.
Lo tolse e i suoi capelli caddero sulle spalle in riccioli scintillanti. Ebbe un bel scusarsi e dire che non l'aveva fatto apposta e giurare che non l'avrebbe fatto più. Non servì a nulla e L'uomo di ferro gli disse:
- Non hai superato la prova: è impossibile che mi occupi più a lungo di te. Davanti a te c'è il mondo vasto e tu apprenderai che cosa è la povertà, ma poiché io ti voglio bene e tu, in fondo, non sei un cattivo tipo, ma sei di buon cuore, ti permetterò una cosa: se sei in pericolo, va nella foresta e chiamami: "Giovanni di ferro". Mi vedrai subito e io ti aiuterò. Il mio potere è grande, molto più grande di quello che tu non creda e per quanto riguarda oro e argento, io ne ho a profusione.
Il principino dovette allora andarsene lontano dalla foresta e camminò, camminò per molti giorni, seguendo le strade quando c'erano e andò dritto davanti a se quando non c'erano.

Arrivò finalmente ad una città dove cercò lavoro, ma non ne trovò, perché non sapeva far niente e non aveva imparato nulla che gli potesse servire. Disperato andò alla reggia per chiedere protezione. Non seppero cosa fargli fare, ma piacque a quelli della corte e gli dissero di restare.
Un giorno che era in giardino la principessa gli disse di cogliere i fiori più belli e più rari per lei. Il ragazzo li colse e corse nella camera della principessa.
- Togli il tuo cappello - gli disse la principessa - non devi tenere la testa coperta in mia presenza.
- Non posso - le rispose - ho le croste in testa.
La principessa gli prese il berretto e glielo levò, liberando i suoi capelli d'oro che si sciolsero sulle spalle, meravigliosi da vedere. Tentò di lanciarsi verso la porta per scappare, ma la principessa lo trattenne per un braccio e gli diede una manciata di ducati prima di lasciarlo andare. Se ne andò con questo oro che per lui non aveva nessun valore e lo regalò al giardiniere dicendogli:
- E' per i tuoi ragazzi, si potranno divertire.
Il terzo giorno la principessa lo chiamò di nuovo, chiedendogli un mazzo di fiori di campo e quando entrò nella camera cercò ancora di strappargli il berretto dalla testa, ma questa volta lo trattenne con tutte e due le mani e glielo impedì.

Purtroppo, dopo poco tempo, scoppiò la guerra in tutto il regno. Il re mobilitò tutto il suo popolo, chiedendosi se avresse potuto resistere al nemico che era numeroso e potente. Si sentì allora il giovane aiuto giardiniere che diceva:
- Ora sono grande e anche io voglio andare a fare la guerra. Chiedo soltanto che mi sia dato un cavallo.
Corse alla scuderia, prese un cavallo, gli salì in groppa e si diresse verso la foresta. Arrivato ai margini si mise a chiamare:
- Giovanni di ferro! Giovanni di ferro!
Che cosa vuoi da me? - gli chiese l'Uomo di ferro, apparendogli subito davanti.
- Vorrei un forte cavallo da battaglia - gli disse il giovane principe - perché voglio fare la guerra.
- L'avrai e ancora migliore di quello che ti aspetti. - disse l'Uomo di ferro.
Ritornò nella foresta, da dove poco dopo uscì seguito da un palafreniere che conduceva un cavallo focoso che nitriva e che faceva fatica a trattenere. Dietro veniva anche uno squadrone di guerrieri on corazze di ferro e le cui sciabole fiammeggiavano al sole. Il giovane principe si precipitò sul nemico e lo mise in fuga.
Al ritorno del re sua figlia gli corse incontro per congratularsi della sua vittoria.
- Non sono per niente vittorioso - disse al re - perché chi ha vinto la battaglia è un cavaliere misterioso che è venuto in mio soccorso con le sue truppe.
Ma il re disse a sua figlia che avrebbe dato una festa di tre giorni.
- Faremo annunciare che tu lancerai una mela d'oro ed è facile che venga anche lo sconosciuto.
Quando furono proclamati i giorni di festa, il giovane principe andò nella foresta e chiamò Giovanni di ferro e gli chiese aiuto. Il primo giorno arrivò al gran galoppo vestito di bianco, prese la mela d'oro e scomparve a tutta velocità. Il secondo giorno, con una armatura nera, prese la mela che la principessa gli aveva lanciato e di nuovo scomparve. Il terzo giorno, vestito di un'armatura d'oro prese ancora la mela d'oro, ma mentre se la portava via al gran galoppo perse il suo elmo e si videro brillare i suoi capelli biondi.
- Chi ha compiuto simili imprese non può che essere un principe - disse il re - dimmi il nome di tuo padre.
- Mio padre è un monarca molto potente ed io posseggo oro in abbondanza.
- Riconosco che ho un debito di riconoscenza verso di te. Sposerai mia figlia.

Mentre erano tutti a tavola, le porte si spalancarono ed entrò un maestoso monarca con il suo numeroso seguito. Questo re s'avvicinò al giovane principe, l'abbraccio e gli disse:
- Io sono l'Uomo di ferro, il re Giovanni, sono stato trasformato in un uomo selvaggio da un incantesimo dal quale tu mi hai liberato. Per dimostrarti la mia riconoscenza, tutti i tesori che possiedo sono ora di tua proprietà, accettali come regalo di nozze ed augurio di felicità.


 
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Il pescatore e la sua anima

Post n°381 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Tutte le sere il giovane Pescatore usciva in mare, e gettava in acqua le sue reti.
Una sera nella rete trovò una piccola Sirena addormentata.
Era bellissima, e il giovane Pescatore la tirò a sé e la tenne stretta fra le braccia.
Ella emise un grido «Ti prego, lasciami andare, perché sono l'unica figlia di un Re, e mio padre è anziano e solo».
«Devi promettermi che verrai a cantare per me, perché i pesci amano ascoltare il canto del Popolo del Mare, e così le mie reti saranno piene» rispose il Pescatore.
E lei promise.
Ogni sera lei spuntava dall'acqua e cantava per lui. E quando la sua barca era ben carica, la Sirena scivolava di nuovo dentro il mare, sorridendogli.
Però non gli veniva mai abbastanza vicino perché egli potesse toccarla.
Tanto dolce era la sua voce, che col tempo lui dimenticò le sue reti, e trascurava il suo lavoro. E una sera le disse: «Piccola Sirena, io ti amo. Prendimi come tuo sposo».
Ma la Sirena scosse il capo «Tu hai un'anima umana, – rispose - se allontanassi la tua anima, allora potrei amarti».
E il giovane Pescatore si disse: «A che cosa mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco. Certo che l'allontanerò».
Ma non sapeva come. Allora andò alla casa del Prete. E il prete si picchiò il petto, e rispose: «Ahimè, tu sei pazzo. Non c'è cosa più preziosa di un'anima umana, e nulla sulla terra può esserle paragonata. Vale tutto l'oro del mondo».
Gli occhi del giovane Pescatore si riempirono di lacrime alle parole del Prete. «Nella mia rete ho catturato la figlia di un Re. Per il suo corpo darei la mia anima, e per il suo amore rinuncerei al cielo. Dimmi quello che ti chiedo, e lasciami andare».
«Vattene!» gridò il prete.
E il giovane Pescatore andò nella piazza del mercato, ma i mercanti lo schernirono, e dissero: «A che ci serve l’anima di un uomo? Non vale un pezzetto d’argento».
«Che cosa strana è questa! Il Prete mi dice che l’Anima vale tutto l’oro del mondo, e i mercanti dicono che non vale un pezzetto d’argento» pensava il Pescatore.
Decise di andare dalla Strega dai capelli rossi.
«Che cosa ti manca? – gridò lei - Dimmi il tuo desiderio, e te lo darò, e tu mi pagherai un prezzo, bel ragazzo».
«Qualunque sia il tuo prezzo, lo pagherò: voglio allontanare da me la mia anima» disse il giovane Pescatore.
La Strega impallidì: «Bel ragazzo – mormorò - questa è una cosa terribile a farsi».
«Non m'importa niente della mia anima» rispose il giovane Pescatore.
«Se ti dirò come fare» chiese la Strega «in cambio devi danzare con me. Questa notte tu devi venire sulla cima del monte. – sussurrò - È un Giorno Santo, e Lui sarà là».
«Chi?» chiese il Pescatore.
«Non importa. - rispose lei - Quando la luna sarà piena danzeremo insieme sull'erba».
«E mi dirai ciò che voglio?» domandò lui.
«Te lo giuro» rispose.
A mezzanotte danzarono vorticando finché al Pescatore cominciò a girare la testa. Vide che all’ombra di una roccia c’era una figura che prima non c'era.
Senza sapere perché, il Pescatore si fece il segno della croce, e invocò il santo nome. Le streghe stridettero come falchi e volarono via, ma lui riuscì ad afferrare la Strega dai capelli rossi.
«Devi dirmi il segreto e mantenere la promessa!».
«Sia» ella mormorò. E si tolse dalla cinta un coltellino dall'impugnatura di verde pelle di vipera, e glielo diede.
«Quello che gli uomini chiamano ombra del corpo non è l'ombra del corpo, bensì il corpo dell'anima. Fermati sulla riva del mare con le spalle alla luna, e taglia via dai piedi la tua ombra, che è il corpo della tua anima, e di' alla tua anima di lasciarti, e lei lo farà. …Vorrei non avertelo detto» e si aggrappò alle sue ginocchia piangendo.
Lui la spinse lontano da sé e la lasciò nell'erba rigogliosa. Con il coltello nella cintola scese dal monte. Si fermò sulla sabbia con la luna alle spalle.
E la sua Anima lo supplicò di non farlo, ma inutilmente, e alla fine gli disse «Se davvero devi allontanarmi da te, non mandarmi via senza un cuore. Il mondo è crudele, dammi il tuo cuore da portare con me».
«Con cosa potrei amare il mio amore se dessi il mio cuore a te?» esclamò.
«Non potrei amare anch'io?» chiese la sua Anima.
«Vattene, perché non ho bisogno di te» gridò il giovane Pescatore, e prese il coltellino e tagliò via l'ombra dai piedi, e l'ombra si levò in piedi davanti a lui, e lo guardò, ed era esattamente uguale a lui.
Il giovane Pescatore indietreggiò con passo incerto, si cacciò il coltello nella cintola, e un senso di sgomento lo invase.
«Una volta all'anno verrò in questo luogo, e ti chiamerò» disse l'Anima.
Il giovane Pescatore si tuffò nell'acqua, e la piccola Sirena venne su a incontrarlo, gli mise le braccia attorno al collo e lo baciò.

E dopo un anno l'Anima scese alla riva del mare e chiamò il giovane Pescatore. «Vieni più vicino, così che possa parlarti, perché ho visto cose meravigliose. Quando ti ho lasciato mi sono diretta a Oriente e ho viaggiato. Dall'Oriente viene tutto quello che è saggio.
Là ho trovato lo Specchio della Saggezza. Lasciami entrare di nuovo dentro di te, e la Saggezza sarà tua. Lascia che io entri in te, e nessuno sarà saggio al pari di te».
Ma il giovane Pescatore rise. «L'Amore è meglio della Saggezza» esclamò «e la piccola Sirena mi ama».
«Non c'è niente di meglio della Saggezza» disse l'Anima.
«L'Amore è meglio» rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l'Anima se ne andò piangendo.
Alla fine del secondo anno l'Anima scese alla riva dei mare «Vieni più vicino, così che possa parlarti, perché ho visto cose meravigliose. Quando ti ho lasciato, mi sono diretta a Sud e ho viaggiato. Dal Sud viene tutto ciò che è prezioso. Là ho trovato l'Anello delle Ricchezze. Colui che ha questo Anello è più ricco di tutti i re del mondo. Vieni a prenderlo, e le ricchezze del mondo saranno tue».
Ma il giovane Pescatore rise «L'Amore è meglio delle Ricchezze» esclamò «e la piccola Sirena mi ama».
«Non c'è niente di meglio delle Ricchezze» disse l'Anima.
«L'Amore è meglio» rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l'Anima si allontanò piangendo.
Alla fine del terzo anno l'Anima scese alla sponda del mare «Vieni più vicino, così che possa parlarti, perché ho visto cose meravigliose».
E l'Anima gli disse: «In una città che conosco c'è una fanciulla dal volto velato che ha danzato davanti a noi. I suoi piedi erano nudi. Non ho mai visto niente di tanto meraviglioso, e la città è a un giorno di viaggio da qui».
Il giovane Pescatore ricordò che la piccola Sirena non aveva piedi e non poteva danzare. E lo prese un grande desiderio.
E la sua Anima gridò di gioia, e gli corse incontro, ed entrò dentro di lui, e il giovane Pescatore vide distesa davanti a lui sulla sabbia quell'ombra del corpo che è il corpo dell'Anima.
E la sua Anima gli disse «Non indugiamo, andiamo via di qui, presto, perché gli Dei del Mare sono gelosi, e hanno mostri che obbediscono ai loro ordini».
Viaggiarono a lungo, e durante il cammino l’Anima spinse il Pescatore a compiere molte azioni malvagie, perfino ad uccidere un uomo per derubarlo.
«Detesto tutto quello che mi hai fatto fare» gridò il giovane Pescatore «E odio anche te. Perché hai agito con me in questo modo?».
E la sua Anima gli rispose «Quando mi hai mandato nel mondo non mi hai dato cuore, così ho imparato a fare tutte queste cose e ad amarle».
«No!» gridò «Non voglio avere niente a che fare con te, perciò ti caccerò via, subito». E voltò le spalle alla luna, e col coltellino dal manico di pelle verde di vipera lottò per tagliare via dai suoi piedi quell'ombra del corpo che è il corpo dell'Anima.
Ma la sua Anima gli disse «Colui al quale viene restituita l'Anima, deve tenerla con sé per sempre, e questa è la sua punizione e il suo premio».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, e tornò al luogo da cui era venuto, fino alla piccola baia dove lei, il suo amore, era solita cantare. In una spaccatura della roccia si costruì una casa. E ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno la chiamava ancora, e ogni notte pronunciava il suo nome. Ma mai ella sorse dal mare a incontrarlo, né in alcun luogo del mare egli riuscì a trovarla.
L’Anima lo supplicava di entrare nel suo cuore.
«Ahimè!» gridò la sua Anima «non trovo entrata, così circondato dall'amore è questo tuo cuore».
E mentre parlava si levò un gran grido di dolore dal mare, il grido che gli uomini sentono quando muore qualcuno del Popolo del Mare. E il giovane Pescatore saltò su, e lasciò la sua casa di canne, e corse giù alla spiaggia. E le onde nere venivano veloci alla sponda, sostenendo un fardello più bianco dell'argento. Il giovane Pescatore vide il corpo della piccola Sirena: era disteso morto ai suoi piedi.
Piangendo come chi è colpito dal dolore egli si gettò a terra accanto ad esso, e baciò il freddo rosso della bocca. Si gettò accanto ad esso sulla sabbia, piangendo se lo teneva stretto al petto. E alla cosa morta egli fece una confessione. Nelle conchiglie delle sue orecchie versò il vino aspro della sua storia. Amara era la sua gioia, e pieno di una strana felicità era il suo dolore.
«Fuggi» disse la sua Anima «poiché il mare si avvicina e se indugi ti ucciderà. Fuggi, poiché io ho paura, vedendo che il tuo cuore mi è inaccessibile a causa della grandezza del tuo amore. Fuggi fino a un luogo sicuro. Non vorrai certo mandarmi senza cuore in un altro mondo?»
Ma il giovane Pescatore non ascoltò la sua Anima, ma chiamò la piccola Sirena e disse «L'Amore è migliore della saggezza, e più prezioso della ricchezza, e più bello dei piedi delle figlie degli uomini. I fuochi non possono distruggerlo, né le acque dissetarlo. Ti ho chiamata, e tu non hai risposto al mio richiamo. Perché crudelmente ti avevo lasciata, e con mio danno sono andato lontano. Però mai il tuo amore si è affievolito dentro di me, è sempre stato forte, e niente ha potuto prevalere contro di lui, benché io abbia conosciuto il male e abbia conosciuto il bene. E ora che tu sei morta, anch'io certamente morirò con te».
E la sua Anima lo pregò di partire, ma lui non volle, tanto grande era il suo amore. E il mare si fece più vicino, e cercò di coprirlo con le sue onde, e quando egli si rese conto che la fine era vicina baciò con folli labbra le fredde labbra della Sirena, e il cuore che era dentro di lui si spezzò. E nel momento in cui il suo cuore si schiantò attraverso la pienezza del suo amore, l'Anima trovò un ingresso e vi entrò, e fu tutt'uno con lui come prima. E il mare coprì il giovane Pescatore con le sue onde.
E al mattino il Prete uscì a benedire il mare, perché era stato agitato. E quando il Prete raggiunse la costa vide il giovane Pescatore giacere annegato nella spuma, e stretto fra le sue braccia c'era il corpo della piccola Sirena. Ed egli si ritrasse e gridò: «Non benedirò il mare né nulla che si trovi in esso. Maledetto sia il Popolo del Mare, e maledetti siano tutti coloro che hanno traffici con esso. Prendete il suo corpo e il corpo della sua amante, e seppelliteli all'angolo del Campo dei Follatori, e non ponete alcun segno su di essi. Poiché maledetti sono stati in vita, e maledetti saranno anche da morti».
E la gente fece come aveva ordinato.
Alla fine del terzo anno, durante un giorno sacro, il Prete salì alla cappella, per mostrare alla gente le ferite del Signore, e parlare loro della collera di Dio.
Ma sull'altare c’erano strani fiori mai visti prima: la loro bellezza lo turbò, e il loro profumo era dolce per le sue narici, e si sentì felice, e non capiva perché lo fosse.
«Che fiori sono quelli che stanno sull'altare, e da dove provengono?»
«Che fiori siano non lo sappiamo, - gli risposero - ma vengono dall'angolo del Campo dei Follatori». E il Prete tremò, e tornò alla sua casa e pregò.
E all'alba andò sulla riva del mare, e benedì il mare, e tutte le cose selvagge che vi si trovano. Egli benedì tutte le cose del mondo di Dio, e la gente fu piena di gioia e di meraviglia.
Però mai più nell'angolo del Campo dei Follatori crebbero fiori di alcun tipo, ma il campo rimase sterile come prima. Né il Popolo del Mare venne più nella baia, poiché andò in un'altra parte del mare

 
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Barbablù

Post n°380 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era un a volta un uomo tanto ricco quando brutto.
Egli possedeva palazzi in città, ville in campagna, scuderie piene di cavalli, forzieri colmi di monete d'oro, ma aveva la barba blu, una barba che gli dava un aspetto così terribile che tutte le ragazze scappavano non appena lo vedevano.
Aveva già chiesto la mano di parecchie fanciulle, poiché desiderava sposarsi; ma tutte lo avevano rifiutato.
Tuttavia egli non si stancava e continuava a cercare moglie.
Nella sua stessa città viveva una gran dama che aveva due figlie molto belle, e Barbablù ( tutti lo chiamavano così ) ne chiese una in sposa: non gli importava se la maggiore o la minore.
La gran dama esitò: ella aveva anche due figli maschi ai quali avrebbe voluto preparare l'avvenire; ma, rimasta vedova, era caduta in povertà.
Un matrimonio con un uomo ricco come Barbablù sarebbe stato la fortuna per tutti…Non volendo forzare la volontà delle sue ragazze, le lasciò libere di accettare o no.
Ma nessuna delle due si sentiva il coraggio di compiere quel passo. Tanto più che, si diceva, Barbablù era già stato sposato altre volte, ma non si sapeva dove le sue mogli fossero andate a finire.
Allora Barbablù incominciò a coprire le due ragazze di regali: fiori,gioielli meravigliosi, le invitò insieme alla madre in una sua villa dove, per una settimana, si susseguirono feste da ballo, battute di caccia, banchetti…Infine la figlia minore concluse che quell'uomo non aveva poi la barba tanto blu…e in quattro e quattr'otto decise di sposarlo.
Le nozze furono celebrate con grande sfarzo, e la sposina si sentì molto orgogliosa quando poté mostrare alle sue amiche il meraviglioso palazzo dove abitava.
Un giorno Barbablù annunciò a sua moglie che doveva assentarsi da casa per alcuni affari. Tuttavia desiderava che nel frattempo lei si divertisse con le sue amiche, e le invitasse a palazzo:
- Ti lascio le chiavi di tutte le porte, di tutti i forzieri, di tutti gli armadi - disse togliendo di tasca un tintinnante mazzo di chiavi. - Adopera come vuoi il servizio di vasellami e le posate d'oro e d'argento; fruga nei ripostigli, saccheggia la dispensa. Ma per nessun motivo al mondo dovrai aprire la porticina che si trova in fondo alla galleria e che si apre con questa chiavetta d'oro. Guai a te se entrerai in quello stanzino: dovrai pentirtene amaramente!
Così dicendo, consegnò il mazzo di chiavi alla moglie.
Questa ebbe subito una grande curiosità di vedere che cosa si nascondesse nel misterioso stanzino.
Tuttavia promise di essere ubbidiente e di adoperare tutte le chiavi meno quella d'oro.
Barbablù salì in carrozza e partì; subito dopo la ragazza invitò sua sorella Anna e tutte le sue amiche ad andare a farle visita.
Invitò anche i due fratelli, ma questi promisero che sarebbero venuti soltanto il giorno dopo.
Il corteo delle ragazze, con la sposina in testa, percosse le sale e le gallerie del sontuoso palazzo e di continuo risuonavano degli " Oh " di meraviglia davanti alle ricchezze che venivano alla luce: tazze di diaspro e di cristallo, piatti d'oro e d'argento…Finalmente non restò più da visitare che lo stanzino in fondo alla galleria, e la sposina esitò parecchio, stingendo fra le dita la chiave d'oro…poi pensò che era meglio lasciar partire le amiche; rimasta sola, avrebbe potuto soddisfare la curiosità senza che nessuno se ne accorgesse.
Infatti, dopo i convenevoli. La sorella Anna andò a dormire al piano di sopra, e la sposina poté dirigersi senza far rumore verso la stanza misteriosa.

Infilò la chiave nella toppa, la girò dolcemente, entrò, ma…orrore!
Un grosso cespo ancora insanguinato e una scure affilata gettata sulla paglia stavano a dimostrare che in quello stanzino si entrava soltanto per morire…Ora sul ceppo ballavano i topi, ma in un angolo giacevano diversi corpi di donne: tutte con la testa tagliata.
Le mogli scomparse di Barbablù…Inorridita, la sposina si portò le mani agli occhi per non vedere più; ma in quel gesto la chiavetta le sfuggi di mano e cadde in una pozza di sangue.
La raccolse e fuggì via, dopo aver richiuso accuratamente la porta; poi si rifugiò in camera sua tremando da capo a piedi.
Guardò la chiavicina maledetta e vide che era sporca di sangue.
Subito cercò di asciugarla e di pulirla, ma non vi riuscì.
La chiave era fatata, e le macchie di sangue cancellate da una parte, ricomparivano da un'altra. Atterrita, pensava di fuggire dal palazzo, ma proprio quella notte Barbablù vi fece ritorno.
La sposina simulò di accoglierlo lietamente, ma in cuor suo si sentiva morire per la paura.
Barbablù non chiese la restituzione delle chiavi e andò a dormire senza domande, ma al mattino dopo, assumendo un piglio che non prometteva niente di buono, chiese:
-Hai adoperato la chiave che ti avevo proibito di usare? Vuoi restituirmela, ora?
La ragazza porse la chiave con mani tremanti, e Barbablù vide subito che era macchiata.
- Perché c'è del sangue su questa chiave?
- Proprio non lo so…
- Ebbene, lo so io! - gridò ferocemente l'uomo. - Tu mi hai disobbedito e sei entrata nello stanzino. Perciò vi ritornerai, e questa volta per sempre, perché io ti taglierò la testa e ti metterò a fianco delle altre donne che furono curiose come te.
La povera ragazza a quelle parole divenne pallida come una morta e si buttò in ginocchio:
- Perdonatemi! - singhiozzo. - Io non lo dirò a nessuno ciò che ho veduto.
- Tutte le donne sono pettegole così come sono curiose; solo quando ti avrò tagliato la testa, sarò veramente sicuro che non parlerai. - Vi prometto che vi obbedirò sempre! Vi prometto che non dirò una sola parola.
Barbablù ridendo sgangheratamente, disse:
- Ti ho veduto alla prova! E adesso sono stanco di ciarle: vieni con me perché la tua ultima ora è suonata.
Fece per afferrare la giovane per i capelli, ma ella si ritrasse:
- Non potete farmi morire senza che io abbia prima raccomandato la mia anima a Dio. Lasciatemi sola, affinché io possa pregare in pace.
Barbablù esitò, ma sebbene fosse un uomo crudele e feroce, non osò opporre un rifiuto.
- Va bene, - replicò. - Ti concedo un quarto d'ora di tempo: non di più. Io, intanto, andrò ad affilare la scure.
Si allontanò verso il terribile stanzino, e la povera moglie corse a svegliare la sorella Anna.
- Mia cara sorella - supplicò - sali sulla torre e guarda se vedi i nostri fratelli. Dovrebbero arrivare questa mattina. Se li vedi fa cenno che si affettino, per carità.
La sorella Anna corse subito alla finestra della torre, mentre la sposina aspettava col cuore in gola.
Nel frattempo Barbablù, che aveva finito di affilare la scure, incominciò a gridare.
- Il quarto d'ora è ormai trascorso. Affrettati a scendere: altrimenti salgo io!
- Ancora un attimo - rispose l'infelice, e chiese con ansia:
- Cara sorella Anna, non vedi nessuno?
- Nessuno - rispondeva Anna. - Vedo soltanto i ruscelli luccicare e l'erba verdeggiante.
- Hai finito si o no? Sono stanco di aspettare. Se non scendi tu,salirò io. Urlava intanto Barbablù. - Un momento, un solo momento - rispondeva la sposina piangendo. E ancora domandava :
-Sorella Anna, vedi nessuno?
- Vedo un nuvolose di polvere…Ma si tratta di pecore che vanno al pascolo.
In quel momento si udirono i passi pesanti di Barbablù che saliva le scale.
Egli spalancò la porta con un calcio, mentre la sposa chiedeva un'ultima volta:
- Sorella Anna, vedi nessuno?
- Vedo…due cavalieri…Si, si, sono proprio i nostri fratelli!
Anna si strappo la sciarpa dalle spalle e incominciò da agitarla dalla finestra facendo cenno ai due giovani di affrettarsi.
Essi irruppero nel cortile e salirono i gradini a quattro a quattro…
Appena in tempo, perché Barbablù aveva afferrato la sposa per i capelli e stava trascinandola verso l'orribile stanzino.
I giovani gli balzarono addosso con le spade sguainate, e un attimo dopo egli giaceva a terra morto, mentre la sorella con le mani ancora giunte sul cuore, non sapeva se ridere o piangere.
Poi quel terribile spavento passò, e anche Barbablù fu dimenticato, come succede sempre ai cattivi.
La moglie ereditò tutti i suoi beni, e con quelli poté regalare una dote alla sorella Anna che sposò un gentiluomo buono e ricco; aiutò i due bravi fratelli a crearsi un avvenire; Infine anche lei scelse un onesto e affettuoso marito che la consolò di tutti i dispiaceri provati con Barbablù.

 
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I vestiti nuovi dell'imperatore

Post n°379 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Molti anni fa viveva un imperatore che amava tanto avere sempre bellissimi vestiti nuovi da usare tutti i suoi soldi per vestirsi elegantemente. Non si curava dei suoi soldati né di andare a teatro o di passeggiare nel bosco, se non per sfoggiare i vestiti nuovi. Possedeva un vestito per ogni ora del giorno e come di solito si dice che un re è al consiglio, così di lui si diceva sempre: «E nello spogliatoio!».

Nella grande città in cui abitava ci si divertiva molto; ogni giorno giungevano molti stranieri e una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all'altezza della loro carica e a quelli molto stupidi.

"Sono proprio dei bei vestiti!" pensò l'imperatore. "Con questi potrei scoprire chi nel mio regno non è all'altezza dell'incarico che ha, e riconoscere gli stupidi dagli intelligenti. Sì, questa stoffa dev'essere immediatamente tessuta per me!" e diede ai due truffatori molti soldi, affinché potessero cominciare a lavorare.

Questi montarono due telai e fecero fìnta di lavorare, ma non avevano proprio nulla sul telaio. Senza scrupoli chiesero la seta più bella e l'oro più prezioso, ne riempirono le borse e lavorarono con i telai vuoti fino a notte tarda.

"Mi piacerebbe sapere come proseguono i lavori per la stoffa" pensò l'imperatore, ma in verità si sentiva un po' agitato al pensiero che gli stupidi o chi non era adatto al suo incarico non potessero vedere la stoffa. Naturalmente non temeva per se stesso; tuttavia preferì mandare prima un altro a vedere come le cose proseguivano. Tutti in città sapevano che straordinario potere avesse quella stoffa e tutti erano ansiosi di scoprire quanto stupido o incompetente fosse il loro vicino.

"Manderò il mio vecchio bravo ministro dai tessitori" pensò l'imperatore "lui potrà certo vedere meglio degli altri come sta venendo la stoffa, dato che ha buon senso e non c'è nessuno migliore di lui nel fare il suo lavoro."
Il vecchio ministro entrò nel salone dove i due truffatori stavano lavorando con i due telai vuoti. "Dio mi protegga!" pensò, e spalancò gli occhi "non riesco a vedere niente!" Ma non lo disse.

Entrambi i truffatori lo pregarono di avvicinarsi di più e chiesero se i colori e il disegno non erano belli. Intanto indicavano i telai vuoti e il povero ministro continuò a sgranare gli occhi, ma non potè dir nulla, perché non c'era nulla. "Signore!" pensò "forse sono stupido? Non l'ho mai pensato ma non si sa mai. Forse non sono adatto al mio incarico? Non posso raccontare che non riesco a vedere la stoffa!"

«Ebbene, lei non dice nulla!» esclamò uno dei tessitori.

«È splendida! Bellissima!» disse il vecchio ministro guardando attraverso gli occhiali. «Che disegni e che colori! Sì, sì, dirò all'imperatore che mi piacciono moltissimo!»

«Ne siamo molto felici!» dissero i due tessitori, e cominciarono a nominare i vari colori e lo splendido disegno. Il vecchio ministro ascoltò attentamente per poter dire lo stesso una volta tornato dall'imperatore, e così infatti fece.
Gli imbroglioni richiesero altri soldi, seta e oro, necessari per tessere. Ma si misero tutto in tasca; sul telaio non giunse mai nulla, e loro continuarono a tessere sui telai vuoti.

L'imperatore inviò poco dopo un altro onesto funzionario per vedere come proseguivano i lavori, e quanto mancava prima che il tessuto fosse pronto. A lui successe quello che era capitato al ministro; guardò con attenzione, ma non c'era nulla da vedere se non i telai vuoti, e difatti non vide nulla.
«Non è una bella stoffa?» chiesero i due truffatori, spiegando e mostrando il bel disegno che non c'era affatto.

"Stupido non sono" pensò il funzionario "è dunque la carica che ho che non è adatta a me? Mi sembra strano! Comunque nessuno deve accorgersene!" e così lodò la stoffa che non vedeva e li rassicurò sulla gioia che i colori e il magnifico disegno gli procuravano. «Sì, è proprio magnifica» riferì poi all'imperatore.
Tutti in città parlavano di quella magnifica stoffa.

L'imperatore volle vederla personalmente mentre ancora era sul telaio. Con un gruppo di uomini scelti, tra cui anche i due funzionari che già erano stati a vederla, si recò dai furbi truffatori che stavano tessendo con grande impegno, ma senza filo.

«Non èmagnifique?» esclamarono i due bravi funzionari. «Sua Maestà guardi che disegno, che colori!» e indicarono il telaio vuoto, pensando che gli altri potessero vedere la stoffa.
"Come sarebbe!" pensò l'imperatore. "Io non vedo nulla! È terribile! sono forse stupido? o non sono degno di essere imperatore? È la cosa più terribile che mi possa capitare". «Oh, è bellissima!» esclamò «ha la mia piena approvazione!» e ammirava, osservandolo soddisfatto, il telaio vuoto; non voleva dire che non ci vedeva niente. Tutto il suo seguito guardò con attenzione, e non scoprì nulla di più; tutti dissero ugualmente all'imperatore: «È bellissima» e gli consigliarono di farsi un vestito con quella nuova meravigliosa stoffa e di indossarlo per la prima volta al corteo che doveva avvenire tra breve. «Emagnifìque , bellissima,excellente » esclamarono l'uno con l'altro, e si rallegrarono molto delle loro parole. L'imperatore consegnò ai truffatori la Croce di Cavaliere da appendere all'occhiello, e il titolo di Nobili Tessitori.
Tutta la notte che precedette il corteo i truffatori restarono alzati con sedici candele accese. Così la gente poteva vedere che avevano da fare per preparare il nuovo vestito dell'imperatore. Finsero di togliere la stoffa dal telaio, tagliarono l'aria con grosse forbici e cucirono con ago senza filo, infine annunciarono: «Ora il vestito è pronto.»

Giunse l'imperatore in persona con i suoi illustri cavalieri, e i due imbroglioni sollevarono un braccio come se tenessero qualcosa e dissero: «Questi sono i calzoni; e poi la giacca - e infine il mantello!» e così via. «La stoffa è leggera come una tela di ragno! si potrebbe quasi credere di non aver niente addosso, ma e proprio questo il suo pregio!».
«Sì» confermarono tutti i cavalieri, anche se non potevano vedere nulla, dato che non c'era nulla.

«Vuole Sua Maestà Imperiale degnarsi ora di spogliarsi?» dissero i truffatori «così le metteremo i nuovi abiti proprio qui davanti allo specchio.» L'imperatore si svestì e i truffatori fìnsero di porgergli le varie parti del nuovo vestito, che stavano terminando di cucire; lo presero per la vita come se gli dovessero legare qualcosa ben stretto, era lo strascico, e l'imperatore si rigirava davanti allo specchio.

«Come le sta bene! come le dona!» dissero tutti. «Che disegno! che colori! È un abito preziosissimo!»

«Qui fuori sono arrivati i portatori del baldacchino che dovrà essere tenuto sopra Sua Maestà durante il corteo!» annunciò il Gran Maestro del Cerimoniale.
«Sì, anch'io sono pronto» rispose l'imperatore. «Mi sta proprio bene, vero?» E si rigirò ancora una volta davanti allo specchio, come se contemplasse la sua tenuta.

I ciambellani che dovevano reggere lo strascico finsero di afferrarlo da terra e si avviarono tenendo l'aria, dato che non potevano far capire che non vedevano niente.

E così l'imperatore aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: «Che meraviglia i nuovi vestiti dell'imperatore! Che splendido strascico porta! Come gli stanno bene!». Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all'altezza del suo incarico. Nessuno dei vestiti dell'imperatore aveva mai avuto una tale successo.
«Ma non ha niente addosso!» disse un bambino. «Signore sentite la voce dell'innocenza!» replicò il padre, e ognuno sussurrava all'altro quel che il bambino aveva detto.

«Non ha niente addosso! C'è un bambino che dice che non ha niente addosso!»
«Non ha proprio niente addosso!» gridava alla fine tutta la gente. E l'imperatore, rabbrividì perché sapeva che avevano ragione, ma pensò: "Ormai devo restare fino alla fine". E così si raddrizzò ancora più fiero e i ciambellani lo seguirono reggendo lo strascico che non c'era.

 
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L'usignolo dell'imperatore

Post n°378 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta e una volta non c'era...l'imperatore della Cina da un po' di tempo si annoiava.
Conosceva a menadito tutti i saloni del suo palazzo di porcellana, tutti i fiori che sbocciavano nei suoi giardini, tutti i cavalli che scalpitavano nelle sue scuderie. Un giorno, per caso, leggendo un libro straniero, scoprì che c'era qualcosa, nel suo regno, che non conosceva: un usignolo dalla voce dolcissima, nascosto nel folto di un bosco non lontano dalla reggia, il cui canto, si diceva, era la cosa più bella del mondo.
L'imperatore andò in collera. Come! Nel suo impero viveva una simile meraviglia e nessuno gliene aveva mai parlato! Possibile? Fece subito chiamare le guardie di palazzo.
"Cercate l'usignolo dalla voce d'oro che vive nel bosco vicino alla reggia e guai a voi se non lo trovate: finirete tutti in prigione! Avete tempo fino a stasera. Al tramonto l'usignolo dovrà essere qui e canterà per me".
Le guardie partirono, frugarono ovunque, ma invano.
Allora tornarono a palazzo e cominciarono a chiedere a tutti notizie del misterioso usignolo. Finalmente, il capo delle guardie ebbe la fortuna di imbattersi in una servetta che sapeva qualcosa.
"Certo che conosco l'usignolo! Ogni sera quando ho finito il servizio nelle cucine reali, vado a casa per portare qualche avanzo alla mia mamma e, attraverso il bosco, sento sempre l'usignolo cantare!"
" Ha una voce davvero tanto bella!" chiese il capo delle guardie.
" Tanto bella che, quando la sento, mi viene da piangere".
Il capo delle guardie le promise un posto di capo-cuoca se lo avesse guidato là dove l'usignolo aveva il nido. La servetta accettò. Poco dopo i due erano davanti ad un grande albero frondoso. Un trillo argentino risuonò nell'aria.
"Ecco l'usignolo, là, su quel ramo! " esclamò la servetta, indicando il minuscolo uccellino grigio.
Il capo delle guardie era piuttosto deluso: " E' piccino" disse l'uomo"ma canta bene"
Poi gentilmente si rivolse all'usignolo: "Uccellino, l'imperatore vuole che tu canti per lui al palazzo reale."
"Il mio posto è qui nel bosco, in libertà" rispose l'usignolo, " ma se l'imperatore me lo ordina, verrò a cantare con lui".
Si appollaiò sulla spalla del capo delle guardie e si lasciò condurre al galoppo fino alla reggia.
Poco dopo, davanti alla corte al gran completo, l'usignolo dava inizio al concerto. E cantò così bene che l'imperatore piangeva di gioia.
"Caro uccellino" disse, quando l'usignolo ebbe finito di cantare, "devi restare sempre con me. Ti tratterò con tutti i riguardi, farò costruire per te un trespolo d'oro, vivrai nella mia camera".
L'usignolo chinò tristemente il capino: "I tuoi desideri sono ordini, maestà."
Perchè l'usignolo non si annoiasse, sempre chiuso nel palazzo, l'imperatore gli permetteva di uscire due volte al giorno, ma accompagnato da dodici servitori che lo tenevano legato per la zampina con dodici cordicelle di seta. Non erano passeggiate divertenti, ma l'usignolo si accontentava.
Passarono i mesi. Un giorno, l'ambasciatore di un lontano paese portò in dono all'imperatore una scatola di legno smaltato. Dentro c'era un meraviglioso usignolo meccanico, tutto tempestato d'oro e di pietre preziose. Sotto le piume di madreperla c'era una chiavetta: bastava girarla e l'uccellino cominciava a cantare una bella melodia, la stessa che gorgheggiava l'usignolo vero. L'imperatore gradì molto il dono.
"I due usignoli canteranno insieme davanti alla corte" disse.
Purtroppo, il concerto non andò molto bene. L'usignolo vero cantava come gli dettava il cuore, quello meccanico ripeteva le stesse note senza mai cambiare.
L'imperatore si entusiasmò tanto di quella precisione da ordinare che l'usignolo vero tacesse per far cantare, da solo, quello finto.
Gira e rigira la chiavetta, il giocattolo cantò fino a che l'imperatore non volle sentire di nuovo l'usignolo del bosco. Ma l'usignolo era introvabile. Aveva approfittato della distrazione dei cortigiani per tornare, libero ma triste, nel suo nido tra gli alberi.
I cortigiani dissero che era una bestia ingrata e pregarono l'imperatore di far cantare ancora il docile usignolo meccanico. Il giorno seguente anche il popolo poté sentirlo. Molti si entusiasmarono, ma chi conosceva la voce dell'usignolo vero affermò che non c'era confronto tra i due, che le canzoni dell'uccellino dei boschi nascevano dal sentimento, quelle dell'altro da una molla. E la differenza si sentiva, eccome!
Il piccolo usignolo, nascosto tra i rami degli alberi, per qualche giorno non cantò. Poi, riprese a gorgheggiare; se non c'era più l'imperatore ad ascoltarlo, poteva sempre rallegrare contadini e boscaioli.
Intanto l'imperatore aveva dimenticato il suo piccolo amico, preso com'era dall'usignolo meccanico. Lo teneva su un cuscino di seta, lo caricava di continuo. Un giorno, ahimè, mentre l'usignolo cantava la sua solita canzone, si udì un cigolio e poi uno schianto: una delle molle del delicato meccanismo si era rotta. Il più bravo orologiaio della capitale, chiamato in gran fretta, smontò l'usignolo, cambiò la molla rotta, poi scosse la testa:
"Maestà, ho fatto del mio meglio, ma ormai il meccanismo è consunto. Se volete che l'usignolo duri ancora, fatelo cantare solo di tanto in tanto."
" Una volta l'anno". promise l'imperatore.
"Si, Maestà, una volta l'anno penso che vada bene". assicurò l'orologiaio.
Trascorsero cinque anni, poi, un brutto giorno, l'imperatore si ammalò tanto gravemente da far temere per la sua vita. Nessun medico riuscì a trovare un rimedio e allora i vili cortigiani, convinti che per il loro signore non ci fosse più niente da fare, uno ad uno lo abbandonarono alla sua sorte.
Una sera, mentre l'imperatore giaceva nel suo letto, ecco giungere la Morte con una spada in pugno:
"Devi venire con me, Maestà: è arrivata la tua ultima ora."
" Così presto? " sussurrò l'imperatore. "Mi restano ancora tante cose da fare! Pazienza...potrei almeno ascoltare un po' di musica?"
" E sia" concesse la Morte.
L'usignolo meccanico era adagiato sul cuscino di seta accanto al letto, ma non abbastanza vicino perchè l'imperatore riuscisse a prenderlo ed a caricare la molla. Il bel giocattolo restava muto, mentre l'imperatore sentiva le forze abbandonarlo sempre più. D'improvviso, dal giardino si alzò un canto dolcissimo, inconfondibile. Era l'usignolo vero. Aveva saputo della malattia del suo signore e, dimenticando i torti subiti, veniva a consolarlo con le sue melodie. Trilli, gorgheggi, note limpide come l'acqua di fonte sgorgavano dalla minuscola gola dell'usignolo e tutto sembrava più bello: la luce del giorno, la trasparenza del cielo, i colori dei fiori. L'imperatore si alzò a fatica dal letto e si affacciò alla finestra, la Morte lo seguì, come stregata. L'imperatore ascoltava e si sentiva rinascere; la Morte ascoltava e provava nostalgia del suo buio regno. Quando l'usignolo tacque, la nera signora era scomparsa silenziosamente nel nulla.
L'imperatore tornò a letto e cadde in un sonno profondo, quando si svegliò era perfettamente guarito. Accarezzò teneramente il piccolo usignolo che si era appollaiato sulla sua mano e gli sorrise.
"Usignolo mio, sono stato un ingrato, perdonami. Che cosa posso fare per dimostrarti la mia infinita riconoscenza?"
"Sono felice della tua guarigione e questo mi basta", rispose l'usignolo. "Una cosa sola vorrei: non essere costretto a tornare qui palazzo, prigioniero, ma vivere nel bosco e venire a trovarti ogni volta che lo desideri, mio signore. Canterò per te, ti racconterò tutto ciò che accade nel tuo regno in modo che tu possa governare sempre meglio. "
"Sarà fatto" sussurrò, commosso l'imperatore.
Con un trillo gioioso l'usignolo volò via; ma tornò ogni giorno, fedele alla promessa ed ogni giorno sparse ovunque gioia e saggezza intorno a sè.


di Hans Christian Andersen

 
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Bernabò ci rifa

Post n°377 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,aveva ragiomne Vico quando diceva che la storia si ripete!
BernabòTrogoloni,infatti,è tornato prepotentemente alla ribalta.mettendo a repentaglio la vita del signor Abramo Jellenstein,ebreo tedesco di Magonza.
Come sempre tutto è cominciato nel modo più innocente.Come sapete Bernabò da tempo fa la spola fra S.Tobia e Firenze.Durante il suo ultimo soggiorno fiorentino ha fatto la conoscenza dello Jellenstein e,fatto ancor più importante, ha scoperto che l'Abramo per parte di mamma è cugino dello Sgozzaloca,che lo aveva invitato a S.Tobia la domenica successiva.Bernabò si è offerto di accompagnarlo in macchina e il povero tapino,non conoscendolo ,ha accettato e l'ha pure calorosamente ringraziato.
Non sapeva,ahilui,cosa l'aspettava!
Bernabò,per fargli goder meglio il panorama,ha deciso di prendere la strada statale,piena di curve,ed ha cominciato ad affrontare le suddette a velocità sempre più crescente,incurante delle grida del disgraziato.
A un certo punto da una curva è sbucato un TIR.
Bernabò ha evitato il cozzo facendo andare la macchina su due ruote, il tutto sull'orlo di uno strapiombo.
Per lo spavento Jellenstein è svenuto.
Quando ha ripreso i sensi,le curve erano finite.Il poveretto ha ringraziato Jahvè,augurandosi che il viaggio procedesse tranquillo.
Illuso!
Dopo due km,il Trogoloni ha avuto la bella idea di sorpassare un autoarticolato francese.Il conducente non era dello stesso avviso e i due hanno dato vita a una vera e propria battaglia.Il povero Jellenstein si è rannicchiato sotto il sedile.
Dopo un'ora di tira e molla Bernabò ha vinto la guerra, e ha ringraziato il conducente facendo nonn con l'ombrello.
Per farlo ha mollato il volante proprio quando dalla parte opposta si materializzava un pullmann di pellegrini di ritorno dal santuario di S.Casimiro.
Dato che c'è un dio che protegge gli imbecilli, la collisione non c'è stata,ma Abramo ha vomitato l'anima fuori dal finestrino.
Dopo altri venti minuti tranquilli,Bernabò è arrivato alle porte di S.Tobia.
Jellenstein cominciava a vedere la fine del tunnel,quando si sono rotti i freni.La macchina è entrata in paese a velocità folle,evitando di pochissimo Geppo e i suoi cani,che per salvarsi son saltati sull'unico lampione di S.Tobia.
La Candida,invece,si è ritrovata seduta sul cofano.
Bernabò,privato della visuale, ha fatto finire la macchina nella fontana.e se l'è data a gambe ,mentre la Candida e l'Abramo per poco non affogavano.
Questo accadeva due settimane orsono.
Lo Jellenstein,nonostante il catastrofico arrivo,si è innamorato del nostro paesino, ha rilevato l'ex drogheria di Clodoveo e ne ha fatto una cartolibreria.
Non solo,ma ha pure torvato l'amore nella persona della Candida,che ha piantato il Giangustavo a un mese dalle nozze.
Il poveraccio ha lasciato per sempre S.Tobia (Ireneo ha fatto suonare le campane a festa e ha baciato in bocca l'esterrefatto Abramo)
E Bernabò?
Sparito come sempre,ma non per molto,temo!


 
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Quando si comprende (Pirandello)

Post n°376 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l’alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche.
All’alba, in una lercia vettura di seconda classe, nella quale avevano già preso posto cinque viaggiatori, fu portata quasi di peso una signora così abbandonata nel cordoglio che non si reggeva più in piedi.
Lo squallor crudo della prima luce, nell’angustia opprimente di quella sudicia vettura intanfata di fumo, fece apparire come un incubo ai cinque viaggiatori che avevano passato insonne la notte, tutto quel viluppo di panni, goffo e pietoso, issato con sbuffi e gemiti su dalla banchina e poi su dal montatojo.
Gli sbuffi e i gemiti che accompagnavano e quasi sostenevano, da dietro, lo stento, erano del marito, che alla fine spuntò, gracile e sparuto, pallido come un morto, ma con gli occhietti vivi vivi, aguzzi nel pallore.
L’afflizione di veder la moglie in quello stato non gl’impediva tuttavia di mostrarsi, pur nel grave imbarazzo, cerimonioso; ma lo sforzo fatto lo aveva anche, evidentemente, un po’ stizzito, forse per timore di non aver dato prova davanti a quei cinque viaggiatori di bastante forza a sorreggere e introdurre nella vettura il pesante fardello di quella moglie.
Preso posto, però, dopo aver porto scusa e ringraziamenti ai compagni di viaggio che si erano scostati per far subito posto alla signora sofferente, poté mostrarsi cerimonioso e premuroso anche con lei e le rassettò le vesti addosso e il bavero della mantiglia che le era salito sul naso.

– Stai bene, cara?

La moglie, non solo non gli rispose, ma con ira si tirò su di nuovo la mantiglia – più su, fino a nascondersi tutta la faccia. Egli allora sorrise afflitto; poi sospirò:

– Eh... mondo!

E volle spiegare ai compagni di viaggio che la moglie era da compatire perché si trovava in quello stato per l’improvvisa e imminente partenza dell’unico figliuolo per la guerra. Disse che da vent’anni non vivevano più che per quell’unico figliuolo. Per non lasciarlo solo, l’anno avanti, dovendo egli intraprendere gli studii universitari, s’erano trasferiti da Sulmona a Roma. Scoppiata la guerra, il figliuolo, chiamato sotto le armi, s’era iscritto al corso accelerato degli allievi ufficiali; dopo tre mesi, nominato sottotenente di fanteria e assegnato al 12° reggimento, brigata Casale, era andato a raggiungere il deposito a Macerata, assicurando loro che sarebbe rimasto colà almeno un mese e mezzo per l’istruzione delle reclute; ma ecco che, invece, dopo tre soli giorni lo mandavano al fronte. Avevano ricevuto a Roma il giorno avanti un telegramma che annunziava questa partenza a tradimento. E si recavano a salutarlo, a vederlo partire.
La moglie sotto la mantiglia s’agitò, si restrinse, si contorse, rugliò anche più volte come una belva, esasperata da quella lunga spiegazione del marito, il quale, non comprendendo che nessun compatimento speciale poteva venir loro per un caso che capitava a tanti, forse a tutti, avrebbe anzi suscitato irritazione e sdegno in quei cinque viaggiatori che non si mostravano abbattuti e vinti come lei nel cordoglio, pur avendo anch’essi probabilmente uno o più figliuoli alla guerra. Ma forse il marito parlava apposta e dava quei ragguagli del figlio unico e della partenza improvvisa dopo tre soli giorni, ecc., perché gli altri ripetessero a lei con dura freddezza tutte quelle parole ch’egli andava dicendo da alcuni mesi, cioè da quando il figliuolo era sotto le armi; e non tanto per confortarla e confortarsi, quanto per persuaderla dispettosamente a una rassegnazione per lei impossibile.
Difatti quelli accolsero freddamente la spiegazione. Uno disse:

– Ma ringrazii Dio, caro signore, che parta soltanto adesso il suo figliuolo! Il mio è già su dal primo giorno della guerra. Ed è stato ferito, sa? già due volte. Per fortuna, una volta al braccio, una volta alla gamba, leggermente. Un mese di licenza, e via di nuovo al fronte.

Un altro disse:

– Ce n’ho due, io. E tre nipoti.

– Eh, ma un figlio unico... – si provò a far considerare il marito.

– Non è vero, non lo dica! – lo interruppe quello sgarbatamente. – S’avvizia un figlio unico; non si ama mica di più! Un pezzo di pane, quando s’hanno più figliuoli, tanto a ciascuno, va bene; ma non l’amore paterno; a ciascun figliuolo un padre dà tutto quello di cui è capace. E s’io peno adesso, non peno metà per l’uno, metà per l’altro; peno per due.

– È vero, sì, quest’è vero, – ammise con un sorriso timido, pietoso e impacciato, il marito. – Ma guardi... (siamo a discorso, adesso, e facciamo tutti gli scongiuri) ma ponga il caso... non il suo, per carità, egregio signore... il caso d’un padre ch’abbia più figliuoli alla guerra: ne perde (non sia mai!) uno, gli resta l’altro almeno!

– Già, sì; e l’obbligo di vivere per quest’altro, – affermò subito, accigliato, quello. – Il che vuol dire che se a lei... non diciamo a lei, a un padre che abbia un solo figliuolo, capita il caso che questo gli muoja, se della vita lui non sa più che farsene, morto il figliuolo, se la può togliere, e addio; mentr’io, capisce? bisogna che me la tenga io, la vita, per l’altro che mi resta; e il caso peggiore dunque è sempre il mio!

– Ma che discorsi! – scattò a questo punto un altro viaggiatore, grasso e sanguigno, guardando in giro coi grossi occhi chiari acquosi e venati di sangue.

Ansimava, e pareva gli dovessero schizzar fuori, quegli occhi, dalla interna violenza affannosa d’una vitalità esuberante, che il corpaccio disfatto non riusciva più a contenere. Si pose una manona sformata davanti la bocca, come assalito improvvisamente dal pensiero dei due denti che gli mancavano; ma poi, tanto non ci pensò più e seguitò a dire, sdegnato:

– O che i figliuoli li facciamo per noi?

Gli altri si sporsero a guardarlo, costernati. Il primo, quello che aveva il figlio al fronte fin dal primo giorno della guerra, sospirò:

– Eh, per la patria, già...

– Eh, – rifece il viaggiatore grasso, – caro signore, se lei dice così, per la patria, può parere una smorfia!


Figlio mio, t’ho partorito
per la patria e non per me...


Storie! Quando? Ci pensa lei alla patria, quando le nasce un figliuolo? Roba da ridere! I figliuoli vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi. E quand’hanno vent’anni... ma pensi un po’, sono tali e quali eravamo io e lei quand’avevamo vent’anni. C’era nostra madre; c’era nostro padre; ma c’erano anche tant’altre cose, i vizii, la ragazza, le cravatte nuove, le illusioni, le sigarette, e anche la patria, già, a vent’anni, quando non avevamo figliuoli; la patria che, se ci avesse chiamati, dica un po’, non sarebbe stata per noi sopra a nostro padre, sopra a nostra madre? Ne abbiamo cinquanta, sessanta, ora, caro lei: e c’è pure la patria, sì; ma dentro di noi, per forza, c’è anche più forte l’affetto per i nostri figliuoli. Chi di noi, potendo, non andrebbe, non vorrebbe andare a combattere invece del proprio figliuolo? Ma tutti! E non vogliamo considerare adesso il sentimento dei nostri figliuoli a vent’anni? dei nostri figliuoli che per forza, venuto il momento, debbono sentire per la patria un affetto più grande che per noi? Parlo, s’intende, dei buoni figliuoli, e dico per forza, perché davanti alla patria, per essi, diventiamo figliuoli anche noi, figliuoli vecchi che non possono più muoversi e debbono restarsene a casa. Se la patria c’è, se è una necessità naturale la patria, come il pane che ciascuno per forza deve mangiare se non vuol morir di fame, bisogna che qualcuno vada a difenderla, venuto il momento. E vanno essi, a vent’anni, vanno perché debbono andare e non vogliono lagrime. Non ne vogliono perché, anche se muojono, muojono infiammati e contenti. (Parlo sempre, s’intende, dei buoni figliuoli!) Ora, quando si muore contenti, senz’aver veduto tutte le brutture, le noje, le miserie di questa vitaccia che avanza, le amarezze delle disillusioni, o che vogliamo di più? Bisogna non piangere, ridere... o come piango io, sissignori, contento, perché mio figlio m’ha mandato a dire che la sua vita – la sua, capite? quella che noi dobbiamo vedere in loro, e non la nostra – la sua vita lui se l’era spesa come meglio non avrebbe potuto, e che è morto contento, e che io non stessi a vestirmi di nero, come difatti lor signori vedono che non mi sono vestito.
Scosse, così dicendo, la giacca chiara, per mostrarla; le labbra livide sui denti mancanti gli tremavano; gli occhi, quasi liquefatti, gli sgocciolavano; e terminò con due scatti di riso che potevano anche esser singhiozzi.

– Ecco... ecco.

Da tre mesi quella madre, lì nascosta sotto la mantiglia, cercava in tutto ciò che il marito e gli altri le dicevano per confortarla e indurla a rassegnarsi, una parola, una parola sola che, nella sordità del suo cupo dolore, le destasse un’eco, le facesse intendere come possibile per una madre la rassegnazione a mandare il figlio, non già alla morte, ma solo a un probabile rischio di vita. Non ne aveva trovata una, mai, tra le tante e tante che le erano state dette. Aveva ritenuto perciò che gli altri parlavano, potevano parlare a lei così, di rassegnazione e di conforto, solo perché non sentivano ciò che sentiva lei.
Le parole di questo viaggiatore, adesso, la stordirono, la sbalordirono. Tutt’a un tratto comprese che non già gli altri non sentivano ciò che ella sentiva; ma lei, al contrario, non riusciva a sentire qualcosa che tutti gli altri sentivano e per cui potevano rassegnarsi, non solo alla partenza, ma ecco, anche alla morte del proprio figliuolo.
Levò il capo, si tirò su dall’angolo della vettura ad ascoltare le risposte che quel viaggiatore dava alle interrogazioni dei compagni sul quando, sul come gli fosse morto quel figliuolo, e trasecolò, le parve d’esser piombata in un mondo ch’ella non conosceva, in cui s’affacciava ora per la prima volta, sentendo che tutti gli altri non solo capivano, ma ammiravano anzi quel vecchio e si congratulavano con lui che poteva parlare così della morte del figliuolo.
Se non che, all’improvviso, vide dipingersi sul volto di quei cinque viaggiatori lo stesso sbalordimento che doveva esser sul suo, allorquando, proprio senza che ella lo volesse, come se veramente non avesse ancora inteso né compreso nulla, saltò su a domandare a quel vecchio:

– Ma dunque... dunque il suo figliuolo è morto?

Il vecchio si voltò a guardarla con quegli occhi atroci, smisuratamente sbarrati. La guardò, la guardò e tutt’a un tratto, a sua volta, come se soltanto adesso, a quella domanda incongruente, a quella meraviglia fuor di posto, comprendesse che alla fine, in quel punto, il suo figliuolo era veramente morto per lui, s’arruffò, si contraffece, trasse a precipizio il fazzoletto dalla tasca e, tra lo stupore e la commozione di tutti, scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi.

 
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Vecchia Maria (Che Guevara )

Post n°375 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Vecchia Maria, stai per morire,
voglio dirti qualcosa di serio:
la tua vita è stata un rosario completo di agonie.
Non hai avuto amore d'uomo, salute e denaro,
soltanto la fame da dividere con i tuoi;
Voglio parlare della tua speranza,
delle tre diverse speranze
costituite da tua figlia senza sapere come.
Prendi questa mano d'uomo che sembra di bambino
tra le tue levigate dal sapone giallo.
strofina i tuoi calli duri e le pure nocche
contro la morbida vergogna delle mie mani di medico.
Ascolta, nonna proletaria:
credi nell'uomo che sta per arrivare
credi nel futuro che non vedrai.
Non pregare il dio inclemente
che per tutta la vita ha deluso la tua speranza.
E non chiederà clemenza alla morte
per veder crescere le tue grigie carezze;
i cieli sono sordi e sei dominata dal buio,
su tutto avrai una rossa vendetta,
lo giuro sull'esatta dimensione dei miei ideali
tutti i tuoi nipoti vivranno l'aurora,
muori in pace vecchia combattente.
Stai per morire vecchia Maria,
trenta progetti di sudario
ti diranno addio con lo sguardo
il giorno che te ne andrai.
Stai per morire vecchia Maria
rimarranno mute le pareti della sala
quando la morte si unirà all'asma
e consumerà il tuo amore nella tua gola.
Queste tre carezze fuse nel bronzo
(l'unica luce che rischiara la tua notte)
questi tre nipoti vestiti di fame,
sogneranno le nocche delle tue vecchie dita
in cui sempre trovavano un sorriso.
Questo sarà tutto, vecchia Maria.
La tua vita è stata un rosario di agonie,
non hai avuto amore d'uomo, salute, allegria,
soltanto la fame da dividere coi tuoi.
È stata triste la tua vita vecchia Maria.
Quando l'annuncio dell'eterno riposo
velerà di dolore le tue pupille,
quando le tue mani di sguattera perpetua
riceveranno l'ultima ingenua carezza,
penserai a loro. . . e piangerai,
povera vecchia Maria. No non lo fare!
Non pregare il dio indolente che per tutta una vita
ha deluso la tua speranza
e non domandare clemenza alla morte,
la tua vita ha portato l'orribile vestito della fame
e ora, vestita di asma, volge alla fine.
Ma voglio annunciarti,
con la voce bassa e virile delle vendette,
voglio giurarlo sull'esatta
dimensione dei miei ideali.
Prendi questa mano d'uomo che sembra di bambino
tra le tue levigate dal sapone giallo.
strofina i tuoi calli duri e le pure nocche
contro la morbida vergogna delle mie mani di medico.
Riposa in pace vecchia Maria,
riposa in pace vecchia combattente,
i tuoi nipoti vivranno nell'aurora,

lo giuro!

 
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Libri dimenticati:Totò (Governi)

Post n°374 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

In questo libro Governi ci racconta la vita di Totò uomo e attore,forse ponendo più l'accento sull'uomo.
Scopraimo la sua sofferenza per lo status di figlio illegittimo,i primi dificilissimi anni,il rimorso che sempre lo accompagnerà per il suicidio della soubrette Liliana Castagnola,il folle amore per la moglie Diana,il dolore per la morte del figlio appena nato avuto da Franca Faldini...
E' un libro molto scorrevole,da non perdere

 
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Frase del giorno

Post n°373 pubblicato il 12 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Chi si accinge a diventare un buon capo prima dev'essere stato sotto un capo (Aristotele)

 
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