Messaggi del 15/08/2011

Il principe che sposò una rana

Post n°414 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re che aveva tre figli in età da prender moglie.
Perché non sorgessero rivalità sulla scelta delle tre spose, disse:
- Tirate con la fionda più lontano che potete: dove cadrà la pietra là prenderete moglie.
I tre figli presero le fionde e tirarono.
Il più grande tirò e la pietra arrivo sul tetto di un Forno ed egli ebbe la fornaia.
Il secondo tirò e la pietra arrivò alla casa di una tessitrice.
Al più piccino la pietra cascò in un fosso.
Appena tirato ognuno correva a portare l'anello alla fidanzata.
Il più grande trovò una giovinotta bella soffice come una focaccia, il mezzano una pallidina, fina come un filo, e il più piccino, guarda guarda in quel fosso, non ci trovò che una rana.
Tornarono dal Re a dire delle loro fidanzate.
"Ora - disse il Re - chi ha la sposa migliore erediterà il regno.Facciamo le prove"-
e diede a ognuno della canapa perché gliela riportassero di lì a tre giorni filata dalle fidanzate, per vedere chi filava meglio.
I figli andarono delle fidanzate e si raccomandarono che filassero a puntino; e il più piccolo tutto mortificato, con quella canapa in mano, se ne andò sul ciglio del fosso e si mise a chiamare:
- Rana, rana!
- Chi mi chiama?
-L'amor tuo che poco t'ama.
- Se non m'ama , m'amerà
quando bella mi vedrà.
E la rana salto fuori dall'acqua su una foglia.
Il figlio del Re le diede la canapa e disse che sarebbe ripassato a prenderla filata dopo tre giorni.
Dopo tre giorni i fratelli maggiori corsero tutti ansiosi dalla fornaia e dalla tessitrice a ritirare la canapa.
La fornaia aveva fatto un bel lavoro, ma la tessitrice - era il suo mestiere - l'aveva filata che pareva seta.
E il più piccino? Andò al fosso:
- Rana, rana!
- Chi mi chiama?
- L'amor tuo che poco t'ama.
- Se non m'ama , m'amerà
quando bella mi vedrà.
Saltò su una foglia e aveva in bocca una noce.
Lui si vergognava un po' di andare dal padre con una noce mentre i fratelli avevano portato la canapa filata; ma si fecero coraggio e andò.
Il Re che aveva già guardato per dritto e per traverso il lavoro della fornaia e della tessitrice, aperse la noce del più piccino, e intanto i fratelli sghignazzavano. Aperta la noce ne venne fuori una tela così fina che pareva tela di ragno e tira tira, spiega spiega, non finiva mai , e tutta la sala del trono ne era invasa.
"Ma questa tela non finisce mai!" disse il Re,
E appena dette queste parole la tela finì.
Il padre, a quest'idea che una rana diventasse regina, non voleva rassegnarsi.
Erano nati tre cuccioli alla sua cagna da caccia preferita, e li diede ai tre figli:
"Portateli alle vostre fidanzate e tornerete a prenderli tra un mese: chi l'avrà allevato meglio sarà regina".
Dopo un mese si vide che il cane della fornaia era diventato un molosso grande e grosso, perché il pane non gli era mancato; quella della tessitrice, tenuto più a stecchetto, era venuto un famelico mastino.
Il più piccino arrivò con una cassettina, il Re aperse la cassettina e ne uscì un barboncino infiocchettato, pettinato, profumato, che stava ritto sulle zampe di dietro e sapeva fare gli esercizi militari e far di conto.
E il Re disse:
"Non c'è dubbio; sarà re mio figlio minore e la rana sarà regina".
Furono stabilite le nozze, tutti e tre i fratelli lo stesso giorno.
I fratelli maggiori andarono a prendere le spose con carrozze infiorate tirate da quattro cavalli, e le spose salirono tutte cariche di piume e di gioielli.
Il più piccino andò al fosso, e la rana l'aspettava in una carrozza fatta d'una foglia di fico tirata da quattro lumache.
Presero ad andare: lui andava avanti, e le lumache lo seguivano tirando la foglia con la rana.
Ogni tanto si fermava ad aspettare, e una volta si addormentò.
Quando si svegliò, gli s'era fermata davanti una carrozza d'oro, imbottita di velluto, con due cavalli bianchi e dentro c'era una ragazza bella come il sole con un abito verde smeraldo.
"Chi siete?" disse il figlio minore.
"Sono la rana", e siccome lui non ci voleva credere, la ragazza aperse uno scrigno dove c'era la foglia di fico, la pelle della rana e quattro gusci di lumaca.
"Ero una Principessa trasformata in rana, solo se un figlio di Re acconsentiva a sposarmi senza sapere che ero bella avrei ripreso la forma umana."
Il Re fu tutto contento e ai figli maggiori che si rodevano d'invidia disse che chi non era neanche capace di scegliere la moglie non meritava la Corona.
Re e regina diventarono il più piccino e la sua sposa.


di Italo Calvino

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Il monte degli elfi

Post n°413 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Vispe lucertole correvano tra le fenditure di un vecchio albero e si comprendevano bene tra loro, poiché parlavano tutte la lingua delle lucertole.
«Accidenti! Che brontolio proviene dal vecchio monte degli elfi!» esclamò una lucertola. «Con questo rumore non ho chiuso occhio per ben due notti; era proprio come se avessi avuto il mal di denti, perché anche in quel caso non dormo!»
«Sta succedendo qualcosa là dentro!» aggiunse un'altra lucertola. «Il monte si solleva restando appoggiato su quattro paletti rossi fino al canto del gallo, così si cambia l'aria, e le ragazze degli elfi hanno imparato a battere la cadenza con i ben cadenzati piedi in nuove danze. Sta succedendo qualcosa!»
«È vero! ho parlato con un lombrico che conosco» disse una terza lucertola «era appena arrivato dal monte, dove per molti giorni e notti aveva scavato nella terra. Lì aveva sentito parecchie cose; quel povero animale non ci vede, ma può strisciare e ascoltare. Aspettano ospiti al monte degli elfi, ospiti distinti, ma il lombrico non vuole dire chi aspettano, o forse non lo sa nemmeno! Tutti i fuochi fatui sono stati chiamati per fare una fiaccolata, come la chiamano loro, e come brillano l'oro e l'argento! Ce n'è parecchio nel monte e è stato esposto al chiaro di luna.»
«Chissà chi saranno gli ospiti?» si chiesero le lucertole. «Che cosa stanno preparando? Sentite che rumori! E che ronzio!»
In quel mentre il monte degli elfi si aprì e un'anziana donna degli elfi, senza schiena, ma altrimenti molto ben vestita, ne uscì sgambettando. Era la vecchia governante del re degli elfi, una sua lontana parente, e aveva un cuore di ambra sulla fronte. Le sue gambe si muovevano eleganti, tip, tip! accidenti come sapeva sgambettare! E arrivò fino alla palude dal nottolone.
«Lei è invitato al monte degli elfi per questa notte» gli disse «ma prima ci deve fare un grosso favore, deve preoccuparsi lei degli inviti. Deve pur fare qualche servizio, dato che non ha una casa sua! Verranno ospiti molto distinti, troll molto importanti, e per questo il vecchio re degli elfi vuole essere presente alla festa!»
«Chi bisogna invitare?» chiese il nottolone.
«Ecco, al grande ballo può venire chiunque, persino gli uomini se sanno parlare nel sonno o fare qualcosa che rientra nel nostro genere. Ma per il primo banchetto c'è una rigida selezione, ci saranno solo i più distinti. Ho discusso col re degli elfi perché lo non volevo che venissero gli spettri. Il tritone e le sue figlie devono essere invitati per primi; non amano molto trovarsi all'asciutto, ma avranno certamente almeno una pietra bagnata su cui stare, o addirittura qualcosa di meglio. Così credo che questa volta non diranno di no. Devono anche esserci tutti i vecchi troll di prima classe con la coda, lo spirito del fiume e i folletti, e poi credo che non dovremo dimenticare la scrofa della tomba, il cavallo degli Inferi e l'orrore della cattedrale. È vero che fanno parte del clero e non hanno nulla in comune con la nostra gente, ma d'altro canto è il loro mestiere e poi sono quasi parenti e ci fanno spesso visita!»
«Bra!» esclamò il nottolone e se ne volò via per portare gli inviti.
Le ragazze degli elfi già ballavano sul monte, e ballavano con lunghi scialli tessuti di nebbia e chiaro di luna: erano molto graziose, per chi ama quel genere di bellezza. Al centro del monte c'era una grande sala pulita con molta cura; il pavimento era stato lavato con il chiaro di luna e le pareti erano state lucidate con grasso di strega, così ora brillavano alla luce come petali di tulipani. La cucina era zeppa di rane allo spiedo, pelli di serpi ripiene di dita di bimbi, insalata di semi di fungo, musi umidi di topo, e cicuta; c'era la birra della donna della palude e il vino di salnitro brillante della cantina delle tombe. Tutto era di sostanza; chiodi arrugginiti e frammenti dei vetri della chiesa erano i confetti.
Il vecchio re degli elfi fece lucidare la corona d'oro con il gesso in polvere; era il gesso del primo della classe e era stato diffìcile trovarlo, persino per il re! Nella camera da letto c'erano le tende alzate, fissate con saliva di serpe. C'era proprio un bel baccano!
«Adesso bisogna bruciare i crini di cavallo e le setole di maiale, poi credo di aver terminato il mio compito» esclamò la governante.
«Caro padre» chiese la figlia minore «posso sapere finalmente chi sono gli ospiti di riguardo?»
«Certo!» rispose il re.«Ora te lo dico. Due delle mie figlie devono tenersi pronte a sposarsi: ne darò certo via due in sposa! Il vecchio troll della Norvegia, che abita sull'antica montagna di Dovre e possiede molti castelli di scoglio costruiti su massi enormi e una miniera d'oro che vale più di quanto si creda, viene quaggiù con i suoi due figli, che devono trovar moglie. Il vecchio troll è proprio un vero norvegese, onesto e distinto, allegro e semplice; lo conosco dai tempi in cui brindammo alla nostra amicizia. Era venuto allora a cercar moglie, ora è morta, era la figlia del re della scogliera di IVfeen. S'è preso una moglie di creta, come si usa dire! Oh, che voglia di rivedere il vecchio troll norvegese! Si dice che i figli siano maleducati e presuntuosi, ma può darsi che non sia vero, o che migliorino col tempo. Vediamo se li saprete sistemare voi!»
«Quando arrivano?» chiese una figlia.
«Dipende dal tempo e dal vento» rispose il re degli elfi. «Viaggiano in economia. Verranno con la prima nave che passa. Io volevo che passassero dalla Svezia, ma il vecchio non si fida. Non è al passo coi tempi, e questo non mi piace molto!»
In quel mentre giunsero saltellando due fuochi fatui, ma uno era più veloce e arrivò prima.
«Arrivano! Arrivano!» gridarono.
«Datemi la corona e mettetemi al chiaro di luna!» disse il re degli elfi.
Le figlie sollevarono i lunghi scialli e si chinarono fino a terra.
Apparve il vecchio troll di Dovre, con una corona di getti di ghiaccio indurito e pigne d'abete lucidate, una pelliccia d'orso e un bel paio di stivali; i figli invece erano senza colletto né bretelle perché volevano apparire più moderni.
«Questa sarebbe una montagna?» chiese il più giovane indicando il monte degli elfi. «In Norvegia la chiameremmo una caverna!»
«Giovanotti!» commentò il vecchio «la caverna va in dentro il monte va in fuori. Non avete gli occhi?»
L'unica cosa che li sorprendeva in quel luogo, osservarono era il fatto di capire la lingua senza difficoltà.
«Non datevi arie adesso!» rispose il vecchio «o finirete per sembrare immaturi.»
E entrarono nel monte degli elfi dove si trovava una compagnia molto distinta, che si era riunita in fretta come fosse stato il vento a soffiarla là. Per ognuno era stato apparecchiato con molto buon gusto. La gente di mare sedeva in grandi vasche d'acqua e sosteneva di sentirsi come a casa propria Tutti erano molto ben educati, eccetto i due giovani troll norvegesi, che avevano appoggiato le gambe sul tavolo e credevano di poter fare qualunque cosa.
«Giù le gambe dal tavolo!» gridò il vecchio troll, e i figli gli obbedirono, ma solo dopo qualche tempo. Fecero poi il solletico alla loro vicina di tavolo con delle pigne d'abete che avevano in tasca, e si tolsero gli stivali per sentirsi più comodi dandoli in custodia alle donne. Il padre invece, il vecchio troll era tutta un'altra cosa; raccontava così bene delle fiere montagne della Norvegia, delle cascate che precipitano bianche di schiuma, risuonando come un organo o come un tuono. Raccontava del salmone che risale la corrente, quando l'ondina suona la sua arpa d'oro, delle luminose notti invernali durante le quali le sonagliere risuonano e i ragazzi corrono con le torce accese sul ghiaccio tanto trasparente che i pesci sotto di loro si spaventano. Sì, sapeva proprio raccontare! Tanto che la gente che ascoltava vedeva e sentiva le cose di cui lui parlava: le segherie sembravano funzionare davvero, i ragazzi e le ragazze cantare le canzoni e danzare i balli popolari tipici della valle di Halling. A un tratto il vecchio troll diede un grosso e casto bacio alla governante degli elfi; un bacio molto fraterno, ma bisogna pensare che non sono neppure lontani parenti !
Le ragazze del monte degli elfi cominciarono a danzare, sia nel solito modo che battendo un piede, e questo genere di danza si addiceva molto alle ballerine. Infine ci fu una "danza artistica", in cui ogni ballerino si esibisce in un assolo fuori dalle file. Accidenti! Come sapevano tendere le gambe, non si distingueva più la fine e il principio; non si capiva quali fossero le braccia e quali le gambe, si mescolavano come trucioli di serratura e ruotavano per la stanza tanto che il cavallo degli Inferi stette male e se ne andò fuori.
«Brr!» esclamò il vecchio troll «quante gambe! Ma che cosa sanno fare oltre danzare, tendere le gambe e fare le giravolte?»
«Adesso lo saprai!» rispose il re degli elfi, e chiamò la più giovane delle sue figlie; era così magra, e trasparente come il chiaro di luna, era la più raffinata tra le sorelle; mise in bocca uno stecchino bianco e immediatamente scomparve: questa era la sua specialità.
Il vecchio troll disse di non apprezzare una moglie che sapesse fare quella magia, e lo stesso senza dubbio pensavano i suoi figli.
La seconda sapeva camminare di fianco a se stessa come se avesse avuto l'ombra, cosa che gli spiriti non hanno.
La terza era di un altro genere, aveva imparato alla birreria della donna della palude e sapeva lardellare i tronchi di ontano con le lucciole.
«Questa diventerà un'ottima donna di casa!» commentò il vecchio troll e brindò strizzando l'occhio, dato che non voleva bere troppo.
Poi giunse la quarta figlia con una grande arpa d'oro su cui cominciò a suonare, ma non appena ebbe toccato la prima corda tutti sollevarono la gamba sinistra, dato che gli spiriti sono mancini, e quando vibrò la seconda corda tutti dovettero fare quello che voleva lei.
«Questa è una moglie pericolosa!» disse il vecchio troll, e i suoi due ragazzi uscirono dal monte perché si erano annoiati.
«Cosa sa fare la prossima?» chiese il troll.
«Io ho imparato a amare i norvegesi» esclamò lei «e non mi sposerò se non andrò a abitare in Norvegia!»
Ma la sorella più piccola sussurrò al vecchio troll: «Dice così solo perché ha sentito in una canzone norvegese che, quando il mondo finirà le rocce norvegesi resteranno come monumenti del passato: è per questo che vuole andare lassù, perché ha tanta paura di morire».
«Ah! ah!» rispose il vecchio troll «tranquillizzati! E cosa sa fare la settima e ultima fanciulla?»
«Prima c'è la sesta» gli disse il re degli elfi, che sapeva contare; ma la sesta non volle presentarsi.
«Io so solamente dire la verità alla gente» rispose «di me non importa a nessuno, e sono già abbastanza impegnata a cucirmi la camicia per la bara!»
Poi arrivò la settima e ultima figlia, che cosa sapeva fare? Sapeva raccontare delle storie, tante quante ne voleva.
«Qui vedi le mie cinque dita» le disse il vecchio troll. «Raccontami una storia per ognuno.»
La figlia del re lo afferrò per il polso e lo fece ridere finché gli venne il singhiozzo. Quando poi arrivò all'anulare, che aveva un anello dorato in vita come se già sapesse che ci sarebbe stato un fidanzamento, il vecchio troll esclamò: «Tieni ben stretto ciò che hai, la mano è tua. Io ti voglio prendere in moglie».
La fanciulla rispose che mancavano ancora le storie dell'anulare e del mignolo!
«Le sentiremo quest'inverno» rispose il vecchio troll «e ci racconterai la storia dell'abete, della betulla, dei regali delle ninfee e del gelo che scricchiola! Vedrai quanto dovrai raccontare, perché nessuno lo sa fare bene lassù. Ci siederemo nella nostra stanza di pietra dove arde la legna, berremo l'idromele dai corni d'oro degli antichi re norvegesi, l'ondina me ne ha regalato qualcuno! Mentre saremo là seduti verrà a trovarci il folletto contadino, che canterà tutte le canzoni delle pastorelle di montagna. Sarà molto divertente! Il salmone salterà sulla cascata proprio contro il muro di pietra di casa nostra, ma non riuscirà a entrare! Vedrai come si sta bene nella vecchia e cara Norvegia! Ma dove sono finiti i miei ragazzi?»
Già, dov'erano finiti i due ragazzi? Correvano nei campi e spegnevano tutti i fuochi fatui, che stavano arrivando con calma per fare la fiaccolata.
«C'è bisogno di gironzolare così?» esclamò il vecchio troll «io ho trovato una madre per voi, ora voi potete prendervi una delle zie!»
Ma i ragazzi dissero che avrebbero preferito tenere un discorso o brindare all'amicizia, mentre di sposarsi non avevano alcuna intenzione. Perciò tennero un discorso, brindarono all'amicizia, e rovesciarono il bicchiere per dimostrare che avevano bevuto fino in fondo; poi si tolsero i vestiti e si stesero sul tavolo per dormire, dato che erano un po' sfacciati. Il vecchio troll danzò per la stanza con la sua giovane sposa; poi si scambiarono gli stivali, il che è più fine che scambiarsi gli anelli.
«Ora canta il gallo!» esclamò la vecchia governante, che badava alla casa. «Bisogna chiudere le persiane delle finestre per evitare che il sole ci arrostisca!»
E così il monte si richiuse.
Fuori le lucertole correvano su e giù dall'albero spaccato e una disse all'altra:
«Oh, come mi piace il vecchio troll norvegese!»
«A me piacciono di più i ragazzi!» replicò il lombrico, ma lui non ci vedeva, poveretto!


 
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L'uomo di neve

Post n°412 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

«Fa così freddo che scricchiolo tutto» disse l'uomo di neve. «Il vento, quando morde, fa proprio resuscitare! Come mi fissa quello là!» e intendeva il sole, che stava per tramontare. «Ma non mi farà chiudere gli occhi, riesco a tenere le tegole ben aperte.»
Infatti i suoi occhi erano fatti con due pezzi di tegola di forma triangolare. La bocca invece era un vecchio rastrello rotto, quindi aveva anche i denti.
Era nato tra gli evviva dei ragazzi, salutato dal suono di campanelli e dagli schiocchi di frusta delle slitte.
Il sole tramontò e spuntò la luna piena, rotonda e grande, bellissima e diafana nel cielo azzurro.
«Eccolo che arriva dall'altra parte!» disse l'uomo di neve. Credeva infatti che fosse ancora il sole che si mostrava di nuovo.
«Gli ho tolto l'abitudine di fissarmi, ora se ne sta lì e illumina appena perché io possa vedermi. Se solo sapessi muovermi mi sposterei da un'altra parte. Vorrei tanto cambiare posto! Se potessi, scivolerei sul ghiaccio come hanno fatto i ragazzi, ma non sono capace di correre.»
«Via, via!» abbaiò il vecchio cane alla catena. Era un po' rauco, lo era diventato da quando non stava più in casa e non dormiva più vicino alla stufa. «Il sole ti insegnerà senz'altro a correre! L'ho già visto con il tuo predecessore dell'anno scorso, e con quello dell'anno prima. Via, via! e tutti ve ne andrete!»
«Non ti capisco, amico!» disse l'uomo di neve. «Quello lassù mi deve insegnare a correre?» e intendeva la luna. «È corso via infatti, quando l'ho fissato prima, ma ora spunta fuori da un'altra parte!»
«Tu non sai nulla» gli rispose il cane alla catena «ma sei appena stato fatto! Quella che tu vedi si chiama luna, quello che se n'è andato era il sole. Tornerà domani e ti insegnerà a scorrere nel fosso. Tra poco cambierà il tempo, lo sento dalla zampa posteriore che mi fa male. Cambierà il tempo.»
«Non lo capisco» commentò l'uomo di neve «ma ho la sensazione che stia dicendo qualcosa di spiacevole. E quello che mi fissava e se ne è andato si chiama sole, non deve essermi amico neppure lui, lo sento.»
«Via! Via!» abbaiò il cane alla catena, poi girò tre volte su se stesso e si ritirò nella cuccia per dormire.
Il tempo cambiò davvero. Una nebbia fitta e umida si stese durante la mattinata su tutto il territorio, all'alba cominciò a soffiare il vento, un vento gelato che fece spuntare dappertutto il ghiaccio, ma che splendore quando comparve il sole! Tutti gli alberi e i cespugli erano ricoperti di ghiaccio, era come vedere un intero bosco di coralli bianchi, come se tutti i rami fossero ricoperti di lucenti fiori bianchi. Quei rami sottili che d'estate non si possono vedere a causa delle molte foglie si mostravano ora uno per uno, sembravano un ricamo, e tutto era bianco splendente come se da ogni ramo sgorgasse un bianco splendore. La betulla si piegava al vento, c'era vita in lei, come in tutti gli alberi nel periodo estivo, era uno splendore senza fine. Quando brillò il sole ogni cosa scintillò, come se tutto fosse stato ricoperto di una polvere lucente, e sulla distesa di neve che ricopriva la terra luccicavano grandi diamanti, o meglio si poteva credere che bruciassero infiniti lumini ancora più bianchi della bianca neve.
«È una meraviglia incredibile!» disse una fanciulla che con un giovane attraversava il giardino, poi si fermò proprio vicino all'uomo di neve e si mise a guardare quei meravigliosi alberi «In estate non c'è una vista così bella!» disse, e le brillavano gli occhi.
«E non abbiamo neppure un tipo come questo qui!» disse il giovane indicando l'uomo di neve. «È proprio bello!»
La fanciulla rise, fece una riverenza all'uomo di neve e ballò col suo amico sulla neve che scricchiolò sotto di loro, come fosse stata di celluloide.
«Chi erano quei due?» chiese l'uomo di neve al cane alla catena. «Tu vivi da più tempo qui nel cortile, li conosci?»
«Certo!» disse il cane alla catena. «Lei mi ha accarezzato, e lui mi ha dato un osso. Così non li mordo.»
«Ma che cosa rappresentano qui?» chiese l'uomo di neve.
«Innamo-o-r-a-t-i» disse il cane. «Si trasferiranno in un canile e rosicchi eranno insieme le ossa. Via! Via!»
«E due come loro sono importanti quanto te e me?» chiese l'uomo di neve.
«Appartengono alla classe dei padroni» disse il cane. «Non si sa proprio nulla quando si è nati ieri, lo vedo bene guardando te! Io invece sono vecchio e ho una grande conoscenza delle cose, conosco tutti qui nel cortile! E ho conosciuto un tempo in cui non stavo qui al freddo e alla catena. Via! Via!»
«Il freddo è bello» disse l'uomo di neve. «Racconta, racconta! ma non devi agitare la catena perché mi fa scricchiolare.»
«Via! Via!» abbaiò il cane. «Io ero un cucciolo; piccolo e grazioso, così dicevano, quando stavo su una sedia di velluto o mi prendeva in grembo il padrone più importante; mi baciavano sulla gola e mi asciugavano le zampette con un fazzoletto ricamato. Mi chiamavamo "Bellissimo", "Tesoruccio", ma poi divenni troppo grande per loro, allora mi diedero alla governante. Passai così al pianterreno. Lo puoi vedere da dove ti trovi, puoi vedere in quella cameretta dove io sono stato padrone, quando ero dalla governante. Naturalmente era più piccola di quella di sopra, ma era molto più piacevole: non venivo stuzzicato e trascinato dappertutto dai bambini, come accadeva di sopra; e avevo del buon cibo, proprio come prima, anzi di più! avevo il mio cuscino e poi c'era una stufa che in questa stagione è la cosa più bella del mondo! Mi raggomitolavo lì sotto e era come se sparissi. Oh, quella stufa me la sogno ancora. Via! Via!»
«È bella la stufa?» chiese l'uomo di neve. «Mi assomiglia?»
«È proprio il tuo contrario! È nera come il carbone, ha un lungo collo e uno sportelletto d'ottone; divora pezzetti di legno, così le esce il fuoco dalla bocca. Bisogna mettersi proprio di fianco, vicini vicini, o anche sotto, che meraviglia! Tu dovresti riuscire a vederla attraverso la finestra!»
L'uomo di neve guardò e vide veramente un grande oggetto nero, lucido, con una porticina di ottone, e il pavimento intorno tutto illuminato. L'uomo di neve si sentì molto strano, aveva una sensazione che non riusciva a spiegarsi, sentiva qualche cosa che non conosceva, ma che tutti conoscono se non sono fatti di neve.
«Perché l'hai lasciata?» chiese l'uomo di neve: sentiva che doveva essere una creatura femminile. «Come hai potuto lasciare un posto simile?»
«Ci fui costretto» spiegò il cane alla catena. «Mi cacciarono fuori e mi misero alla catena. Avevo morso il padrone più giovane alla gamba, perché aveva dato un calcio a un osso che stavo rosicchiando. Osso per osso, pensai io! Ma loro se la presero molto e da allora mi trovo alla catena e ho perso la mia bella voce: senti come sono rauco! Via! Via! E così finì la bella vita per me.»
L'uomo di neve non ascoltava più, fissava continuamente la stanza della governante dove si trovava la stufa sulle quattro gambe di ferro: sembrava alta quanto lui.
«Come scricchiolo!» disse. «Riuscirò mai a entrare? Sarebbe un desiderio innocente e tutti i nostri desideri innocenti dovrebbero venire esauditi. È la mia massima aspirazione, il mio unico desiderio, e sarebbe quasi ingiusto se non venisse esaudito. Devo andare lì dentro, devo arrivare fino a lei, anche se devo rompere il vetro.»
«Non entrerai mai!» rispose il cane alla catena. «E se mai arrivassi alla stufa, allora te ne andresti, hai capito? te ne andresti.»
«È come se fossi già andato!» disse l'uomo di neve. «Mi viene da vomitare.»
Per tutto il giorno l'uomo di neve guardò in quella stanza; nella penombra il locale sembrava ancora più bello, dalla stufa proveniva una luce così tenue che neppure la luna o il sole sapevano eguagliare, un bagliore tipico di una stufa quando c'è qualcosa dentro. Se aprivano la porta, allora usciva una fiammata, era una sua abitudine; questa fece diventare il bianco volto dell'uomo di neve tutto rosso, e lo illuminò fino al petto.
«Non resisto più!» disse. «Come le dona tirar fuori la lingua!»
La notte fu molto lunga, ma non per l'uomo di neve che si era abbandonato ai suoi bellissimi pensieri, e questi, gelando, scricchiolavano.
Al mattino le finestre del pianterreno erano gelate, ricoperte dei più bei fiori di ghiaccio che un uomo di neve possa desiderare, ma gli toglievano la vista della stufa. Il ghiaccio dei vetri non voleva sciogliersi, così lui non riusciva a vederla. Si sentiva uno scricchiolio, un crepitio, era proprio un tempo da gelo che doveva divertire un uomo di neve, ma lui non era per niente divertito: avrebbe potuto sentirsi felicissimo ma non lo era, perché aveva nostalgia della stufa.
«È una pessima malattia per un uomo di neve!» commentò il cane alla catena. «Ho sofferto anch'io di quella malattia, ma ormai l'ho superata. Via! Via! Ora cambierà il tempo.»
E infatti il vento cambiò, e sciolse la neve.
Venne il caldo, e l'uomo di neve dimagrì. Non disse nulla, non scricchiolò, e questo era proprio il segno della fine.
Una mattina crollò. Nel punto in cui si trovava rimase infilzato qualcosa che assomigliava a un manico di scopa: i ragazzi ce lo avevano costruito intorno.
«Adesso capisco quella sua nostalgia!» disse il cane alla catena. «L'uomo di neve aveva un raschiatoio della stufa in corpo; è quello che lo turbava, ma adesso tutto è finito. Via! Via!»
E ormai anche l'inverno era quasi finito.
«Via! Via!» abbaiava il cane alla catena, ma le bambine in giardino cantavano:
Affrettati, mughetto, bello e fresco, getta i rametti, o salice. Venite, cuculi, allodole, cantate! C'è già primavera alla fine di febbraio! Io canto con voi, cuculi, cucù! Vieni, caro sole, esci anche tu!
E nessuno pensò più all'uomo di neve.

 
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La pulce e il professore

Post n°411 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era un aeronauta a cui andò male: il pallone si ruppe, e l'uomo saltò giù ma finì a pezzi. Il suo figliolo era riuscito a gettarsi giù due minuti prima con il paracadute, e questa era stata la sua fortuna. Non subì danni e se ne andò in giro; sarebbe stato un esperto aeronauta, ma non aveva pallone e neppure i mezzi per procurarsene uno.
Doveva comunque vivere, così imparò l'arte dei giochi di prestigio, e a parlare con lo stomaco, vale a dire a essere ventriloquo. Era giovane e era bello, e quando gli crebbe la barba e ebbe bei vestiti, venne scambiato per un giovane conte. Le signore lo trovavano gradevole, e una signorina rimase così affascinata dalla sua bellezza e dalla sua abilità di prestigiatore che lo seguì per città e paesi stranieri; lui si faceva chiamare professore, non poteva certo essere nulla di meno.
11 suo pensiero fìsso era di ottenere una mongolfiera e alzarsi nell'aria con la sua mogliettina, ma ancora non ne avevano i mezzi.
«Verranno!» diceva lui.
«Speriamo!» rispondeva la moglie.
«Siamo giovani, io ora sono professore. Anche le briciole sono pane.»
La moglie lo aiutava fedelmente, si metteva alla porta e vendeva i biglietti per la rappresentazione, e questo d'inverno era un divertimento un po' freddo! Lo aiutava anche in un numero. Lui la metteva in un cassetto del tavolo, un grande cassetto; lei si infilava proprio sul fondo così da non essere più visibile.
Ma una sera, quando lui aprì il cassetto, lei se n'era andata veramente, non era né nella parte davanti né in quella dietro, non c'era in tutta la casa, non la si vedeva né la si sentiva. Questo fu il suo gioco di prestigio. Non ritornò mai più, si era stancata; poi anche lui si stancò, perse il buonumore, non potè più far ridere né fare i giochi, così la gente non andò più a vederlo; il guadagno diminuì e i vestiti si rovinarono, alla fine possedeva soltanto una grande pulce, che aveva ereditato dalla moglie, e per questo le voleva molto bene. Allora l'ammaestrò le insegnò i giochi di prestigio, le insegnò a presentare le armi e a sparare con un cannone, naturalmente piccolissimo.
Era molto orgoglioso della pulce, e lo era anche di se stesso; la pulce aveva imparato qualcosa e aveva sangue umano e era stata nelle città più grandi; era stata vista da principi e principesse e aveva ottenuto la loro più alta considerazione. Venne scritto anche nei giornali e sui manifesti. La pulce sapeva di essere una celebrità, e di poter mantenere il professore, anzi un'intera famiglia.
Era orgogliosa e molto famosa, eppure lei e il professore viaggiavano in quarta classe; tanto arrivavano con la stessa velocità della prima. C'era tra loro una tacita promessa di non dividersi mai, di non sposarsi mai. La pulce rimase nubile e il professore rimase solo. Così erano pari.
«Dove si ha maggior successo» diceva il professore «non bisogna tornare una seconda volta!» Lui era un conoscitore di uomini, e anche questa è un'arte.
Alla fine avevano viaggiato in tutti i paesi, fuorché in quello dei selvaggi; così vollero andare anche lì. È vero che là divoravano i cristiani, e il professore lo sapeva; ma lui non era un vero cristiano e la pulce non era un vero uomo; così pensarono che potevano provare a viaggiare fin là e guadagnare parecchio.
Viaggiarono con una nave a vapore e una nave a vela; la pulce fece i suoi giochi di prestigio così non dovettero pagare il viaggio, poi giunsero nel paese dei selvaggi.
Lì governava una piccola principessa; aveva solo otto anni ma governava lei; aveva preso il potere al padre e alla madre perché aveva una volontà molto forte e era anche estremamente graziosa e maleducata.
Subito, quando la pulce presentò le armi e sparò col cannone, lei ne fu così attratta che disse: «O quella o nessuno!». Provò un amore selvaggio, anche se selvaggia lo era già da prima.
«Cara figliola» le disse suo padre «dovremmo prima farla diventare uomo!»
«Lasciami fare, vecchio!» disse lei, e non era certo educato da parte della principessa parlare così a suo padre, ma lei era selvaggia.
Si mise la pulce sulla mano.
«Ora tu sei un uomo e governerai insieme a me; ma devi fare quello che voglio io, altrimenti ucciderò te e mangerò il professore.»
Il professore ricevette una grande sala in cui abitare. Le pareti erano fatte di canne da zucchero, che lui poteva leccare; ma non era molto goloso. Gli diedero un'amaca in cui dormire e gli sembrava di essere in una mongolfiera, come aveva sempre desiderato: era il suo pensiero fìsso.
La pulce rimase presso la principessa, appoggiata alla sua manina o sul suo collo delicato. Poi la principessa si strappò un capello, con cui il professore dovette legare la pulce a una gamba, e lei se l'appese al grande orecchino di corallo che portava.
Fu proprio un periodo bellissimo per la principessa, e anche per la pulce. Ma il professore non era molto soddisfatto, era un viaggiatore, gli piaceva girare da una città all'altra, leggere nei giornali della sua pazienza e intelligenza nell'insegnare a una pulce tutti i movimenti umani. Per tutto il giorno se ne stava nell'amaca, oziava e mangiava: fresche uova di uccello, occhi di elefante e cosce di giraffa arrosto; i cannibali infatti non vivono solo di carne umana, questa è un piatto speciale. «Spalle di bambino in salsa piccante» diceva la madre della principessa «è il piatto più delicato!»
Il professore si annoiava e voleva andarsene dal paese dei selvaggi, ma voleva avere con sé la pulce, che era la sua meraviglia e la sua fonte di guadagno. Come poteva fare per prenderla e portarla con sé? Non era semplice.
Si sforzò a lungo di pensare e alla fine disse: «Ho trovato!».
«Padre della principessa, concedimi di fare qualcosa! Vorrei insegnare agli abitanti di questo paese a sapersi presentare bene: quello che nei più grandi paesi del mondo si chiama educazione.»
«E che cosa insegnerai a me?» chiese il padre della principessa.
«La mia grande arte» disse il professore. «Sparare con un cannone che fa tremare tutta la terra e fa cadere tutti gli uccelli dal cielo già arrostiti! È straordinario!»
«Porta il cannone!» disse il padre della principessa.
Ma in tutto il paese non c'era nessun cannone, eccetto quello della pulce, che però era troppo piccolo.
«Ne costruirò uno più grande!» lo rassicurò il professore. «Portami soltanto l'occorrente. Devo avere seta molto sottile, ago e filo, corde e funi e gocce per lo stomaco per gli aerostati: quelli si gonfiano, diventano leggeri e si sollevano e mettono il fuoco nella pancia del cannone.»
Tutto quello che aveva richiesto gli fu dato.
L'intero paese si radunò per vedere quel grande pallone. Il professore non li aveva chiamati finché il pallone non era stato pronto per essere gonfiato e per alzarsi.
La pulce stava nella mano della principessa e osservava. Il pallone venne gonfiato tanto che stava per scoppiare, e venne trattenuto a mala pena, tanto era selvaggio.
«Bisogna sollevarlo affinché si raffreddi» disse il professore entrando nel cesto appeso sotto il pallone. «Da solo non riesco a governarlo, ho bisogno di un compagno esperto, che mi aiuti. Qui non c'è nessun altro che la pulce.»
«Gliela concedo a malincuore!» disse la principessa, ma porse la pulce al professore che se la mise sulla mano.
«Sciogliete le corde e le funi!» gridò lui. «Ora il pallone parte!»
Loro credettero che lui avesse detto: "Il cannone"!
Così il pallone andò sempre più in alto, verso le nuvole, lontano dal paese dei selvaggi.
La principessina, suo padre, sua madre, tutta la popolazione rimasero a aspettare, e aspettano ancora. Se non lo credi, prova a andare nel paese dei selvaggi: ogni bambino parlerà della pulce e del professore; credono che torneranno di nuovo una volta che il cannone sarà raffreddato. Ma quelli non torneranno più, sono tornati da noi, qui nella loro patria, viaggiano in ferrovia, questa volta in prima classe, non in quarta, e guadagnano bene con quel grande pallone; nessuno chiede loro come si sono procurati il pallone o da dove lo hanno avuto, e sono persone molto stimate e onorate, la pulce e il professore.

 
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La piccola fiammiferaia

Post n°410 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Era l'ultimo giorno dell'anno: faceva molto freddo e cominciava a nevicare. Una povera bambina camminava per la strada con la testa e i piedi nudi. Quando era uscita di casa, aveva ai piedi le pantofole che, però, non aveva potuto tenere per molto tempo, essendo troppo grandi per lei e già troppo usate dalla madre negli anni precedenti. Le pantofole erano così sformate che la bambina le aveva perse attraversando di corsa una strada: una era caduta in un canaletto di scolo dell'acqua, l'altra era stata portata via da un monello. La bambina camminava con i piedi lividi dal freddo. Teneva nel suo vecchio grembiule un gran numero di fiammiferi che non era riuscita a vendere a nessuno perché le strade erano deserte. Per la piccola venditrice era stata una brutta giornata e le sue tasche erano vuote. La bambina aveva molta fame e molto freddo. Sui suoi lunghi capelli biondi cadevano i fiocchi di neve mentre tutte le finestre erano illuminate e i profumi degli arrosti si diffondevano nella strada; era l'ultimo giorno dell'anno e lei non pensava ad altro! Si sedette in un angolo, fra due case. Il freddo l'assaliva sempre più. Non osava ritornarsene a casa senza un soldo, perché il padre l'avrebbe picchiata. Per riscaldarsi le dita congelate, prese un fiammifero dalla scatola e crac! Lo strofinò contro il muro. Si accese una fiamma calda e brillante. Si accese una luce bizzarra, alla bambina sembrò di vedere una stufa di rame luccicante nella quale bruciavano alcuni ceppi. Avvicinò i suoi piedini al fuoco... ma la fiamma si spense e la stufa scomparve. La bambina accese un secondo fiammifero: questa volta la luce fu così intensa che poté immaginare nella casa vicina una tavola ricoperta da una bianca tovaglia sulla quale erano sistemati piatti deliziosi, decorati graziosamente. Un'oca arrosto le strizzò l'occhio e subito si diresse verso di lei. La bambina le tese le mani... ma la visione scomparve quando si spense il fiammifero. Giunse così la notte. "Ancora uno!" disse la bambina. Crac! Appena acceso, s'immaginò di essere vicina ad un albero di Natale. Era ancora più bello di quello che aveva visto l'anno prima nella vetrina di un negozio. Mille candeline brillavano sui suoi rami, illuminando giocattoli meravigliosi. Volle afferrarli... il fiammifero si spense... le fiammelle sembrarono salire in cielo... ma in realtà erano le stelle. Una di loro cadde, tracciando una lunga scia nella notte. La bambina pensò allora alla nonna, che amava tanto, ma che era morta. La vecchia nonna le aveva detto spesso: Quando cade una stella, c' è un'anima che sale in cielo". La bambina prese un'altro fiammifero e lo strofinò sul muro: nella luce le sembrò di vedere la nonna con un lungo grembiule sulla gonna e uno scialle frangiato sulle spalle. Le sorrise con dolcezza.
- Nonna! - gridò la bambina tendendole le braccia, - portami con te! So che quando il fiammifero si spegnerà anche tu sparirai come la stufa di rame, l'oca arrostita e il bell'albero di Natale.
La bambina allora accese rapidamente i fiammiferi di un'altra scatoletta, uno dopo l'altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi diffusero una luce più intensa di quella del giorno:
"Vieni!" disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell'anno nuovo, i primi passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina. Pensarono che la piccola avesse voluto riscaldarsi con la debole fiamma dei fiammiferi le cui scatole erano per terra. Non potevano sapere che la nonna era venuta a cercarla per portarla in cielo con lei. Nessuno di loro era degno di conoscere un simile segreto!

 
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Pari (Pirandello)

Post n°409 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Bartolo Barbi e Guido Pagliocco, entrati insieme per concorso al Ministero dei Lavori Pubblici da vice-segretarii, promossi poi a un tempo segretarii di terza e poi di seconda e poi di prima classe, erano divenuti, dopo tanti anni di vita comune, indivisibili amici.
Abitavano insieme, in due camere ammobiliate al Babuino. Per grazia particolare della vecchia padrona di casa, che si lodava tanto di loro, avevano anche il salottino a disposizione, ove solevano passar le sere, quando - sempre d’accordo - stabilivano di non andare a teatro o a qualche caffè-concerto. Giocavano a dadi o a scacchi o a dama, intramezzando alle partite pacate e sennate conversazioncine o sui superiori o sui compagni d’ufficio o su le questioni politiche del momento o anche su le arti belle, di cui si reputavano con una certa soddisfazione estimatori non volgari. Ogni giorno, di fatti, passando e ripassando per via del Babuino, si indugiavano in lunghe contemplazioni o in accigliate meditazioni innanzi alle vetrine degli antiquarii e dei negozianti d’arte moderna; e Bartolo Barbi, ch’era molto perito in tutto ciò che si riferiva alle gerarchie, sia quella ecclesiastica, sia quella militare, sia quella burocratica, e agli usi e ai costumi, si scialava a dar di bestia a certi pittori che, nei soliti quadretti di genere, osavano raffigurar cardinali con paramenti addirittura spropositati.
Era molto caro ai due amici quel salottino raccolto, dai mobili d’antica foggia, consunti a furia di tenerli puliti. Il vecchio finto tappeto persiano era qua e là ragnato; le tende turche, all’uscio e alla finestra erano un po’ scolorite come la carta da parato, come i fiori di pezza su la mensola e l’ombrellino giapponese aperto e sospeso a un angolo. Qualche piccolo intaglio s’era scollato dai tanti porta-ritratti e porta-carte appesi alle pareti, eseguiti in casa, a traforo, dai due amici nei primi anni della loro convivenza.
Fin su l’orlo di quell’ombrellino giapponese, intanto, all’insaputa dei due amici, veniva a quando a quando, zitto zitto, un grosso ragno nero; stava lì un pezzo come a spiare misteriosamente ciò che essi facevano, ciò che essi dicevano; poi si ritraeva.
Dentro l’ombrellino giapponese era tessuta tutt’intorno al fusto un’ampia tela finissima e polverosa. Forse quel ragno misterioso ne aveva tratto la materia, a filo a filo, dalla vita de’ due amici, dai loro giorni sempre uguali, dai loro savii discorsi, tradotti pazientemente in quella sua sottilissima bava seguace.
Né essi né la vecchia padrona di casa ne avevano il più lontano sospetto.

Di tanto in tanto Barbi e Pagliocco pensavano con rammarico che fra qualche anno sarebbero stati costretti a lasciar quella casa, quel caro salottino. Aspettavano dal paese i loro due fratelli minori, che dovevano intraprendere a Roma sotto la loro vigilanza gli studii universitarii; e in quella casa non ci sarebbe stato posto per tutti e quattro. Avrebbero affittato allora un quartierino; lo avrebbero ammobiliato modestamente per conto loro e avrebbero preso una vecchia serva per la pulizia e la cucina. Vecchia la serva, perché i due giovanottini di primo pelo... eh, non si sa mai! prudenza ci voleva! Per loro due non ci sarebbe stato più pericolo.
Ogni mattina erano in piedi, puntuali, alla stess’ora; uscivano insieme a prendere il caffè; entravano insieme al Ministero dove lavoravano nella stessa stanza l’uno di fronte all’altro; a mezzogiorno andavano a desinare alla stessa trattoria; e insomma, come appaiati sotto il medesimo giogo conducevano una vita affatto uguale, dignitosa, metodica per forza, ma non priva di qualche onesto svago, segnatamente le domeniche.
Quantunque si servissero dallo stesso sarto, pagato puntualmente a tanto al mese, non vestivano allo stesso modo. Spesso Bartolo Barbi sceglieva la stoffa per l’abito di Guido Pagliocco e viceversa; giudiziosamente; perché sapevano bene quale sarebbe stata più adatta all’uno, quale all’altro. Non erano già come due gocce d’acqua in tutto.
Bartolo Barbi era alto di statura e magro, di scarso pelo rossiccio, pallido in volto e lentigginoso, lungo di braccia, un po’ dinoccolato: presentava da lontano nella faccia quattro fori e una caverna: gli occhi tondi, le nari aperte e una bocca enorme, dalle labbra aride e screpolate. Guido Pagliocco era invece robusto e sveglio, tozzo, bruno, bene azzampato, miope e ricciuto.
Si erano però medesimati nell’anima, vagheggiando uno stesso tipo ideale, che s’ingegnavano di raggiungere e d’incarnare in due, ponendovi ciascuno dal canto suo quel tanto che mancava all’altro.
E l’uno amava e ammirava le speciali facoltà e attitudini dell’altro, e lo lasciava fare, senza tentar mai d’invaderne il campo.
Subito, a ogni minima evenienza, si assegnavano le parti; riconoscevano a volo se dovesse parlare o agire l’uno o l’altro; e di ciò che l’uno diceva o faceva l’altro rimaneva sempre contento e soddisfatto, come se meglio non si fosse potuto né dire né fare.

Raggiunto il grado di segretarii di prima classe, proposti insieme per la croce di cavaliere, ottenuta questa onorificenza ben meritata, Barbi e Pagliocco furono invitati alle radunante che il loro capo-divisione commendator Cargiuri-Crestari teneva ogni venerdì.
I due amici presero a frequentar quelle radunante con la stessa puntualità scrupolosa con cui adempivano ai doveri d’ufficio. Ma presto s’accorsero che la loro comunanza di vita fraterna correva un serio pericolo in casa del commendator Cargiuri-Crestari.
Il capo-divisione e la moglie, non avendo proprii figliuoli e figliuole da accasare, pareva si fossero preso il compito di sposar tutti i giovani e le giovani che si raccoglievano ogni venerdì nel loro salotto.
La signora, invitando le vecchie amiche, lasciava intendere con mezzi sorrisi e mezze frasi che le loro figliuole avrebbero trovato presto marito; e molte mamme sollecitavano di continuo, ansiosamente, l’onore di essere ammesse in casa di lei.
Ella però voleva essere lasciata libera nella scelta, voleva che si avesse piena fiducia in lei, nel suo tatto, nel suo intuito, nella sua esperienza.
Guai se una fanciulla, non contenta del giovane ch’ella, nella sua saggezza, le aveva destinato, faceva invece l’occhiolino a qualche altro! Subito la signora Cargiuri-Crestari si dava attorno per dividere questi illeciti ravvicinamenti, di cui si aveva proprio per male, ecco, e lo lasciava intendere in tutti i modi. Ma sì, per male, perché Dio solo sapeva quanto e quale studio le costassero quelle sue combinazioni ideali. Prima di decidere, prima d’assegnare a quel tale giovine quella tal fanciulla, ella teneva l’uno e l’altra quattro o cinque mesi in esperimento; li interrogava su tutti i punti secondo un formulario prestabilito e segnava in un taccuino le risposte; e gusti, educazione, costumi, aspirazioni, tutto indagava, pesava tutto. E se qualche coppia, messa su da lei con tanto scrupolo, faceva alla fine una cattiva riuscita, non se ne sapeva proprio dar pace. Possibile? Ma se dovevano andar così bene d’accordo quei due! Ci doveva esser sotto certamente qualche malinteso fra loro! Ed ecco la signora Cargiuri-Crestari affannata. in continue spedizioni alle case delle tante coppie messe sè da lei per ristabilir l’accordo. che non poteva mancare, diamine’ a chiarir quel malinteso che senza dubbio doveva esser sorto tra i due coniugi cosi bene appaiati.
Le vittime designate a quelle combinazioni ideali erano naturalmente gl’impiegati subalterni del marito. La promozione a segretario di prima classe, la croce di cavaliere, avevano per conseguenza inevitabile l’invito ai venerdì del commendatore e, in capo a un anno, il matrimonio. Il garbo del capo-divisione e della moglie era tanto e tale, che riusciva quasi impossibile ribellarsi; si temeva poi il malumore, l’astio e, chi sa, fors’anche la vendetta del superiore.

Pei due amici Barbi e Pagliocco la signora Cargiuri-Crestari non ebbe bisogno né di studio né di esame. Suo marito li teneva d’occhio, li covava da un pezzo; glien’aveva tanto parlato, come di due paranzelle che presto sarebbero entrate placidamente in porto!
Li aveva già belli e assegnati in precedenza la signora Cargiuri-Crestari e, come sempre, con intuito meraviglioso, a due fanciulle, amiche anch’esse tra loro, indivisibili: Gemma Gandini e Giulia Montà: quella bionda e questa bruna: la bionda a Pagliocco ch’era bruno, la bruna a Barbi che, se non era proprio biondo, ci pendeva.
Erano belline tutt’e due, e - già s’intende - buone come la stessa bontà. Ah, niente lezii! Niente bischenchi! Il commendatore e la moglie non ammettevano in casa se non future mogli per bene, e dunque fanciulle sagge e modeste, econome e massaie. I giovani potevano fidarsene a occhi chiusi. Magari la signora Cargiuri-Crestari non badava tanto alle fattezze esteriori, perché - si sa tutto non si può avere, e la bellezza non è dote che vada molto d’accordo con la modestia e con le altre virtù che a fare una perfetta moglie si ricercano.
Appena scoperta l’insidia, i due amici s’arrestarono alquanto sconcertati.
Avevano da un pezzo non solo chiuso la porta del cuore alla donna, ci avevano anche messo il catenaccio. Non ne aspettavano più, neanche in sonno. Che se talvolta qualche desiderio monello saltava dentro all’improvviso per la finestra degli occhi, subito la ragione arcigna lo cacciava via a pedate.
Non perché avessero in odio il sesso femminile: discorrendo di donne e di pigliar moglie, riconoscevano anzi, in astratto, che lo stato coniugale (fondato - beninteso nell’onestà e governato dalla pace e dall’amore) era preferibile alla vita da scapolo. Ma purtroppo il matrimonio, nelle presenti tristissime condizioni sociali, doveva esser considerato come un lusso, che pochi solamente potevano concedersi, i quali poi non erano i più adatti a pregiarne i vantaggi.
Nelle loro conversazioni serali, Barbi e Pagliocco avevano definito insieme il feminismo questione essenzialmente economica. Ma sì, perché le donne, poverine, avevano compreso bene la ragione per cui diventava loro di giorno in giorno più difficile trovar marito. Il veder frustrata la loro naturale aspirazione, il dover soffocare il loro smanioso bisogno istintivo, le aveva esasperate e le faceva un po’ farneticare. Ma tutta quella loro rivolta ideale contro i così detti pregiudizii sociali, tutte quelle loro prediche fervorose per la così detta emancipazione della donna, che altro erano in fondo se non una sdegnosa mascheratura del bisogno fisiologico, che urlava sotto? Le donne desiderano gli uomini e non lo possono dire; poverine. E volevano lavorare per trovar marito, ecco. Era un rimedio, questo, suggerito dal loro naturale buon senso. Ma, ahimé, il buon senso è nemico della poesia! E anche questo capivano le donne: capivano cioè che una donna, la quale lavori come un uomo, fra uomini, fuori di casa, non è più considerata dalla maggioranza degli uomini come l’ideale delle mogli, e si ribellavano contro a questo modo di considerare, che frustrava il loro rimedio, e lo chiamavano pregiudizio.

Ecco il torto. Pregiudizio il supporre che la donna, praticando di continuo con gli uomini, si sarebbe alla fine immascolinata troppo? Pregiudizio il prevedere che n casa senza più le cure assidue, intelligenti, amorose della donna avrebbe perduto quella poesia intima e cara, che è la maggiore attrattiva del matrimonio per l’uomo? Pregiudizio il supporre che la donna, cooperando anch’essa col proprio giudizio ai mantenimento della casa, non avrebbe più avuto per l uomo quella devozione e quel rispetto, di cui tanto esso si compiace? Ingiusto, questo rispetto? Ma perché allora, dal canto suo, voleva esser tanto rispettata la donna? Via! Via! Se l’uomo e la donna non erano stati fatti da natura allo stesso modo, segno era che una cosa deve far l’uomo e un’altra la donna, e che pari dunque non possono essere.
Mai e poi mai Barbi e Pagliocco avrebbero sposato una donna emancipata, impiegata, padrona di sé. Non perché volessero schiava la moglie, ma perché tenevano alla loro dignità maschile e non avrebbero saputo tollerare che questa, di fronte ai guadagni della moglie, restasse anche minimamente diminuita. Metter su casa, d’altra parte, con lo scarso stipendio di segretario, sarebbe stata una vera e propria pazzia, e dunque niente: non ci pensavano nemmeno.
Ben radicati in queste idee, i due amici deliberarono di resistere; ma, per timore d’offendere il loro capo, non osarono fuggire; seguitarono a frequentare i venerdì del commendator Cargiuri-Crestari.
In capo a tre mesi, il ragno nero che si faceva di tratto in tratto fin su l’orlo dell’ombrellino giapponese a spiare i due amici, intisichì, diventò come una spoglia secca, morì d’inedia, là su la vedetta. I due amici non gli avevano dato più materia per quella sua bava seguace; s’erano anch’essi immalinconiti profondamente; giocavano a dama svogliati; non conversavano più tra loro.
Pareva che l’uno volesse avvertire all’altro il vuoto di quella loro esistenza, non mai prima avvertito.
Nessuno dei due però voleva muovere il discorso per il primo.

Una sera, finalmente, si mossero a parlare insieme e ciascuno ripeté le parole che l’altro aveva su la punta della lingua da un pezzo, perché all’uno e all’altro erano venute da una medesima fonte: dal commendator Cargiuri-Crestari, il quale aveva stimato opportuno far loro in segreto una paternale, così senza parere, parlando in generale dei giovani d’oggi che ragionano troppo e sentono poco, che lasciano languire la fiamma della vita, perché han paura di scottarsi (parlava bene, poeticamente, alle volte, il commendatore), e che ci voleva un po’ di coraggio, perdio: là, avanti, contro alle difficoltà dell’esistenza.
Le signorine Gandini e Montà avevano, per altro, una discreta doticina; erano poi tra loro da tanti anni amiche inseparabili, e non avrebbero perciò né sciolto, né allentato d’un punto il legame che teneva anch’essi uniti; e dunque... E dunque, giudiziosamente, al solito, i due amici stabilirono di prendere a pigione due appartamenti contigui, per seguitare a vivere insieme, uniti e separati a un tempo.
Le nozze furono fissate per lo stesso giorno. Ma una contrarietà piuttosto grave minacciò di rompere nel bel meglio la perfetta identità di sorte de’ due amici. La fidanzata di Guido Pagliocco, Gemma Gandini, non poteva recare in dote più di dodici mila lire, mentre la Montà ne recava al Barbi venti.
Guido Pagliocco piantò i piedi, risolutamente.
Non tanto, veh, per il danno materiale che al suo contratto di nozze avrebbero arrecato quelle otto mila lire di meno, quanto per le conseguenze morali, che quella disparità avrebbe potuto cagionare, ponendo la propria sposa in una condizione alquanto inferiore a quella della Montà.
Pari in tutto, anche le doti dovevano esser pari.

La vedova Gandini, madre della sposa, riuscì per fortuna con qualche sacrifizio, a metter la propria figliuola perfettamente in bilancia con la Montà; e così i due matrimoni furono celebrati nello stesso giorno e le due coppie partirono per lo stesso viaggio di nozze a Napoli.
Nessuna ragione d’invidia fra le due spose. Se Guido Pagliocco era di fattezze più bello del Barbi questi era però più intelligente del Pagliocco. Del resto, poi, eran così uniti idealmente quei due uomini, che quasi formavano un uomo solo, da amare insieme, senz’alcuna invidia né da una parte né dall’altra per quel tanto che a ciascuna necessariamente ne toccava, chiudendo a sera le porte de’ due quartierini gemelli.
Ma che Giulia Montà, moglie di Bartolo Barbi, avesse segretamente, in fondo all’anima, una punta d’invidia non confessata neppure a se stessa, per quel tanto che del tipo ideale Barbi-Pagliocco toccava a Gemma Gandini, si vide chiaramente allorquando vennero a Roma i due fratelli degli sposi, Attilio Pagliocco e Federico Barbi, a intraprendere gli studii universitarii.
Le due amiche, che avrebbero provato orrore se anche fugacissimamente su lo specchio interiore della loro coscienza avesse fatto capolino, col viso spaventato del ladro, il desiderio d’un reciproco tradimento, sentirono subito e videro crescere in sè a un tratto e divampare una vivissima simpatia l’una per il cognato dell’altra, e non tardarono a dichiararsela apertamente, con gran sollievo dell’anima, come se ciascuna avesse acquistato di punto in bianco qualcosa che si sentiva mancare.
I due giovani, in fatti, somigliavano moltissimo ai loro fratelli.

Attilio Pagliocco era forse un po’ più ottuso di mente del fratello maggiore e fors’anche men bello, ma più tacchinotto e violento. Federico Barbi era più proporzionato e men dinoccolato di Bartolo, con gli occhi meno languidi e le labbra meno aride; era poi più intelligente del fratello, faceva finanche poesie.
Giulia Barbi-Montà stimò come un pregio quel che di più animalesco aveva il giovine Pagliocco a paragone del fratello. perché le parve come un compenso alla cresciuta intellettualità intorno a sé, nel suo quartierino, con l’arrivo del cognato poeta: e Gemma Pagliocco-Gandini pregiò maggiormente quel che di più aereo, di più poetico aveva il giovine Barbi a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta bestialità intorno a sé, nel suo quartierino con l’arrivo del giovine Attilio che le pareva un mulotto accappucciato.
Naturalmente, né Bartolo Barbi né Guido Pagliocco s’accorsero punto della simpatia delle loro mogli pei loro fratelli. Se ne accorsero bene questi, però; e, se l’uno e l’altro da un canto ne furono lieti per sè, cominciarono dall’altro a guardarsi fra loro in cagnesco, volendo ciascuno custodir l’onore e la pace del proprio fratello.
E il giovine Federico Barbi, un giorno, andò a rinzelarsi acerbamente con Guido Pagliocco, perché...

- Zitto, per amor di Dio! - scongiurò questi, a mani giunte. - Non dica nulla al povero Bartolo, per carità! Lasci fare a me...

E zitto, sì, si stette zitto il giovine Barbi, per prudenza; ma né lui seppe accontentarsi, né la moglie del Pagliocco volle che s’accontentasse senz’altro della fiera paternale, che Guido rivolse a quattr’occhi al fratello minore.
Venne allora la volta di questo. Non volendo, per la pace del fratello, accusar la cognata, e d’altro canto, non potendo prendersi soddisfazione da sè, poiché si sentiva in colpa anche lui, andò a rinzelarsi non meno acerbamente con Bartolo Barbi. E:

- Zitto, per amor di Dio! - scongiurò questi parimenti, a mani giunte. - Non ne dica nulla al povero Guido, per carità! Lasci fare a me...

Pochi giorni dopo, i due amici si trovarono d’accordo - come sempre - nell’idea di allontanare da casa i fratelli, con la scusa che - giovanotti, si sa! - davano un po’ d’impaccio e di soggezione, limitando la libertà delle rispettive mogli.

- È vero, Giulia? - domandò Barbi alla sua, in presenza di Pagliocco.

E Giulia, con gli occhi bassi, rispose di sì.

- È vero, Gemma? - domandò alla sua Pagliocco, in presenza di Barbi.

E Gemma, con gli occhi bassi, rispose di sì.

«Povero Pagliocco!» pensava intanto Barbi.

«Povero Barbi!» pensava Pagliocco.

 
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Buon sangue non mente

Post n°408 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Con un padre come Berengario secondo voi era possibile che che Anselmo Capricorni fossenormale,lettori miei?
Ovviamente no!La riprova di tutto questo si è avuta dopo la settimana di passione che il terribile ragazzino ha fatto passare ai suoi.Ma leggete,che è molto meglio!
LUNEDI- La Taide ha un pesce rosso che adora.
Oggi Anselmo era a casa della nonna ed ha notato che il pesce aveva una gran brutta macchiasul fianco.
Volendo fare un piacere alla nonna,Anselmo ha preso il pesce sudicione e si è messo a lavarlo con una saponetta.
La Taide ho trovato la povera bestia ormai cadavere,sepolto sotto una montagna di schiuma.
MARTEDI'- Secondo Anselmo la gatta doveva camminare come un essere umano.
La gatta ha espresso il suo disappunto assalendo l'incolpevole Berengario.
MERCOLEDI'- Stufo di aspettare sul pianerottolo che la madre finisse di parlare con la vicina,Anselmo è entrato in casa e si è chiuso dentro,buttando tutte le chiavi di casa nel water.
Per aprire la porta ci sono voluti i pompieri.
GIOVEDI'- Era Giovedì Santo e la Carolina ha portato i figli in chiesa.Anselmo,che non aveva mai assistito alla lavanda dei piedi,è rimasto sconvolto:sganciatosi dalla mano materna,è andato dritto verso l'altar maggiore,urlando:- Sudicioni,i peidi non si lavano in chiesa ,ma nel bagno!-
Ireneo è svenuto per lo choc,mentre tutti i presenti ridevano come matti.
La Carolina,afferrato il figlio a fagotto,si è avviata verso l'uscita,mentre Anselmo gridava che se quelli si lavavano i piedi voleva farlo anche lui,dato che quel giorno la madre non glieli aveva lavati.
VENERDI'-Anselmo ha preso lo spazzolone,la gatta e una cassetta da frutta ed è uscito di casa.
Arrivato alla fontana. ha messo la cassetta in acqua e ci è salito insieme alla gatta:voleva fare una traversata in solitario.La cassetta è affondata e i pompieri hanno ricuperato bambino e bestia.
SABATO- Impossessatosi di un carrello,Anselmo ha seminato il panico in un supermercato di Pistoia,travolgendo 4 persone e terminando la folle corsa in collo a una cassiera esterrefatta.
DOMENICA-Giorno di Pasqua.
L'omelia doveva tenerla il celebre missionario Pellegrino Gamberoni,che da trent'anni opera nel Burundi meridionale.Anselmo gli si è parato davanti,sventolandogli sotto il naso il Liquidator e gridando:-Questa è una rapina!_
Il Gamberoni se l'è presa con Ireneo,tramortendolo a colpi di messale e se n'è andato insalutato ospite.
Sono passati dieci giorni.
La Taide porta il lutto per il pesce ed ha diseredato Anselmo.
La gatta è introvabile.
Il Cornacchioni è a letto con un travaso di bile.
Il Gamberoni è tornato in Burundi,ben deciso a non metter mai più piede a S.Tobia.
I Capricorni,dopo aver visto la lista dei danni al supermarket,hanno sculacciato Anselmo talmente bene che non si potrà sedere per due mesi.
In attesa di novità (che sicuramente ci saranno!),passo e chiudo




 
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Soltanto non sarebbe (Fried)

Post n°407 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La vita
sarebbe
forse più facile
se io
non ti avessi mai incontrata.

Meno tristezza
ogni volta
che dobbiamo separarci
meno paura
della prossima separazione
e di quella che ancora verrà.

E anche poco
di quella nostalgia impotente
che quando non ci sei
vuole l'impossibile
e subito
fra un istante
e che poi
poiché non è possibile
resta turbata
e respira a fatica.

La vita
sarebbe forse
più facile
se io
non ti avessi incontrata.

Soltanto non sarebbe
la mia vita

 
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Libri dimenticati:Un estraneo al mio fianco

Post n°406 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Anne lavora come volontaria in un centro antiviolenza.Spesso a condivedere i suoi turni al centralino c'è un bel ragazzo,intelligente,spiritoso,simpatico,tanto disponibile.
Quel ragazzo si chiama Theodore (Ted) Bundy,e anche se nessuno ancora lo sa  è uno dei serial killer più spietati dell'America e di tutti i tempi.
In qeusto libro la Rule ricostruisce meticolosamente la vita di Ted,quella delle sue vittime,i suoi efferati delitti che lo porteranno sulla sedia elettrica nel 1989.

 
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Frase del giorno

Post n°405 pubblicato il 15 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un'assurdità plausibile è sempre migliore di una possibilità che non convince (Schopenhauer)

 
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