Messaggi del 13/08/2011

Gli gnomi

Post n°393 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

PRIMA STORIA

Un calzolaio, senza sua colpa, era diventato così povero che non gli restava altro se non un pezzo di cuoio per fabbricare un paio di scarpe. Le tagliò di sera per farle il giorno dopo; e siccome aveva la coscienza pulita, andò tranquillamente a letto, si raccomandò a Dio e si addormentò. Al mattino, dopo aver detto le sue preghiere, volle mettersi al lavoro; ed ecco che le scarpe erano sulla tavola bell'e pronte. Egli non seppe che dire dalla meraviglia e, quando si avvicinò per osservarle, vide che erano fatte magistralmente: non c'era un punto sbagliato; un vero capolavoro. E quello stesso giorno venne pure un compratore, al quale le scarpe piacquero tanto che le pagò più del dovuto; così con quella somma il calzolaio pot‚ acquistare cuoio per due paia di scarpe. Le tagliò la sera per mettersi al lavoro di buon mattino, ma non ne ebbe bisogno poiché‚, quando si alzò, erano già pronte e non mancarono neanche i clienti che gli diedero denaro a sufficienza per comprare cuoio per quattro paia di scarpe. Egli le tagliò di nuovo alla sera e le trovò pronte al mattino; e si andò avanti così: quello che egli preparava la sera, al mattino era fatto, sicché‚ ben presto egli divenne un uomo benestante con tutto il necessario per vivere. Ora accadde che una sera, verso Natale, l'uomo aveva appena finito di tagliare il cuoio e, prima di andare a letto, disse a sua moglie: -Che ne diresti se stanotte stessimo alzati, per vedere chi ci aiuta così generosamente?- La donna acconsentì e accese una candela; poi si nascosero dietro gli abiti appesi negli angoli della stanza e stettero attenti. A mezzanotte arrivarono due graziosi omini nudi; si sedettero al tavolo del calzolaio; presero tutto il cuoio preparato e con le loro piccole dita incominciarono a forare, cucire, battere con tanta rapidità, che il calzolaio non poteva distogliere lo sguardo, tutto meravigliato. Non smisero finché‚ non ebbero finito e le scarpe non furono bell'e pronte sul tavolo; poi, prima che spuntasse il giorno, se ne andarono via saltellando. Il mattino dopo la donna disse: -Gli omini ci hanno fatti ricchi, dovremmo mostrarci riconoscenti. Mi rincresce che se ne vadano in giro senza niente da mettersi addosso e che debbano gelare. Sai cosa farò? Cucirò loro un camicino, una giubba, un farsetto e un paio di calzoncini, e farò un paio di calze per ciascuno; tu aggiungici un paio di scarpette-. L'uomo fu ben contento e la sera, quando ebbero terminato tutto, misero sul tavolo i regali al posto del cuoio; poi si nascosero per vedere che faccia avrebbero fatto gli omini. A mezzanotte giunsero di corsa tutti e due e volevano mettersi subito a lavorare, ma quando videro i vestiti mostrarono una gran gioia. Li indossarono in fretta e furia, poi fecero capriole, ballarono e saltarono fino a quando uscirono dalla porta. Da allora non tornarono più, ma il calzolaio se la passò bene tutta la vita.

SECONDA STORIA

Una povera fantesca, linda e laboriosa, spazzava ogni giorno e versava l'immondizia su di un grosso mucchio davanti alla porta di casa. Una mattina vi trovò sopra una lettera e, siccome non sapeva leggere, la portò alla sua padrona: era un invito da parte degli gnomi che la pregavano di tenere a battesimo un bambino. La fanciulla era titubante, ma alla fine si persuase poiché‚ le dissero che una cosa simile non si poteva rifiutare. Allora vennero tre gnomi e la condussero nella caverna di un monte. Là tutto era piccolo, ma leggiadro e sfarzoso da non dirsi. La puerpera giaceva in un letto d'ebano con i pomi di perle, le coperte erano tutte d'oro, la culla d'avorio e d'oro la tinozza. La fanciulla fece da madrina e volle poi ritornare a casa, ma gli gnomi la pregarono di restare ancora tre giorni da loro. Ella trascorse questo tempo divertendosi lietamente, e i nani la colmarono di gentilezze. Quando dovette ritornare le colmarono le tasche d'oro e la ricondussero fuori dal monte. Ma una volta a casa si accorse di essere stata assente non tre giorni, bensì un intero anno!

TERZA STORIA

A una madre gli gnomi avevano tolto il bambino in culla e ci avevano messo un mostriciattolo con un testone e due grossi occhi che non faceva che mangiare e bere. Disperata, la madre andò dalla vicina a chiedere consiglio. Questa le disse di portare il mostro in cucina, di metterlo sul focolare, accendere il fuoco e far bollire l'acqua in due gusci d'uovo: così l'avrebbe fatto ridere, e se rideva era tutto finito. La donna fece tutto quello che le aveva detto la vicina e, quando mise sul fuoco i gusci d'uovo pieni d'acqua, quello zuccone disse:-Nei gusci cucinare non ho mai visto alcuno, e sì che vecchio quanto me non c'è nessuno!-E si mise a ridere. Mentre rideva, sopraggiunse una folla di gnomi; portavano il bambino vero, lo misero sul focolare e si ripresero il mostro.

FINE


 
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Rosabianca e Rosarossa

Post n°392 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una povera vedova, che viveva sola nella sua capannuccia, e davanti alla capanna c'era un giardino con due piccoli rosai; l'uno portava rose bianche, l'altro rose rosse. E la donna aveva due bambine, che somigliavano ai due rosai: l'una si chiamava Rosabianca, l'altra Rosarossa.
Erano così buone e pie, diligenti e laboriose, come al mondo non se n'è mai viste; soltanto, Rosabianca era piu' silenziosa e piu' dolce di Rosarossa. Rosarossa preferiva correre per campi e prati, coglier fiori e prendere farfalle; Rosabianca se ne stava a casa con la mamma, l'aiutava nelle faccende domestiche, o, se non c'era niente da fare, le leggeva qualcosa ad alta voce. Le due bambine si amavano tanto, che si prendevano per mano tutte le volte che uscivano insieme; e se Rosabianca diceva:

- Non ci separeremo mai! - rispondeva Rosarossa:
- No, mai, per tutta la vita! - e la madre soggiungeva: - Quel che è dell'una, dev'esser dell'altra -.
Spesso le due bambine andavan sole per il bosco a raccoglier bacche rosse; gli animali non facevan loro alcun male, ma si avvicinavano fiduciosi: il leprotto mangiava una foglia di cavolo dalle loro mani, il capriolo pascolava al loro fianco, il cervo saltava allegramente li vicino, e gli uccelli restavano sui rami e cantavano tutte le loro canzoni. Alle due sorelle non capitava nulla di male: quando si erano attardate nel bosco, e le sorprendeva la notte,si coricavano sul muschio, l'una accanto all'altra, e dormivano fino alla mattina. La mamma lo sapeva e non stava mai in pensiero.
Una volta, che avevano pernottato nel bosco, quando l'aurora le svegliò, videro un bel bambino seduto accanto a loro, con un bianco vestito scintillante. Il bimbo si alzò e le guardò amorevolmente, ma non disse nulla e s'addentrò nel bosco. E quando si guardarono intorno, s'accorsero di aver dormito sull'orlo di un abisso, dove sarebbero certo cadute se avessero fatto altri due passi al buio. Ma la mamma disse che certo quello era l'angelo che veglia sui bambini buoni.

Rosabianca e Rosarossa tenevan così' pulita la capannuccia della madre, che era una gioia vederla. D'estate Rosarossa sbrigava faccende di casa e ogni mattina, prima che la mamma si svegliasse le metteva vicino al letto un mazzo di fiori, con due rose dei due alberelli. D'inverno Rosabianca accendeva il fuoco e appendeva paìolo; il paiolo era d'ottone, ma brillava come oro, tant'era lustro. La sera, quando nevicava, la mamma diceva:
- Va', Rosabianca metti il catenaccio -. Poi sedevano accanto al focolare, la mamma prendeva gli occhiali e leggeva ad alta voce un librone; e le due fanciulle stavano a sentire, filando; per terra, accanto a loro, e sdraiato un agnellino, e dietro, su un bastone, c'era un piccioncino bianco con la testa nascosta sotto l'ala.
Una sera, mentre se ne stavano tutt'è due insieme, qualcuno bussò alla porta, come se volesse entrare. La madre disse:
- Svelta, Rosarossa, apri: sarà un viandante che cerca ricovero-.
Rosarossa andò a levare il catenaccio e pensava che fosse un povero; ma invece era un orso, che sporse dall'uscio la sua grossa testa nera. Rosarossa strillò e fece un salto indietro, l'agnellino belò, il piccioncino svolazzò, e Rosabianca si nascose dietro il letto della mamma. Ma l'orso si mise a parlare e disse:
- Non abbiate paura, non vi farò niente di male; sono mezzo gelato e voglio soltanto scaldarmi un po' con voi.
- Povero orso, - disse la madre, - mettiti vicino al fuoco e bada soltanto di non bruciarti il pelo -. Poi gridò: - Rosabianca, Rosarossa, venite fuori! L'orso non vi farà niente, non ha cattive intenzioni .
Allora s'avvicinarono entrambe; e a poco a poco si accostarono anche l'agnellino e il piccioncino, e non ne avevano più paura.

L'orso disse: - Bambine, scuotetemi un po' di neve dalla pelliccia! -
ed esse andarono a prender la scopa e gli spazzarono il pelo; e l'orso si sdraiò accanto al fuoco, e mugolava, contento e soddisfatto.
Non andò molto che fecero amicizia, e le bimbe si misero a fare il chiasso con l'ospite maldestro. Gli tiravano il pelo con le mani, gli mettevano i piedini sulla schiena e lo spingevano di qua e di là; o prendevano una verga di nocciolo e lo picchiavano, e quando mugolava ridevano. L'orso s'adattava a tutto; soltanto, quando passavano il segno, gridava:

- Lasciatemi vivere, bambine! O Rosabianca, e tu, Rosarossa, al pretendente scavi la fossa.

Quando fu tempo di dormire e le bimbe andarono a letto, la madre disse all'orso;
- Resta qui, accanto al fuoco, in santa pace: cosi sei protetto dal freddo e dal brutto tempo .
Appena albeggiò, le due bambine lo fecero uscire ed egli entrò nel bosco, trottando sulla neve.
E poi, tornò ogni sera, alla stessa ora: si sdraiava accanto al focolare e permetteva alle bambine di prendersi spasso di lui fin che volevano; ed esse ci si erano così abituate, che non mettevano il catenaccio prima che fosse arrivato il loro nero amico.
Quando giunse la primavera e fuori era tutto verde, una mattino l'orso disse a Rosabianca:
- Adesso devo andar via, e per tutta l'estate non posso più tornare.
- Dove vai dunque, caro orso? - domandò Rosabianca.
- Devo andare nel bosco a difendere i miei tesori dai cattivi nani:d'inverno, quando la terra è gelata, devono stare sotto e non possono farsi strada, ma adesso che il sole ha sgelato e riscaldato la terra, l'aprono a forza, risalgono, frugano e rubano. Quel che finisce nelle loro mani, nascosto nelle loro caverne non torna tanto facilmente alla luce -.
Rosabianca era tutta triste per quell'addio; e quando gli aprì la porta, l'orso, passando in fretta, restò attaccato all'arpione e gli si lacerò un pezzo di pelle; a Rosabianca parve che ne trasparisse dell'oro, ma non ne fu ben sicura. L'orso corse via in fretta e ben presto sparì dietro gli alberi.
Dopo qualche tempo, la madre mandò le bambine nel bosco a coglier la stipa. Fuori videro, disteso al suolo, un grande albero, era stato abbattuto, e presso il tronco, nell'erba, qualcosa saltava su e giù, ma non potevano distinguere cosa fosse. Avvicinandosi, videro un nano con una vecchia faccia grinzosa e una candida barba lunga un braccio. La punta della barba era incastrata in una fessura dell'albero e il nano saltava di qua e di là, come un cagnolino al guinzaglio, e non sapeva come cavarsela. Egli fissò le fanciulle sbarrando i suoi rossi occhi di fuoco, e strillò:
- Cosa state a fare non potete avvicinarvi e darmi una mano?
- Cos'hai fatto, omino? - domandò Rosarossa.
- Stupida curiosaccia, - rispose il nano - volevo spaccar l'albero, per avere legna minuta in cucina; i ceppi grossi quei due bocconcini che occorrono a noialtri bruciano subito; noi non buttiamo mica giù tanta roba come voi, ingordi zoticoni! Ero già riuscito a ficcarci il cuneo, e tutto mi sarebbe andato benone; ma quel maledetto pezzo di legno era troppo liscio e saltò fuori all'improvviso, e l'albero si richiuse così in fretta, che non ho più potuto tirar fuori la mia bella barba bianca: adesso è lì dentro, e io non posso andarmene. Guarda come ridono quelle due poppanti! stupide facce pelate! Puh, come siete brutte! -
Le bambine ci si misero d'impegno, ma non riuscirono a tirar fuori la barba: era troppo ben incastrata.
- Correrò a chiamar gente! -disse Rosarossa.
- Stupide pazze, - squittì il nano, - non ci mancherebbe altro! Siete gia troppe in due: non avete niente di meglio da inventare?
- Non essere impaziente! - disse Rosabianca - ci penserò io -.
Trasse di tasca le sue forbicine e gli tagliò la punta della barba. Appena il nano si senti libero, afferrò un sacco pieno d'oro, che era nascosto fra le radici dell'albero, lo tirò fuori, borbottando:
- Che villanzone, tagliarmi un pezzo della mia magnifica barba! Il diavolo vi porti! -
Si gettò il sacco sulle spalle e se ne andò, senza neanche voltarsi a guardarle.
Dopo qualche tempo, Rosabianca e Rosarossa pensarono di andarsi a pescare con la lenza un bel piatto di pesce. Quando furono vìcino al ruscello videro qualcosa che somigliava a una grossa cavalletta saltellar verso l'acqua, come se volesse buttarcisi. Accorsero e conobbero il nano.

- Dove vuoi andare? - disse Rosarossa: - non vuoi mica gettarti in acqua?
- Non sono così pazzo! -strillò il nano - Non vedete? quel maledetto pesce vuol tirarmi dentro! - L'omino si era seduto a pescare, e disgraziatamente, per il vento, la barba gli si era intricata con la lenza; subito dopo abboccò un grosso pesce e la debole creatura non riuscì a sollevarlo. Il pesce aveva il sopravvento e trascinava giù il nano. Certo, egli si teneva a tutti gli steli e ai giunchi, ma serviva a ben poco: doveva seguire i movimenti del pesce e rischiava continuamente d'esser tirato in acqua.
Le fanciulle erano arrivate in tempo, lo tennero fermo e cercarono di districar la barba dalla lenza, ma invano: barba e lenza erano strettamente aggrovigliate. Non restò che tirar fuori le forbicine e tagliar la barba, sacrificandone un pezzettino.
A quella vista, il nano si mise a strillare: - E' questa, brutti rospi, la maniera di sconciar la faccia a un individuo? Non bastava avermi spuntato la barba, adesso me ne tagliate via la parte più bella! Non posso più farmi veder dai miei! Possa vedervi correre, senza più suole ai piedi! -
Poi andò a prendere un sacco di perle, nel canneto, e, senza più dir parola, se lo trascinò via e scomparve dietro una pietra.
Or avvenne che, poco tempo dopo, la madre mandò le due bambine in città a comprar filo, aghi, stringhe e fettuccia. La strada le condusse attraverso una piana, sparsa di grossi macigni. Là videro un grande uccello librarsi nell'aria, roteare lentamente sulle loro teste, poi calar sempre più basso, finché atterrò poco lontano, presso una rupe. Subito dopo udirono uno strillo acuto e doloroso. Accorsero, e videro con terrore che l'aquila aveva ghermito il loro vecchio conoscente, il nano, e stava per portarlo via. Le bimbe pietose tennero stretto l'omino; e tira di qua, tira di là, alla fine l'aquila dovette abbandonar la sua preda.
Quando il nano si fu riavuto dal primo spavento, gridò con la sua voce stridula:
- Non potevate trattarmi con più riguardo? Avete tirato tanto il mio giubbetto sottile che adesso è tutto lacero e bucato, sciattone e balorde che siete.
Poi prese un sacco di pietre preziose e si cacciò di nuovo nella tana, sotto le rupi. Le fanciulle erano già avvezze alla sua ingratitudine, proseguirono il cammino e sbrigarono le loro faccende in città.
Al ritorno, ripassando per la piana, sorpresero il nano, che aveva rovesciato il suo sacco di pietre preziose in un bel posticino senza pensare che a ora così tarda potesse ancora venir qualcuno.
Il sole al tramonto batteva sulle splendide gemme, che scintillavano e sfolgoravano in mille colori, così meravigliosamente che le bambine si fermarono a guardarle.

- Cosa fate lì, a bocca aperta- strillò il nano, e la sua faccia color della cenere diventò paonazza dalla collera.
Stava per lanciare altre ingiurie, quando si udì un cupo brontolio, e un orso nero uscì trottando dal bosco.
Il nano balzò in piedi, atterrito, ma non poté più raggiungere il suo nascondiglio: l'orso era già li. Allora gridò affannosamente:
- Caro signor orso, risparmiatemi! Vi darò tutti i miei tesori! guardate, belle pietre preziose! Fatemi grazia, che v'importa di un piccolo striminzito come me? Non mi sentite neanche sotto i denti! Prendete piuttosto quelle due malnate ragazze, per voi son bocconi prelibati, grasse come giovani quaglie! mangiate quelle, in nome di Dio!
L'orso non badò alle sue parole, non gli dette che una zampata, e quel malvagio non si mosse più.
Le fanciulle eran scappate via, ma l'orso le chiamò, gridando:
-Rosabianca, Rosarossa, non abbiate paura! aspettate, vengo con voi-.
Allora esse riconobbero la sua voce e si fermarono; e quando la bestia le raggiunse, la pelle d'orso cadde all'improvviso, ed ecco, egli era un bel giovane tutto vestito d'oro.
- Sono il figlio di un re - disse - e il perfido nano, che aveva rubato i miei tesori, mi aveva stregato e dovevo correr per il bosco sotto forma d'orso selvaggio, finché la sua morte non mi avesse liberato. E così egli ha avuto il meritato castigo.

Rosabianca sposò il principe, e Rosarossa suo fratello, e si spartirono quei gran tesori che il nano aveva ammassato nella sua caverna. La vecchia madre visse ancora molti anni presso le figlie, tranquilla e felice. Ma portò con sé i due rosai, che davanti alla sua finestra davano ogni anno le più belle rose, bianche e rosse.

dei fratelli Grimm

 
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Cigno appiccica!

Post n°391 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Giacobbe, Federico, e Goffredo erano fratelli; i primi due robusti e aitanti, il terzo minghererlino e pallidoccio. I fratelli maggiori, invece di mostrarsi generosi col più debole, approfittavano della propria forza per imporre all’ultimo i lavori più faticosi e noiosi, e non mancavano mai, dopo di prenderlo in giro, come se la sua debolezza fosse una colpa.
Goffredo era proprio avvilito: ma non avendo il coraggio di ribellarsi, si sfogava a piangere quando nessuno lo vedeva.
Un giorno in cui si trovava nel bosco a raccogliere legna da bruciare, vide uscire da un cespuglio una vecchina che gli disse:
- Figliolo mio, da tempo ti osservo e non ti vedo mai ridere allegramente come dovresti fare alla tua età. Perché non te vai lontano, a cercare un po’ di fortuna in altri luoghi?
Goffredo lì per lì non seppe che cosa rispondere, ma, tornando a casa, ripensò lungamente alle parole della strana vecchietta.
- Infine, ha ragione – concluse. – Che cosa rimango a fare qui, dove non sono e non sarò mai felice?
E sapendo che, infine, non lasciava nulla che gli stese veramente a cuore, durante la notte mise i suoi quattro stracci in un fagottino, e si mise in viaggio. Tuttavia, giunto sulla cima di una collina poco lontana, si mise a sedere per guardare ancora una volta il villaggio dove aveva vissuto fino a quel giorno; ma con sua grande sorpresa, da un cespuglio saltò fuori ancora la solita vecchina la quale gli disse:
- Bravo; hai fatto bene. Voglio aiutarti e spero che tu, ti ricorderai di me. Al prossimo crocevia troverai un grosso pero al cui piede c’è un uomo addormentato. Vedrai anche un cigno bianco legato al tronco. Slegalo e conducilo con te. Poi cammina sempre dritto. Molti ti domanderanno se possono strappare una penna al cigno, e tu rispondi pure di sì: ma quando pronuncerai le parole: “Cigno, appiccica!” quelle persone resteranno attaccate al cigno e ti seguiranno dovunque.
Detto questo la vecchietta sparì. Verso sera Goffredo giunse al crocevia, vide l’albero, e ai suoi piedi, un uomo addormentato; vide il cigno legato al tronco dell’albero, lo slegò e lo condusse con sé senza che l’uomo si svegliasse. Cammina cammina, a un certo punto attraversò un villaggio, dove c’era una casa in costruzione. Un garzone, che aveva la faccia tutta impiastricciata di gesso e un berrettino di carta verde sui capelli, domandò:
- Posso avere una penna di quel cigno!
- Prendila pure – rispose Goffredo.
Ma in cuor suo aggiunse: “Cigno, appiccica!”. Con l’aria di beffa, il garzone si avvicinò alla coda del cigno, per strappargli una penna: ma quando l’ebbe toccata non riuscì più a distaccare la mano. E poiché Goffredo continuava la sua strada fischiettando, il garzone fu costretto a sgambettargli dietro. Naturalmente il ragazzo faceva ogni sforzo per liberarsi, ma inutilmente. A un certo punto incontrarono una domestica che andava a far la spesa.
- Ma che fai dietro quel cigno, Carletto? – gridò.
- Toglimi di qui! – supplicò il garzone.
E subito la domestica lo prese per mano, ma Goffredo pensò: “Cigno, appiccica!” e la serva fu catturata. Cammina cammina, il giovane allegro e spensierato e altri due sgambettanti dietro, la comitiva attraversò un villaggio. Incontrarono per primo uno spazzacamino che conosceva la domestica, e che esclamò stupefatto:
- Ma che fate, Caterina? Giocate al trenino, vecchia come siete?
- Oh, Gianni caro, strappami di qui! – supplicò la donna.
E lo spazzacamino si affrettò a prenderla per mano; ma rimase attaccato anche lui. Attraversarono un altro villaggio, fu catturato un saltimbanco dalla faccia dipinta; poi addirittura il sindaco del luogo, grasso e pettoruto.
- Che fate, manigoldi? – urlò vedendo passare lo strano corteo. – Si tratta di una sommossa? Sciogliete subito l’assembramento. Incomincia tu pagliaccio!.
Afferrò il saltimbanco per la giacca, ma rimase appiccicato anche lui. Sua moglie, che guardava dalla finestra ne fu inorridita. Ella sperava che suo marito diventasse almeno ciambellano del re; e ora lo vedeva sgambettare nella strada dietro un pagliaccio dalla faccia dipinta! Dove andava a finire la dignità? Disgustata corse giù, impugnando l’occhialetto.
- Che cosa ti prende? – grido. – Torna a casa subito!
Inutile dire che anche lei restò appiccicata, e seguì il corteo col viso altero che esprimeva il massimo disgusto. Allora da un cespuglio saltò fuori ancora la vecchina.
- Bravo Goffredo – disse. – Vedo che mi hai ubbidito. Tra non molto arriverai alla capitale dove vive la figlia del re, una fanciulla sempre malinconica che nessuno è riuscito a far sorridere da molti anni; forse vi riuscirai tu. Potrai anche restituire la libertà a questi amici toccandoli con la bacchetta che ti consegnerò.
La vecchina diede a Goffredo una bacchetta e sparì. Il ragazzo continuò la strada e accalappiò ancora qualche altro passante, soprattutto quelli che dimostravano più boria e più sussiego. Le loro smorfie nel vedersi esposti al dileggio di tutti erano quando di più strano e ridicolo si potesse immaginare. Entrato in città, Goffredo vide venire una carrozza dorata dove sedeva una giovinetta pallida e triste che sembrava immersa in pensieri malinconici. Era la figlia del re. La principessa si affacciò al finestrino della carrozza e, vedendo quella strana comitiva saltellante dietro un allegro ragazzo che fischiettava, non potè trattenersi e scoppiò in una risata argentina che non finiva più.
- La principessa ha riso – gridavano i lacchè.
La principessa fece fermare la carrozza e scese, poi passò in rivista quella accozzaglia di gente che non sapeva come comportarsi, e ricominciò a ridere.
- Ti condurrò da mio padre – disse infine a Goffredo quando potè riprendere fiato. – Voglio che si diverta anche lui come mi sono divertita io.
Fece voltare la carrozza e ogni tanto si affacciava al finestrino per guardare ridendo l’incredibile processione che la seguiva; anche Goffredo rideva e così rideva la gente che affollava le strade. I lacchè erano corsi avanti per annunciare al re il grande avvenimento:
- La principessa ha riso! – e il re corse fuori commosso e felice.
Naturalmente rise anche lui, soprattutto nel vedere attaccati i suoi funzionari più importanti, quelli che gli avevamo sempre fatto un po’ paura per il continuo presentargli le cose peggiori di quanto non fossero in realtà.
- Sei un bel mattacchione! – disse infine rivolto al giovanotto. – E meriti il premio che avevo promesso da tempo a chi fosse riuscito a far ridere mia figlia. Vuoi mille monete d’oro, o una bella tenuta? Scegli tu.
Veramente Goffredo avrebbe voluto addirittura sposare la principessa, che lo guardava con occhi radiosi, grata com’era a chi era riuscito a liberarla dalla sua malinconia. Ma non osava dirlo, perciò rispose:
- Scelgo la tenuta.
Con la bacchetta ricevuta dalla vecchina toccò le persone attaccate alla coda, e quelle, sentendosi libere finalmente, fuggirono a tanta velocità che rimase, di loro, soltanto un po’ di polvere all’orizzonte. Poi ricevette dalle mani del re una pergamena con la nomina a signore di una grandissima tenuta. Mentre stava per congedarsi, la principessa accarezzò le penne del cigno; sembrava afflitta per la partenza di Goffredo e timorosa di ripiombare nella tristezza, ma Goffredo pensò: “Cigno, appiccica!” e la giovinetta non riuscì più a svincolarsi e dovette seguire il giovane nella bella casa di campagna.
Quando furono nel giardino tutto fiorito di gelsomino, che circondava un bellissimo castello, Goffredo tocco la principessa con la sua bacchetta; non voleva tenerla prigioniera per forza!
Ma la principessa sorrise e non si allontanò.
- Vuoi sposarmi? – balbettò allora Goffredo diventando rosso in faccia.
- Certo che lo voglio – rispose la giovinetta.
E a quelle parole il cigno bianco spalancò le ali e si innalzò nel cielo dove disparve fra le nuvole.
Goffredo e la principessa si sposarono e furono felici per sempre.
E la vecchina? Scommetto che ve ne siete scordati! Ma Goffredo no: non dimenticò che doveva a lei la sua fortuna e la nominò capo cerimonie di bel castello di sua proprietà.



di Ludwig Bechstein

 
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Il pesciolino d'oro

Post n°390 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Sul mare-oceano, sull'isola di Bujan, c'era una volta una piccola casetta, un' izba decrepita. In questa izba vivevano un vecchio con la sua vecchietta. Vivevano in grande povertà: il vecchio fabbricava le reti e andava al mare per prendere i pesci. Ne prendeva solo quanto ne bastava per il vitto quotidiano.
Una volta, chissà come, il vecchio gettò la sua rete, cominciò a tirare e si accorse che era molto pesante, come mai gli era capitato.
Tira e tira, riuscì a tirar fuori la rete. Guardò: la rete era vuota; c’era in tutto un pesciolino, ma non un semplice pesciolino: era un pesciolino tutto d’oro.
Il pesciolino pregò il vecchio con voce umana: “Non prendermi, vecchietto! E’ meglio se mi lasci andare nel mare azzurro; io ti sarò riconoscente: farò quello che vorrai”.
Il vecchio pensò e ripensò, poi disse: « Che bisogno ho di te? Va’ pure a passeggio nel tuo mare!».
Gettò il pesciolino d’oro nel mare e tornò a casa.
La vecchia gli chiese: “ Hai preso molti pesci, vecchio?”
“In tutto ho preso solo un pesciolino d’oro, ma l'ho ributtato in mare. Mi pregò con insistenza. Lasciami andare, mi disse, nell’azzurro mare ed io ti ricompenserò, farò tutto quello che vorrai! Ho avuto compassione del pesce, non ho voluto da lui un riscatto ma l’ho lasciato libero a sua volontà”
“ Vecchio demonio! Ti era capitata tra le mani una vera fortuna e tu non hai saputo prenderla.”
La vecchia si incattivì, insultò il vecchio da mattina a sera, non lo lasciò in pace:
“Dovevi chiedergli almeno un po’ di pane. Qui abbiamo solo delle croste secche: che mangerai?”.
Il vecchio non si trattenne, andò dal pesciolino d'oro per chiedergli del pane.
Arrivò alla riva, e gridò con voce forte:
“Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
Il pesciolino nuotò a riva: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?” .
“La vecchia si è arrabbiata, mi ha mandato a chiedere del pane.”
“Torna a casa: ci sarà del pane fin che ne vuoi”.
Il vecchio tornò a casa: “E allora, vecchia, c'e il pane?”.
“Di pane ce n'e finchè vuoi. Ma ecco il guaio. Il mastello si è rotto, e non so dove lavare la biancheria. Va' dal pesciolino e chiedigli un nuovo mastello.”
Il vecchio andò al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
Il pesciolino arrivò: “Che vuoi vecchio?” .
“La vecchia mi ha mandato per chiedere un nuovo mastello.”
“Bene, avrai il mastello”.
Il vecchio tornò a casa, stava ancora sulla porta, che la vecchia di nuovo si gettò contro di lui, lo investì gridando “Va dal pesce d'oro, chiedigli di costruirci una nuova izba, non si può più vivere nella nostra, appena la guardi va in pezzi!”
E il vecchio tornò sul mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me!”.
Il pesciolino arrivò nuotando, si mise con la testa verso di lui e la coda in mare. “Che cosa vuoi, vecchio?”.
“Costruisci per noi una nuova izba; la vecchia si lamenta e grida, non mi lascia in pace; non voglio, dice, vivere più in questa izba vecchia, appena la guardi, va in pezzi!”
“Non rattristarti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.”
Tornò il vecchio. Nel suo cortile c’è una izba nuova, di legno di quercia, tutta con trafori e ornamenti.
Gli corre incontro la vecchia, arrabbiata più di prima, impreca e litiga più di prima:
“Ah tu, vecchio cane, imbecille! Non sei capace di servirti della fortuna. Ti ho chiesto un'izba, e tu, ecco, sarà fatto! No, invece! Va' di nuovo dal pesce d'oro e digli che io non voglio più essere contadina, ma moglie del governatore, in modo che la gente mi obbedisca, e quando le persone mi incontrano mi facciano l’inchino fino alla cintola!”.
Andò il vecchio al mare e gridò con grossa voce: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me.”
Nuotò a riva il pesciolino, si mise con la coda in mare e la testa verso il vecchio: “Che cosa vuoi, vecchio?” .
Rispose il vecchio: “La vecchia non mi dà pace, è del tutto impazzita. Non vuole essere più contadina, ma moglie del governatore!”.
“Bene, non affliggerti! Torna a casa, prega Dio, tutto sarà fatto!”
Tornò a casa il vecchio, e invece dell'izba adesso c'è una casa di pietra, una casa di tre piani.Nel cortile i servitori corrono di qua e di là, in cucina i cuochi battono e lavorano, la vecchia in un prezioso abito di broccato sta seduta su un'alta poltrona e dà ordini.
“Salute, moglie!”, disse il vecchio.
“Ah tu, rozzo ignorante ! Come osi chiamar me tua moglie, me, la moglie del governatore? Ehi, gente, portate questo contadinaccio nella scuderia e frustatelo quanto più potete.”
Subito i servitori accorsero, presero il vecchio per la collottola e lo trascinarono nella scuderia. Cominciarono gli scudieri a frustarlo, e lo frustarono a tal punto che egli a mala pena poteva reggersi sulle gambe.
Dopo di che la vecchia gli diede l' incarico di portinaio, ordinò che gli fosse data una scopa, e che pulisse il cortile. Ordinò anche che gli fosse dato da mangiare a da bere in cucina.
Mala vita per il vecchietto! Per tutto il giorno deve scopare il cortile, e non appena trovano che c’è qualche punto non pulito bene, subito nella scuderia, e giù frustate!
“Che strega!” pensa il Vecchio. "Ha avuto una fortuna, e adesso si mette a grufolare come un porco, e non mi considera più neppure suo marito!"
Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere moglie del governatore e, fece chiamare il vecchio, e gli ordinò:
“Va', vecchio demonio, dal pesciolino d'oro, e digli che non voglio più essere moglie di governatore, ma zarina!”
Andò il vecchio al mare: “Pesciolino, pesciolino! Mettiti con la coda in mare e con la testa verso di me”.
Arrivò il pesciolino d'oro nuotando: “Di che cosa hai bisogno, vecchio?”
“Ecco, mia moglie è del tutto impazzita, più di prima. Non si contenta più di essere la moglie del governatore, adesso vuole essere zarina.”
“Non affliggerti, vecchio! Va' a casa, e prega Dio. Tutto sarà fatto.”
Il vecchio tornò a casa e invece del palazzo di prima trovò un alto palazzo dal tetto d' oro, con intorno le sentinelle che fanno il presentat'arm. Davanti al palazzo c'è un verde prato. Nel prato ci sono i soldati, in fila. La vecchia è vestita da zarina, viene fuori sul balcone con i generali e i boiari, e fa la rassegna delle truppe, sta attenta al cambio delle sentinelle. Rullano i tamburi, suona la musica, i soldati gridano “Hurrà”.
Passò molto tempo, poco tempo, la vecchia si annoiò di essere zarina e ordinò di chiamare il vecchio, che si presentasse davanti ai suoi occhi luminosi.
Ci fu una grande confusione, i generali si danno da fare, i boiari corrono, non sanno dove sbattere la testa: “Quale vecchio?”.
A gran fatica riuscirono a trovarlo nel cortile delle immondizie, e lo portarono dalla regina.
“Ascolta, vecchio demonio!” gli dice la vecchia. “Va' dal pesciolino d'oro a digli: non voglio più essere zarina, ma voglio essere la signora dei mari, in modo che tutti i mari e tutti i pesci mi ubbidiscano.”
Il vecchio tentò di rifiutarsi, ma che vuoi farci? La zarina ti fa staccar la testa! Con il cuore stretto, andò al mare, e disse:
«Pesciolino, pesciolino, mettiti con la coda in mare e la testa verso di me”.
Ma il pesciolino d'oro non si vede, proprio non si vede! Il vecchio lo chiama una seconda volta. Di nuovo, niente! Lo chiama una terza volta, e a un tratto il mare si gonfia e muggisce; prima era tutto sereno, pulito, e ora tutto nero.
I1 pesciolino nuotò a riva: “Che vuoi, vecchio?” .
”La vecchia è diventata ancora più pazza; non vuole più essere zarina, vuole essere la signora del mare, dominare su tutte le acque, comandare a tutti i pesci.”
Il pesciolino d'oro non disse nulla al vecchio, si voltò e sprofondò nel mare.
Il vecchio tornò a casa, guardò e non credette ai suoi occhi: il palazzo era come se non ci fosse mai stato, al suo posto stava la vecchia izba decrepita, e nell'izba stava seduta la vecchia, con il suo vecchio sarafan' stracciato e la testa tra le mani.
Ritornarono a vivere come prima, il vecchio ritornò alla sua pesca in mare; solo che, per quante volte gettasse le reti in acqua, non riuscì più a prendere il pesciolino d'oro.




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Aleksandr Puskin


 
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I fiori della piccola Ida

Post n°389 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Poveri fiori! Sono tutti appassiti. Eppure ieri erano tanto belli! - esclamò con rammarico la piccola Ida, guardando il suo mazzo dai petali raggrinziti. - Che cosa è success, dunque? - proseguì rivolta allo studente seduto sul divano.
Voleva bene allo studente, perché sapeva raccontare tante storie e ritagliava file di pupazzetti di carta che si tenevano per mano e si potevano far ballare e fabbricava persino castelli con le porte che si aprivano. Ero proprio bravo e il tempo con lui passava in un attimo
- Te lo dico io , che cosa è successo - rispose lo studente.
- Oh, ti prego racconta - disse la bambina.
- I tuoi fiori questa notte sono andati al ballo e per questo ora sono così stanchi e sfiniti.
- Ma i fiori non sanno ballare! - esclamò la piccola Ida.
- E invece si. Quando noi andiamo a letto e ci addormentiamo, i fiori incominciano a far salti e si danno alla pazza gioia.
- E i bambini possono andare al ballo? - chiese la piccola Ida
- Soltanto i bambini dei fiori, cioè i fiorellini piccoli, come le margherite, i mughetti, e i non ti scordar di me.
- E dove vanno a ballare?
- Nel castello del re, quello che sorge fuori la porta e che è circondato da un immenso giardino. Il re vi abita soltanto d'estate, lo sai.
- Ma sono andata ieri con la mamma, in quel giardino - replicò la piccola Ida - non c'era un solo fiore sulle aiuole e nemmeno una foglia sugli alberi. Dov'erano, dunque?
- Nel castello. Quando il re torna in città seguito da tutti i suoi cortigiani, i fiori lasciano il giardino ed entrano nelle sale. Sul trono siedono le due rose più belle, e sono il re e la regina; le creste di gallo si allineano ai due lati e fanno da guardie d'onore, e tutti gli altri fiori sono invitati al ballo. Le violette azzurre rappresentano gli ufficiali di marina; i giacinti sono damigelle, i tulipani le dame incaricate di sorvegliare l'andamento della festa.
- Ma chi ha dato ai fiori il permesso di danzare nel castello del re?
- Oh, non c'è bisogno di permesso, perché quasi nessuno lo sa. E' vero che qualche volta, di notte, arriva il vecchio sorvegliante a fare una ispezione, ma ha un grosso mazzo di chiavi il cui tintinnio si sente a distanza.
- E i fiori quando lo sentono non hanno paura?
- Non appena se ne accorgono si mettono fermi fermi, oppure si nascondono dietro le tende sporgendo solo la testa.
- E il sorvegliante non sente il loro profumo?
- Si, avverte che c'è qualcosa di insolito nell'aria, ma non riesce a capire che cosa sia.
- Come mi piacerebbe vedere danzare i fiori! - esclamò la piccola Ida battendo le mani. - Sarebbe una cosa stupenda!
- Chissà che tu non ci riesca - rispose lo studente. - Quando tornerai nel giardino del re, prova a guardare attentamente attraverso le finestre e vedrai uno strano movimento.
- E i fiori del giardino pubblico vanno anche loro al ballo? Come possono arrivare fino a là? Il castello infatti è molto lontano dalla città.
- Volando - spiegò lo studente - non hai visto le farfalle? Non sembrano fiori? Ebbene, appunto sono la stessa cosa: i fiori hanno lasciato il loro gambo per levarsi nell'aria; poi hanno incominciato ad agitare i petali come piccole ali, e così sono riusciti a volare.
- Ma perché soltanto alcuni fiori si sono mutati in farfalle mentre gli altri sono rimasti semplici fiori? - chiese la bambina. - Deve essere molto difficili sapere quali sono i fiori bravi.
- Non è vero - le spiegò lo studente - i fiori bravi sono quelli che profumano nell'aria e offrono il loro nettare alle api affinché il miele diventi migliore.
- Ma la mia amica è andata la primavera scorsa al giardino pubblico e c'erano tanti fiori. Tu pensi che non siano stati invitati alla festa del castello perché erano cattivi?
- Non credo - disse lo studente - può darsi che nessuno abbia parlato loro del castello del re e della festa dei fiori e quindi non ne sappiano niente. Anzi, voglio proporti un esperimento. Tu sai che in nostro vicino di casa è professore di botanica e ha un giardino tutto pieno di fiori. Prova ad entrare in quel giardino e racconta a un fiore di quella festa da ballo. Il fiore lo dirà a tutti gli altri e così potranno partecipare alla festa e se ne andranno nel castello del re. Pensa come rimarrà di stucco il professore di botanica quando scenderà nel suo giardino per innaffiare e potare i fiori e non ne troverà più neppure uno!
- Ma come un fiore potrà dirlo agli altri? I fiori non sanno parlare - obbiettò la piccola Ida.
- E' vero, ma riescono a comunicare ugualmente fra di loro. Non hai mai visto come si piegano e muovono la testa, quando c'è il vento? E' la loro maniera di parlare. Anche le foglie chiacchierano fra loro, quando si agitano tanto.
- E il professore capisce il loro linguaggio?- chiese Ida.
- Certamente. Anzi, una volta si sdegno moltissimo perché vide una ruvida e ispida ortica cercare di stringere amicizia con uno splendido garofano rosso. " Come sei bello! Come ti voglio bene " diceva l'ortica facendo l'occhiolino. E il garofano ascoltava, tutto lusingato. Il professore allora picchiò l'ortica e si punse le dita. Da quel giorno detesta le ortiche e quando ne vede qualcuna cerca di girare al largo.
- E' divertente - disse la piccola Ida.
Nel frattempo un noioso consigliere era entrato e si era seduto sul divano. E, udendo quei discorsi, fece un gesto di disapprovazione.
- Come si possono mettere idee simili in testa a una bambina? - brontolò.
Il consigliere era un vecchietto dalla faccia gialla e portava sempre un largo cappello nero e rotondo. Non provava simpatia per lo studente e continuò a brontolare. Ripeteva fra i denti:
- Come si possono mettere idee simili nella testa di una bambina? Sono solo inutili fantasie!
Ma la piccola Ida non provava, invece il minimo dubbio e quando lo studente se ne fu andato, si avvicinò al suo mazzo di fiori. Tutto era spiegato, adesso: i fiori avevano la testa china perché si sentivano stanchi, dopo aver ballato tutta la notte; bisognava dunque metterli a letto e farli riposare. In un angolo del salotto c'era un tavolino destinato ai giocattoli della piccola Ida, col cassetto pieno di cianfrusaglie; sul tavolino c'era il letto della bambola Sofia, in legno rosa con la coperta e il velo azzurro. Sofia dormiva profondamente, ma la piccola Ida la prese in braccio senza riguardi.
- Bisogna alzarsi! - le disse; - per questa notte potrai dormire nel cassetto. I poveri fiori sono ammalati e hanno bisogno di riposare!
La bambola aveva un'espressione molto contrariata e non rispose nemmeno una parola, tanto si sentiva offesa; ma la piccola Ida la depose nel cassetto, poi mise i fiori nel lettino e li coprì bene con la coperta azzurra. Chiuse anche le cortine di seta celeste affinché la luce non desse loro fastidio, quindi si allontanò in punta di piedi. Ma per tutta la sera non fece che pensare a quanto lo studente le aveva raccontato e, prima di andare a dormire, volle fare una visitina anche ai fiori della mamma, stupendi giacinti e tulipani, freschi e belli nei vasi di cristallo.
- So che andrete al ballo, questa notte - bisbigliò la piccola Ida con aria d'intesa; ma i fiori non mossero una foglia, come se non avessero capito.
Poi Ida andò a letto e, prima di addormentarsi, pensò a lungo alla festa da ballo nel castello del re. "I miei fiori saranno andati di certo" pensava. Si risvegliò durante la notte dopo un sogno confuso, in cui aveva veduto i fiori lo studente e anche il consigliere dal largo cappello nero. Tutto era silenzioso nella casa; il lumino da notte spandeva una diafana luce; il babbo e la mamma dormivano profondamente. "Chissà se i miei fiori sono ancora nel lettino di Sofia?" pensò la piccola Ida "Come mi piacerebbe saperlo". Sedette sul letto e tese l'orecchio. Le pareva che dal salotto giungesse un suono di pianoforte, ma così leggero, come non le era mai capitato di udire.
- Sono certo i miei fiori che ballano - concluse - Oh, come mi piacerebbe vederli! Oh, se entrassero qui!.
Ma i fiori non vennero e il suono del pianoforte continuava dolce e leggero. Infine la piccola Ida non poté più resistere: scivolò dal lettino e, piano piano, si avvicinò in punta di piedi verso la porta socchiusa del salotto. Come era meraviglioso ciò che vide! Le lampade erano spente, è vero, ma i raggi della luna entravano dalla finestra e ogni cose sembrava illuminata a giorno. I giacinti e i tulipani della mamma stavano allineati su due file: tutti i vasi erano vuoti. Poi i tulipani si inchinarono davanti ai giacinti e li presero per mano; quindi incominciarono un allegro girotondo interrompendolo spesso con variazioni e figure graziosissime. Al pianoforte era seduto un grosso giglio giallo che la piccola Ida aveva veduto in giardino durante l'estate. Anzi, ricordava che lo studente aveva commentato: "Guarda come quel giglio assomiglia alla signorina Carolina". Tutti si erano burlati d lui, ma la piccola Ida aveva notato che il giglio assomigliava davvero in modo sorprendente a quella signorina. Anche adesso, mentre suonava il pianoforte, aveva proprio il suo modo di fare: chinava il lungo viso giallo un po' da una parte e un po' dall'altra e batteva il tempo con la testa. Nessun fiore si era accorto della piccola Ida. Un grande croco blu saltò sul tavolino dove stavano i giocattoli ed andò ad aprire le cortine del letto dove riposavano i fiori ammalati. I fiori si misero a sedere e dichiararono di sentirsi bene e di voler ballare come tutti gli altri. Scesero subito dal letto, tanto freschi e belli che il flaconcino di profumo fatto come un vecchio ometto fece loro i complimenti. Poi il ballo divenne generale. A un tratto qualche cosa di rumoroso cadde dal tavolo: era il frustino che saltava a terra; anche lui voleva prendere parte alla festa dei fiori. Al suo manico era appoggiata, per caso, una bambolina di cera, che aveva un largo cappello nero e rotondo, molto simile a quello del consigliere. Il frustino saltò in mezzo ai fiori sui tre trampoli rossi e si mise a battere il tacco ballando una marzurka. Non c'era che lui che ne fosse capace: i fiori erano troppo leggeri e non avrebbero mai potuto fare tanto rumore con i tacchi. A un tratto la bambolina di cera che stava aggrappata al manico del frustino, diventò lunga lunga, volse verso gli altri fiori la testa coperta dal grande cappello nero e rotondo, e disse ad alta voce:
- Come si possono mettere idee simili nella testa di una bambina? Sono soltanto scocche e inutili fantasie.
La bambola di cera in quel momento assomigliava davvero al vecchio consigliere; aveva lo stesso colorito giallo e la stessa aria arcigna e brontolona. Allora i fiori, indignati, incominciarono a picchiarla, ed ella subito rimpicciolì e ridiventò la bambolina di prima. Ida non poté trattenersi dal ridere. Il frustino continuava a battere i tacchi saltellando come un matto e il consigliere, cioè la bambolina, che gli stava aggrappata addosso, era costretta a ballare con lui, sbatacchiando in tutte le direzioni il gran cappello nero. Infine gli altri fiori intercedettero per lei, specialmente quelli che avevano dormito nel lettino della bambola e finalmente il frustino si fermò e si ritirò tranquillo in un angolo.In quel momento si sentì qualcuno che chiuso nel cassetto, batteva colpi contro la parete di legno per farsi aprire. L'omino fatto col flaconcino di profumo, riuscì a sdraiarsi sul tavolo e a schiudere il cassetto; dalla fessura sbucò la bambola Sofia che si guardò intorno tutta sorpresa.
- C'è dunque un ballo, qui? - esclamò risentita. - Perché nessuno mi ha invitato? Ci sarei venuta volentieri!
- Vuoi ballare con me? -chiese l'omino del profumo.
- Ma guarda un po' che razza di ballerino!- commentò la bambola con disprezzo: e gli voltò le spalle.
Sperava che un fiore l'invitasse, ma nessuno sembrava accorgersi di lei. Tossì, fece um.!….um!…con la voce,ma inutilmente. Intanto l'omino si era messo a ballare da solo e vi riusciva benissimo. Allora Sofia, decisa a richiamare a tutti i costi l'attenzione generale, si lasciò cadere con gran fracasso dal cassetto sul pavimento. Tutti i fiori accorsero per rialzarla e domandarle se si era fatta male; ma Sofia stava benissimo: voleva soltanto ballare. Allora i fiori che avevano dormito nel suo lettino, la presero per mano e incominciarono a danzare con lei proprio nel mezzo della stanza, dove più chiara cadeva la luce della luna. Tutti gli altri fiori fecero circolo battendo il tempo con le mani. Sofia era tanto felice che offerse ai fiori il suo lettino per sempre, dichiarando che sarebbe stata contentissima di dormire nel cassetto. I fiori risposero:
- Ti ringraziamo tanto, ma noi non possiamo vivere a lungo. Domani saremo morti. Devi dire alla piccola Ida di seppellirci nell'angolo del giardino dove poco tempo fa ha sepolto il suo canarino. In estate resusciteremo e saremo più belli ancora di oggi.
- No, non dovete morire! - esclamò Sofia.
In quel momento la porta del salotto si spalancò e una folla di splendidi fiori entrò danzando. In testa al corteo camminavano due belle rose che portavano due corone d'oro: erano il re e la regina. Dietro di loro veniva una fanfara, formata da papaveri e peonie. Le trombe erano baccelli di piselli e i fiori vi soffiavano con tanta forza da averne il viso tutto rosso: i giacinti azzurri e i bucaneve suonavano a distesa i loro campanellini come se fossero campanelli veri. La musica era deliziosa. Poi tutti i fiori si unirono alla compagnia e zinnie, pratoline margherite e gli altri si abbracciarono e incominciarono a ballare. Era uno spettacolo davvero meraviglioso. Quindi tutti si augurarono la buona notte e la piccola Ida ritornò a letto, dove rimase sveglia a lungo ripensando a tutto ciò che aveva visto. L'indomani, appena alzata, corse al tavolino dei giocattoli per vedere i se i fiori c'erano ancora nel lettino di Sofia. C'erano, ma molto più avvizziti dl giorno prima. Sofia era coricata nel cassetto e sembrava avere molto sonno.
- Ti ricordi ciò che dovevi dirmi - domandò Ida.
Sofia non rispose nemmeno una parola.
- Non sei gentile - disse Ida. - Eppure i fiori hanno ballato con te!
Sofia non rispose nemmeno questa volta, ma la piccola Ida sapeva che cosa doveva fare. Prese una scatola e vi collocò delicatamente i fiori morti.
- Ecco la vostra piccola bara, o meglio, il vostro nuovo lettino - disse - quando verranno i miei cugini oggi, mi aiuteranno a seppellirvi.
I cugini della piccola Ida erano due allegri ragazzi che si chiamavano Giovanni e Adolfo. Giunsero nel pomeriggio indossando una maglietta gialla e calzoncini blu. Volevano mostrare a Ida l'ultimo regalo del babbo, una balestra nuova nuova, che funzionava come quelle degli antichi balestrieri. Ida narrò loro la morte dei fiori e li invitò a partecipare al funerale. I due ragazzi camminavano davanti, la balestra in spalla e la piccola Ida li seguì con i fuori morti nella graziosa bara. Scavarono una fossa in fondo al giardino e Ida, dopo aver baciato i fiori depose la cassettina nella terra, mentre Giovanni e Adolfo tiravano un colpo di balestra in segno di onore.

 
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L'acciarino magico

Post n°388 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un soldato marciava allegramente verso il suo villaggio: uno, due! Uno, due! Con lo zaino in spalla e la sciabola al fianco, ritornava dalla guerra. Improvvisamente incontrò una strega molto vecchia e brutta.
- Buongiorno, soldato, - gli disse, - hai una bella sciabola, ma il tuo zaino sembra vuoto. Ti piacerebbe possedere molti soldi?
- Si, certo, rispose il soldato.
- Bene, allora scendi nel tronco cavo di questo albero. Prima ti attaccherò una corda intorno alla vita, per farti poi risalire quando me lo domanderai, - continuò la strega.
- Che cosa troverò in questo grosso albero? - domandò il giovane soldato.
- Denaro, soldato, tanto quanto ne vorrai. Quando sarai arrivato sul fondo, vedrai una galleria illuminata da un centinaio di lampade. Sulla sinistra troverai tre porte: ciascuna di esse apre una stanza. Nella prima camera vedrai un cofano sul quale è seduto un cane con due occhi grandi e piatti. Non averne paura, stendi per terra il mio grembiule blu a quadri, afferra poi il cane e mettilo su di esso: come per incanto, resterà immobile. Apri pure il cofano e prendi tutti i soldi di rame che desideri. Se preferisci invece le monete d'argento, entra nella seconda stanza. Anche qui c'è un cofano difeso da un cane con due occhi grandi come le macine di un mulino. Agisci come la prima volta e prendi tutti i soldi d'argento che desideri. Ma se vuoi l'oro, entra nella terza stanza. Anche là troverai un cane con due occhi grandi come la torre rotonda di Copenaghen. Fai come prima e prendi tutte le monete d'oro che desideri.
- Certo che mi conviene molto, - mormorò il soldato. - E voi cosa desiderate in cambio di queste ricchezze?
- Riportami solamente l'acciarino che mia madre ha dimenticato l'ultima volta che è scesa nell'albero.
- D'accordo. Dammi il tuo grembiule a quadri blu, attacca la corda intorno alla mia vita, poi scenderò subito in fondo all'albero, - disse il giovanotto, risoluto.
Le cose andarono come aveva detto la strega. Il soldato trovò uno dopo l'altro i tre cani spaventosi con i loro occhi grandi. Si riempì le tasche di monete di rame, ma le svuotò subito dopo per prendere quelle d'argento ed infine per le monete d'oro di cui si riempì anche gli stivali e lo zaino. Ora era cosi ricco che avrebbe potuto comperare la città di Copenaghen! trovò l'acciarino, lo prese e chiamò la strega.
- Che cosa vuoi fare di questo acciarino? - le domandò il giovanotto quando fu nuovamente fuori sulla strada.
- Sei troppo curioso, soldato! Accontentati dell'oro che hai!
- Voglio anche l'acciarino! Ridammelo o ti ammazzerò!
La strega si rifiutò con fermezza; il soldato allora l'ammazzò e con passo pesante, perché era molto carico, si diresse verso la città vicina dove alloggiò nel miglior albergo. Là condusse una bella vita, circondato da cortigiani che lo adulavano. Un giorno senti parlare dei pregi e della bellezza della principessa, figlia del re di Danimarca.
- Mi piacerebbe molto conoscerla, - sospirò il soldato.
- E' impossibile, - gli fu risposto. - La principessa vive rinchiusa in un castello, circondato da alte mura. Nessuno può avvicinarsi. Il re la sorveglia gelosamente perché un mago gli ha predetto che sposerà un semplice soldato.
Per dimenticare questa delusione il giovane uscì con i suoi amici e sperperò molti soldi; tanto che, un giorno, non gliene rimase nemmeno uno. Lasciò l'albergo per andare a vivere in una povera mansarda. I suoi amici gli voltarono le spalle. Una sera, volendo accendere la sua candela, batté l'acciarino della strega. Nell'attimo stesso che s'accese la scintilla, apparve uno dei tre cani con gli occhi grandi.
- Ordina, padrone! Io ti servirò, - gli disse, - e i miei compagni sono anch'essi pronti ad ubbidirti.
Il soldato capì che l'acciarino era magico e chiese alcune monete d'oro. In questo modo ridiventò presto ricco e adulato. Tuttavia era triste, perché era innamorato segretamente della principessa.
Una notte, ormai disperato, incaricò uno dei cani di portargli la principessa. Era così bella, profondamente addormentata sul dorso dell'animale, che il soldato le diede un bacio. Il cane la riportò poi al castello. Il giorno dopo la principessa raccontò ai genitori sovrani ciò che
credeva fosse stato un sogno. Diffidente, il re la fece seguire dalle sue ancelle per vedere dove andasse di notte. Il cane, però, riuscì a far perdere le tracce. Allora la regina fece cucire nei vestiti di sua figlia un taschino pieno d'orzo, forato all'estremità. Così, quando il cane, la notte seguente, portò via la principessa, i semi d'orzo caddero per terra indicando la strada che portava alla casa del soldato. Il giovanotto fu immediatamente gettato in prigione e condannato all' impiccagione. Il giorno dell'esecuzione, moltissima gente si era riunita nella piazza. I sovrani e i giudici troneggiavano dall'alto di un palco. Due guardie portarono il condannato che, prima di morire, espresse l'ultimo desiderio: quello di fumare un' ultima volta la pipa; ciò gli fu concesso. Prese dalla tasca l'acciarino magico e lo batté tre volte: i tre cani comparvero, feroci con i loro grandi occhi. Balzarono sui sovrani e li fecero precipitare dall'alto del palco sulla piazza ove si sfracellarono.
- Viva il piccolo soldato! - urlò la folla che detestava i sovrani tiranni, - viva il nostro re!
Il soldato, divenuto re, sposò la principessa e furono felici per moltissimi anni, ben protetti dai tre cani dai grandi occhi.

 
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Certi obblighi (Pirandello)

Post n°387 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Quando la civiltà, ancora in ritardo, condanna un uomo a portare una lunga scala in collo da un lampione all’altro e a salire e a scendere questa scala a ogni lampione tre volte al giorno, la mattina per spengerlo, il dopo pranzo per rigovernarlo, la sera per accenderlo; quest’uomo, per forza, quantunque duro di mente e dedito al vino, deve contrarre la cattiva abitudine di ragionar con se stesso, assorgendo anche a considerazioni alte per lo meno quanto quella sua scala.
Quaquèo, lampionajo, è caduto una sera, ubriaco, da quell’altezza. S’è rotta la testa, spezzata una gamba. Vivo per miracolo, dopo due mesi d’ospedale, con una cianca più corta dell’altra, una sconcia cicatrice su la fronte, s’è rimesso a girare, zazzeruto, barbuto e in camiciotto turchino, di nuovo con la scala in collo, da un lampione all’altro. Arrivato ogni volta su la scala all’altezza da cui è caduto, non può fare a meno di considerare che – è inutile – certi obblighi si hanno. Non si vorrebbero avere, ma si hanno. Un marito può benissimo in cuor suo non curarsi affatto dei torti della propria moglie. Ebbene, nossignori, ha l’obbligo di curarsene. Se non se ne cura, tutti gli altri uomini e finanche i ragazzi glielo rinfacciano e gli dànno la baja.

– Il becco, Quaquèo! Quando li mettono, Quaquèo, questi becchi?

– Muso di cane! – grida Quaquèo dall’alto del lampione. – Ora me lo dici? Ora che debbo illuminare la città?

Bella scusa, l’illuminazione della città, per sottrarsi all’obbligo di badare ai torti della moglie. Ma li vede egli forse? Con questi lumetti a petrolio, vede egli forse quando quelli scassinano le porte o si accoltellano per quei sudici vicoli deserti?

– Ladri svergognati e assassini!

Pur non di meno Quaquèo è andato al municipio; s’è presentato all’assessore cavalier Bissi, a cui deve il posto e qualche gratificazione di tanto in tanto per lo zelo con cui attende al suo ufficio; e gli ha esposto il caso: se egli, cioè, nell’atto d’accendere i lampioni non debba essere considerato come un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni.

– Sicuro, – gli ha risposto l’assessore.

– E dunque chi mi insulta, – ha tirato la conseguenza Quaquèo, – insulta un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni, va bene?

Pare che non vada bene per il cavalier Bissi. Il quale, sapendo di che genere sono gli insulti di cui Quaquèo viene a lagnarsi, vorrebbe dimostrargli, con bella maniera, che questi insulti non si riferiscono propriamente al lampionajo come tale.

– Ah no, Eccellenza! – protesta Quaquèo. – La prego di credere, Eccellenza!

E nel dire Eccellenza stringe gli occhi Quaquèo, come se assaporasse un liquore prelibato. Dà così dell’Eccellenza, con tutto il sentimento, a quanti più può; ma in ispecie al cavalier Bissi che, oltre agli obblighi che anche lui, come privato, forse non vorrebbe avere, ma che pure ha, se ne è assunti anche tanti altri, altissimi, inerenti alla sua carica d’assessore. Quaquèo di tutti questi obblighi, naturali e sociali, è profondamente compenetrato; e se, alle volte, per qualche gocciolina importuna deve passarsi il dorso della mano sotto il naso, non manca mai di farsi prima riparo della falda del lungo camiciotto turchino.
A sua volta, con bella maniera, ma imbrogliandosi un po’, si prova a dimostrare all’assessore, che se l’insulto, di cui è venuto a lagnarsi, ha qualche fondamento di verità, può averlo soltanto nel tempo che egli è nell’esercizio delle sue funzioni di lampionajo; perché quando poi non è più lampionajo ed è soltanto marito, nessuno può dir nulla né di lui né della moglie. La moglie è con lui saggia, sottomessa, irreprensibile; ed egli non ha potuto mai accorgersi di nulla.

– M’insultano, Eccellenza, quando illumino la città, quando sto su la scala appoggiata al lampione e sfrego al muro il fiammifero per accendere il lume, cioè, quando sanno che non posso lasciare al bujo la città, per correre a casa a vedere che fa e con chi è mia moglie e, all’occorrenza, fare un macello, signor Cavaliere!

Sottolinea le parole fare un macello con un sorriso quasi di mesta rassegnazione, perché riconosce che anche quest’obbligo avrebbe, come marito offeso, e proprio non vorrebbe averlo, ma lo ha.

– Ne vuole un’altra prova, Eccellenza? Nelle sere di luna, che i lampioni restano spenti, nessuno mi dice nulla; e perché? perché quelle sere non sono un pubblico funzionario.

Quaquèo ragiona bene. Ma ragionar bene non basta. Bisogna venire al fatto. E, venendo al fatto, spesso i migliori ragionamenti cascano, come cascò lui, quella volta, ubriaco fradicio, dalla scala.
Che vuole concludere, insomma, con quel ragionamento? Il cavalier Bissi glielo domanda. Se crede che la sua disgrazia coniugale sia inerente alla pubblica funzione di lampionajo, ebbene, rinunzi a questa pubblica funzione; o, se non vuole rinunziare, si stia quieto, e lasci dire la gente.

– Perentorio? – domanda Quaquèo.

– Perentorio, – risponde il cavalier Bissi.

Quaquèo saluta militarmente:

– Servo di Vostra Eccellenza.

La scala gli pesa ogni giorno di più e ogni giorno di più Quaquèo stenta ad arrampicarsi sui pioli logori dal lungo uso, con quella cianca più corta dell’altra.
Ora, quando è agli ultimi lampioni nelle viuzze più erte in cima al colle, s’indugia un pezzo su la scala, come affacciato, o piuttosto come appeso per le ascelle al braccio del fanale, le mani penzoloni, il capo appoggiato a una spalla; e in quella positura d’abbandono, lassù, seguita a pensare e a ragionar con se stesso.
Pensa cose strane e tristi.
Pensa, per esempio, che le stelle, per quanto fitte sieno, certe notti, allargano sì e pungono il cielo, ma non arrivano a far lume in terra.

– Luminaria sprecata!

Ma che bella luminaria! E pensa che una notte sognò che toccava a lui d’accenderla, tutta quella luminaria nel cielo, con una scala di cui non vedeva la fine, e che non sapeva dove appoggiare, e i cui staggi gli brandivano tra le mani incapaci di sorreggere un tal peso. E come avrebbe fatto ad arrampicarsi, sù, sù, per quegli infiniti pioli, fino alle stelle? Sogni! Ma che ambascia e che sgomento nel sogno!
Pensa che è proprio triste quel suo mestiere di lampionajo, almeno per un lampionajo come lui, che abbia contratto la cattiva abitudine di ragionare, accendendo i lampioni.
Ma è mai possibile che anche l’atto materiale di far la luce dove ci sono le tenebre, non desti, a lungo andare, anche nel più duro e oscuro cervello certi guizzi di pensiero?
Quaquèo certe sere è arrivato finanche a pensare che egli che fa la luce, fa anche le ombre. Già! Perché non si può avere una cosa, senza il suo contrario. Chi nasce, muore. E l’ombra è come la morte che segue un corpo che cammina. Donde la sua frase misteriosa, che sembra una minaccia gridata dall’alto della scala nell’atto di accendere il lampione, e che non è altro, invece, che la conclusione d’un suo ragionamento:

– Aspetta là, aspetta là, che t’appiccico la morte dietro!

Infine Quaquèo pensa, che una certa importanza di ordine davvero superiore la ha, quel suo mestiere, in quanto ripara a una mancanza della natura, e che mancanza! Quella della luce. C’è poco da dire: egli, per il suo paese, è il sostituto del Sole. Sono due i sostituti: egli e la Luna; e si dànno il cambio. Quando c’è la Luna, egli riposa. E tutta l’importanza del suo mestiere appare manifesta in quelle sere che la Luna dovrebbe esserci, e viceversa poi non c’è, perché le nuvole, nascondendola, la fanno venir meno al suo obbligo di illuminare la Terra; obbligo che la Luna forse non vorrebbe avere, ma che ha; e il paese resta al bujo.
Quant’è bello vedere da lontano, in mezzo alle tenebre della notte, qua e là, qualche paesello illuminato!
Quaquèo ne vede parecchi, ogni notte, quando arriva agli ultimi lampioni in cima al colle, e rimane a contemplarli a lungo, con le mani penzoloni dal braccio del fanale e il capo appoggiato a una spalla, e sospira.
Sì, quei lumini là, come una moltitudine di lucciole a congresso, rischiarano penosamente e rimangono tutta la notte a vegliare, nel lugubre silenzio, vicoletti lerci e scoscesi e tane di miseria, forse peggiori di questi del suo paese; ma è certo che, da lontano, fanno un bel vedere, e spirano un dolce e mesto conforto in mezzo a tanta tenebra. Passa di tanto in tanto nella tenebra qualche folata di vento, e tutti quei lumini là aggruppati esitano e pare che sospirino anch’essi.
E a guardare così da lontano, si pensa che i poveri uomini’ sperduti come sono sulla terra, tra le tenebre, si siano raccolti qua e là per darsi conforto e ajuto tra loro; e invece no, invece non è così: se una casa sorge in un posto, un’altra non le sorge mica accanto, come una buona sorella, ma le si pianta di contro come una nemica, a toglierle la vista e il respiro; e gli uomini non si uniscono qua e là per farsi compagnia, ma si accampano gli uni contro gli altri per farsi la guerra. Ah, lui Quaquèo, lo sa bene! E dentro ogni singola casa c’è la guerra, tra quegli stessi che dovrebbero amarsi e star d’accordo per difendersi dagli altri. Non è forse sua moglie la sua più acerrima nemica?
Se Quaquèo beve, beve per questo; beve per non pensare a certe cose che lo farebbero venir meno a tanti di questi obblighi, di cui è così profondamente compenetrato. Ma è vero che se ne hanno poi anche certi altri, che non si vorrebbero avere. Non si vorrebbero avere, ma si hanno.

– Eh, sorcio vecchio?

Quaquèo si rivolge a un pipistrello. Lo chiama sorcio vecchio, perché è un sorcio che ha messo le ali. Tante altre volte si rivolge o a qualche gatto che striscia rasente al muro e s’arresta d’un tratto, raccolto e obliquo, a guatarlo, o a qualche cane randagio e malinconico, che si mette a seguirlo da un lampione all’altro, per gli alti vicoli deserti, e gli si accula davanti, sotto ogni lampione, aspettando che egli lo abbia acceso.
Ma che deve accendere, se non c’è petrolio?
Il paese questa sera rischia di restare al buio. L’appaltatore dell’illuminazione è in lite col Comune: da più mesi non gli dànno un soldo; ha anticipato circa dodicimila lire; ora non vuole più saperne. Quaquèo non ha potuto rigovernare i lumi, dopo mezzogiorno. Venuta la sera, s’è messo in giro con la scala per provare se si accendono con quel po’ di petrolio rimasto dalla notte scorsa. Si accendono per poco, poi s’abbassano e appestano la via. I cittadini protestano, se la pigliano con lui, come se fosse colpa sua. I più tristi e i monellacci gli ricantano più sguajatamente la solita canzone:

– Ci vogliono i becchi! Ci vogliono i becchi! I becchi, Quaquèo, i becchi!

E la gazzarra cresce. Quaquèo non ne può più. Per sottrarsi alla ressa degli insultatori, lascia la via principale e, con la scala in collo, si mette a salire per uno dei vicoli. Ma parecchi lo seguono. A un certo punto, come Quaquèo, stanco e sfiduciato, s’abbandona secondo il suo solito sul braccio d’un fanale, non si contentano più di dargli la baja a parole, gli strappano la scala sotto i piedi e lo lasciano lì appeso per le ascelle e sgambettante.
Ah sì? Dunque vogliono proprio ch’egli faccia l’obbligo suo, di marito offeso, non potendo quella sera per mancanza di petrolio attendere alla sua pubblica funzione di lampionajo? Lo hanno colto al laccio, giusto quella sera che non può gridar la scusa dell’illuminazione della città? Ebbene: gli ridiano la scala, e sia fatta la loro volontà! La scala! La scala! Lo facciano discendere, corpo di Dio, e vedranno ciò che egli saprà fare!
Tre, quattro, ridendo, gli rimettono la scala sotto i piedi, e tutti, pigliandoselo a godere, a coro, lo cimentano:

– Il coltello ce l’hai?

– Ce l’ho. Eccolo!

E Quaquèo si tira sù il camiciotto e cava dalla tasca dei calzoni un coltellaccio e lo apre e lo impugna

– Sangue della Madonna, è buono questo?

– La scanni?

– La scanno, e lo scanno, se li trovo insieme! Testimonii tutti! Venitemi dietro!

E si slancia avanti, balzando su la punta della cianca più corta, e tutti lo seguono schiamazzando e affollandoglisi attorno, per i buj vicoli tortuosi in salita.

– La scanni davvero?

Quaquèo s’arresta, si volta e agguanta per il petto uno di quei cimentatori.

– Ah, ve ne pentite? Ora che m’avete preso, perdio, e sono qua armato per fare l’obbligo mio, dovete starci tutti! Tutti, perdio!

E scuote e scrolla quell’agguantato, e riprende la via. Parecchi allora s’impauriscono, lo seguono ancora per qualche passo sconcertati, perplessi; si tirano per la manica; rimangono indietro; se la svignano. Quattro soltanto e due monelli gli tengono dietro fino a casa, ma costernati anch’essi e non più cimentosi, anzi pronti a impedire che egli faccia per davvero. Difatti, appena` davanti alla porta, lo afferrano per le braccia e a coro, con parole scherzose, cercano di portarselo via, in qualche taverna a bere. Ma Quaquèo, stravolto, ansimante, si divincola e li minaccia col coltello impugnato; avventa calci alla porta, e grida alla moglie:

– Apri, mala femmina! Apri! Questa è la volta che la paghi per tutte! Lasciatemi, sangue di... lasciatemi! Lasciatemi, o vi spacco la faccia!

Quelli, alla minaccia, si scostano, e allora egli cava subito dalla tasca del camiciotto, sul petto, la chiave e apre la porta; si ficca dentro e la richiude con fracasso. Quelli si precipitano addosso alla porta e la forzano’ gridando ajuto. Si sentono dall’interno grida e pianti in alto.

– Carneficina! Carneficina! – urla Quaquèo, col coltello in pugno, dopo aver afferrato per i capelli e buttata a terra la moglie scarmigliata e discinta; e cerca sotto il letto, rovesciando tutto quello che gli capita tra i piedi; cerca nella cassapanca; va a cercare in cucina, sempre gridando:

– Dov’è? Dimmi dov’è! dove l’hai nascosto?

E la moglie:

– Sei pazzo? Sei ubriaco? Che ti salta in mente, buffone?

Giù, nel vicolo. a loro volta, gridano quei quattro che lo han seguìto, e i monelli, e altri accorsi al fracasso; e si schiudono le finestre qua e là, e tutti domandano: – Chi è? Che è stato? – e pugni e calci e spallate alla porta.
Quaquèo balza addosso alla moglie:

– Dimmi dov’è, o t’ammazzo! Sangue, sangue, voglio sangue, questa sera! Sangue!

Non sa più dove cercare. Gli occhi a un tratto gli vanno alla finestra della cucina che guarda dalla parte opposta del vicolo, su un precipizio. È una finestra piuttosto alta, che sta sempre chiusa, e le cui imposte sono annerite dalla fuliggine.

– Piglia una sedia e apri quella finestra! No? Non vuoi aprirla? Brutta strega, l’apro io!

Monta su uno sgabello, la apre... – orrore! Quaquèo arretra, con gli occhi sbarrati, le mani tra i capelli irti. Il coltello gli casca di mano.
Il cavalier Bissi sta lassù, pericolante, nel vano, sul precipizio.

– Ma se, Dio liberi, Vostra Eccellenza scivola! esclama Quaquèo, appena può rinvenire dal terrore, portandosi le pugna presso la bocca; e subito accorre, tutto tremante e premuroso, per aiutarlo a discendere:

– Piano... qua, piano, metta qua un piede su la mia spalla, Eccellenza... Ma come mai Vostra Eccellenza s’è potuto persuadere a nascondersi lassù? Me lo potevo mai figurare? Lassù, col rischio di rompersi il collo per una donnaccia come questa, Lei, un Cavaliere! Ma dice sul serio, Vostra Eccellenza?

Si volta alla moglie e, appioppandole un pugno in faccia:

– Ma come? – le grida, – lassù, lassù dovevi farlo nascondere? E non c’era un posto più pulito? Non hai visto, imbecille, che ho cercato dappertutto tranne che nello stipo a muro, dietro la cortina? Sù, piglia una spazzola per il signor Cavaliere! Abbia la bontà, Vostra Eccellenza; per cinque minuti, dentro a quello stipo!

Sente come gridano giù per istrada? Si hanno certi obblighi, Eccellenza, creda pure. Non si vorrebbero avere, ma si hanno. Cinque minuti soli: abbia la bontà; li mando via.

E, condotto il Cavaliere entro lo stipo a muro, va a spalancare la finestra sul vicolo, per gridare alla folla accorsa:

– Non c’è nessuno! Apro la porta... Chi vuol salire salga; se volete accertarvene. Ma non c’è nessuno!

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Fuga da Alcatraz

Post n°386 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,sono certo che ci vorrà del tempo prima che Cleopatra Martellacci,moglie del nostro ispettore Cuccurullo,dimentichi ciò che ha passato ieri a causa di Mitsubashi,scoiattolo giapponese di proprietà del figlio Asmodeo.
Ma facciamo un passo indietro.
Da tempo l'angelica creatura metteva in croce i genitori per avere un animale domestico.Il mese scorso suo padre,in occasione del compleanno,lo ha accontentato regalandogli il grazioso Mitsubashi,che presto si è guadagnato la simpatia di tutti.
Non potevano certo immaginare che quello li considerava biechi carcerieri e che vedeva casa loro come una tetra prigione da cui fuggire appena possibile!
Ieri mattina,l'occasione che aspettava si è presentata:Asmodeo ha lasciato lo sportello della gabbia socchiuso e a lui è bastato un impercettibile colpetto di testa per riacquistare la libertà.
L'avrebbe fatta franca se non fosse stato per la Cleopatra.
La Cuccurullo tornata dal fare la spesa e passando in soggiorno,ha visto Mitsubashi ritto sul tetto della gabbia.Lì per lì ha pensato a un'allucinazione,ma le allucinazioni non squittiscono.
Lasciate cadere per terra borse e borsettine,la Cleopatra si è lanciata verso il roditore,con l'intenzione di rinetterlo in gabbia.Ovviamente lui non la pensava allo stesso modo e si è dato alla fuga,infilandosi sotto una poltrona.
Non potendo usare la scopa,Cleopatra ha rovesciato la poltrona,per scoprire Mitsubashi che saltabeccava allegro da una molla all'altra.Alla sa vista quello,emettendo uno squittio derisorio,se l'è data,infilandosi sotto la stufa (per fortuna spenta in questa stagione)
La Cleopatra,trascinata dallo slancio,ha battuto una craniata tremenda contro la stufa,svenendo.
Quando ha ripreso i sensi,lo scoiattolo stava tranquillamente facendo il giro della morte sui muri,divertendosi come un pazzo.
A questo punto la povera donna non ci ha visto più:impugnato lo spazzolone,ha cominciato a in seguire la bestia menando colpi a destra e a manca ,urlando. -Io ti ammazzooooooo!!!-
I vicini,pensando che fosse impazzita,molto saggiamente si sono fatti i fattacci loro.
Alla rabbia è subentrata la disperazione:sedutasi sul divano,la Cuccurullo ha cominciato a piangere come una vite tagliata.
E' stato allora che Mitsubashi si è fregato con le sue stesse zampe:incuriosito,si è andato a piazzare sotto il naso della Cleopatra.Quella,con uno slancio felino,l'ha acchiappato e schiaffato in gabbia,prima di cadere in stato catatonico.
Come ho detto,questo accadeva ieri.
La Cleopatra è ricoverata nella clinica Luminaris.
I nonni materni,pensando che Mitsubashi si sentisse solo,hanno regalato un altro scoiattolo giapponese ad Asmodeo.
Non oso pensare a quel che farà la Cleopatra quando lo saprà


 
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Lettera da sotto acqua (Qabbani)

Post n°385 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Se sei mio amico aiutami
a fuggire da te
Se sei il mio amore
liberami da questa situazione

Se avessi saputo che l'amore è così pericoloso
non mi sarei innamorata
Se avessi saputo che il mare è così profondo
non sarei mai andata a nuotare

Se avessi immaginato la fine
non avrei mai iniziato

Ho nostalgia di te
Insegnami a non averla

Insegnami come estirpare le radici di questo amore profondo

Insegnami come muore la lacrima sul viso
Insegnami come muore il cuore e a uccidere il desiderio di vederti

Se sei un profeta
liberami da questo incantesimo

 
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Libri dimenticati:Una tragedia americana

Post n°384 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Clyde Griffiths è figlio di un predicatore itinerante.
Non sopportando più quella vita ed avendo grandi ambizioni,lascia la famiglia e inizia a lavorare  prima come fattorino in un albergo,poi chiede aiuto al ricco fratello della madre e viene assunto nella sua fabbrica di camicie.
Indipendentemente dalla parentela,Clyde non solo riesce ad occupare una posizione di rilievo,ma ,grazie al suo carattere aperto,si inserisce benissimo nella cerchia di amici dei cugini.
In fabbrica conosce Roberta,con cui intreccia una relazione,ma allo stesso tempo la ricca e viziata Sondra si innamora di lui.
Clyde sta per fidanzarsi con lei e consolidare la sua posizione,quando Roberta gli comunica di essere incinta e di volere il bambino e lui.
Clyde la uccide,tentando di far passare la sua morte cme un tragico annegamento,ma viene scoperto,processato e condannato a morte.
Solo allora si renderà conto di quanto abbia sprecato la sua vita.
Dal libro è stato tratto un film "Un posto al sole",con Montgomery Clift,Shelley Winters e Liz Taylor

 
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Frase del giorno

Post n°383 pubblicato il 13 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni

 
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