Il labirinto
blog diarioMessaggi del 14/08/2011
n campagna c'era una fattoria dove abitava un fattore con due figli, con tanto cervello che anche la metà sarebbe bastata. Volevano chiedere in sposa la figlia del re e avrebbero osato farlo perché lei aveva fatto sapere che avrebbe sposato chi sapeva tenere meglio una conversazione.
I due si prepararono per una settimana, il periodo più lungo concesso, ma per loro sufficiente perché avevano già un certa cultura il che tornò loro utile. Uno conosceva tutto il vocabolario latino e le ultime tre annate del giornale del paese che sapeva recitare da capo a fondo e viceversa, l'altro si era studiato tutti i regolamenti delle corporazioni d'arti e mestieri e aveva imparato tutto quello che deve sapere il decano di una corporazione, così pensava di potersi pronunciare sui problemi dello stato, e inoltre imparò anche a ricamare le bretelle, dato che era di gusti raffinati e molto abile.
«Io otterrò la figlia del re!» dicevano entrambi. Il padre dette a ognuno un bellissimo cavallo; l'esperto di vocabolario e di giornali lo ebbe nero come il carbone, quello che era saggio come un vecchio decano e che sapeva ricamare, bianco come il latte. Poi si unsero gli angoli della bocca con olio di fegato di merluzzo, in modo che scorressero meglio. Tutti i servitori erano andati in cortile per vederli montare a cavallo; in quel mentre sopraggiunse il terzo fratello; infatti erano in tre, ma il terzo nessuno lo teneva in considerazione perché non aveva la stessa cultura degli altri due e difatti lo chiamavano Gianbabbeo.
«Dove state andando vestiti così a festa?» chiese.
«A corte per conquistare con la conversazione la figlia del re. Non hai sentito quello che il banditore ha annunciato in tutto il paese?» e glielo raccontarono.
«Accidenti! Allora vengo anch'io!» esclamò Gianbabbeo, ma i fratelli risero di lui e se ne partirono.
«Padre, dammi un cavallo!» gridò Gianbabbeo. «Mi è venuta una gran voglia di sposarmi. Se mi vuole, bene, e se non mi vuole, la voglio io.»
«Quante storie!» disse il padre. «Non ti darò nessun cavallo. Tu non sei in grado di conversare; i tuoi fratelli sì che sono in gamba!»
«Se non posso avere un cavallo» concluse Gianbabbeo «mi prenderò il caprone, quello è mio e mi potrà certo portare.» E così montò sul caprone, lo spronò con i calcagni nei fianchi, e via di corsa per la strada maestra. Oh, come cavalcava!
«Arrivo!» gridava, e si mise a cantare a squarciagola.
I fratelli cavalcavano avanti a lui in silenzio; non dicevano una parola perché dovevano pensare a tutte le belle trovate che avrebbero avuto, per poter conversare con arguzia.
«Ehi, là!» gridò Gianbabbeo «arrivo anch'io! Guardate cosa ho trovato per strada!» e mostrò loro una cornacchia morta.
«Babbeo!» risposero i due «cosa vuoi farne?»
«Voglio donarla alla figlia del re!»
«Fai pure» dissero ridendo e ripresero a cavalcare.
«Ehi, voi, arrivo! Guardate cos'ho trovato adesso, non è una cosa che si trova tutti i giorni sulla strada maestra!...»
I fratelli si voltarono di nuovo per vedere che cos'era. «Babbeo!» dissero «è un vecchio zoccolo di legno a cui manca la punta! Anche questo è per la figlia del re?»
«Certo!» rispose Gianbabbeo; i fratelli risero e cavalcarono via distanziandolo di un bel po'.
«Ehi, eccomi qui!» gridò Gianbabbeo. «Oh, oh! va sempre meglio! Ehi, è una vera meraviglia!»
«Cos'hai trovato adesso?» chiesero i fratelli.
«Oh, una cosa incredibile!» disse Gianbabbeo «chissà come sarà contenta la figlia del re!»
«Ma» esclamarono i fratelli «è fango appena preso dal fosso!»
«Proprio così» rispose Gianbabbeo «e della migliore qualità, non si riesce neppure a tenerlo!» e si riempì la tasca.
I fratelli cavalcarono via, spronando il più possibile i cavalli, e giunsero un'ora prima di lui alla porta della città dove ricevettero un numero d'ordine, come tutti gli altri aspiranti man mano che arrivavano. Poi venivano messi in fila, sei alla volta, e stavano così stretti da non poter muovere le braccia; ma era meglio così perché altrimenti si sarebbero rotti le costole a gomitate soltanto perché uno si trovava davanti all'altro.
Tutti gli altri abitanti del paese si erano riuniti intorno al castello e si arrampicarono fino alle finestre per vedere la figlia del re accogliere gli aspiranti: appena uno si trovava nella sala, restava senza parole.
«Non vale niente!» diceva la figlia del re. «Via!»
Entrò il primo dei fratelli, quello che sapeva il vocabolario, ma lo aveva dimenticato stando in fila; inoltre il pavimento scricchiolava e il soffitto era tutto uno specchio, così lui si vedeva a testa in giù; e poi a ogni finestra si trovavano tre scrivani e un caposcrivano, che scrivevano tutto quello che veniva detto affinché venisse subito pubblicato sul giornale e venduto all'angolo per due soldi. Era terribile; e inoltre la stufa era così calda che il tubo era diventato tutto rosso.
«Fa così caldo qui dentro!» disse il pretendente.
«E perché mio padre deve arrostire i galletti oggi» rispose la figlia del re.
«Ah!» e si fermò; non si aspettava una simile conversazione e non seppe più che cosa dire, dato che voleva dire qualcosa di spiritoso. «Ah!»
«Non vale niente!» concluse la figlia del re. «Via!» e così quello dovette andarsene. Entrò poi suo fratello.
«Qui fa un caldo terribile!» disse.
«Sì, arrostiamo i galletti, oggi» rispose la figlia del re.
«Come? Cosa?» disse lui, e tutti gli scrivani registrarono: come? cosa?
«Non va bene!» esclamò la figlia del re. «Via!»
Poi entrò Gianbabbeo, ancora sul suo caprone. «Qui c'è un caldo da bruciare!» disse.
«E perché arrostiscono galletti!» spiegò la figlia del re.
«Benissimo!» esclamò Gianbabbeo «Possono arrostire anche la mia cornacchia?»
«Certo che possono» rispose la figlia del re «ma lei ha qualcosa in cui metterla? Noi non abbiamo né pentole, né padelle.»
«Ce l'ho!» disse Gianbabbeo. «Ecco qui una padella, col manico di stagno!» e tirò fuori il vecchio zoccolo e ci mise dentro la cornacchia.
«È un pranzo completo!» commentò la figlia del re. «Ma dove troveremo il sugo?»
«Ce l'ho in tasca» disse Gianbabbeo «ne ho tanto da poterne buttar via!» e intanto versò un po' di fango dalla tasca.
«Mi piaci!» esclamò la figlia del re. «Tu sì che sai rispondere. E sai anche parlare, quindi ti voglio come marito. Ma sai che ogni parola che diciamo e che abbiamo detto viene trascritta e uscirà sul giornale di domani? A ogni finestra siedono tre scrivani e un vecchio caposcrivano, e questo è il peggiore di tutti, perché non capisce niente!» Disse così per fargli paura. Tutti gli scrivani risero e macchiarono di inchiostro il pavimento.
«Ah, dunque sono loro i padroni!» esclamò Gianbabbeo. «Allora devo dare la parte migliore al capo!» e rovesciò la tasca e gli gettò del fango proprio in faccia.
«Ben fatto!» disse la figlia del re. «Io non ne sarei mai stata capace, ma imparerò presto!»
E così Gianbabbeo divenne re, ebbe una sposa e una corona e sedette sul trono. L'abbiamo appena saputo dal giornale del caposcrivano ma di quello è meglio non fidarsi.
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Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati.”
Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi.
“Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?” chiese l’angelo.
Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano.
“Povera pianta,” disse il bambino, “prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!”
E l’angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po’ gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero.
“Adesso abbiamo i fiori!” disse il bambino, e l’angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c’era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c’era stato un trasloco; dappertutto c’erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte.
E l’angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c’era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato.
“Portiamolo con noi!“ disse l’angelo, “poi, mentre voliamo, ti racconterò perché.”
E così volarono e l’angelo raccontò:
“Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d’estate i raggi del sole arrivavano per una mezz’ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire: “Oggi il piccolo è uscito!”. Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n’era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l’ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l’abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale.”
“Ma come sai tutte queste cose?” domandò il bambino che l’angelo portava in cielo.
“Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!” spiegò l’angelo. “E conosco bene il mio fiore!”
Il bambino spalancò gli occhi e guardò il viso bello e felice dell’angelo; in quel momento giunsero in cielo, dove c’era gioia e beatitudine. Dio strinse al cuore il bambino morto e subito gli spuntarono le ali, come all’altro angelo, e insieme volarono via, tenendosi per mano. Dio strinse al cuore il mazzetto di fiori e baciò quel povero fiore di campo appassito, che subito ebbe voce e cantò con tutti gli angeli che volavano intorno a Dio; alcuni vicinissimi, altri in grandi cerchi intorno a Lui, e altri ancora molto più lontani, nell’infinito, ma tutti ugualmente felici. E tutti cantavano, piccoli e grandi, anche il bambino buono e benedetto e quel povero fiore di campo che era appassito e era stato gettato nella via stretta e buia, tra la spazzatura di un trasloco.
Confronti due lingue:
Confronti questo racconto in due lingue al lato di a vicenda.
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C'era una volta una donna non più giovanissima, che si sentiva tanto sola ed avrebbe voluto avere un bambino: andò da una strega del suo villaggio, che le diede un granello d'orzo, raccomandandole di seminarlo in un vaso e di curarlo.Alcuni giorni dopo sbocciò uno splendido fiore, simile ad un tulipano: i petalisi aprirono e ne uscì una bambina bellissima, piccola come un pollice.La donna le diede il nome di Pollicina. Per un po' di tempo Pollicina visse felice con la sua mamma umana. Una brutta notte entrò nella camera della donna, dove Pollicina dormiva in un guscio di noce, un brutto rospo femmina, che decise di rapire la ragazza per farne la moglie di suo figlio. L'indomani Pollicina si risvegliò e vide cosa le era successo. Saltò su una foglia e si lasciò trasportare dal fiume, lontano dai due rospi.Ad un tratto giunse ronzando sopra Pollicina un maggiolino, che la afferrò e laportò via dalla foglia, nel suo nido. Ma gli altri maggiolini iniziarono aderiderla, perché era diversa da loro. Pollicina se ne andò ed iniziò a vagare nella foresta. Visse tutta l'estate nella foresta, intrecciandosi le foglie per fare il letto, mangiando le bacche e bevendo la rugiada per dissetarsi. Ma poi arrivò l'inverno, cominciò a nevicare e Pollicina non trovò più niente da mangiare e da bere. Stremata, uscì dalla foresta ed andò a bussare da una famiglia di topi, che viveva vicino ad un fienile. La accolsero con affetto, e Pollicina poté lavorare per loro per pagarsi vitto ed alloggio. Il vicino di casa della famiglia dei topi era una talpa, che si innamorò di Pollicina ma preferì per il momento stare zitto ed aspettare che lei si accorgesse di lui. Nel frattempo Pollicina andava periodicamente a tenere in ordine anche la sua casa. Un giorno, fuori dalla casa dei Topi, trovò una rondine che sembrava morta. Pollicina la prese, la mise nel suo giaciglio, e cercò di scaldarla e di darle da mangiare.La rondine si riprese e ringraziò Pollicina. Per tutto l'inverno Pollicina e la rondine vissero fianco a fianco. Alla fine dell'inverno la moglie del Topo le annunciò che doveva cominciare a prepararsi la dote, perché avrebbe sposato la Talpa. Pollicina era disperata.Ritornò la primavera e la rondine ormai stava bene: Pollicina le confidò che non voleva sposarsi con la talpa. Il giorno della partenza, la rondine, che era ormai forte, prese Pollicina sulla sua schiena,e la portò lontano, verso il cielo più azzurro.Ad un tratto la rondine arrivò in un regno fantastico, dove c'erano palazzi sontuosi, splendidi giardini, vie trafficate, tutte all'altezza di Pollicina. C'era anche degli esseri, identici a lei in tutto e per tutto. C'era un principe in quel regno, bellissimo, che chiese a Pollicina se voleva sposarlo. Pollicina capì di aver trovato la sua gente, finalmente. Diventò la regina di quel regno e visse felice e contenta con il suo principe. La principessa sul pisello C'era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma doveva trattarsi di una principessa vera! Perciò si mise a viaggiare in lungo e in largo per il mondo, ma ogni volta non riusciva a decidersi: principesse ce n'erano un po' dappertutto, ma erano principesse vere? Non si riusciva mai a saperlo con sicurezza: ogni volta sembrava mancare qualche cosa. Alla fine decise di tornare a casa sua, ma era pieno di tristezza per non essere riuscito a trovare una principessa vera. Una notte che c'era un tempo orribile, con fulmini, tuoni, e acqua a catinelle, qualcuno bussò alle porte della città, e il vecchio re andò ad aprire. Fuori dalle mura c'era una principessa: Dio mio, la pioggia e il brutto tempo l'avevano conciata proprio bene! L'acqua le picchiava sui capelli e sui vestiti, entrava nelle scarpe dalle punte e ne usciva dai tacchi: eppure lei sosteneva di essere una vera principessa. "Questo si vedrà", pensò la vecchia regina, ma non disse nulla: andò in camera, tolse il materasso dal letto e mise sul fondo un pisello; poi prese venti materassi e li mise sul pisello, e sopra i materassi mise ancora venti grossi cuscini di piume. Quella sera la principessa dormì lì. La mattina dopo le chiesero come aveva dormito. "Malissimo!", si lamentò la fanciulla, "non ho praticamente chiuso occhio per tutta la notte! Chissà cosa c'era in quel letto! Ero coricata su qualcosa di duro e mi sono fatta un enorme livido blu e marrone. È stato terribile!" Così capirono che era una principessa vera, perché aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile! Così il principe la prese in sposa, convinto finalmente di avere incontrato una vera principessa, e il pisello andò a finire in un museo, dove, se nessuno è venuto a rubarlo, lo si può vedere ancora.
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C'era una volta un re che aveva una moglie dai capelli d'oro e così bella che sulla terra non ce n'era un'altra come lei. Accadde un giorno che la regina si ammalò e, accorgendosi di morire, chiamò il re e gli disse:
- Mi devi promettere che, se riprenderai moglie, sposerai solo una donna che sia bella come me e che abbia i capelli d'oro come i miei.
Appena il re ebbe promesso, la bella regina chiuse gli occhi e spirò
Il re per molto tempo non riuscì a darsi pace e non pensò affatto a riprendere moglie, ma i suoi consiglieri alla fine gli dissero:
- Non potete fare a meno, maestà, di riprendere moglie, poiché il popolo ha bisogno di una regina.
Dopo di che furono mandati messaggeri per ogni dove, a cercare una sposa che fosse bella e bionda come la regina morta; ma la ricerca fu vana e i messaggeri ritornarono indietro mortificati senza essere riusciti a concludere nulla. Il re aveva una figlia che era bella come la madre e come lei aveva lunghi capelli d'oro. Quando ella crebbe, il re disse ai suoi consiglieri che avrebbe dato sua figlia in moglie al più anziano di loro e che dopo la sua morte ella sarebbe divenuta regina. Quando il più anziano lo seppe, ne fu felice: la figlia del re, invece, rimase spaventata dalla decisione del padre, e, sperando di riuscire a fargli cambiare idea, così disse:
- Prima che io ubbidisca al tuo desiderio, mi devi far fare tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro argento come la luna e il terzo lucente come le stelle. Inoltre desidero un mantello composto da tante pelli quanti sono gli animali del regno, in modo che ognuno di essi vi sia rappresentato.
La principessa pensava che fossero cose impossibili e che nel frattempo forse le sarebbe riuscito di smuovere il re dal suo proposito. Il re però non vi rinunciò e le donne più abili del suo regno dovettero tessere tre vestiti: uno d'oro come il sole, l'altro d'argento come la luna e il terzo lucente come le stelle; i suoi cacciatori dovettero cacciare tutte le bestie del regno e prendere a ognuna un pezzo di pelle o di pelliccia. Alla fine, quando tutto fu pronto, il re mandò a prendere i tre abiti meravigliosi e il mantello, li stese davanti a sé e disse:
- Domani si farà il matrimonio.
Quando la principessa vide che non c'era speranza di smuovere il padre dalla sua decisione, stabilì di fuggire. Di notte, mentre tutti dormivano, si alzo, e dal suo tesoro scelse tre oggetti che le erano particolarmente cari: un anello d'oro, un piccolo fuso d'oro e un piccolo arcolaio pure d'oro; poi mise in un guscio di noce i tre vestiti color del sole, della luna e delle stelle, e, gettandosi addosso il mantello fatto coi mille pezzi di pelli, si annerì il viso e le mani con la fuliggine. Quindi, raccomandandosi a Dio, partì e viaggio tutta la notte. Non conosceva la strada e vagò a lungo senza meta. Cammina cammina, a un certo punto si trovò in una foresta piena di alberi e cespugli. C'era un tale intrico di rovi e di spine che la bimba non poté più proseguire: Inoltre era molto buio ed elle ormai si sentiva molto stanca; allora si fermò e scelse il cavo di un albero per passarvi la notte. Civette e strani uccelli notturni mandavano rauche strida. La fanciulla aveva paura, ma a un certo punto vinta dalla stanchezza, cadde in un sonno profondo. Al mattino il sole si levò e, mentre ella continuava a dormire, il re di un paese vicino attraversò la foresta, con tutto il suo seguito, per andare a caccia; inseguendo la selvaggina venne a trovarsi proprio dove la fanciulla s'era addormentata. Quando i suoi cani s'imbatterono in quell'albero, si misero ad abbaiare e a ringhiare così furiosamente da richiamare l'attenzione del re, il quale si rivolse ai suoi cacciatori dicendo:
- Fate presto. Andate a vedere quale animale selvatico si nasconde là dentro e portatemelo qui subito.
I cacciatori ubbidirono e quando ritornarono dissero:
- Nel cavo di quell'albero abbiamo trovato un essere sorprendente di cui non abbiamo mai veduto l'uguale: la sua pelle è di mille colori, ed è li fermo, immerso in un sonno profondo.
Il re disse:
- Cercate di prenderlo vivo e legatelo alla carrozza.
Appena i cacciatori afferrarono la fanciulla, essa si svegliò atterrita e supplicò con voce tremante:
- Sono una poveretta, abbandonata dal padre e senza madre, abbiate pietà di me e portatemi con voi!
- Vieni - le dissero allora e la condussero dal re.
Questi guardò meravigliato quell'esserino sparito e tremante e l'affidò ai cacciatori, perché la ristorassero. Essi le diedero il soprannome di " Pelle d'asino", per via del suo strano e ispido mantello. Mossi a pietà dal suo pianto la portarono alla reggia, le diedero un sottoscala per dormire, dove non c'era nemmeno un finestrino da cui penetrasse un raggio di sole. Le dissero che doveva fare la sguattera in cucina. Suo compito era portare l'acqua e la legna per fare il fuoco, spennare i polli, pelare le patate, levare la cenere dalle stufe; insomma, doveva fare tutti i lavori più umili e faticosi. Per un certo tempo Pelle d'asino visse miseramente in questo modo, ma un giorno seppe che nella grande sala del castello davano una festa e chiese alla cuoca:
- Posso andare un momento a vedere? Mi metterò in un cantuccio fuori dalla porta e sbircerò per il buco della serratura...
La cuoca rispose:
- Vai pure, ma ritorna fra mezz'ora perché devi levare la cenere dalla stufa e lavare le stoviglie.
Pelle d'asino prese una lucerna, corse nel sottoscala, si levò il mantello di pelli e si lavo ben bene per togliere la fuliggine dal viso e dalle mani e pettinò i lunghi capelli biondi in modo che tutta la sua bellezza fosse visibile. Quindi apri il guscio di noce e ne tolse il vestito d'oro come il sole. Appena pronta, con il cuore che le batteva d'ansia e di gioia, entrò nella sala da ballo: tutti le fecero largo, pensando che fosse una principessa sconosciuta. Il re stesso venne da lei e, prendendole la mano, la fece ballare; pensava che mai aveva veduto una fanciulla così bionda, così bella e così gentile. Appena il ballo finì, la fanciulla fece un inchino e, prima che il re se ne rendesse conto, sparì. Essa era ritornata di corsa nel suo sottoscala e, levatosi presto presto lo splendido vestito, si era di nuovo tinta con la fuliggine il viso e le mani e aveva indossato il mantellaccio di mille pezzi, diventando di nuovo Pelle d'asino. Era appena giunta in cucina e si era messa a tagliere la cenere dalla stufa, quando la cuoca le disse:
- Lasciala stare fino a domani: piuttosto prepara la cena al re in vece mia, mentre io vado di sopra a dare un'occhiata; ma bada bene di non lasciar cascare un capello nella minestra, perché il re andrebbe su tutte la furie.
Pelle d'asino cucinò la cena del re, preparando la minestra più buona che sapeva fare. Appena fu cotta, la fanciulla andò a prendere il suo anellino d'oro e ve lo buttò dentro. Quando la festa fu finita il re ordinò che gli servissero la cena, e, assaggiata la minestra, pensò che non aveva mai mangiato nulla di più buono in vita sua. L'aveva quasi finita quando vide un anello d'oro brillare nel piatto e, non riuscendo a capire come mai fosse lì, fece chiamare la cuoca. Quando la cuoca sentì che volevano ebbe paura e disse a Pelle d'asino:
- Sei sicura di non aver lasciato cadere un capello nella minestra?
Tremando, si presentò al re, che le chiese chi aveva cucinato la cena. La cuoca rispose con un filo di voce:
- Sono stata io.
- Non è vero, perché la minestra è migliore del solito.
Allora la cuoca mormorò, facendosi rossa:
- Devo confessare che non sono stata io, ma Pelle d'asino:
Il re fece chiamare Pelle d'asino e, quando la fanciulla fu alla sua presenza, le chiese:
- Chi sei?
- Io sono una povera fanciulla senza padre né madre, che tu hai accolta per pietà - rispose.
Il re domandò di nuovo:
- Dove hai preso questo anello che ho trovato nella minestra e come mai possiedi un gioiello così prezioso?
Pelle d'asino rispose:
- Non ne so niente.
Il re minacciò di cacciarla via se non diceva la verità, ma Pelle d'asino ostinata ripeteva sempre le medesime parole:
- Non ne so niente.
- Torna in cucina - disse infine il re rassegnato.
Pelle d'asino corse a rifugiarsi nel suo sgabuzzino. Passato un po' di tempo vi fu un altro ballo. Bellissime dame con abiti meravigliosi e splendide collane entrarono nei saloni del castello; ma il re non le guardava neppure e continuava a pensare alla fanciulla misteriosa che aveva incontrato durante il primo ballo. Intanto nella cucina c'era un momento di calma perché tutto quello che era necessario per la festa era già pronto. Allora Pelle d'asino chiese alla cuoca:
- Posso andare a vedere la festa?
- Va pure, Pelle d'asino, ma ritorna presto. Devi cucinare quella minestra che è piaciuta al re, perché io non so farla come te! - rispose la cuoca.
Pelle d'asino, tutta contenta, fece le scale di corsa ed entrò nel suo sgabuzzino. Si sfilò il mantellaccio rattoppato, si lavò e indosso il vestito argenteo come la luna. Si pettinò i bei capelli biondi che nella luce della sera erano ancora più splendenti del solito. Poi, in punta di piedi, sali in fretta le scale e si presentò nella sala da ballo. Quando entrò tutti tacquero all'istante e i paggi si inchinarono al suo passaggio. Le fanciulle la guardavano con invidia, mentre i giovani non si stancavano di rimirare la sua splendida bellezza. Il re stesso si alzò dal trono e le venne incontro. Felice di rivederla, la prese per mano e la invitò a danzare. Appena il ballo fu finito la fanciulla, ricordandosi della promessa fatta alla cuoca, s'allontanò in fretta. Il re e i cortigiani non fecero in tempo a seguirla, che ella era già in fondo alle scale. Entrata nello sgabuzzino si tolse l'abito d'argento e dopo esseri cambiata tornò in fretta in cucina a fare la minestra. Anche questa volta volle prepararla con gran cura. La cuoca intanto era andata di sopra e dal buco della serratura guardava quando accadeva nella sala da ballo. Pelle d'asino approfittò della sua assenza per andare a prendere il suo piccolo fuso d'oro e quindi lo mise nel piatto destinato al re. Quando il re mangiò la minestrina, la trovò ancora migliore della prima volta e di nuovo mandò a chiamare la cuoca. La donna entrò tremando nella sala del banchetto.
- Chi ha fatto questa minestra ? - le chiese il re.
La cuoca non seppe più cosa rispondere e indietreggiò rossa e confusa in un angolo della stanza.
- Vieni qui! - tuonò il re. - E parla !
La povera cuoca dovette confessare ancora una volta che la minestra l'aveva preparata Pelle d'asino.
- Fatela venire subito alla mia presenza ! - intimò allora ai servi e questi corsero a chiamarla.
Giunta al cospetto del re, la fanciulla, disse di non sapere nulla del fuso d'oro e il re dovette rinunciare a capire da dove provenisse la fanciulla misteriosa. " Voglio dare ancora una festa da ballo e se questa volta la bella fanciulla fuggirà ancora, la farò ricercare in tutto il regno e la ritroverò a ogni costo " Si disse il re e, infatti, dopo pochi giorni ordinò che venissero fatti i preparativi per il più grande e importante ballo dell'anno. Pelle d'asino questa volta mise l'abito che luceva come le stelle e con quello entrò nella sala da ballo. Il re, che l'attendeva impaziente ballò di nuovo con lei e guardandola, pensava che non aveva mai visto una fanciulla così bionda, cosi bella, così gentile. Mentre ballavano, senza che la fanciulla se ne accorgesse, le infilò al dito un piccolo anello d'oro. Quando la danza finì il re cercò di trattenerla, ma ella si liberò dalla stretta e corse via così veloce, che scomparve in un baleno agli occhi di tutti né alcuno riuscì a trattenerla. Pelle d'asino nel frattempo s'era rifugiata nel sottoscala. Poiché era rimasta al ballo molto più a lungo della solita mezz'ora, non ebbe il tempo di levarsi il bel vestito e quindi cercò di nasconderlo infilandovi sopra il mantello di pelli; non riuscì neanche ad annerirsi bene il viso e le mani e nella fretta un dito rimase bianco. Corse quindi in cucina, preparò la minestra per il re e, mentre la cuoca era di sopra, vi mese dentro l'aspo d'oro. Più tardi, quando il re trovò il girello in fondo alla minestra, fece venire Pelle d'asino e vide che aveva un dito bianco... e al dito c'era l'anello che egli le aveva infilato mentre ballavano. La prese per mano e la tenne stretta, e quando ella cercò di liberarsi e di scappare, il mantello di pelli le scivolò e il vestito lucente come le stelle apparve nel suo splendore, mentre sulle spalle scendevano i bei capelli d'oro: Pelle d'asino, confusa e tremante, era davanti al re, in tutta la sua bellezza, ne poteva più nascondersi. Il re allora disse:
- Non temere, Pelle d'asino, tu sarai la mia cara sposa e noi non ci lasceremo mai più.
Si celebrarono le nozze e gli sposi vissero felici e contenti fino alla fine dei loro giorni.
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"Qual è la differenza tra me e il cielo?"
La differenza è che
se tu ridi, amore mio,
io mi dimentico il cielo.
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Chi non è superstizioso farà bene a ricredersi dopo aver letto questa cronaca
ORE 6.00- Lo Scaracchioni faceva colazione quando è squillato il telefono.Era la sua terribile zia Clotilde,scocciatrice professionale che per un'ora ha deliziato il nipote col racconto di come si è bruciata un dito con lo zucchero caramellato
ORE7.00-Scaracchioni è uscito per il suo giro di visite.Siccome era venerdì 17,la macchina l'ha mollato
ORE8.00- Scoprta la causa del guasto (aveva dimenticato di far benzina) e rimesso in moto il mezzo,Bernardo è andato dal suo primo paziente,Geppo,sofferente di sciatica.
Siccome era venerdì 17 tutti e 15 i pelosissimi,pulciosissimi e ringhiosissimi cani lo hanno usato come albero.
ORE 11.00- Bradamante Trogoloni era a lettocon una colica di fegato.
Siccome era venerdì 17,il toro Cesarone ,che come sapete è daltonico e scambia il nero col rosso,ha caricato l'auto dello Scaracchioni.
Il pover'uomo non sa ancora dire come sia rimasto illeso.
ORE12.00- L'uomo più anziano di S.Tobia,Melchiorre Scozzagalli,era a letto con l'indigestione,assistito amorevolmente dalla sua quarta moglie,una piacente cinquantenne di cui il vegliardo è follemente geloso.
Convinto che Bernardo facesse gli occhi dolci alla consorte,lo Scozzagalli voleva strangolarlo.
Per togliergli il poveraccio di sotto ci sono voluti gli sforzi congiunti moglie,tre figli due nuore e tre nipoti.
ORE13.00- Bernardo voleva mangiare,ma è squillato il telefono.Era la Clotilde,che lo ha ragguagliato dell'ultimo caso di corna condominiali
ORE14.30- I primi pazieti del giro pomeridiano erano i coniugi Lepracchioni,la coppia più litigiosa di S.Tobia.
Siccome era venerdì 17,il poveraccio ,tentando di metter pace,è stato buttato giù dalle scale.
ORE15.00- Asmodeo aveva la tonsillite e non voleva aprir bocca.
Alla fine l'ha aperta..per mordere a sangue la mano dello Scaracchioni.
ORE 16.30- Carolina Capriconri era a letto con gli orecchioni.Ai suoi piedi stava la gatta, che le è affezionata in modo morboso.
Convintissima che Bernardo volesse far del male alla sua signora e padrona,la gatta,soffiante e con gli artigli sguainati,è zompata addosso al disgraziato,decisissima a cavargli gli occhi.
Bernardo è stato salvato da Berengario,ma ci rimesso mezzo cuoio capelluto.
ORE 17.30-Evatisto Cornachcioni si è fatto male al ginocchio.
Poco pratico dei luoghi,Bernardo è passato dietro la canonica,dove Ireneo stava esercitandosi col kalashnikov.
La macchina è un colabrodo.
Anzichè scusarsi,il pretone l'ha coperto di insulti perchè,a suo dire,lo aveva deconcentrato.
ORE 18.30- Essendo venerdì 17,l'ultimo paziente era Be'erino,in piena ciucca.
Il nostro ha accusato Bernardo di essere l'amante dell'Amalasunta e voleva accoltellarlo.
Lo Scaracchioni si è salvato con una fuga precipitosa.
ORE19.30- Distrutto nel corpo e nell'anima,lo Scaracchioni non ha fatto in tempo a rientrare in casa che è squillato il telefono.Era la Clotilde.
In preda a un raptus,Bernardo ha sparato all'apparecchio
Tutto questo accadeva una settimana fa.
Lo Scaracchioni è ricoverato nella clinica Luminaris.Tre giorni fa ha tentato di uccidere a pappagallate la zia Clotilde.
La poveretta si sta ancora chiedendo perchè.
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Questa è la biografia della miliardaria Barbara Hutton,per anni animatrice del jet set internazionale.
Dietro la facciata scintillante c'è una donna profondamente infelice,condizionata dalla mancanza di affetto ( i gentori muoiono molto giovani,e lei si ritrova affidata al nonno materno,proprietario dei famosi magazzini Woolworth) e dal fatto che molto presto ella si rende conto di essere un'ereditiera circondata da persone avide e vuote.
Da lì la girandola di matrimoni:il primo con il sedicente principe Mdivani ,inrealtà abile cacciatore di ereditiere:il secondo con il barone Reventlow,da cui avrà l'unico figlio Lance (destinato a morire giovanissimo),per il cui affidamento si scatenerà una battaglia senza esclusione di colpi; il terzo con Cary Grant,il quarto con Porfirio Rubirosa,celebre palyboy internazionale....Non parliamo degli ultimi tre,assai fallimentari.
Lentamente Barbara scivolerà sempre più in basso,finchè non morirà invalida e sola.
Un libro da leggere!
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All'uomo intellettualmente dotato la solitudine offre due vantaggi:prima di tutto quello di essere con se stesso,e,in secondo luogo,quello di non essere con gli altri (Schopenhauer)
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Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38