Messaggi del 14/08/2011

Gianbabbeo

Post n°404 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

n campagna c'era una fattoria dove abitava un fattore con due figli, con tanto cervello che anche la metà sarebbe bastata. Volevano chiedere in sposa la figlia del re e avrebbero osato farlo perché lei aveva fatto sapere che avrebbe sposato chi sapeva tenere meglio una conversazione.
I due si prepararono per una settimana, il periodo più lungo concesso, ma per loro sufficiente perché avevano già un certa cultura il che tornò loro utile. Uno conosceva tutto il vocabolario latino e le ultime tre annate del giornale del paese che sapeva recitare da capo a fondo e viceversa, l'altro si era studiato tutti i regolamenti delle corporazioni d'arti e mestieri e aveva imparato tutto quello che deve sapere il decano di una corporazione, così pensava di potersi pronunciare sui problemi dello stato, e inoltre imparò anche a ricamare le bretelle, dato che era di gusti raffinati e molto abile.
«Io otterrò la figlia del re!» dicevano entrambi. Il padre dette a ognuno un bellissimo cavallo; l'esperto di vocabolario e di giornali lo ebbe nero come il carbone, quello che era saggio come un vecchio decano e che sapeva ricamare, bianco come il latte. Poi si unsero gli angoli della bocca con olio di fegato di merluzzo, in modo che scorressero meglio. Tutti i servitori erano andati in cortile per vederli montare a cavallo; in quel mentre sopraggiunse il terzo fratello; infatti erano in tre, ma il terzo nessuno lo teneva in considerazione perché non aveva la stessa cultura degli altri due e difatti lo chiamavano Gianbabbeo.
«Dove state andando vestiti così a festa?» chiese.
«A corte per conquistare con la conversazione la figlia del re. Non hai sentito quello che il banditore ha annunciato in tutto il paese?» e glielo raccontarono.
«Accidenti! Allora vengo anch'io!» esclamò Gianbabbeo, ma i fratelli risero di lui e se ne partirono.
«Padre, dammi un cavallo!» gridò Gianbabbeo. «Mi è venuta una gran voglia di sposarmi. Se mi vuole, bene, e se non mi vuole, la voglio io.»
«Quante storie!» disse il padre. «Non ti darò nessun cavallo. Tu non sei in grado di conversare; i tuoi fratelli sì che sono in gamba!»
«Se non posso avere un cavallo» concluse Gianbabbeo «mi prenderò il caprone, quello è mio e mi potrà certo portare.» E così montò sul caprone, lo spronò con i calcagni nei fianchi, e via di corsa per la strada maestra. Oh, come cavalcava!
«Arrivo!» gridava, e si mise a cantare a squarciagola.
I fratelli cavalcavano avanti a lui in silenzio; non dicevano una parola perché dovevano pensare a tutte le belle trovate che avrebbero avuto, per poter conversare con arguzia.
«Ehi, là!» gridò Gianbabbeo «arrivo anch'io! Guardate cosa ho trovato per strada!» e mostrò loro una cornacchia morta.
«Babbeo!» risposero i due «cosa vuoi farne?»
«Voglio donarla alla figlia del re!»
«Fai pure» dissero ridendo e ripresero a cavalcare.
«Ehi, voi, arrivo! Guardate cos'ho trovato adesso, non è una cosa che si trova tutti i giorni sulla strada maestra!...»
I fratelli si voltarono di nuovo per vedere che cos'era. «Babbeo!» dissero «è un vecchio zoccolo di legno a cui manca la punta! Anche questo è per la figlia del re?»
«Certo!» rispose Gianbabbeo; i fratelli risero e cavalcarono via distanziandolo di un bel po'.
«Ehi, eccomi qui!» gridò Gianbabbeo. «Oh, oh! va sempre meglio! Ehi, è una vera meraviglia!»
«Cos'hai trovato adesso?» chiesero i fratelli.
«Oh, una cosa incredibile!» disse Gianbabbeo «chissà come sarà contenta la figlia del re!»
«Ma» esclamarono i fratelli «è fango appena preso dal fosso!»
«Proprio così» rispose Gianbabbeo «e della migliore qualità, non si riesce neppure a tenerlo!» e si riempì la tasca.
I fratelli cavalcarono via, spronando il più possibile i cavalli, e giunsero un'ora prima di lui alla porta della città dove ricevettero un numero d'ordine, come tutti gli altri aspiranti man mano che arrivavano. Poi venivano messi in fila, sei alla volta, e stavano così stretti da non poter muovere le braccia; ma era meglio così perché altrimenti si sarebbero rotti le costole a gomitate soltanto perché uno si trovava davanti all'altro.
Tutti gli altri abitanti del paese si erano riuniti intorno al castello e si arrampicarono fino alle finestre per vedere la figlia del re accogliere gli aspiranti: appena uno si trovava nella sala, restava senza parole.
«Non vale niente!» diceva la figlia del re. «Via!»
Entrò il primo dei fratelli, quello che sapeva il vocabolario, ma lo aveva dimenticato stando in fila; inoltre il pavimento scricchiolava e il soffitto era tutto uno specchio, così lui si vedeva a testa in giù; e poi a ogni finestra si trovavano tre scrivani e un caposcrivano, che scrivevano tutto quello che veniva detto affinché venisse subito pubblicato sul giornale e venduto all'angolo per due soldi. Era terribile; e inoltre la stufa era così calda che il tubo era diventato tutto rosso.
«Fa così caldo qui dentro!» disse il pretendente.
«E perché mio padre deve arrostire i galletti oggi» rispose la figlia del re.
«Ah!» e si fermò; non si aspettava una simile conversazione e non seppe più che cosa dire, dato che voleva dire qualcosa di spiritoso. «Ah!»
«Non vale niente!» concluse la figlia del re. «Via!» e così quello dovette andarsene. Entrò poi suo fratello.
«Qui fa un caldo terribile!» disse.
«Sì, arrostiamo i galletti, oggi» rispose la figlia del re.
«Come? Cosa?» disse lui, e tutti gli scrivani registrarono: come? cosa?
«Non va bene!» esclamò la figlia del re. «Via!»
Poi entrò Gianbabbeo, ancora sul suo caprone. «Qui c'è un caldo da bruciare!» disse.
«E perché arrostiscono galletti!» spiegò la figlia del re.
«Benissimo!» esclamò Gianbabbeo «Possono arrostire anche la mia cornacchia?»
«Certo che possono» rispose la figlia del re «ma lei ha qualcosa in cui metterla? Noi non abbiamo né pentole, né padelle.»
«Ce l'ho!» disse Gianbabbeo. «Ecco qui una padella, col manico di stagno!» e tirò fuori il vecchio zoccolo e ci mise dentro la cornacchia.
«È un pranzo completo!» commentò la figlia del re. «Ma dove troveremo il sugo?»
«Ce l'ho in tasca» disse Gianbabbeo «ne ho tanto da poterne buttar via!» e intanto versò un po' di fango dalla tasca.
«Mi piaci!» esclamò la figlia del re. «Tu sì che sai rispondere. E sai anche parlare, quindi ti voglio come marito. Ma sai che ogni parola che diciamo e che abbiamo detto viene trascritta e uscirà sul giornale di domani? A ogni finestra siedono tre scrivani e un vecchio caposcrivano, e questo è il peggiore di tutti, perché non capisce niente!» Disse così per fargli paura. Tutti gli scrivani risero e macchiarono di inchiostro il pavimento.
«Ah, dunque sono loro i padroni!» esclamò Gianbabbeo. «Allora devo dare la parte migliore al capo!» e rovesciò la tasca e gli gettò del fango proprio in faccia.
«Ben fatto!» disse la figlia del re. «Io non ne sarei mai stata capace, ma imparerò presto!»
E così Gianbabbeo divenne re, ebbe una sposa e una corona e sedette sul trono. L'abbiamo appena saputo dal giornale del caposcrivano ma di quello è meglio non fidarsi.

 
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Sette in un colpo

Post n°403 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una mattina d'estate, un piccolo sarto sedeva al suo tavolo, davanti alla finestra, e cuciva. Giù per la strada veniva una contadina gridando: -Marmellata buona! Marmellata buona!-. Queste parole suonarono piacevoli all'orecchio del piccolo sarto; sporse la testolina dalla finestra e chiamò: -Quassù, brava donna! Qui spaccerete la vostra merce-. La donna salì e dovette aprire tutta la sua cesta. L'omino ispezionò bene ogni pentola, e infine comprò soltanto un quarto di libbra, cosicché‚ la donna se ne andò di pessimo umore e brontolando. -Che Dio benedica la mia marmellata- disse il piccolo sarto -e mi dia forza e vigore!- Prese del pane, ne tagliò un pezzo per il lungo e ci spalmò sopra la marmellata. -Deve avere un buon sapore- disse -ma prima di morderlo voglio finire il farsetto.- Mise il pane accanto a s‚, riprese a cucire e dalla gioia faceva punti sempre più lunghi. Nel frattempo l'odore della marmellata era salito su per la parete fino ad arrivare a un nugolo di mosche che si precipitarono giù. Ma il piccolo sarto ogni tanto si voltava a guardare il pane, e così scoprì le intruse. -Olà- esclamò -chi vi ha invitato?- e le cacciò via. Ma le mosche, che non capivano la lingua, non si lasciarono respingere e tornarono ancora più numerose. Il piccolo sarto perse la pazienza, prese un pezzo di stoffa dalla sua cassetta e: -Aspettate, ve la darò io!- e giù colpi. Quando la smise e contò, ben sette mosche gli giacevano davanti morte stecchite. -Sei così bravo?- disse ammirato fra s' e s'. -Deve saperlo tutta la città.- E in fretta e furia si tagliò una cintura, la cucì e vi ricamò sopra a grandi lettere: -Sette in un colpo!-. -macché‚ città!- proseguì -tutto il mondo lo deve sapere!- E il cuore gli balzava di gioia come un codino d'agnello. Poi si legò la cintura intorno alla vita e frugò per tutta la casa se non ci fosse nulla da portarsi via, poiché‚ voleva andarsene per il mondo. Ma in casa trovò solamente un vecchio formaggio e se lo cacciò in tasca. Davanti alla porta con un colpo di fortuna acchiappò un uccello che andò a tenere compagnia al formaggio. Poi prese la strada fra le gambe e salì su di un'alta montagna, e quando ne ebbe raggiunto la cima ecco là seduto un gran gigante. -Ehilà, camerata!- disse il piccolo sarto al gigante -te ne stai qui seduto a guardarti il mondo? Io pure mi sono incamminato per provare le mie forze. Hai voglia di venire con me?- Il gigante lo guardò e disse: -Tu, essere miserabile!-. -Proprio!- disse il piccolo sarto, si sbottonò la giacca e mostrò al gigante la cintura: -Qui puoi leggere che uomo sono-. Il gigante lesse. -Sette in un colpo!- pensò che si trattasse di uomini uccisi e incominciò ad avere un po' di rispetto per il piccolo sarto. Ma prima volle metterlo alla prova: prese in mano una pietra e la strinse fino a farne gocciolare fuori dell'acqua. -Adesso fallo tu- disse il gigante -se ne hai la forza.- -Tutto qui?- disse il piccolo sarto. -Lo so fare anch'io.- Mise la mano in tasca, tirò fuori il formaggio guasto e lo spremette tanto che ne sgorgò il succo. -E' ancor meglio, non è vero?- disse. Il gigante non sapeva che dire, e non poteva credere che quell'omino fosse capace di tanto. Raccolse allora una pietra e la gettò così in alto che si stentava a vederla. -Adesso, anatroccolo, fallo anche tu- disse al piccolo sarto. -Subito- rispose questi. -Il tuo tiro era buono, ma la pietra ha pure dovuto ricadere a terra; adesso te ne lancerò io una, che non tornerà.- Mise la mano in tasca, prese l'uccello e lo lanciò in aria. L'uccello, felice di essere libero, salì e volò via. -Ti piace il tiro, camerata?- domandò il sarto. -Lanciare, sai lanciare bene- disse il gigante -ma adesso vediamo se sei capace di portare qualche bel peso.- Lo condusse a una grossa quercia pesante, che giaceva al suolo abbattuta, e disse: -La porteremo insieme fuori dal bosco-. -Tu prendi il tronco in spalla- disse l'omino -io solleverò e porterò i rami e le fronde; è la parte più pesante.- Il gigante sollevò il tronco e se lo mise sulle spalle, mentre il sarto si sedette dietro su di un ramo, e il gigante dovette portare lui e l'intero albero. Il sarto là dietro era allegrissimo e fischiettava delle canzoncine, come se portare alberi fosse un gioco da ragazzi. Dopo aver trascinato tutto quel peso per un tratto di strada, il gigante non ne pot‚ più e disse: -Ascolta, devo lasciare cadere l'albero-. Il piccolo sarto saltò giù e afferrò l'albero con entrambe le braccia, come se l'avesse portato, e disse al gigante: -Sei così grosso e non sai portare un albero!-. Proseguirono insieme e, passando vicino a un ciliegio, il gigante afferrò la chioma dell'albero, dov'erano i frutti più maturi, e la diede al sarto, perché‚ mangiasse anche lui. Ma il piccolo sarto era troppo debole per resistere alla forza dell'albero e fu scagliato in aria. -Come mai, non hai la forza di tenere quella bacchettina?- domandò il gigante. Ed egli rispose: -Credi che sia un gran che per uno che ne ha colpiti sette in una volta? Sai perché‚ l'ho fatto? Perché‚ qua sotto i cacciatori sparano nella macchia. Fallo anche tu se ne sei capace-. Il gigante provò, ma non riuscì a saltare oltre l'albero poiché‚ finiva sempre tra i rami e vi si impigliava; così anche questa volta il piccolo sarto ebbe il sopravvento. Il gigante disse: -Vieni nella nostra caverna e pernotta da noi-. Il piccolo sarto lo seguì di buona voglia. Il gigante gli diede allora un letto dove poteva riposarsi. Il piccolo sarto però non si coricò, ma si rannicchiò in un angolo. A mezzanotte il gigante venne con una sbarra di ferro, con un colpo sfondò il letto e pensò: "Finalmente è finita con quella cavalletta, così non si farà più vedere". Il giorno dopo i giganti andarono nel bosco e avevano completamente dimenticato il piccolo sarto, che credevano morto, quand'eccolo arrivare tutto allegro e baldanzoso. I giganti, sbigottiti, ebbero paura di essere tutti uccisi e fuggirono a precipizio. Il piccolo sarto proseguì per la sua strada, sempre dietro la punta del suo naso, fino a quando giunse nel cortile di una reggia, e siccome era stanco si sdraiò nell'erba e si addormentò. Mentre dormiva giunse della gente del re, l'osservarono da ogni parte e lessero sulla cintura: -Sette in un colpo!-. -Ah- dissero -cosa vorrà questo gran guerriero, qui, in tempo di pace? Dev'essere certamente un potente signore.- Avvertirono il re e gli dissero: -In caso di guerra sarebbe un uomo utile e importante; non dovete lasciarvelo scappare!-. Al re piacque il consiglio e inviò al piccolo sarto uno dei suoi uomini che appena egli si fosse svegliato, doveva offrirgli di entrare al suo servizio. Il sarto accettò e disse: -Sono venuto proprio per questo, per servire il re- Così fu ricevuto con grandi onori, e gli venne assegnato un alloggio particolare. Ma i guerrieri gli erano ostili e si auguravano che andasse all'inferno. -Come andrà a finire?- dicevano fra loro. -Se attacchiamo lite e lui mena botte, ne cadono sette a ogni colpo. Noialtri non possiamo fargli fronte!- Si risolsero quindi ad andare tutti insieme dal re, lo pregarono di congedarli e dissero: -Non siamo fatti per resistere a un uomo così forte-. Il re era spiacente di dover perdere tutti i suoi servi a causa di uno solo, se ne sarebbe sbarazzato volentieri e rimpiangeva il momento in cui l'aveva incontrato. Ma non osava congedarlo, perché‚ temeva ch'egli l'uccidesse con tutto il suo popolo e occupasse il trono. Meditò a lungo e alla fine ebbe un'idea: mandò a dire al piccolo sarto che, siccome egli era un così grande eroe, voleva fargli una proposta. In un bosco del suo regno c'erano due giganti che facevano gran danno con rapine, assassinii, incendi; nessuno poteva avvicinarli anche se armato. Se egli li avesse uccisi, gli avrebbe dato sua figlia in sposa e metà del regno per dote; inoltre cento cavalieri l'avrebbero accompagnato per dargli manforte. "Sarebbe un bel colpo per un uomo come te" pensò il piccolo sarto. "Una bella principessa e un mezzo regno non sono mica male!" -Oh, sì- rispose -i giganti li domerò e i cento cavalieri non mi occorrono: chi ne abbatte sette in un colpo non può temerne due.- Così si mise in cammino e, quando giunse al limitare della foresta disse ai cavalieri: -Rimanete fuori, con i giganti me la sbrigherò io- Entrò e guardò di qua e di là. Finalmente li trovò entrambi che dormivano sotto un albero e russavano tanto da far oscillare i rami. -Il gioco è fatto!- disse il piccolo sarto; si riempì le tasche di pietre e salì sull'albero. Poi incominciò a gettare una pietra dopo l'altra sul petto di uno dei due giganti, fino a quando questi si svegliò stizzito, urtò il compagno e disse: -Ehi, perché‚ mi batti?-. -Tu sogni- rispose l'altro -non ti batto affatto.- Stavano di nuovo per addormentarsi, quando il piccolo sarto gettò al secondo una pietra sul petto; quello saltò su e disse: -Cosa hai intenzione di fare, cosa mi getti?-. -Non ti getto proprio nulla- disse il primo. Litigarono per un po' ma, siccome erano stanchi, lasciarono stare e chiusero di nuovo gli occhi. Allora il piccolo sarto ricominciò il suo gioco, scelse la pietra più grossa, e la gettò con tutte le sue forze sul petto del primo gigante che gridò: -Questo è troppo!-, saltò su come un pazzo e picchiò il compagno. All'altro non andò a genio e lo ripagò di ugual moneta; allora si infuriarono tanto che divelsero gli alberi, e si azzuffarono finché‚ caddero morti. -Meno male- disse il piccolo sarto -che non hanno divelto l'albero su cui stavo, sennò avrei fatto un brutto salto!- Scese poi allegro dall'albero, sfoderò la spada e, in tutta tranquillità, affibbiò loro qualche bel fendente nel petto, poi andò dai cavalieri. -Là giacciono i due giganti- disse. -Ho fatto loro la festa, ma ci voleva proprio uno che ne abbatte sette in un colpo, perché‚, messi alle strette, hanno ancora divelto degli alberi!- -Siete ferito, per caso?- domandarono i cavalieri. -Ci vuol pratica- rispose il piccolo sarto -ma non mi hanno torto un capello.- I cavalieri non volevano credergli e s'inoltrarono nella foresta: trovarono i giganti immersi nel loro sangue, e intorno gli alberi divelti. Allora essi si meravigliarono ed ebbero ancora più paura del piccolo sarto perché‚ non dubitavano che li avrebbe uccisi tutti qualora gli fossero stati nemici. Ritornarono al castello e raccontarono tutto al re; poi giunse anche il piccolo sarto e disse: -Ora voglio la principessa e metà regno-. Ma il re si era pentito della sua promessa e pensava di nuovo a come togliersi dai piedi l'eroe, al quale non voleva affatto dare la figlia. Così gli disse che se la voleva sposare doveva prima catturare un unicorno che correva nella foresta arrecando danno a uomini e animali. Il piccolo sarto ne fu felice, prese una cordicella, andò nella foresta e ordinò alla scorta di aspettarlo fuori poiché‚ voleva catturare da solo l'unicorno. Penetrò poi nella foresta, e vagò qua e là in cerca dell'unicorno. Ben presto arrivò l'unicorno e si avventò dritto contro il sarto per infilzarlo. -Piano, piano!- diss'egli. Si fermò aspettando che l'animale gli fosse ben vicino, poi saltò rapidamente dietro un albero. L'unicorno correva tanto veloce che non ebbe il tempo di cambiare direzione, cosicché‚ si avventò contro l'albero e infisse il corno nel tronco così saldamente che, pur usando tutta la sua forza, non riuscì a ritrarlo e rimase imprigionato. Allora il piccolo sarto sbucò da dietro l'albero, gli mise la cordicella intorno al collo e lo condusse prima dai compagni e poi dal re, cui rammentò la promessa fattagli. Il re si impaurì, ma escogitò una nuova astuzia e gli disse che, prima che si tenessero le nozze, egli doveva catturargli un cinghiale che correva nella foresta; i cacciatori lo avrebbero aiutato. -Volentieri- disse il piccolo sarto -è la cosa meno difficile.- Così andò ancora una volta nella foresta lasciando fuori i cacciatori, ed essi ne furono ben contenti perché‚ il cinghiale li aveva già accolti spesso in modo da levare la voglia di dargli la caccia. Quando il cinghiale vide l'omino, gli si avventò contro con la schiuma alla bocca arrotando i denti, e voleva buttarlo a terra. Ma il piccolo sarto si trovava accanto a una cappella, vi balzò dentro e, agilmente, uscì subito dalla finestra. Il cinghiale lo aveva seguito, ma quando il piccolo sarto balzò fuori corse a chiudere la porta, e la bestia rimase imprigionata perché‚ non riusciva a saltare fino alla finestra. Egli chiamò allora i cacciatori affinché‚ vedessero la preda, e poi si recò dal re e disse: -Ho catturato il cinghiale e, con esso, anche la principessa-. E' facile immaginare se il re fosse contento o no della notizia; ma non sapeva più che cosa obiettare, dovette perciò mantenere la promessa e accordargli la figlia. Almeno credeva che egli fosse un eroe; se avesse saputo che non si trattava che di un piccolo sarto, gli avrebbe dato più volentieri una corda. Così le nozze furono celebrate con gran pompa e poca gioia, e di un sarto si fece un re. Dopo alcuni giorni, di notte, la giovane regina udì il piccolo sarto dire, sognando: -Garzone, fammi la giubba e rattoppami i calzoni, o ti darò il metro sulle orecchie-. Allora capì di dove sbucasse il suo signor sposo, e, il mattino dopo, si lamentò con il padre e lo pregò di aiutarla a liberarsi di quell'uomo che non era che un sarto. Il re la consolò e disse: -La notte prossima, lascia aperta la tua camera da letto; fuori ci saranno i miei servi e, quando sarà addormentato, entreranno e lo faranno prigioniero-. La donna ne fu contenta; ma l'armigero del re aveva sentito tutto e, siccome era affezionato al giovane signore e gli era fedele, corse da lui e gli raccontò tutto. Il piccolo sarto disse di buon animo: -Metterò riparo alla cosa-. La sera andò a letto con la moglie all'ora solita e fece finta di dormire; ella si alzò, aprì la porta e si rimise a letto. Allora il piccolo sarto incominciò a gridare con voce squillante: -Garzone, fammi la giubba e rattoppa i calzoni, o ti darò il metro sulle orecchie! Ne ho presi sette in un colpo, ho ucciso due giganti, catturato un unicorno e un cinghiale: e dovrei avere paura di quelli là fuori, davanti alla camera?-. Quando udirono queste parole, tutti fuggirono come se fossero stati rincorsi da mille diavoli, e nessuno osò avvicinarsi al sarto. Così egli era e rimase re per tutta la vita

 
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L'angelo

Post n°402 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati.”

Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi.

“Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?” chiese l’angelo.

Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano.

“Povera pianta,” disse il bambino, “prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!”

E l’angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po’ gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero.

“Adesso abbiamo i fiori!” disse il bambino, e l’angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c’era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c’era stato un trasloco; dappertutto c’erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte.

E l’angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c’era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato.

“Portiamolo con noi!“ disse l’angelo, “poi, mentre voliamo, ti racconterò perché.”

E così volarono e l’angelo raccontò:

“Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d’estate i raggi del sole arrivavano per una mezz’ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire: “Oggi il piccolo è uscito!”. Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n’era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l’ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l’abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale.”

“Ma come sai tutte queste cose?” domandò il bambino che l’angelo portava in cielo.

“Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!” spiegò l’angelo. “E conosco bene il mio fiore!”

Il bambino spalancò gli occhi e guardò il viso bello e felice dell’angelo; in quel momento giunsero in cielo, dove c’era gioia e beatitudine. Dio strinse al cuore il bambino morto e subito gli spuntarono le ali, come all’altro angelo, e insieme volarono via, tenendosi per mano. Dio strinse al cuore il mazzetto di fiori e baciò quel povero fiore di campo appassito, che subito ebbe voce e cantò con tutti gli angeli che volavano intorno a Dio; alcuni vicinissimi, altri in grandi cerchi intorno a Lui, e altri ancora molto più lontani, nell’infinito, ma tutti ugualmente felici. E tutti cantavano, piccoli e grandi, anche il bambino buono e benedetto e quel povero fiore di campo che era appassito e era stato gettato nella via stretta e buia, tra la spazzatura di un trasloco.

FINE

 



Confronti due lingue:
Confronti questo racconto in due lingue al lato di a vicenda.

 
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Le tre piume

Post n°401 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re che aveva tre figli: due erano intelligenti e avveduti, mentre il terzo parlava poco, era semplice, e lo chiamavano il Grullo. Quando il re diventò vecchio e pensò alla sua fine, non sapeva quale dei figli dovesse ereditare il regno dopo la sua morte. Allora disse loro: -Andate, colui che mi porterà il tappeto più sottile diventerà re dopo la mia morte-. E perché‚ non litigassero fra di loro, li condusse davanti al castello, soffiando fece volare in aria tre piume e disse: -Dovete seguire il loro volo-. Una piuma volò verso oriente, l'altra verso occidente, mentre la terza se ne volò diritto e non arrivò molto lontano, ma cadde a terra ben presto. Così un fratello andò a destra, l'altro se ne andò a sinistra; il Grullo invece fu deriso perché‚ dovette fermarsi là dov'era caduta la terza piuma. Il Grullo si mise a sedere tutto triste. D'un tratto scorse una botola accanto alla piuma. L'aprì e discese una scala venendosi a trovare davanti a un'altra porta; bussò e sentì gridare dall'interno:-Oh, Donzelletta verde e piccina dalla zampa secca, sparuta cagnolina, ehi proprio tu, stammi a sentire, chi c'è là fuori mi devi dire!-La porta si aprì ed egli vide un rospo grande e grosso, con tanti piccoli rospetti attorno. Il rospo grande gli domandò che cosa egli desiderasse. Rispose -Un tappeto che sia il più bello e il più sottile di tutti-. Allora il rospo chiamò uno dei suoi rospetti e disse:-Oh, Donzellettaverde e piccina dalla zampa secca, sparuta cagnolina, ehi proprio tu, stammi ad ascoltare, proprio la scatola mi devi portare!-La bestiola andò a prendere la scatola e il rospo grande l'aprì e diede al Grullo un tappeto, bello e sottile come nessun altro sulla terra. Il Grullo ringraziò e se ne tornò a casa. Gli altri due fratelli credevano che il minore fosse tanto sciocco che non sarebbe stato in grado di trovare nulla. -Perché‚ darsi la pena di cercare tanto!- dissero; tolsero alla prima pecoraia che incontrarono le rozze vesti e le portarono al re. In quella arrivò anche il Grullo con il suo bel tappeto, e quando il re lo vide si meravigliò e disse: -Il regno spetta al più giovane-. Ma gli altri due non gli diedero pace, dicendo che era impossibile che il Grullo diventasse re; e lo pregarono di porre un'altra condizione. Allora il padre disse: -Erediterà il regno colui che mi porterà l'anello più bello-. Condusse fuori i tre fratelli e soffiò in aria le piume che essi dovevano seguire. I due maggiori se ne andarono di nuovo verso oriente e verso occidente, mentre la piuma del Grullo volò dritta e cadde accanto alla botola. Egli scese di nuovo dal grosso rospo e gli disse che aveva bisogno dell'anello più bello del mondo. Il rospo si fece portare la scatola e gli diede un anello bellissimo, quale nessun orefice sulla terra avrebbe mai saputo fare. I due fratelli maggiori si fecero beffe del Grullo che andava in cerca di un anello d'oro, e non si diedero molta pena: schiodarono un anello da un vecchio timone e lo portarono al re. Ma quando questi vide lo splendido anello che aveva portato il Grullo, disse: -Il regno spetta a lui-. Ma i due maggiori tormentarono tanto il re finché egli pose una terza condizione e stabilì che avrebbe ottenuto il regno chi avesse portato a casa la donna più bella. Tornò a soffiare in aria le tre piume, che volarono come le altre volte. Allora il Grullo si recò per la terza volta dal rospo e disse: -Devo portare a casa la donna più bella-. -Accidenti!- rispose l'animale -la donna più bella! Sarai tu ad averla.- Gli diede una zucca cui erano attaccati sei topolini. "Che me ne faccio" pensò il Grullo tutto triste. Ma il rospo disse: -Adesso mettici dentro uno dei miei rospetti-. Egli ne prese uno a caso e lo mise nella zucca; ma non appena l'ebbe sfiorato, il rospo si tramutò in una bellissima fanciulla, la zucca divenne una carrozza e i sei topolini, sei cavalli. Salirono in carrozza, e il giovane baciò la fanciulla e la portò al re. Giunsero anche i fratelli, che avevano sottovalutato a tal punto il fratello da condurre con s‚ le prime contadine che avevano incontrato. Allora il re disse: -Dopo la mia morte il regno toccherà al minore-. Ma i due maggiori ricominciarono di nuovo a protestare dicendo di non poter ammettere che il Grullo diventasse re, e pretesero che avesse la preferenza quello la cui moglie era in grado di saltare attraverso un cerchio appeso in mezzo alla sala. Essi infatti pensavano: "Le contadine sono forti e ci riusciranno, la delicata fanciulla invece si ammazzerà saltando". Il re accordò anche questa prova. Le due contadine saltarono e riuscirono sì ad attraversare il cerchio, ma erano così sgraziate che caddero a terra spezzandosi braccia e gambe. Poi saltò la bella fanciulla che il Grullo aveva portato con s‚; saltò attraverso l'anello con agilità estrema e conquistò il regno. Alla morte del re, il Grullo ereditò così la corona e regnò a lungo con grande saggezza.

 
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Pollicina

Post n°400 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una donna non più giovanissima, che si sentiva tanto sola ed avrebbe voluto avere un bambino: andò da una strega del suo villaggio, che le diede un granello d'orzo, raccomandandole di seminarlo in un vaso e di curarlo.Alcuni giorni dopo sbocciò uno splendido fiore, simile ad un tulipano: i petalisi aprirono e ne uscì una bambina bellissima, piccola come un pollice.La donna le diede il nome di Pollicina. Per un po' di tempo Pollicina visse felice con la sua mamma umana. Una brutta notte entrò nella camera della donna, dove Pollicina dormiva in un guscio di noce, un brutto rospo femmina, che decise di rapire la ragazza per farne la moglie di suo figlio. L'indomani Pollicina si risvegliò e vide cosa le era successo. Saltò su una foglia e si lasciò trasportare dal fiume, lontano dai due rospi.Ad un tratto giunse ronzando sopra Pollicina un maggiolino, che la afferrò e laportò via dalla foglia, nel suo nido. Ma gli altri maggiolini iniziarono aderiderla, perché era diversa da loro. Pollicina se ne andò ed iniziò a vagare nella foresta. Visse tutta l'estate nella foresta, intrecciandosi le foglie per fare il letto, mangiando le bacche e bevendo la rugiada per dissetarsi. Ma poi arrivò l'inverno, cominciò a nevicare e Pollicina non trovò più niente da mangiare e da bere. Stremata, uscì dalla foresta ed andò a bussare da una famiglia di topi, che viveva vicino ad un fienile. La accolsero con affetto, e Pollicina poté lavorare per loro per pagarsi vitto ed alloggio. Il vicino di casa della famiglia dei topi era una talpa, che si innamorò di Pollicina ma preferì per il momento stare zitto ed aspettare che lei si accorgesse di lui. Nel frattempo Pollicina andava periodicamente a tenere in ordine anche la sua casa. Un giorno, fuori dalla casa dei Topi, trovò una rondine che sembrava morta. Pollicina la prese, la mise nel suo giaciglio, e cercò di scaldarla e di darle da mangiare.La rondine si riprese e ringraziò Pollicina. Per tutto l'inverno Pollicina e la rondine vissero fianco a fianco. Alla fine dell'inverno la moglie del Topo le annunciò che doveva cominciare a prepararsi la dote, perché avrebbe sposato la Talpa. Pollicina era disperata.Ritornò la primavera e la rondine ormai stava bene: Pollicina le confidò che non voleva sposarsi con la talpa. Il giorno della partenza, la rondine, che era ormai forte, prese Pollicina sulla sua schiena,e la portò lontano, verso il cielo più azzurro.Ad un tratto la rondine arrivò in un regno fantastico, dove c'erano palazzi sontuosi, splendidi giardini, vie trafficate, tutte all'altezza di Pollicina. C'era anche degli esseri, identici a lei in tutto e per tutto. C'era un principe in quel regno, bellissimo, che chiese a Pollicina se voleva sposarlo. Pollicina capì di aver trovato la sua gente, finalmente. Diventò la regina di quel regno e visse felice e contenta con il suo principe. La principessa sul pisello C'era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma doveva trattarsi di una principessa vera! Perciò si mise a viaggiare in lungo e in largo per il mondo, ma ogni volta non riusciva a decidersi: principesse ce n'erano un po' dappertutto, ma erano principesse vere? Non si riusciva mai a saperlo con sicurezza: ogni volta sembrava mancare qualche cosa. Alla fine decise di tornare a casa sua, ma era pieno di tristezza per non essere riuscito a trovare una principessa vera. Una notte che c'era un tempo orribile, con fulmini, tuoni, e acqua a catinelle, qualcuno bussò alle porte della città, e il vecchio re andò ad aprire. Fuori dalle mura c'era una principessa: Dio mio, la pioggia e il brutto tempo l'avevano conciata proprio bene! L'acqua le picchiava sui capelli e sui vestiti, entrava nelle scarpe dalle punte e ne usciva dai tacchi: eppure lei sosteneva di essere una vera principessa. "Questo si vedrà", pensò la vecchia regina, ma non disse nulla: andò in camera, tolse il materasso dal letto e mise sul fondo un pisello; poi prese venti materassi e li mise sul pisello, e sopra i materassi mise ancora venti grossi cuscini di piume. Quella sera la principessa dormì lì. La mattina dopo le chiesero come aveva dormito. "Malissimo!", si lamentò la fanciulla, "non ho praticamente chiuso occhio per tutta la notte! Chissà cosa c'era in quel letto! Ero coricata su qualcosa di duro e mi sono fatta un enorme livido blu e marrone. È stato terribile!" Così capirono che era una principessa vera, perché aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile! Così il principe la prese in sposa, convinto finalmente di avere incontrato una vera principessa, e il pisello andò a finire in un museo, dove, se nessuno è venuto a rubarlo, lo si può vedere ancora.

 

 
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Pelle d'asino

Post n°399 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re che aveva una moglie dai capelli d'oro e così bella che sulla terra non ce n'era un'altra come lei. Accadde un giorno che la regina si ammalò e, accorgendosi di morire, chiamò il re e gli disse:
- Mi devi promettere che, se riprenderai moglie, sposerai solo una donna che sia bella come me e che abbia i capelli d'oro come i miei.
Appena il re ebbe promesso, la bella regina chiuse gli occhi e spirò
Il re per molto tempo non riuscì a darsi pace e non pensò affatto a riprendere moglie, ma i suoi consiglieri alla fine gli dissero: 
- Non potete fare a meno, maestà, di riprendere moglie, poiché il popolo ha bisogno di una regina. 
Dopo di che furono mandati messaggeri per ogni dove, a cercare una sposa che fosse bella e bionda come la regina morta; ma la ricerca fu vana e i messaggeri ritornarono indietro mortificati senza essere riusciti a concludere nulla. Il re aveva una figlia che era bella come la madre e come lei aveva lunghi capelli d'oro. Quando ella crebbe, il re disse ai suoi consiglieri che avrebbe dato sua figlia in moglie al più anziano di loro e che dopo la sua morte ella sarebbe divenuta regina. Quando il più anziano lo seppe, ne fu felice: la figlia del re, invece, rimase spaventata dalla decisione del padre, e, sperando di riuscire a fargli cambiare idea, così disse: 
- Prima che io ubbidisca al tuo desiderio, mi devi far fare tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro argento come la luna e il terzo lucente come le stelle. Inoltre desidero un mantello composto da tante pelli quanti sono gli animali del regno, in modo che ognuno di essi vi sia rappresentato. 
La principessa pensava che fossero cose impossibili e che nel frattempo forse le sarebbe riuscito di smuovere il re dal suo proposito. Il re però non vi rinunciò e le donne più abili del suo regno dovettero tessere tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro d'argento come la luna e il terzo lucente come le stelle; i suoi cacciatori dovettero cacciare tutte le bestie del regno e prendere a ognuna un pezzo di pelle o di pelliccia. Alla fine, quando tutto fu pronto, il re mandò a prendere i tre abiti meravigliosi e il mantello, li stese davanti a sé e disse: 
- Domani si farà il matrimonio. 
Quando la principessa vide che non c'era speranza di smuovere il padre dalla sua decisione, stabilì di fuggire. Di notte, mentre tutti dormivano, si alzo, e dal suo tesoro scelse tre oggetti che le erano particolarmente cari: un anello d'oro, un piccolo fuso d'oro e un piccolo arcolaio pure d'oro; poi mise in un guscio di noce i tre vestiti color del sole, della luna e delle stelle, e, gettandosi addosso il mantello fatto coi mille pezzi di pelli, si annerì il viso e le mani con la fuliggine. Quindi, raccomandandosi a Dio, partì e viaggio tutta la notte. Non conosceva la strada e vagò a lungo senza meta. Cammina cammina, a un certo punto si trovò in una foresta piena di alberi e cespugli. C'era un tale intrico di rovi e di spine che la bimba non poté più proseguire: Inoltre era molto buio ed elle ormai si sentiva molto stanca; allora si fermò e scelse il cavo di un albero per passarvi la notte. Civette e strani uccelli notturni mandavano rauche strida. La fanciulla aveva paura, ma a un certo punto vinta dalla stanchezza, cadde in un sonno profondo. Al mattino il sole si levò e, mentre ella continuava a dormire, il re di un paese vicino attraversò la foresta, con tutto il suo seguito, per andare a caccia; inseguendo la selvaggina venne a trovarsi proprio dove la fanciulla s'era addormentata. Quando i suoi cani s'imbatterono in quell'albero, si misero ad abbaiare e a ringhiare così furiosamente da richiamare l'attenzione del re, il quale si rivolse ai suoi cacciatori dicendo: 
- Fate presto. Andate a vedere quale animale selvatico si nasconde là dentro e portatemelo qui subito.
I cacciatori ubbidirono e quando ritornarono dissero:
- Nel cavo di quell'albero abbiamo trovato un essere sorprendente di cui non abbiamo mai veduto l'uguale: la sua pelle è di mille colori, ed è li fermo, immerso in un sonno profondo. 
Il re disse:
- Cercate di prenderlo vivo e legatelo alla carrozza. 
Appena i cacciatori afferrarono la fanciulla, essa si svegliò atterrita e supplicò con voce tremante: 
- Sono una poveretta, abbandonata dal padre e senza madre, abbiate pietà di me e portatemi con voi!
- Vieni - le dissero allora e la condussero dal re. 
Questi guardò meravigliato quell'esserino sparito e tremante e l'affidò ai cacciatori, perché la ristorassero. Essi le diedero il soprannome di " Pelle d'asino", per via del suo strano e ispido mantello. Mossi a pietà dal suo pianto la portarono alla reggia, le diedero un sottoscala per dormire, dove non c'era nemmeno un finestrino da cui penetrasse un raggio di sole. Le dissero che doveva fare la sguattera in cucina. Suo compito era portare l'acqua e la legna per fare il fuoco, spennare i polli, pelare le patate, levare la cenere dalle stufe; insomma, doveva fare tutti i lavori più umili e faticosi. Per un certo tempo Pelle d'asino visse miseramente in questo modo, ma un giorno seppe che nella grande sala del castello davano una festa e chiese alla cuoca:
- Posso andare un momento a vedere? Mi metterò in un cantuccio fuori dalla porta e sbircerò per il buco della serratura...
La cuoca rispose:
- Vai pure, ma ritorna fra mezz'ora perché devi levare la cenere dalla stufa e lavare le stoviglie.
Pelle d'asino prese una lucerna, corse nel sottoscala, si levò il mantello di pelli e si lavo ben bene per togliere la fuliggine dal viso e dalle mani e pettinò i lunghi capelli biondi in modo che tutta la sua bellezza fosse visibile. Quindi apri il guscio di noce e ne tolse il vestito d'oro come il sole. Appena pronta, con il cuore che le batteva d'ansia e di gioia, entrò nella sala da ballo: tutti le fecero largo, pensando che fosse una principessa sconosciuta. Il re stesso venne da lei e, prendendole la mano, la fece ballare; pensava che mai aveva veduto una fanciulla così bionda, così bella e così gentile. Appena il ballo finì, la fanciulla fece un inchino e, prima che il re se ne rendesse conto, sparì. Essa era ritornata di corsa nel suo sottoscala e, levatosi presto presto lo splendido vestito, si era di nuovo tinta con la fuliggine il viso e le mani e aveva indossato il mantellaccio di mille pezzi, diventando di nuovo Pelle d'asino. Era appena giunta in cucina e si era messa a tagliere la cenere dalla stufa, quando la cuoca le disse: 
- Lasciala stare fino a domani: piuttosto prepara la cena al re in vece mia, mentre io vado di sopra a dare un'occhiata; ma bada bene di non lasciar cascare un capello nella minestra, perché il re andrebbe su tutte la furie.
Pelle d'asino cucinò la cena del re, preparando la minestra più buona che sapeva fare. Appena fu cotta, la fanciulla andò a prendere il suo anellino d'oro e ve lo buttò dentro. Quando la festa fu finita il re ordinò che gli servissero la cena, e, assaggiata la minestra, pensò che non aveva mai mangiato nulla di più buono in vita sua. L'aveva quasi finita quando vide un anello d'oro brillare nel piatto e, non riuscendo a capire come mai fosse lì, fece chiamare la cuoca. Quando la cuoca sentì che volevano ebbe paura e disse a Pelle d'asino:
- Sei sicura di non aver lasciato cadere un capello nella minestra?
Tremando, si presentò al re, che le chiese chi aveva cucinato la cena. La cuoca rispose con un filo di voce: 
- Sono stata io. 
- Non è vero, perché la minestra è migliore del solito. 
Allora la cuoca mormorò, facendosi rossa:
- Devo confessare che non sono stata io, ma Pelle d'asino: 
Il re fece chiamare Pelle d'asino e, quando la fanciulla fu alla sua presenza, le chiese:
- Chi sei?
- Io sono una povera fanciulla senza padre né madre, che tu hai accolta per pietà - rispose.
Il re domandò di nuovo: 
- Dove hai preso questo anello che ho trovato nella minestra e come mai possiedi un gioiello così prezioso?
Pelle d'asino rispose: 
- Non ne so niente. 
Il re minacciò di cacciarla via se non diceva la verità, ma Pelle d'asino ostinata ripeteva sempre le medesime parole: 
- Non ne so niente. 
- Torna in cucina - disse infine il re rassegnato. 
Pelle d'asino corse a rifugiarsi nel suo sgabuzzino. Passato un po' di tempo vi fu un altro ballo. Bellissime dame con abiti meravigliosi e splendide collane entrarono nei saloni del castello; ma il re non le guardava neppure e continuava a pensare alla fanciulla misteriosa che aveva incontrato durante il primo ballo. Intanto nella cucina c'era un momento di calma perché tutto quello che era necessario per la festa era già pronto. Allora Pelle d'asino chiese alla cuoca:
- Posso andare a vedere la festa?
- Va pure, Pelle d'asino, ma ritorna presto. Devi cucinare quella minestra che è piaciuta al re, perché io non so farla come te! - rispose la cuoca.
Pelle d'asino, tutta contenta, fece le scale di corsa ed entrò nel suo sgabuzzino. Si sfilò il mantellaccio rattoppato, si lavò e indosso il vestito argenteo come la luna. Si pettinò i bei capelli biondi che nella luce della sera erano ancora più splendenti del solito. Poi, in punta di piedi, sali in fretta le scale e si presentò nella sala da ballo. Quando entrò tutti tacquero all'istante e i paggi si inchinarono al suo passaggio. Le fanciulle la guardavano con invidia, mentre i giovani non si stancavano di rimirare la sua splendida bellezza. Il re stesso si alzò dal trono e le venne incontro. Felice di rivederla, la prese per mano e la invitò a danzare. Appena il ballo fu finito la fanciulla, ricordandosi della promessa fatta alla cuoca, s'allontanò in fretta. Il re e i cortigiani non fecero in tempo a seguirla, che ella era già in fondo alle scale. Entrata nello sgabuzzino si tolse l'abito d'argento e dopo esseri cambiata tornò in fretta in cucina a fare la minestra. Anche questa volta volle prepararla con gran cura. La cuoca intanto era andata di sopra e dal buco della serratura guardava quando accadeva nella sala da ballo. Pelle d'asino approfittò della sua assenza per andare a prendere il suo piccolo fuso d'oro e quindi lo mise nel piatto destinato al re. Quando il re mangiò la minestrina, la trovò ancora migliore della prima volta e di nuovo mandò a chiamare la cuoca. La donna entrò tremando nella sala del banchetto. 
- Chi ha fatto questa minestra ? - le chiese il re.
La cuoca non seppe più cosa rispondere e indietreggiò rossa e confusa in un angolo della stanza. 
- Vieni qui! - tuonò il re. - E parla ! 
La povera cuoca dovette confessare ancora una volta che la minestra l'aveva preparata Pelle d'asino. 
- Fatela venire subito alla mia presenza ! - intimò allora ai servi e questi corsero a chiamarla.
Giunta al cospetto del re, la fanciulla, disse di non sapere nulla del fuso d'oro e il re dovette rinunciare a capire da dove provenisse la fanciulla misteriosa. " Voglio dare ancora una festa da ballo e se questa volta la bella fanciulla fuggirà ancora, la farò ricercare in tutto il regno e la ritroverò a ogni costo " Si disse il re e, infatti, dopo pochi giorni ordinò che venissero fatti i preparativi per il più grande e importante ballo dell'anno. Pelle d'asino questa volta mise l'abito che luceva come le stelle e con quello entrò nella sala da ballo. Il re, che l'attendeva impaziente ballò di nuovo con lei e guardandola, pensava che non aveva mai visto una fanciulla così bionda, cosi bella, così gentile. Mentre ballavano, senza che la fanciulla se ne accorgesse, le infilò al dito un piccolo anello d'oro. Quando la danza finì il re cercò di trattenerla, ma ella si liberò dalla stretta e corse via così veloce, che scomparve in un baleno agli occhi di tutti né alcuno riuscì a trattenerla. Pelle d'asino nel frattempo s'era rifugiata nel sottoscala. Poiché era rimasta al ballo molto più a lungo della solita mezz'ora, non ebbe il tempo di levarsi il bel vestito e quindi cercò di nasconderlo infilandovi sopra il mantello di pelli; non riuscì neanche ad annerirsi bene il viso e le mani e nella fretta un dito rimase bianco. Corse quindi in cucina, preparò la minestra per il re e, mentre la cuoca era di sopra, vi mese dentro l'aspo d'oro. Più tardi, quando il re trovò il girello in fondo alla minestra, fece venire Pelle d'asino e vide che aveva un dito bianco... e al dito c'era l'anello che egli le aveva infilato mentre ballavano. La prese per mano e la tenne stretta, e quando ella cercò di liberarsi e di scappare, il mantello di pelli le scivolò e il vestito lucente come le stelle apparve nel suo splendore, mentre sulle spalle scendevano i bei capelli d'oro: Pelle d'asino, confusa e tremante, era davanti al re, in tutta la sua bellezza, ne poteva più nascondersi. Il re allora disse:
- Non temere, Pelle d'asino, tu sarai la mia cara sposa e noi non ci lasceremo mai più.
Si celebrarono le nozze e gli sposi vissero felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.

 
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La buon'anima (Pirandello)

Post n°398 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Fin dal primo giorno, Bartolino Fiorenzo s’era sentito dire dalla promessa sposa:

- Lina, veramente, ecco... Lina no, non è il mio nome. Carolina mi chiamo. La buon’anima mi volle chiamar Lina, e m’è rimasto così.

La buon’anima era Cosimo Taddei, il primo marito.

- Eccolo là!

Glielo aveva anche indicato, la promessa sposa, perché era ancor là, ridente e in atto di salutare col cappello (vivacissima istantanea fotografica ingrandita), nella parete di fronte al canapè, presso al quale Bartolino Fiorenzo stava seduto. E istintivamente a Bartolino era venuto di inchinar la testa per rispondere a quel saluto.
A Lina Sarulli, vedova Taddei, non era neanche passato per il capo di togliere quel ritratto dal salotto, il ritratto del padrone di casa. Era di Cosimo Taddei, infatti, la casa in cui ella abitava; lui, ingegnere, la aveva levata di pianta, lui poi cosi elegantemente arredata, per lasciargliela alla fine in eredità con l’intero patrimonio.
La Sarulli seguitò, senza notare affatto l’impaccio del promesso sposo:

- A me non piaceva cangiar nome. Ma la buon’anima allora mi disse: «E se invece di Carolina ti chiamassi cara Lina, non sarebbe meglio? Quasi lo stesso, ma tanto di più!» Va bene?

- Benissimo! sì sì benissimo! - rispose Bartolino Fiorenzo, come se la buon’anima avesse domandato a lui un parere.

- Dunque cara Lina, siamo intesi? - concluse la Sarulli, sorridendo.

E Bartolino Fiorenzo:

- Intesi... sì, sì... intesi... - balbettò, smarrito di confusione e di vergogna, pensando che il marito, intanto, guardava ridente dalla parete e lo salutava.

Quando - tre mesi dopo - i Fiorenzo, marito e moglie, accompagnati alla stazione dai parenti e dagli amici, partirono per il viaggio di nozze, diretti a Roma, Ortensia Motta, intima di casa Fiorenzo e anche amicissima della Sarulli, disse al marito, alludendo a Bartolino:

- Povero figliuolo, ha preso moglie? Io direi piuttosto che gli hanno dato marito!

Ma con ciò, si badi, la Motta non voleva mica dire che Lina Sarulli, prima Lina Taddei, ora Lina Fiorenzo, avesse più dell’uomo che della donna. No. Troppo donna, anzi, quella cara Lina! Fra i due, però, via! non si poteva mettere in dubbio che avesse molta più esperienza della vita e più giudizio lei che lui. Ah, lui - tondo biondo rubicondo - aveva l’aria d’un bamboccione; d’un bamboccione curioso, però: calvo, ma d’una calvizie che pareva finta, come se egli stesso si fosse rasa la sommità del capo per togliersi quell’aria infantile. E senza riuscirci, povero Bartolino!

- Ma che povero! Ma perché povero? - miagolò, con la voce nasina, stizzito, il Motta, vecchio marito della giovine Ortensia, il quale aveva combinato quel matrimonio e non voleva se ne dicesse male. - Bartolino non è mica uno sciocco. Valentissimo chimico...

- Ma sì! di prima forzai! – ghignò la moglie.

- Di primissima forza! – ribatté lui.

Valentissimo chimico, se avesse voluto mandare a stampa gli studii profondi nuovi d’indiscutibile originalità, che aveva fatto fin da giovinetto in quella scienza - passione finora unica esclusiva della sua vita - ma senza dubbio chi sa... al primo concorso, chi sa di qual primaria Università del regno sarebbe stato professore. Dotto, dotto. E ora come marito, sarebbe stato esemplare. Nella vita coniugale entrava puro, vergine di cuore.

- Ah per questo... - riconobbe la moglie, come se, quanto a quella verginità? fosse disposta a concedere anche di più.

Il fatto è che ella. prima che si fosse concluso quel matrimonio con la Sarulli ogni qual volta in casa Fiorenzo sentiva consigliare dal marito allo zio di Bartolino che bisognava «coniugare» questo ragazzo, scoppiava a ridere. Oh, certe risate ci faceva..

- Coniugarlo, si signora coniugarlo! - si voltava a dirle il marito irosamente.

E allora lei, frenandosi di scatto:

- Ma coniugatelo pure, cari miei! Io rido per me, rido di ciò che sto leggendo.

Difatti leggeva lei, mentre il Motta si faceva la solita partita a scacchi col signor Anselmo, zio di Bartolino; leggeva qualche romanzo francese alla vecchia signora Fiorenzo da sei mesi relegata in una poltrona dalla paralisi.
Oh, allegre veramente, quelle serate! Bartolino, tappato ermeticamente nel suo gabinetto di chimica; la vecchia zia, che fingeva di prestare ascolto alla lettura e non capiva più una saetta; quegli altri due vecchi intenti alla loro partita... Bisognava «coniugare» Bartolino per avere un po’ d’allegria in casa. Ed ecco, povero figliuolo, lo avevano coniugato davvero!
Intanto Ortensia pensava ai due sposini in viaggio, e rideva immaginandosi la Lina a tu per tu con quel giovanottone calvo, inesperto, vergine di cuore, come diceva il marito: Lina Sarulli ch’era stata quattr’anni in compagnia di quel caro ingegner Taddei, espertissimo, vivace, gioviale, e intraprendente... anche troppo!
Forse a quell’ora la vedova sposina aveva già notato la differenza tra i due.
Prima che il treno si scrollasse per partire, lo zio Anselmo aveva detto alla nuova nipote:

- Lina, ti raccomando Bartolino... Guidalo tu!

Intendeva dire, guidarlo per Roma, dove Bartolino non era mai stato.

Lei sì c’era stata, nel suo primo viaggio di nozze, con la buon’anima: e serbava memoria anche delle minime cose, dei più lieti incidenti che le erano occorsi; minutissima e lucidissima memoria, quasi che fossero passati, non sei anni, ma sei mesi, da allora.
Il viaggio con Bartolino durò un’eternità: le tendine non si poterono abbassare. Appena il treno s’arrestò alla stazione di Roma, Lina disse al marito:

- Ora lascia fare a me ti prego. Giù le valige!

E, al facchino che venne ad aprir loro lo sportello:

- Ecco: tre valige, due cappelliere, no, tre cappelliere, un porta-mantelli, un altro porta-mantelli, questo sacchetto, quest’altro sacchetto... che altro c’è? Niente, basta. Hotel Vittoria!

Uscendo dalla stazione, dopo ritirato il baule, riconobbe subito il conduttore dell’omnibus, e gli fe’ cenno. Come furono montati, disse al marito:

- Vedrai: albergo modesto, ma comodissimo; buon servizio, pulizia, prezzi modici, e centrale poi!

La buon’anima - senza volerlo, ella lo ricordava - se n’era trovato molto contento. Ora, anche Bartolino senza dubbio se ne sarebbe trovato contentone. Oh, benissimo figliuolo! Non fiatava neppure.

- Stordito, eh? - gli disse. - Anche a me ha fatto lo stesso effetto, la prima volta... Ma vedrai: Roma ti piacerà. Guarda, guarda... Piazza delle Terme... Terme di Diocleziano... Santa Maria degli Angeli... e quella là, voltati!, fino in fondo, Via Nazionale... magnifica, non è vero? Poi ci passeremo...

Scesi all’albergo, Lina si sentì come a casa sua. Avrebbe voluto che qualcuno la riconoscesse, come lei riconosceva quasi tutti: ecco, quel vecchio cameriere, per esempio... Pippo, sì; lo stesso di sei anni fa.

- Che camera?

Avevano assegnato loro la camera n. 12, al primo piano: bella camera, ampia, con alcova, ben messa. Ma Lina disse al vecchio cameriere:

- Pippo, e la camera al n. 19, al secondo piano? Vorreste vedere se fosse libera?

- Subito, - rispose il cameriere inchinandosi.

- Molto più comoda, - spiegò Lina al marito. - Ci dov’essere un piccolo vano accanto all’alcova... E poi più aria e meno frastuono. Staremmo molto meglio...

Ricordava che anche alla buon’anima era capitato lo stesso caso: gli avevano assegnato una camera al primo piano, e lui se l’era fatta cambiare.
Il cameriere, poco dopo, venne a dire che il n. 19 era libero e a loro disposizione, se lo preferivano.

- Ma sì; ma sì! - s’affrettò a dire Lina, lietissima, battendo le mani.

E, appena entrata, ebbe la gioia di riveder quella camera tal quale, con la stessa tappezzeria, gli stessi mobili nella stessa posizione... Bartolino restava estraneo a quella gioia.

- Non ti piace? - gli domandò Lina, spuntandosi il cappellino innanzi al noto specchio sul cassettone.

- Sì... va bene... - rispose egli.

- Oh, guarda! Me n’accorgo dallo specchio... Quel quadretto lì non c’era, allora... C’era un piatto giapponese... Si sarà rotto. Ma di’, non ti piace? No no no no no! Niente baci, per ora... col muso sporco... Tu ti laverai qua; io andrò di là nel mio bugigattolino... Addio!

E scappò via, felice, esultante.
Bartolino Fiorenzo si guardò attorno, un po’ mortificato; poi s’appressò all’alcova, ne sollevò il cortinaggio e vide il letto. Doveva esser lo stesso in cui la moglie per la prima volta aveva dormito con l’ingegner Taddei.
E da lontano, da un ritratto appeso alla parete del salotto nella casa della moglie, Bartolino si vide salutare.
Per tutto il tempo che durò il viaggio di nozze, non solamente poi si coricò in quello stesso letto, ma desinò e cenò anche negli stessi ristoranti, dove la buon’anima aveva condotto a desinare la moglie; andò in giro per Roma, seguendo come un cagnolino i passi della buon’anima che guidava nel ricordo la moglie; visitò le antichità e i musei e le gallerie e le chiese e i giardini, vedendo e osservando tutto ciò che la buon’anima aveva fatto vedere e osservare alla moglie.
Era timido, e non osava dimostrare in quei primi giorni l’avvilimento, la mortificazione, che cominciava a provare nel dover seguire così, in tutto e per tutto, l’esperienza, il consiglio, i gusti, le inclinazioni di quel primo marito.
Ma la moglie non lo faceva per male. Non se n’accorgeva, né poteva accorgersene.

A diciott’anni, priva d’ogni discernimento, d’ogni nozione della vita, era stata presa tutta da quell’uomo, e istruita e formata e fatta donna da lui; era insomma una creatura di Cosimo Taddei, doveva tutto, tutto a lui, e non pensava e non sentiva e non parlava e non si moveva se non a modo di lui.
E come mai, dunque, aveva ripreso marito? Ma perché Cosimo Taddei le aveva insegnato che alle sciagure le lagrime non son rimedio. La vita a chi resta, la morte a chi tocca. Se fosse morta lei, egli avrebbe certamente ripreso moglie; e dunque...
Dunque ora Bartolino doveva fare a modo di lei, cioè a modo di Cosimo Taddei, ch’era il loro maestro e la loro guida: non pensare a nulla, non affliggersi di nulla, ridere e divertirsi, poiché n’era tempo. Ella non lo faceva per male.
Sì, ma almeno, ecco... un bacio, una carezza, qualcosa infine che non fosse propriamente a modo di quell’altro... Niente, niente, niente di particolare doveva egli far sentire a quella donna? Niente di suo che la sottraesse anche per poco al dominio di quel morto?
Bartolino Fiorenzo cercava. cercava... Ma la timidezza gl’impediva d’escogitar carezze nuove.
Cioè, ne escogitava tra se e sè, anche di arditissime, ma poi, bastava che la moglie nel vederlo diventar rosso rosso gli domandasse:

- Che hai?

Addio, gli sbollivano tutte! Faceva un viso da scemo e le rispondeva:

- Che ho?

Di ritorno dal viaggio di nozze, furono turbati da una triste notizia inattesa: il Motta, l’autore del loro matrimonio, era morto improvvisamente.
Lina Fiorenzo, che alla morte del Taddei s’era trovata accanto Ortensia e n’aveva avuto conforto e cure da sorella, corse subito da lei, per curarla a sua volta.
Non credeva che questo compito pietoso dovesse riuscirle difficile: Ortensia, via, non doveva essere in fondo troppo afflitta di quella sciagura; buon uomo, sì, il povero Motta, ma seccantissimo, e molto più vecchio di lei.
Rimase però costernata nel ritrovare l’amica, dopo dieci giorni dalla disgrazia, addirittura inconsolabile. Suppose che il marito la avesse lasciata in tristi condizioni finanziarie. E arrischiò con garbo una domanda.

- No no! - s’affrettò a rispondere Ortensia, tra le lagrime. - Ma... capirai...

Che cosa? Tutta quella pena, sul serio? Non la capiva, Lina Fiorenzo. E volle confessarlo al marito.

- Eh! - fece Bartolino, stringendosi nelle spalle, rosso come un gambero di fronte a quella specie d’incoscienza della moglie pur tanto sapiente - In fin de’ conti... dico... le è morto il marito...

- Eh via, adesso! marito... - esclamò Lina. - Le poteva essere padre, a momenti!

- E ti par poco?

- Ma non era neanche padre, poi!

Lino aveva ragione. Ortensia piangeva troppo.
Nei tre mesi del fidanzamento di Bartolino, la Motta aveva notato che il povero giovine era rimasto molto turbato della facilità con cui la promessa sposa parlava innanzi a lui del primo marito; turbato, perché non riusciva a metter d’accordo la memoria viva, continua, persistente, ch’ella serbava di colui, col fatto che ora stesse per riprender marito. Ne avena discusso in casa con lo zio, e questi aveva cercato di rassicurarlo, dicendogli che era anzi una prova di franchezza - quella - da parte della sposa, di cui non avrebbe dovuto offendersi, perché appunto dal fatto che ella riprendeva marito doveva venirgli la certezza che la memoria di quell’uomo non aveva più radici nel cuore di lei, bensì nella mente soltanto, sicché dunque ella poteva parlarne senza scrupoli, anche dinanzi a lui. Bartolino non s’era affatto raffidato, dopo questo ragionamento. Ortensia lo sapeva bene. Ora poi ella aveva motivo di credere che il turbamento del giovine, per quella così detta franchezza della moglie, dopo il viaggio di nozze, doveva essere di molto cresciuto. Nel ricevere la visita di condoglianza dei due sposi, ella aveva voluto perciò mostrarsi, non tanto a Lina quanto a Bartolino, inconsolabile.
E Bartolino Fiorenzo rimase così simpaticamente impressionato di quel dolore della vedova, che per la prima volta osò contraddire alla moglie che a quel dolore non voleva credere. E le disse col volto in fiamme:

- Ma anche tu, scusa, non hai forse pianto quando t’è morto...

- Che c’entra! - lo interruppe Lina. - Prima di tutto la buon’anima era...

- Ancor giovane, sì – disse avanti Bartolino, per non farlo dire a lei.

- E poi, io, riprese ella - ho pianto, ho pianto, ho pianto, è vero...

- Non molto? - arrischiò Bartolino

- Molto, molto... ma, in fine mi son fatta una ragione, ecco! Credi pure, Bartolino; tutto quel pianto di Ortensia è troppo.

Bartolino non ci volle credere: Bartolino sentì anzi più aspra entro di sé, dopo questo discorso, la stizza, ma non tanto contro la moglie, quanto contro il defunto Taddei, perché comprendeva bene ormai che quel modo di ragionare, quel modo di sentire non eran proprii di lei, della moglie, ma frutto della scuola di quell’uomo, che doveva essere stato un gran cinico. Non si vedeva forse Bartolino, ogni giorno, entrando nel salotto, sorridere e salutare da colui?
Ah, quel ritratto lì, non poteva più soffrirlo! Era una persecuzione! Lo aveva sempre davanti agli occhi. Entrava nello studio? Ed ecco: l’immagine del Taddei gli rideva e lo salutava, come per dirgli:

- Passi! passi pure! Qui era anche il mio studio d’ingegnere, sa? Ora lei vi ha allogato il suo Gabinetto di chimica? Buon lavoro! La vita a chi resta, la morte a chi tocca!

Entrava nella camera da letto? Ed ecco, l’immagine del Taddei lo perseguitava anche lì. Rideva e lo salutava:

«Si serva! si serva pure! Buona notte! È contento di mia moglie? Ah, gliel’ho istruita bene... La vita a chi resta, la morte a chi tocca!»

Non ne poteva più! Tutta quella casa lì era piena di quell’uomo, come sua moglie. Ed egli, tanto pacifico prima, ora si trovava in preda a un continuo orgasmo, che pur si sforzava di dissimulare.
Alla fine cominciò a fare stranezze, per scuotere le abitudini della moglie.
Se non che, queste abitudini, Lina le aveva contratte da vedova. Cosimo Taddei, d’indole vivacissima, non aveva abitudini, non aveva voluto mai averne. Sicché dunque Bartolino, alle prime stranezze, si sentì rimproverare dalla moglie:

- Oh Dio Bartolino, come la buon’anima?

Ma non volle darsi per vinto. Sforzò violentemente la propria natura per farne di nuove. Qualunque cosa però facesse, pareva a Lina che la avesse fatta pure quell’altro, che ne aveva fatte veramente di tutti i colori.
Bartolino si avvilì; tanto più che Lina mostrava di riprender gusto a quelle scapataggini. Seguitando così, a lei doveva certo sembrare di rivivere proprio con la buon’anima.
E allora... allora Bartolino, per dare uno sfogo all’orgasmo crescente di giorno in giorno, concepì un tristo disegno.
Veramente, egli non intese tanto di tradir la moglie quanto di vendicarsi di quell’uomo che gliel’aveva presa tutta e se la teneva ancora. Credette che quest’idea cattiva fosse nata in lui spontaneamente; ma in verità bisogna dire in sua scusa che gli fu quasi suggerita, insinuata, infiltrata da colei che in vano da scapolo aveva più volte tentato con le sue arti di rimuoverlo dall’eccessivo studio della chimica.


Fu per Ortensia Motta una rivincita. Ella si mostrò dolentissima d’ingannar l’amica; ma fece intendere a Bartolino che lei, prima ancora che egli prendesse moglie... via! era quasi fatale!
Questa fatalità non apparve a Bartolino molto chiara; e però, da buon figliuolo, restò deluso, quasi frodato dalla facilità con cui era riuscito nel suo intento. Rimasto per un tratto solo, là nella camera del buon vecchio Motta, si pentì della sua cattiva azione. A un certo punto, gli occhi gli andarono per caso su qualcosa che luccicava su lo scendiletto, dalla parte d’Ortensia. Era un ciondolo d’oro, con una catenella, che doveva esserle scivolato dal collo. Lo raccolse, per restituirglielo; ma, aspettando, con le dita nervose, senza volerlo, gli venne fatto d’aprirlo.
Trasecolò.
Un ritrattino piccolo piccolo di Cosimo Taddei, anche lì.
Rideva e lo salutava.

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L'amore mio mi chiede (Qabbani)

Post n°397 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

L'amore mio mi chiede:
"Qual è la differenza tra me e il cielo?"
La differenza è che
se tu ridi, amore mio,
io mi dimentico il cielo.

 
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Ma che bella giornata!2

Post n°396 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Venerdì 17 ha fatto un'altra vittima,lettori miei!Dopo il Cornacchioni a fare le spese di questo giorno nefasto è stato il nuovo medico condotto,Bernardo Scaracchioni.
Chi non è superstizioso farà bene a ricredersi dopo aver letto questa cronaca
ORE 6.00- Lo Scaracchioni faceva colazione quando è squillato il telefono.Era la sua terribile zia Clotilde,scocciatrice professionale che per un'ora ha deliziato il nipote col racconto di come si è bruciata un dito con lo zucchero caramellato
ORE7.00-Scaracchioni è uscito per il suo giro di visite.Siccome era venerdì 17,la macchina l'ha mollato
ORE8.00- Scoprta la causa del guasto (aveva dimenticato di far benzina) e rimesso in moto il mezzo,Bernardo è andato dal suo primo paziente,Geppo,sofferente di sciatica.
Siccome era venerdì 17 tutti e 15 i pelosissimi,pulciosissimi e ringhiosissimi cani lo hanno usato come albero.
ORE 11.00- Bradamante Trogoloni era a lettocon una colica di fegato.
Siccome era venerdì 17,il toro Cesarone ,che come sapete è daltonico e scambia il nero col rosso,ha caricato l'auto dello Scaracchioni.
Il pover'uomo non sa ancora dire come sia rimasto illeso.
ORE12.00- L'uomo più anziano di S.Tobia,Melchiorre Scozzagalli,era a letto con l'indigestione,assistito amorevolmente dalla sua quarta moglie,una piacente cinquantenne di cui il vegliardo è follemente geloso.
Convinto che Bernardo facesse gli occhi dolci alla consorte,lo Scozzagalli voleva strangolarlo.
Per togliergli il poveraccio di sotto ci sono voluti gli sforzi congiunti moglie,tre figli due nuore e tre nipoti.
ORE13.00- Bernardo voleva mangiare,ma è squillato il telefono.Era la Clotilde,che lo ha ragguagliato dell'ultimo caso di corna condominiali
ORE14.30- I primi pazieti del giro pomeridiano erano i coniugi Lepracchioni,la coppia più litigiosa di S.Tobia.
Siccome era venerdì 17,il poveraccio ,tentando di metter pace,è stato buttato giù dalle scale.
ORE15.00- Asmodeo aveva la tonsillite e non voleva aprir bocca.
Alla fine l'ha aperta..per mordere a sangue la mano dello Scaracchioni.
ORE 16.30- Carolina Capriconri era a letto con gli orecchioni.Ai suoi piedi stava la gatta, che le è affezionata in modo morboso.
Convintissima che Bernardo volesse far del male alla sua signora e padrona,la gatta,soffiante e con gli artigli sguainati,è zompata addosso al disgraziato,decisissima a cavargli gli occhi.
Bernardo è stato salvato da Berengario,ma ci rimesso mezzo cuoio capelluto.
ORE 17.30-Evatisto Cornachcioni si è fatto male al ginocchio.
Poco pratico dei luoghi,Bernardo è passato dietro la canonica,dove Ireneo stava esercitandosi col kalashnikov.
La macchina è un colabrodo.
Anzichè scusarsi,il pretone l'ha coperto di insulti perchè,a suo dire,lo aveva deconcentrato.
ORE 18.30- Essendo venerdì 17,l'ultimo paziente era Be'erino,in piena ciucca.
Il nostro ha accusato Bernardo di essere l'amante dell'Amalasunta e voleva accoltellarlo.
Lo Scaracchioni si è salvato con una fuga precipitosa.
ORE19.30- Distrutto nel corpo e nell'anima,lo Scaracchioni non ha fatto in tempo a rientrare in casa che è squillato il telefono.Era la Clotilde.
In preda a un raptus,Bernardo ha sparato all'apparecchio
Tutto questo accadeva una settimana fa.
Lo Scaracchioni è ricoverato nella clinica Luminaris.Tre giorni fa ha tentato di uccidere a pappagallate la zia Clotilde.
La poveretta si sta ancora chiedendo perchè.


 
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Libri dimenticati: Una povera ragazza ricca

Post n°395 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Questa è la biografia della miliardaria Barbara Hutton,per anni animatrice del jet set internazionale.
Dietro la facciata scintillante c'è una donna profondamente infelice,condizionata dalla mancanza di affetto ( i gentori muoiono molto giovani,e lei si ritrova affidata al nonno materno,proprietario dei famosi magazzini Woolworth) e dal fatto che molto presto ella si rende conto di essere un'ereditiera  circondata da persone avide e vuote.
Da lì la girandola di matrimoni:il primo con il sedicente principe Mdivani ,inrealtà abile cacciatore di ereditiere:il secondo con il barone Reventlow,da cui avrà l'unico figlio Lance (destinato a morire giovanissimo),per il cui affidamento si scatenerà una battaglia senza esclusione di colpi; il terzo con Cary Grant,il quarto con Porfirio Rubirosa,celebre palyboy internazionale....Non parliamo degli ultimi tre,assai fallimentari.
Lentamente Barbara scivolerà sempre più in basso,finchè non morirà invalida e sola.
Un libro da leggere!

 
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Frase del giorno

Post n°394 pubblicato il 14 Agosto 2011 da odette.teresa1958

All'uomo intellettualmente dotato la solitudine offre due vantaggi:prima di tutto quello di essere con se stesso,e,in secondo luogo,quello di non essere con gli altri (Schopenhauer)

 
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