Messaggi del 16/08/2011

Il tavolino magico,l'asino d'oro e il randello castigamatti

Post n°424 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un sarto che aveva tre figli e una sola capra. Siccome questa doveva nutrirli tutti e tre con il suo latte, il sarto voleva che le si desse della buona erba e che, ogni giorno, la si conducesse al pascolo. Così i figli la portavano a pascolare a turno. Il maggiore la portò al camposanto, dove c'era l'erba più bella, e la lasciò scorrazzare liberamente. La sera, venuta l'ora del ritorno, domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. La capra rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il giovane; la prese per la fune, la condusse nella stalla e la legò. -Be'- disse il vecchio sarto -la capra ha avuto la sua pastura?- -Oh- rispose il figlio -è così sazia da non poter più mangiar foglia.- Ma il padre volle controllare di persona, andò nella stalla e domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale rispose:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!-Adirato, il sarto corse di sopra e disse al giovane: -Ehi, bugiardo! perché‚ hai fatto patir la fame alla mia capra?-. Staccò il bastone dal muro e lo scacciò. Il giorno dopo toccò al secondo figlio, e anche questi scelse un luogo ove si trovava della buona erba, e la capra se la mangiò tutta. La sera, venuta l'ora del ritorno, domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. La capra rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il giovane, la condusse nella stalla e la legò. -Be'- domandò il vecchio sarto -la capra ha avuto la sua pastura?- -Oh- rispose il giovane -è così sazia da non poter più mangiar foglia.- Ma il vecchio sarto volle controllare di persona, andò nella stalla e chiese: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale rispose:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!--Razza di bugiardo!- gridò il sarto. -Far patire la fame a una bestia tanto buona!- Corse di sopra, prese il bastone e scacciò di casa anche il secondo figlio. Ora toccò al terzo; questi volle farsi onore e perciò cercò per la capra la pastura migliore di questo mondo. La sera, venuta l'ora del ritorno, domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il giovane, la condusse nella stalla e la legò. -Be'- disse il padre -la capra ha avuto finalmente la sua pastura?- -Oh- rispose il figlio -è così sazia da non poter più mangiar foglia.- Ma il vecchio sarto non si fidava, andò nella stalla e domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. L'animale malvagio rispose:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!--Aspetta me, bugiardone!- gridò il sarto fuor di s‚ dalla collera. -Vuoi proprio farmi diventar matto!- Andò di sopra con la faccia tutta rossa, prese il bastone e scacciò anche il terzo figlio. Ora egli era solo con la sua capra, e il giorno dopo le disse: -Vieni, cara bestiola, ti menerò io stesso al pascolo-. La prese per la fune e la condusse lungo siepi verdi, nel millefoglio e altre erbe che piacciono alle capre, lasciandola pascolare fino a sera. Allora domandò: -Capra, hai mangiato a sazietà?-. Essa rispose:-Ho mangiato a sazietà, neppure se ne avessi voglia potrei farci stare una foglia: bèee! bèee!--Allora andiamo a casa- disse il sarto; la condusse nella stalla e la legò. -Stavolta ti sei proprio saziata!- disse andandosene; ma la capra non lo trattò meglio e gridò:-Come potevo mangiare e lo stomaco saziare? Una tomba ho calpestato, neppure una foglia vi ho trovato: bèee! bèee!-All'udire queste parole, il sarto rimase avvilito e comprese di aver scacciato i suoi tre figli ingiustamente. -Aspetta- esclamò -creatura iniqua e scellerata, non devi più farti vedere fra gente per bene!- Corse di sopra a prendere il rasoio, insaponò la testa della capra e la rasò come il palmo della mano. Poi prese la frusta e la cacciò fuori. Ora il sarto era triste di essere costretto a vivere tutto solo, e avrebbe ripreso volentieri i suoi figli, ma nessuno sapeva dove erano finiti. Il maggiore era andato a imparare il mestiere da un falegname. Imparò con zelo e diligenza e quando, finito il tirocinio, dovette partire, il maestro gli regalò un tavolino di legno comune, dall'aspetto tutt'altro che particolare, ma quando lo si metteva a terra e si diceva: -Tavolino, apparecchiati!- eccolo d'un tratto coprirsi di una linda tovaglietta, con un piatto, posate, e vassoi di lesso e di arrosto quanti ce ne potevano stare, e un bel bicchierone di vino rosso che scintillava da rallegrare il cuore. Il giovane apprendista pensò: "Ne hai abbastanza per tutta la vita". Così se ne andò in giro per il mondo allegramente, senza curarsi che una locanda fosse buona o cattiva: quando gliene saltava il ticchio, non vi si fermava neppure, ma andava invece nel campo, nel bosco o in un prato, come più gli piaceva; si toglieva il tavolino dalle spalle, se lo metteva davanti, diceva -Tavolino apparecchiati!- ed ecco comparire tutto ciò che desiderava. Alla fine pensò di ritornare dal padre: l'avrebbe accolto volentieri con il tavolino magico! Ora avvenne che la sera, sulla strada del ritorno, giunse in una locanda ove si trovava molta gente che gli diede il benvenuto e lo invitò a sedersi e a mangiare con loro. -No- rispose il falegname -non voglio togliervi quei due bocconi di bocca; piuttosto sarete voi miei ospiti.- Essi pensarono che volesse burlarsi di loro, ma egli mise in mezzo alla stanza il suo tavolino di legno e disse: -Tavolino, apparecchiati!-. Ed eccolo subito guarnito di cibi squisiti, quali l'oste non avrebbe mai potuto procurare, e il cui profumo stuzzicò piacevolmente le nari degli ospiti della locanda. -Be', se è così, ci serviamo- dissero quelli. Si avvicinarono, estrassero i coltelli e non fecero complimenti, poiché‚ non appena un piatto era vuoto veniva subito sostituito da uno colmo. Così tutti se la spassarono allegramente; ma l'oste che se ne stava a guardare in un angolo senza sapere che dire, pensò fra s‚: "Un simile cuoco ti farebbe comodo per la tua locanda!". Quando fu tardi, gli avventori si coricarono uno dopo l'altro, e anche il giovane apprendista si mise a letto, lasciando in un angolo il suo tavolino magico. A mezzanotte l'oste si alzò perché‚ i pensieri non lo lasciavano in pace, andò nel ripostiglio, prese un vecchio tavolino, identico nell'aspetto, e lo mise nell'angolo scambiandolo con quello vero. Il mattino dopo il falegname pagò il conto, prese il tavolino dall'angolo, senza sospettare che potesse essere falso, e se ne andò per la sua strada. A mezzogiorno arrivò da suo padre che si rallegrò di cuore quando lo vide e disse: -Be', caro figlio, cos'hai imparato?-. -Babbo- rispose questi -sono diventato un falegname.- -E cosa hai portato dal viaggio?- chiese il padre. -Babbo, il meglio che abbia portato è il tavolino.- Il sarto lo osservò e vide che era un tavolino brutto e vecchio, ma il figlio disse: -Babbo, è un tavolino magico; quando lo metto in terra e gli ordino di apparecchiarsi, subito vi compaiono le vivande più squisite e un vino che rallegra il cuore. Invitate pure tutti i parenti che possano ristorarsi e rifocillarsi: il tavolino li sazia tutti-. Quando la compagnia fu raccolta, mise il suo tavolino in mezzo alla stanza e disse: -Tavolino, apparecchiati!-. Ma nulla apparve e quello rimase vuoto, come qualsiasi altro tavolo che non comprende la lingua. Allora il giovane capì che il tavolino gli era stato rubato, si vergognò di fare la figura del bugiardo e i parenti se ne tornarono a casa senza aver mangiato n‚ bevuto. Il padre continuò a fare il sarto e il figlio andò a lavorare a bottega. Il secondo figlio aveva imparato il mestiere da un mugnaio Finito il tirocinio il padrone gli disse: -Poiché‚ ti sei comportato così bene, ti regalo un asino che non tira il carretto e non porta sacchi!-. -E a che serve, allora?- domandò il giovane garzone. -Butta oro- rispose il mugnaio -se lo metti su un panno e dici: "Briclebrit" la brava bestia butta monete d'oro di dietro e davanti.- -E' una bella cosa!- disse il giovane garzone, ringraziò il padrone e se ne andò in giro per il mondo. Ovunque andasse, cercava sempre le cose più fini, e quanto più erano care, tanto meglio era per lui, perché‚ poteva pagarle. Dopo aver girato un po' il mondo, pensò: "Dovresti tornare da tuo padre, con l'asino d'oro ti accoglierà volentieri". Ora avvenne che egli capitò nella stessa locanda dove era stato suo fratello. L'oste voleva prendergli l'asino, ma egli disse: -No, il mio ronzino lo porto io stesso nella stalla e lo lego io, perché‚ devo sapere dov'è-. Poi domandò che cosa vi fosse da mangiare e ordinò ogni ben di Dio. L'oste fece tanto d'occhi e pensò: "Uno che provvede da s‚ al suo asino, non ha certo molto da spendere". Ma quando il giovane trasse di tasca due monete d'oro perché‚ provvedesse a comprargli ciò che aveva ordinato, allora corse a cercare il meglio che potesse trovare. Dopo pranzo il giovane domandò: -Quanto vi devo?-. -Un altro paio di monete d'oro- rispose l'oste. Il garzone frugò in tasca, ma l'oro era alla fine, allora prese con s‚ la tovaglia e uscì. L'oste, che non capiva, lo seguì piano piano e lo vide entrare nella stalla. Allora sbirciò da una fessura nella porta e vide il garzone stendere la tovaglia sotto l'asino, gridare -Briclebrit-, e subito dalla bestia cadde una vera pioggia d'oro, di dietro e davanti. -Capperi!- esclamò l'oste. -Un simile borsellino non è male!- Il giovane pagò e andò a dormire; ma durante la notte l'oste scese di nascosto, legò un altro asino al posto di quello magico e menò questo in un'altra stalla. La mattina dopo il garzone se ne andò con la bestia pensando di condurre con s‚ il suo asino d'oro. A mezzogiorno giunse dal padre che si rallegrò al vederlo e disse: -Cosa sei diventato, figlio mio?-. -Un mugnaio, caro babbo!- rispose egli. -Che cosa hai portato dal viaggio?- -Un asino, babbo.- Il padre disse: -Asini ce n'è abbastanza anche qui, mentre mancano altri animali-. -Sì- rispose il figlio -ma è un asino d'oro: se gli dico "Briclebrit" riempie di oro un'intera tovaglia! Fate radunare tutti i parenti, voglio renderli ricchi.- Quando furono tutti riuniti, il mugnaio disse: -Fate un po' di posto- e distese a terra la tovaglia più grande che c'era in casa. Poi andò a prendere l'asino e ve lo mise sopra. Ma quando gridò: -Briclebrit- pensando che le monete d'oro si sarebbero sparse per tutta la stanza, apparve chiaro che la bestia non conosceva affatto quell'arte, poiché‚ non tutti gli asini ci arrivano. Allora il ragazzo fece la faccia lunga e comprese di essere stato ingannato; i parenti invece se ne andarono a casa poveri come erano venuti, ed egli dovette entrare a servizio da un mugnaio. Il terzo fratello era andato a imparare il mestiere da un tornitore, e dovette fare pratica più a lungo. Ma i suoi fratelli gli scrissero come fossero andate le cose, e come proprio l'ultima sera l'oste li avesse derubati dei loro begli oggetti magici. Quando il tornitore ebbe finito il tirocinio e dovette partire, il padrone gli disse: -Poiché‚ ti sei comportato così bene, ti regalerò un sacco; dentro c'è un randello-. -Il sacco me lo metterò in spalla, ma che me ne faccio di un randello?- -Te lo spiego subito- rispose il padrone. -Se qualcuno ti ha fatto del male, basta che tu dica: "Randello, fuori dal sacco!" e il randello salta fuori e balla così allegramente sulla schiena della gente da farla stare otto giorni a letto senza potersi muovere; e non la smette se tu non dici: "Randello, dentro al sacco!".- L'apprendista lo ringraziò, si mise il sacco in spalla e se qualcuno gli si avvicinava per aggredirlo, egli diceva: -Randello, fuori dal sacco!- e subito il randello saltava fuori e li spolverava l'uno dopo l'altro sulla schiena, e non la smetteva finché‚ c'era giubba o farsetto; e andava così svelto che non te l'aspettavi ed era già il tuo turno. Una sera, anche il tornitore giunse nell'osteria dov'erano stati derubati i suoi fratelli. Mise il suo sacco accanto a s‚ sulla tavola e incominciò a raccontare le meraviglie che a volte si incontrano in giro per il mondo, come tavolini magici e asini d'oro. Ma tutto ciò non era nulla a confronto del tesoro che egli si era guadagnato e che si trovava nel sacco. L'oste tese le orecchie e pensò: "Cosa potrà essere? Non c'è il due senza il tre, mi pare giusto avere anche questo". Il forestiero si distese poi sulla panca e si mise il sacco sotto la testa come cuscino. Quando lo credette addormentato profondamente, l'oste gli si avvicinò e incominciò con gran cautela a smuovere e a tirare il sacco, cercando di toglierlo e di sostituirlo con un altro. Ma il tornitore lo stava aspettando da un pezzo e, come l'oste volle dare uno strattone vigoroso, quello gridò: -Randello, fuori dal sacco!-. Subito il randello saltò addosso all'oste e gli spianò le costole di santa ragione. L'oste incominciò a gridare da far pietà, ma più gridava e più forte il randello gli batteva il tempo sulla schiena, finché‚ cadde a terra sfinito. Allora il tornitore disse: -Vuoi rendere finalmente il tavolino magico e l'asino d'oro? Se non lo fai ricomincia la danza-. -Ah, no- esclamò l'oste -restituisco tutto volentieri, purché‚ ricacciate nel sacco quel maledetto diavolo!- Il garzone disse: -Per questa volta passi, ma guardati bene dal fare tiri mancini!-. Poi disse: -"Randello, dentro al sacco!" e ve lo lasciò. Così il mattino dopo il tornitore ritornò a casa dal padre con il tavolino magico e l'asino d'oro. Il sarto fu felice di rivederlo e disse: -Che cosa hai imparato?-. -Babbo- rispose -sono diventato tornitore.- -Un bel mestiere- disse il padre. -Cos'hai portato dal viaggio?- -Babbo, un randello nel sacco.- -Un randello? Utile davvero!- -Sì, babbo, ma se dico: "Randello, fuori dal sacco!" salta fuori e concia per le feste i malintenzionati; in questo modo ho potuto riprendere il tavolino magico e l'asino d'oro. Fate venire i miei fratelli e tutti i parenti: voglio che mangino, bevano e si riempiano le tasche d'oro.- Quando furono tutti riuniti, il tornitore stese un panno nella stanza, portò dentro l'asino e disse: -Adesso parlagli, caro fratello-. Allora il mugnaio disse: -Briclebrit!- e all'istante le monete d'oro caddero tintinnando sul panno, e la pioggia non cessò finché‚ tutti i presenti non ebbero le tasche piene. Poi il tornitore andò a prendere il tavolino e disse: -Adesso parlargli, caro fratello-. E il falegname disse: -Tavolino, apparecchiati!- e subito eccolo apparecchiato e abbondantemente fornito di piatti prelibati. Così i parenti mangiarono, bevvero e se ne andarono a casa tutti contenti. Il sarto invece visse in pace coi i suoi tre figli. Ma dov'è finita la capra, colpevole di aver spinto il sarto a scacciare i tre figli? Era corsa a rannicchiarsi in una tana di volpe. Quando la volpe rincasò, si vide sfavillare di fronte nell'oscurità due occhiacci e fuggì via piena di paura. L'orso la incontrò e vide che la volpe era tutta turbata. Allora disse: -Perché‚ hai quella faccia, sorella volpe?-. -Ah- rispose Pelorosso -nella mia tana c'è un mostro che mi ha guardato con due occhi fiammeggianti!- -Lo cacceremo fuori- disse l'orso; l'accompagnò alla tana e guardò dentro. Ma quando scorse quegli occhi di fuoco, fu preso anche lui dalla paura, cosicché‚ non volle cimentarsi con il mostro e se la diede a gambe. Incontrò però l'ape che vedendolo con un aspetto non proprio ilare, disse: -Orso, perché‚ hai quella faccia abbattuta?-. -Nella tana di Pelorosso c'è un mostro con gli occhiacci e non possiamo cacciarlo fuori!- rispose l'orso. L'ape disse: -Io sono una povera e debole creatura, che voi non guardate neanche per strada; ma voglio un po' vedere se posso aiutarvi-. Volò nella tana, si posò sulla testa pelata della capra e la punse con tanta forza che quella saltò su gridando: -Bèee! bèee!- e corse fuori come una pazza. E finora nessuno sa dove se ne sia andata
Immagine: Il tavolino magico, l'asino d'oro e il randello castigamatti (Grimm)

 
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Il diavolo e sua nonna

Post n°423 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una volta vi fu una grande guerra e il re diede ai soldati una paga così misera, che non bastava loro per vivere. Allora tre soldati si misero insieme e pensarono di scappare. Uno disse: -Se ci prendono, però, c'impiccano: come faremo?-. L'altro rispose: -Là c'è un grosso campo di grano; se vi entriamo e ci nascondiamo, non ci trova nessuno: l'esercito non può entrare là in mezzo-. Così si acquattarono nel grano, e vi rimasero due giorni e due notti, e avevano tanta fame che credevano di morire, poiché‚ uscire non potevano. Allora dissero: -A cosa ci serve essere scappati, se qui ci tocca morire miseramente!-. In quella giunse a volo nell'aria un drago di fuoco, li vide distesi laggiù e chiese: -Che cosa fate lì in mezzo al grano?-. Essi risposero: -Siamo tre soldati e abbiamo disertato perché‚ non potevamo più vivere con la nostra paga nell'esercito; adesso però siamo costretti a morire qui di fame, perché‚ l'esercito è accampato qui attorno e non possiamo fuggire-. -Se volete servirmi per sette anni- disse il drago -vi condurrò attraverso le schiere, senza che nessuno possa acchiapparvi.- -Non abbiamo scelta, accettiamo!- risposero quelli. Allora il drago li afferrò con gli artigli, li prese sotto le sue ali e li portò a volo per l'aria al di sopra dell'esercito, e li rimise a terra al sicuro. Ma il drago non era altri che il diavolo; diede loro un piccolo frustino, con il quale, schioccandolo, avrebbero avuto denaro a volontà. -Con questo- disse -potrete vivere da gran signori e andare in carrozza; ma, in capo a sette anni, sarete miei- e presentò loro un libro sul quale tutti e tre dovettero firmare. -Tuttavia, vi proporrò prima un indovinello- diss'egli. -Se lo saprete indovinare, sarete liberi e io non avrò più alcun potere su di voi.- Il drago volò via, ed essi proseguirono con il loro frustino; avevano denaro in abbondanza, si vestivano da gran signori e giravano il mondo. Dovunque si trovassero, vivevano spassandosela, viaggiavano con cavalli e carrozza, mangiavano, bevevano, e i sette anni trascorsero in fretta. Quando il tempo volse al termine, a due di loro venne una gran paura ed erano tutti tristi, mentre il terzo la prese alla leggera e disse: -Fratelli, non temete, forse potremo risolvere l'indovinello-. Mentre se ne stavano là seduti, arrivò una vecchia che domandò perché‚ fossero tanto afflitti -Ah, cosa ve ne importa! Tanto non potete aiutarci!- -Chi lo sa- rispose ella -raccontatemi le vostre pene.- Allora essi le raccontarono che avevano servito il diavolo per quasi sette anni, ed egli aveva procurato loro oro a palate. Ma avevano dovuto vendergli l'anima, e sarebbero caduti in suo potere se, al temine dei setti anni, non avessero saputo sciogliere un indovinello. La vecchia disse: -Se volete che vi aiuti, bisogna che uno di voi vada nel bosco, e arrivi davanti a un dirupo che sembra una casetta-. I due afflitti pensarono: "Tanto non servirà a nulla!" e rimasero fuori dal bosco. Il terzo invece, quello allegro, si mise in cammino e trovò tutto quanto come aveva detto la vecchia. Nella casetta c'era una vecchia decrepita, che era la nonna del diavolo, e gli domandò di dove venisse e che cosa volesse. Egli le raccontò ogni cosa e siccome era proprio un brav'uomo, ella ne ebbe pietà. Sollevò una grossa pietra e disse: -Nasconditi qua sotto e sta' zitto. Quando viene il drago gli chiederò l'indovinello-. A mezzanotte giunse a volo il drago e volle cenare. La nonna gli preparò la tavola, portò da bere e da mangiare, ed egli era tutto contento, e mangiarono e bevvero insieme. Chiacchierando, ella gli domandò com'era andata quel giorno, e quante anime aveva acchiappato. -Ci sono tre soldati, che sono miei di sicuro- egli rispose. -Sì, tre soldati!- diss'ella -quelli, non so cos'abbiano in corpo, possono ancora sfuggirti.- Il diavolo disse, beffardo: -Sono certamente miei: proporrò loro un indovinello che non sapranno mai risolvere!-. -Che indovinello?- chiese la vecchia. -Te lo dirò: nel gran mare del Nord c'è un gattomammone morto, sarà il loro arrosto; la costola di una balena sarà il loro cucchiaio d'argento; e un vecchio zoccolo di cavallo sarà il loro bicchiere da vino.- Poi il diavolo se ne andò a dormire e la vecchia nonna sollevò la pietra e fece uscire il soldato. -Hai fatto bene attenzione?- -Sì- diss'egli -ora saprò trarmi d'impaccio.- Poi dovette andarsene di soppiatto, uscendo dalla finestra perché‚ il diavolo non lo vedesse, e raggiunse così in tutta fretta i suoi compagni. Quando arrivò da loro, raccontò ciò che aveva udito, e disse che ora potevano indovinare ciò che nessuno avrebbe mai saputo. Ne furono tutti felici e contenti e si misero a schioccare la frusta per procurarsi un bel po' di denaro. Quando furono trascorsi i sette anni, arrivò il diavolo con il libro, mostrò loro le firme e disse: -Voglio portarvi all'inferno con me: là farete un pranzo e se saprete indovinare che arrosto vi daranno da mangiare, sarete liberi e potrete tenervi anche il frustino-. Allora il primo soldato disse: -Nel gran mare del Nord c'è un gattomammone morto: l'arrosto sarà quello-. Il diavolo s'irritò, fece: -Ehm! ehm!- e domandò al secondo: -Quale sarà il vostro cucchiaio?-. -Il nostro cucchiaio d'argento sarà la costola di una balena- rispose quello. Il diavolo fece una brutta faccia, brontolò di nuovo tre volte: -Ehm! ehm! ehm!- e disse al terzo: -Quale sarà il vostro bicchiere da vino?-. -Il nostro bicchiere da vino sarà un vecchio zoccolo di cavallo.- Allora il diavolo volò via, li lasciò in pace e non ebbe più alcun potere su di loro; ma i tre soldati tennero il frustino, ne trassero denaro a volontà e vissero allegramente fino alla morte.




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Il bambino cattivo

Post n°422 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio poeta, proprio un buon vecchio poeta. Una sera che era in casa, venne un tempo bruttissimo, la pioggia scendeva a scroscio, ma il vecchio poeta stava bene al caldo vicino alla stufa, dove la legna bruciava e le mele cuocevano.

«Saranno proprio fradici quei poveretti che si trovano fuori adesso!» disse, perché era proprio un buon poeta.

«Oh, apritemi! Sto congelando e sono bagnato fradicio!» gridò un bambinetto che si trovava fuori. Piangeva e bussava alla porta, mentre la pioggia continuava a cadere e il vento soffiava contro le finestre.

«Poverino!» esclamò il vecchio poeta, e aprì la porta. Vide un bambino, completamente nudo, con l'acqua che scorreva lungo i capelli biondi, tremante per il freddo; se non fosse entrato, sarebbe sicuramente morto, con quel tempaccio.

«Poverino!» disse il vecchio poeta e lo prese per mano. «Vieni qui da me, che ti scaldo. Adesso ti darò del vino e una mela, perché sei un bel bambino.»

E lo era veramente. Gli occhi sembravano due stelle lucenti, e i lunghi capelli dorati, pure grondanti d'acqua, erano tutti bene arricciati. Sembrava un angelo, ma era pallido per il freddo e tremava con tutto il corpo. In mano teneva un bell'arco, ma si era rovinato per l'acqua, e i colori delle frecce erano tutti mescolati per la grande umidità.

Il vecchio poeta sedette vicino alla stufa, si prese il ragazzino in grembo, gli strizzò l'acqua dai capelli, gli scaldò le manine nelle sue e fece bollire del vino per lui; così il piccolo si riebbe, le guance ripresero colore, e lui saltò sul pavimento e si mise a ballare intorno al vecchio poeta.

«Sei proprio un bambino allegro!» esclamò il vecchio poeta. «Come ti chiami?»

«Mi chiamo AMORE!» gli rispose. «Non mi conosci? E questo è il mio arco. Io so tirare con l'arco, so tirare davvero! Guarda, adesso torna il bel tempo; la luna splende.»

«Ma il tuo arco è rovinato» disse il vecchio poeta.

«Che peccato» rispose il bambino, lo prese in mano e lo guardò. «Oh, adesso si è asciugato, e non ha subito danni. La corda è ancora ben tesa! Adesso lo provo» e così tese l'arco, vi mise una freccia, mirò e colpì quel buon vecchio poeta proprio al cuore. «Hai visto che il mio arco non s'è rovinato!» esclamò, e ridendo forte se ne andò.

Che bambino cattivo! colpire così il vecchio poeta che lo aveva ospitato nella sua casetta calda, che era stato tanto buono con lui, che gli aveva dato del buon vino e la mela più bella.

Il buon poeta era steso sul pavimento e piangeva, era stato proprio colpito al cuore e diceva: «Ah, che ragazzo cattivo è Amore! Devo raccontarlo a tutti i bambini buoni, affinché stiano attenti e non giochino mai con lui, perché può far loro del male!».

Tutti i bambini buoni, maschi e femmine, a cui egli raccontò l'accaduto, stavano in guardia dal crudele Amore, ma lui li ingannava ugualmente, perché era così abile! Quando gli studenti uscivano dalle lezioni, si affiancava a loro, con un libro sotto il braccio e un vestito nero. Non potevano certo riconoscerlo e così lo prendevano sottobraccio e credevano fosse uno studente come loro, ma a quel punto lui gli scoccava una freccia nel petto. Quando le ragazze se ne andavano via dal prete, o quando erano in chiesa, le seguiva sempre. Sì, era sempre con la gente! A teatro si metteva nel lampadario e ardeva come una lampada, così tutti credevano che fosse una lampadina, ma poi s'accorgevano di qualcos'altro.

Correva nel giardino reale e sui bastioni. Sì, una volta ha colpito tuo padre e tua madre al cuore! Prova a chiederglielo, e senti cosa ti diranno. Già, è proprio un ragazzo cattivo, questo Amore, non dovresti mai avere a che fare con lui. Va dietro alla gente. Pensa che una volta ha anche scoccato una freccia alla vecchia nonna; è passato tanto tempo ormai, ma lei non lo dimenticherà. Ah, cattivo Amore! Ma ora lo conosci; sai quanto sia cattivo quel bambino.

 
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Il folletto e la signora

Post n°421 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Tu conosci certo il folletto, ma conosci anche la signora, la moglie del giardiniere? Era istruita, recitava versi, e ne scriveva lei stessa con grande facilità, solo le rime per "far baciare i versi", come diceva lei, le creavano un po' di problemi. Sapeva scrivere e parlare bene, avrebbe potuto benissimo diventare pastore o per lo meno moglie di un pastore.
«La terra è bella nel suo vestito della festa!» disse, e quel pensiero lo aveva messo in bello stile con la rima baciata, e l'aveva sviluppato in una lunga e bellissima canzone.
Il maestro di scuola, il signor Kisserup, ma il nome non è importante, era un suo nipote e era venuto in visita, ascoltò la poesia della zia, e questo gli fece bene, disse, proprio bene al cuore. «Lei ha spirito, signora» esclamò.
«Quante storie!» rispose il giardiniere «non le dica queste cose! Una moglie deve essere pratica, pratica e dignitosa, e preoccuparsi che la minestra nella pentola non bruci.»
«Toglierò l'odore di bruciato con un pezzo di carbone» rispose la signora. «E l'odore di bruciato che è in te lo toglierò con un bacio. Sembra quasi che tu pensi soltanto ai cavoli e alle patate; e dire che ami i fiori!» e così lo baciò. «I fiori sono spirito» commentò.
«Sta attenta alla pentola!» ripetè lui andandosene in giardino: il giardino era la sua pentola e lui badava a quello.
Ma il maestro di scuola sedette vicino alla signora e si mise a parlare con lei: tenne una specie di sermone, fatto a suo modo sulle parole bellissime di lei: "la terra è bella!".
«La terra è bella, dovete sottometterla, venne detto, e noi diventammo padroni. Chi con lo spirito, chi con il corpo. Qualcuno fu messo nel mondo come un punto esclamativo, qualcun altro come un punto di domanda, perché ci si chieda che cosa ci faccia qui! Uno diventa vescovo, un altro un semplice maestro di scuola, ma ogni cosa è fatta con saggezza. La terra è bella nel suo vestito della festa! Questa è proprio una poesia che stimola la riflessione, signora, è piena di sentimento e di cognizioni geografiche.»
«Lei ha spirito, signor Kisserup» disse la signora «molto spirito, glielo assicuro! Si vede chiaro in se stessi quando si parla con lei.»
E continuarono a parlare, sempre molto bene; ma in cucina c'era qualcun altro che parlava, era il folletto, quel piccolo folletto vestito di grigio con il cappello rosso: lo conosci? Il folletto stava in cucina e era un ficcanaso, e parlava, ma nessuno lo sentiva, eccetto il grande gatto nero, "il ladro di panna" come lo chiamava la signora.
Il folletto era molto arrabbiato con la signora, perché lei non credeva alla sua esistenza; in realtà non l'aveva mai visto, ma con la sua cultura doveva sapere che esisteva e quindi mostrargli qualche piccola attenzione. Pure, non le veniva mai in mente, la sera di Natale, di preparare una scodella di riso al latte per lui, come tutti i suoi antenati avevano ricevuto, e da parte di signore che non avevano nessuna cultura; riso al latte annegato nel burro e nella panna. Al gatto venne l'acquolina in bocca solo a sentirlo.
«Mi chiama "Concetto"!» disse il folletto «e questo per me è inconcepibile! In realtà mi nega! Questo l'ho scoperto origliando, e ora ho scoperto qualcos'altro: è lì a passare il tempo con il punitore dei bambini, il maestro di scuola. Io sono d'accordo con il marito: "Bada alla tua pentola!", e lei non lo fa, ora farò in modo che trabocchi!»
Il folletto soffiò sul fuoco che avvampò e bruciò con più forza. "Surresurrerup!" e la minestra sgorgò fuori.
«Ora vado a fare dei buchi nelle calze del padrone!» disse il folletto «farò un buco grossissimo sull'alluce e uno sul calcagno, così sarà costretta a rammendare e non farà più poesie: la signora poetessa che rammenda le calze del marito!»
Il gatto starnutì, era raffreddato nonostante avesse sempre la pelliccia.
«Ho aperto la porta della dispensa» gli disse il folletto «c'è della panna, densa come un pasticcio di farina. Se non vai a leccarla tu, lo farò io!»
«Dato che mi daranno la colpa e le botte» disse il gatto «è giusto che la panna la lecchi io!»
«Prima la panna, poi la frusta!» disse il folletto. «Ma ora andrò nella camera del maestro di scuola e gli legherò le bretelle allo specchio e gli metterò i calzini nella bacinella dell'acqua, così penserà che il punch era troppo forte e gli ha confuso la mente. La notte scorsa mi sono messo sulla catasta di legna vicino al canile, mi diverto molto a prendere in giro il cane alla catena. Ho dondolato le gambe, ma il cane non riusciva a raggiungermi, nonostante saltasse in alto. Così si arrabbiò e abbaiò continuamente, io invece continuavo a dondolare le gambe. Era proprio un bello spettacolo. Il maestro di scuola si svegliò a quel rumore, per ben tre volte guardò fuori, ma non mi vide, nonostante avesse gli occhiali infatti dorme sempre con gli occhiali.»
«Dimmi miao, quando arriva la signora!» disse il gatto. «Non ci sento bene oggi, sono malato.»
«Tu sei goloso!» replicò il folletto. «Lecca, lecca! che la malattia se ne va. Ma asciugati i baffi, che non ti resti attaccata della panna. Ora vado a origliare.»
Il folletto si mise vicino alla porta socchiusa, non c'era nessuno nella stanza eccetto la signora e il maestro di scuola che parlavano di quello che il seminarista con una bella espressione chiamava: i doni dello spirito, doni che dovevano venire prima delle pentole e delle padelle nel governo della casa.
«Signor Kisserup» disse la donna «a questo proposito voglio mostrarle qualcosa che non ho ancora mostrato a nessuno tanto meno a un uomo; sono le mie poesie brevi, alcune in realtà sono un po' lunghe, ma le ho chìamateRime baciate di una dama di cultura . Mi piacciono tanto le espressioni all'antica!»
«Bisogna conservare anche quelle» commentò il maestro di scuola «bisogna eliminare il tedesco dalla nostra lingua.»
«È quello che faccio» spiegò la signora. «Lei non mi sentirà mai dire "Kleiner" o "Butterteig", io dico sempre "frittelle" e "pasta sfoglia".»
Intanto prese da un cassetto un quaderno con una copertina verde chiara con due macchie d'inchiostro.
«C'è una grande serietà in questo libro!» spiegò. «Io sono profondamente attratta da tutto quel che è patetico. Ecco quiSospiro nella notte ,11 mio crepuscolo eQuando sposai Klemensen , mio marito. Questa la si può anche saltare, anche se naturalmente è molto sentita e ben pensata./ doveri di una casalinga è il pezzo più bello; tutte sono molto patetiche, in questo sono brava, solo un pezzo è divertente, pieno di pensieri allegri, bisogna avere anche quelli. Pensieri su... ora non rida di me! pensieri sul fatto di essere poetessa. Sono conosciuti solo da me, dal mio cassetto, e ora anche da lei, signor Kisserup. Io amo la poesia, mi invade, mi sollecita, mi consiglia e mi governa. Questa l'ho ìntìtolataPiccolo folletto . Lei conosce certamente la vecchia superstizione contadina dei folletti di casa, che fanno sempre qualche scherzo; io ho immaginato di essere la casa e che la poesia, le sensazioni che sono in me fossero il folletto, lo spirito che consiglia; mPiccolo folletto ho cantato il suo potere e la sua grandezza, ma lei deve promettermi di non rivelare queste cose né a mio marito né a nessun altro. Legga a voce alta, così posso vedere se capisce la mia scrittura.»
Il maestro di scuola lesse e la signora si mise a ascoltare; anche il piccolo folletto ascoltò; origliava, lo sai bene, e giunse proprio nel momento in cui fu letto il titolo: Piccolo folletto .
«Parla di me!» esclamò. «Che cosa può aver scritto di me? Mi metterò a beccarla, beccherò le sue uova, i suoi pulcini e farò dimagrire il vitello grasso; ma guarda un po', questa signora!»
E ascoltò con le orecchie tese e il collo allungato; ma come sentiva della magnificenza e del potere del folletto, del dominio che aveva sulla signora (tu sai bene che la signora intendeva l'arte del poetare, ma il folletto prese le cose alla lettera), cominciò a sorridere; gli occhi gli brillarono per la gioia, la bocca prese una piega piena di distinzione; si alzò sui talloni e rimase in punta di piedi, crescendo di un intero pollice. Era incantato da tutto quanto veniva detto sul piccolo folletto.
«La signora ha spirito e grande cultura! Che ingiustizia le ho fatto! Lei mi ha messo nelle sueRime baciate che verranno pubblicate e lette. Ora il gatto non avrà più il permesso di mangiare la panna della signora, lo farò io stesso. Uno mangia meno di due, quindi è sempre un bel risparmio; e io farò così oltre a onorare e rispettare la signora.»
«È proprio come un uomo questo folletto» disse il vecchio gatto. «Basta un dolce miagolio da parte della signora, un miagolio su di lui, e subito cambia opinione. È proprio furba la signora!»
Ma lei non era furba, era il folletto che era umano.
Se non capisci questa storia chiedi, ma non chiedere né al folletto, né alla signora.

 

 
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Il brutto anatroccolo

Post n°420 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Era così bello in campagna, era estate! Il grano era bello giallo, l'avena era verde e il fieno era stato ammucchiato nei prati; la cicogna passeggiava sulle sue slanciate zampe rosa e parlava egiziano, perché aveva imparato quella lingua da sua madre. Intorno ai campi e al prati c'erano grandi boschi, e in mezzo al boschi si trovavano laghi profondi; era proprio bello in campagna! Esposto al sole si trovava un vecchio maniero circondato da profondi canali, e tra il muro e l'acqua crescevano grosse foglie di farfaraccio, e erano così alte che i bambini più piccoli potevano stare dritti all'ombra delle più grandi. Quel luogo era selvaggio come un profondo bosco; lì si trovava un'anatra col suo nido. Doveva covare gli anatroccoli, ma ormai era quasi stanca, sia perché ci voleva tanto tempo sia perché non riceveva quasi mai visite. Le altre anatre preferivano nuotare lungo i canali piuttosto che risalire la riva e sedersi sotto una foglia di farfaraccio a chiacchierare con lei.
Finalmente una dopo l'altra, le uova scricchiolarono. «Pip, pip» si sentì, tutti i tuorli delle uova erano diventati vivi e sporgevano fuori la testolina.
«Qua, qua!» disse l'anatra, e subito tutti schiamazzarono a più non posso, guardando da ogni parte sotto le verdi foglie; e la madre lasciò che guardassero, perché il verde fa bene agli occhi.
«Com'è grande il mondo!» esclamarono i piccoli, adesso infatti avevano molto più spazio di quando stavano nell'uovo.
«Credete forse che questo sia tutto il mondo?» chiese la madre. «Si stende molto lontano, oltre il giardino, fino al prato del pastore; ma fin là non sono mai stata. Ci siete tutti, vero?» e intanto si alzò. «No, non siete tutti. L'uovo più grande è ancora qui. Quanto ci vorrà? Ormai sono quasi stufa» e si rimise a covare.
«Allora, come va?» chiese una vecchia anatra giunta a farle visita.
«Ci vuole tanto tempo per quest'unico uovo!» rispose l'anatra che covava. «Non vuole rompersi. Ma dovresti vedere gli altri! Sono i più deliziosi anatroccoli che io abbia mai visto assomigliano tanto al loro padre, quel briccone, che non viene neppure a trovarmi.»
«Fammi vedere l'uovo che non si vuole rompere!» disse la vecchia. «Può essere un uovo di tacchina! Anch'io sono stata ingannata una volta, e ho passato dei guai con i piccoli che avevano una paura incredibile dell'acqua. Non riuscii a farli uscire. Schiamazzai e beccai, ma non servì a nulla. Fammi vedere l'uovo. Sì, è un uovo di tacchina. Lascialo stare e insegna piuttosto a nuotare ai tuoi piccoli.»
«Adesso lo covo ancora un po'; l'ho covato così a lungo che posso farlo ancora un po'!»
«Fai come vuoi!» commentò la vecchia anatra andandosene.
Finalmente quel grosso uovo si ruppe. «Pip, pip» esclamò il piccolo e uscì: era molto grande e brutto. L'anatra lo osservò.
«È un anatroccolo esageratamente grosso!» disse. «Nessuno degli altri è come lui! Purché non sia un piccolo di tacchina! Bene, lo scopriremo presto. Deve entrare in acqua, anche a costo di prenderlo a calci!»
Il giorno dopo era una giornata bellissima; il sole splendeva sulle verdi foglie di farfaraccio. Mamma anatra arrivò con tutta la famiglia al canale. Splash! si buttò in acqua; «qua, qua!» disse, e tutti i piccoli si tuffarono uno dopo l'altro. L'acqua coprì le loro testoline, ma subito tornarono a galla e galleggiarono beatamente; le zampe si muovevano da sole e c'erano proprio tutti, anche il piccolo brutto e grigio nuotava con loro.
«No, non è un tacchino!» esclamò l'anatra «guarda come muove bene le zampe, come si tiene ben dritto! È proprio mio! In fondo è anche carino se lo si guarda bene. Qua, qua! venite con me, vi condurrò nel mondo e vi presenterò agli altri abitanti del pollaio, ma state sempre vicino a me, che nessuno vi calpesti, e fate attenzione al gatto!»
Entrarono nel pollaio. C'era un chiasso terribile, perché due famiglie si contendevano una testa d'anguilla, che alla fine andò al gatto.
«Vedete come va il mondo!» disse la mamma anatra leccandosi il becco, dato che anche lei avrebbe voluto la testa d'anguilla. «Adesso muovete le zampe» aggiunse «provate a salutare e a inchinarvi a quella vecchia anatra. È la più distinta di tutte, è di origine spagnola, per questo è così pesante! Guardate, ha uno straccio rosso intorno a una zampa. È una cosa proprio straordinaria, la massima onorificenza che un'anatra possa ottenere. Significa che non la si vuole abbandonare, e che è rispettata sia dagli animali che dagli uomini. Muovetevi! Non tenete i piedi in dentro! Un anatroccolo ben educato tiene le gambe ben larghe, proprio come il babbo e la mamma. Ecco! Adesso chinate il collo e dite qua!»
E così fecero, ma le altre anatre lì intorno li guardarono e esclamarono: «Guardate! Adesso arriva la processione, come se non fossimo abbastanza, e, mamma mia com'è brutto quell'anatroccolo! Lui non lo vogliamo!» e subito un'anatra gli volò vicino e lo beccò alla nuca.
«Lasciatelo stare» gridò la madre «non ha fatto niente a nessuno!»
«Sì, ma è troppo grosso e strano!» rispose l'anatra che lo aveva beccato «e quindi ne prenderà un bel po'!»
«Che bei piccini ha mamma anatra!» disse la vecchia con lo straccetto intorno alla zampa «sono tutti belli, eccetto uno, che non è venuto bene. Sarebbe bello che lo potesse rifare!»
«Non è possibile, Vostra Grazia!» rispose mamma anatra «non è bello, ma è di animo molto buono e nuota bene come tutti gli altri, anzi un po' meglio. Credo che, crescendo, diventerà più bello e che col tempo sarà meno grosso. È rimasto troppo a lungo nell'uovo, per questo ha un corpo non del tutto normale». E intanto lo grattò col becco sulla nuca e gli lisciò le piume. «Comunque è un maschio» aggiunse «e quindi non è così importante. Credo che avrà molta forza e riuscirà a cavarsela!».
«Gli altri anatroccoli sono graziosi» disse la vecchia. «Fate come se foste a casa vostra e, se trovate una testa d'anguilla, portatemela.»
E così fecero come se fossero a casa loro.
Ma il povero anatroccolo che era uscito per ultimo dall'uovo e che era così brutto venne beccato, spinto e preso in giro, sia dalle anatre che dalle galline: «È troppo grosso!» dicevano tutti, e il tacchino, che era nato con gli speroni e quindi credeva di essere imperatore, si gonfiò come un'imbarcazione a vele spiegate e si precipitò contro di lui, gorgogliando e con la testa tutta rossa. Il povero anatroccolo non sapeva se doveva rimanere o andare via, era molto abbattuto perché era così brutto e tutto il pollaio lo prendeva in giro.
Così passò il primo giorno, e col tempo fu sempre peggio. Il povero anatroccolo veniva cacciato da tutti, persino i suoi fratelli erano cattivi con lui e dicevano sempre: «Se solo il gatto ti prendesse, brutto mostro!» e la madre pensava: "Se tu fossi lontano da qui!". Le anatre lo beccavano, le galline
10 colpivano e la ragazza che portava il mangime alle bestie lo allontanava a calci.
Così volò oltre la siepe; gli uccellini che si trovavano tra i cespugli si alzarono in volo spaventati. "È perché io sono così brutto" pensò l'anatroccolo e chiuse gli occhi, ma continuò a correre. Arrivò così nella grande palude, abitata dalle anatre selvatiche. Lì giacque tutta la notte: era molto stanco e triste.
11 mattino dopo le anatre selvatiche si alzarono e guardarono il loro nuovo compagno. «E tu chi sei?» gli chiesero, e l'anatroccolo si voltò da ogni parte e salutò come meglio potè.
«Sei proprio brutto!» esclamarono le anatre selvatiche «ma a noi non importa nulla, purché tu non ti sposi con qualcuno della nostra famiglia!» Quel poveretto non pensava certo a sposarsi, gli bastava solamente poter stare tra i giunchi e bere un po' di acqua della palude.
Lì rimase due giorni, poi giunsero due oche selvatiche, o meglio, due paperi selvatici, dato che erano maschi. Era passato poco tempo da quando erano usciti dall'uovo e per questo erano molto spavaldi.
«Ascolta, compagno» dissero «tu sei così brutto che ci piaci molto! Vuoi venire con noi e essere uccello di passo? In un'altra palude qui vicino si trovano delle graziose oche selvatiche, tutte signorine, che sanno dire qua! Tu potresti avere fortuna, dato che sei così brutto!»
"Pum, pum!" si sentì in quel momento, entrambe le anatre caddero morte tra i giunchi e l'acqua si arrossò per il sangue. "Pum, pum!» si sentì di nuovo, e tutte le oche selvatiche si sollevarono in schiere. Poi spararono di nuovo. C'era caccia grossa; i cacciatori giravano per la palude, sì, alcuni s'erano arrampicati sui rami degli alberi e si affacciavano sui giunchi. Il fumo grigio si spandeva come una nuvola tra gli alberi neri e rimase a lungo sull'acqua. Nel fango giunsero i cani da caccia plasch, plasch! Canne e giunchi dondolavano da ogni parte. Spaventato, il povero anatroccolo piegò la testa cercando di infilarsela sotto le ali, ma in quello stesso momento si trovò vicino un cane terribilmente grosso, con la lingua che gli pendeva fuori dalla bocca e gli occhi che brillavano orrendamente; avvicinò il muso all'anatroccolo, mostrò i denti aguzzi e plasch! se ne andò senza fargli nulla.
«Dio sia lodato!» sospirò l'anatroccolo «sono così brutto che persino il cane non osa mordermi.»
E rimase tranquillo, mentre i pallini fischiavano tra i giunchi e si sentiva sparare un colpo dopo l'altro.
Solo a giorno inoltrato tornò la quiete, ma il povero giovane ancora non osava rialzarsi; attese ancora molte ore prima di guardarsi intorno, e poi si affrettò a lasciare la palude il più presto possibile. Corse per campi e prati, ma c'era molto vento e faceva fatica a avanzare.
Verso sera raggiunse una povera e piccola casa di contadini, era così misera che lei stessa non sapeva da che parte doveva cadere, e così rimaneva in piedi. Il vento soffiava intorno all'anatroccolo, tanto che lui dovette sedere sulla coda per poter resistere, ma diventava sempre peggio. Allora notò che la porta si era scardinata da un lato e era tutta inclinata, e che lui, attraverso la fessura, poteva infilarsi nella stanza, e così fece.
Qui abitava una vecchia col suo gatto e la gallina; il gatto, che lei chiamava "figliolo", sapeva incurvare la schiena e fare le fusa, e faceva persino scintille se lo si accarezzava contro pelo. La gallina aveva le zampe piccole e basse e per questo era chiamata "coccodè gamba corta", faceva le uova e la donna le voleva bene come a una figlia.
Al mattino si accorsero subito dell'anatroccolo estraneo, e il gatto cominciò a fare le fusa e la gallina a chiocciare.
«Che succede?» chiese la vecchia, e si guardò intorno, ma non ci vedeva bene e così credette che l'anatroccolo fosse una grassa anatra che si era smarrita. «È proprio una bella preda!» disse «ora potrò avere uova di anatra, purché non sia un maschio! Lo metterò alla prova.»
E così l'anatroccolo restò in prova per tre settimane, ma non fece nessun uovo. Il gatto era il padrone di casa e la gallina era la padrona, e sempre dicevano: «Noi e il mondo!» perché credevano di esserne la metà, e naturalmente la metà migliore. L'anatroccolo pensava che si potesse avere anche un'altra opinione, ma questo la gallina non lo sopportava.
«Fai le uova?» chiese la gallina.
«No.»
«Allora te ne vuoi stare zitto!»
E il gatto gli disse: «Sei capace di inarcare la schiena, di fare le fusa e di fare scintille?».
«No!»
«Bene, allora non devi avere più opinioni, quando parlano le persone ragionevoli.»
E l'anatroccolo se ne stava in un angolo, di cattivo umore. Poi cominciò a pensare all'aria fresca e al bel sole. Lo prese una strana voglia di andare nell'acqua, alla fine non potè trattenersi e lo disse alla gallina.
«Cosa ti succede?» gli chiese lei. «Non hai niente da fare, è per questo che ti vengono le fantasie. Fai le uova, o fai le fusa, vedrai che ti passa!»
«Ma è così bello galleggiare sull'acqua!» disse l'anatroccolo «così bello averla sulla testa e tuffarsi giù fino al fondo!»
«Sì, è certo un gran divertimento!» commentò la gallina «tu sei ammattito! Chiedi al gatto, che è il più intelligente che io conosca, se gli piace galleggiare sull'acqua o tuffarsi sotto! Quanto a me, neanche a parlarne! Chiedilo anche alla nostra signora, la vecchia dama! Più intelligente di lei non c'è nessuno nel mondo. Credi che lei abbia voglia di galleggiare o di avere l'acqua sopra la testa?»
«Voi non mi capite!» disse l'anatroccolo.
«Certo, se non ti capiamo noi chi dovrebbe capirti, allora? Non sei certo più intelligente del gatto o della donna, per non parlare di me! Non darti delle arie, piccolo! e ringrazia il tuo creatore per tutto il bene che ti è stato fatto. Non sei forse stato in una stanza calda e non hai una compagnia da cui puoi imparare qualcosa? Ma tu sei strambo, e non è certo divertente vivere con te. A me puoi credere: io faccio il tuo bene se ti dico cose spiacevoli; da questo si riconoscono i veri amici. Cerca piuttosto di fare le uova o di fare le fusa o le scintille!»
«Credo che me ne andrò per il mondo» disse l'anatroccolo.
«Fai come vuoi!» gli rispose la gallina.
E così l'anatroccolo se ne andò. Galleggiava sull'acqua e vi si tuffava, ma era disprezzato da tutti gli animali per la sua bruttezza.
Venne l'autunno. Le foglie del bosco ingiallirono, il vento le afferrò e le fece danzare e su nel cielo sembrava facesse proprio freddo. Le nuvole erano cariche di grandine e di fiocchi di neve, e sulla siepe si trovava un corvo che, ah! ah! si lamentava dal freddo. Vengono i brividi solo a pensarci. Il povero anatroccolo non stava certo bene.
Una sera che il sole tramontava splendidamente, uscì dai cespugli uno stormo di bellissimi e grandi uccelli; l'anatroccolo non ne aveva mai visti di così belli. Erano di un bianco lucente, con lunghi colli flessibili: erano cigni. Mandarono un grido bizzarro, allargarono le loro magnifiche e lunghe ali e volarono via, dalle fredde regioni fino ai paesi più caldi, ai mari aperti! Si alzarono così alti che il brutto anatroccolo sentì una strana nostalgia, si rotolò nell'acqua come una ruota, sollevò il collo verso di loro e emise un grido così acuto e strano, che lui stesso ne ebbe paura. Oh, non riusciva a dimenticare quei bellissimi e fortunati uccelli e quando non li vide più, si tuffò nell'acqua fino sul fondo, e tornato a galla era come fuori di sé. Non sapeva che uccelli fossero e neppure dove si stavano dirigendo, ma ciò nonostante li amava come non aveva mai amato nessun altro. Non li invidiava affatto. Come avrebbe potuto desiderare una simile bellezza! Sarebbe stato contento se solo le anatre lo avessero accettato tra loro. Povero brutto animale!
E l'inverno fu freddo, molto freddo. L'anatroccolo dovette nuotare continuamente per evitare che l'acqua ghiacciasse, ma ogni notte il buco in cui nuotava si faceva sempre più stretto. Ghiacciò, poi la superficie scricchiolò. L'anatroccolo doveva muovere le zampe senza fermarsi, affinché l'acqua non si chiudesse; alla fine si indebolì, si fermò e restò intrappolato nel ghiaccio.
Al mattino presto arrivò un contadino, lo vide e col suo zoccolo ruppe il ghiaccio, poi lo portò a casa da sua moglie. Lì lo fecero rinvenire.
I bambini volevano giocare con lui, ma l'anatroccolo credette che gli volessero fare del male; e per paura cadde nel secchio del latte e lo fece traboccare nella stanza. La donna gridò e agitò le mani, lui allora volò sulla dispensa dove c'era il burro, e poi nel barile della farina, e poi fuori di nuovo! Uh, come si era ridotto! La donna gridava e lo inseguiva con le molle del camino e i bambini si urtavano tra loro cercando di afferrarlo e intanto ridevano e gridavano. Per fortuna la porta era aperta; l'anatroccolo volò fuori tra i cespugli, nella neve caduta, e lì restò, stordito.
Sarebbe troppo straziante raccontare tutte le miserie e i patimenti che dovette sopportare nel duro inverno. Si trovava nella palude tra le canne, quando il sole ricominciò a splendere caldo. Le allodole cantavano, era giunta la bella primavera!
Allora sollevò con un colpo solo le ali, che frusciarono più robuste di prima e che lo sostennero con forza, e prima ancora di accorgersene si trovò in un grande giardino, pieno di meli in fiore, dove i cespugli di lilla profumavano e piegavano i lunghi rami verdi giù fino ai canali serpeggianti. Oh! Che bel posto! e com'era fresca l'aria di primavera! Dalle fitte piante uscirono, proprio davanti a lui, tre bellissimi cigni bianchi; frullarono le piume e galleggiarono dolcemente sull'acqua. L'anatroccolo riconobbe quegli splendidi animali e fu invaso da una strana tristezza.
"Voglio volare da loro, da quegli uccelli reali; mi uccideranno con le loro beccate, perché io, così brutto, oso avvicinarmi a loro. Ma non mi importa! è meglio essere ucciso da loro che essere beccato dalle anatre, beccato dalle galline, preso a calci dalla ragazza che ha cura del pollaio, e soffrire tanto d'inverno!" E volò nell'acqua e nuotò verso quei magnifici cigni questi lo guardarono e si diressero verso di lui frullando le piume. «Uccidetemi!» esclamò il povero animale e abbassò la testa verso la superfìcie dell'acqua in attesa della morte, ma, che cosa vide in quell'acqua chiara? Vide sotto di sé la sua propria immagine: non era più il goffo uccello grigio scuro, brutto e sgraziato, era anche lui un cigno.
Che cosa importa essere nati in un pollaio di anatre, quando si e usciti da un uovo di cigno?
Ora era contento di tutte quelle sofferenze e avversità che aveva patito, si godeva di più la felicità e la bellezza che lo salutavano. E i grandi cigni nuotavano intorno a lui e lo accarezzavano col becco.
Nel giardino giunsero alcuni bambini e gettarono pane e grano nell'acqua; poi il più piccolo gridò: «Ce n'è uno nuovo!». E gli altri bambini esultarono con lui: «Sì, ne è arrivato uno nuovo!». Battevano le mani e saltavano, poi corsero a chiamare il padre e la madre, e gettarono di nuovo pane e dolci in acqua, e tutti dicevano: «Il nuovo è il più bello, così giovane e fiero!». E i vecchi cigni si inchinarono davanti a lui.
Allora si sentì timidissimo e infilò la testa dietro le ali, non sapeva neppure lui cosa avesse! Era troppo felice, ma non era affatto superbo, perché un cuore buono non diventa mai superbo! Ricordava come era stato perseguitato e insultato, e ora sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli! I lilla piegarono i rami fino all'acqua e il sole splendeva caldo e luminoso. Allora lui frullò le piume, rialzò il collo slanciato e esultò nel cuore: "Tanta felicità non l'avevo mai sognata, quando ero un brutto anatroccolo!."

 
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La toccatina (Pirandello)

Post n°419 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Col cappellaccio bianco buttato sulla nuca, le cui tese parevano una spera attorno al faccione rosso come una palla di formaggio d’Olanda, Cristoforo Golisch s’arrestò in mezzo alla via con le gambe aperte un po’ curve per il peso del corpo gigantesco; alzò le braccia; gridò:

- Beniamino!

Alto quasi quanto lui, ma secco e tentennante come una canna, gli veniva incontro pian piano, con gli occhi stranamente attoniti nella squallida faccia, un uomo sui cinquant’anni, appoggiato a un bastone dalla grossa ghiera di gomma. Strascicava a stento la gamba sinistra.

- Beniamino! - ripeté il Golisch; e questa volta la voce espresse, oltre la sorpresa, il dolore di ritrovare in quello stato, dopo tanti anni, l’amico.

Beniamino Lenzi batté più volte le pàlpebre: gli occhi gli rimasero attoniti; vi passò solamente come un velo di pianto, senza però che i lineamenti del volto si scomponessero minimamente. Sotto i baffi già grigi le labbra, un po’ storte, si spiccicarono e lavorarono un pezzo con la lingua annodata a pronunziare qualche parola:

- O... oa... oa sto meo... cammìo...

- Ah. bravo... - fece il Golisch, agghiacciato dall’impressione di non aver più dinanzi un uomo. Beniamino Lenzi, qual egli lo aveva conosciuto: ma quasi un ragazzo ormai, un povero ragazzo che si dovesse pietosamente ingannare.

E gli si mise accanto e si sforzò di camminare col passo di lui. (Ah, quel piede che non si spiccicava più da terra e strisciava, quasi non potesse sottrarsi a una forza che lo tirava da sotto!)
Cercando di dissimulare alla meglio la pena, la costernazione strana che a mano a mano lo vinceva nel vedersi accanto quell’uomo toccato dalla morte, quasi morto per metà e cangiato, cominciò a domandargli dove fosse stato tutto quel tempo da che s’era allontanato da Roma; che avesse fatto; quando fosse ritornato.
Beniamino Lenzi gli rispose con parole smozzicate quasi inintelligibili, che lasciarono il Golisch nel dubbio che le sue domande non fossero state comprese. Solo le pàlpebre, abbassandosi frequentemente su gli occhi, esprimevano lo stento e la pena, e pareva che volessero far perdere allo sguardo quel teso, duro, strano attonimento. Ma non ci riuscivano.
La morte, passando e toccando, aveva fissato così la maschera di quell’uomo. Egli doveva aspettare con quel volto, con quegli occhi, con quell’aria di spaurita sospensione, ch’ella ripassasse e lo ritoccasse un tantino più forte per renderlo immobile del tutto e per sempre.

- Che spasso! - fischiò tra i denti Cristoforo Golisch.

E lanciò di qua e di là occhiatacce alla gente che si voltava e si fermava mirar col volto atteggiato di compassione quel pover’uomo accidentato.
Una sorda rabbia prese a bollirgli dentro.
Come camminava svelta la gente per via! svelta di collo, svelta di braccia, svelta di gambe... E lui stesso! Era padrone, lui, di tutti i suoi movimenti; e si sentiva così forte... Strinse un pugno. Perdio! Senti come sarebbe stato poderoso a calarlo bene scolpito su la schiena di qualcuno. Ma perché? Non sapeva...
Lo irritava la gente, lo irritavano in special modo i giovani che si voltavano a guardare il Lenzi. Cavò dalla tasca un grosso fazzoletto di cotone turchino e si asciugò il sudore che gli grondava dal faccione affocato.

- Beniamino. dove vai adesso?

Il Lenzi s’era fermato, aveva appoggiato la mano illesa a un lampione e pareva lo carezzasse guardandolo amorosamente. Biascicò:

- Da dottoe... Esecìio de piee.

E si provò a ad alzare il piede colpito.

- Esercizio? - disse il Golisch. - Ti eserciti il piede?

- Piee, - ripetè il Lenzi.

- Bravo! - esclamò di nuovo il Golisch.

Gli venne la tentazione d’afferrargli quel piede, stirarglielo, prendere per le braccia l’amico e dargli un tremendo scrollone, per scomporlo da quell’orribile immobilità.
Non sapeva, non poteva vederselo davanti, ridotto in quello stato. Eccolo qua, il compagno delle antiche scapataggini, nei begli anni della gioventù e poi nelle ore d’ozio, ogni sera, scapoli com’erano rimasti entrambi. Un bel giorno una nuova via s’era aperta innanzi all’amico, il quale s’era incamminato per essa, svelto anche lui, allora, - oh tanto! - svelto e animoso. Sissignori! Lotte, fatiche, speranze; e poi, tutt’a un tratto: eccolo qua, com’era ritornato... Ah, che buffonata! che buffonata!
Avrebbe voluto parlargli di tante cose, e non sapeva. Le domande gli s’affollavano alle labbra e gli morivano assiderate.

- Ti ricordi, - avrebbe voluto dirgli, - delle nostre famose scommesse alla Fiaschetteria Toscana? E di Nadina, ti ricordi? L’ho ancora con me, sai! Tu me l’hai appioppata, birbaccione, quando partisti da Roma. Cara figliuola, quanto bene ti voleva... Ti pensa ancora, sai? mi parla ancora di te, qualche volta. Andrò a trovarla questa sera stessa e le dirò come t’ho riveduto, poveretto... È proprio inutile ch’io ti domandi: tu non ricordi più nulla: tu forse non mi riconosci più, o mi riconosci appena.

Mentre il Golisch pensava così, con gli occhi gonfi di lagrime, Beniamino Lenzi seguitava a guardare amorosamente il lampione e pian piano con le dita gli levava la polvere.
Quel lampione segnava per lui una delle tre tappe della passeggiata giornaliera. Strascinandosi per via non vedeva nessuno non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure, egli tendeva con tutte le terze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi, più giù, alla vetrina d’un bazar, che segnava la seconda tappa; e qui si tratteneva più a lungo a contemplare con gioja infantile una scimmietta di porcellana sospesa a un’altalena dai cordoncini di seta rossa. La terza sosta era alla ringhiera del giardinetto in fondo alla via, donde poi si recava alla casa del medico.
Nel cortile di quella casa, tra i vasi di fiori e i cassoni d’aranci, di lauro e di bambù, eran disposti parecchi attrezzi di ginnastica, tra i quali alcune pertiche elastiche, fermate orizzontalmente in cima a certi pali tozzi e solidi; pertiche da tornitore, dalla cui estremità pendeva una corda, la quale, dato un giro attorno a un rocchetto, scendeva ad annodarsi a una leva di legno, fermata per un capo al suolo da una forcella.
Beniamino Lenzi poneva il piede colpito su questa leva e spingeva; la pertica in alto molleggiava e brandiva, e il rocchetto, sostenuto orizzontalmente da due toppi, girava per via della corda.
Ogni giorno, mezz’ora di questo esercizio. E in capo a pochi mesi, sarebbe guarito. Oh, non c’era alcun dubbio! Guarito del tutto...

Dopo aver assistito per un pezzetto a questo grazioso spettacolo, Cristoforo Golisch uscì dal cortile a gran passi, sbuffando come un cavallo, dimenando le braccia, furibondo.
Pareva che la morte avesse fatto a lui e non al povero Lenzi lo scherzo di quella toccatina lì, al cervello.

N’era rivoltato.
Con gli occhi torvi, i denti serrati, parlava tra sé e gesticolava per via, come un matto.

- Ah, si? - diceva. - Ti tocco e ti lascio? No, ah, no perdio! Io non mi riduco in quello stato! Ti faccio tornare per forza, io! Mi passeggi accanto e ti diverti a vedere come mi hai conciato? a vedermi strascinare un piede? a sentirmi biascicare? Mi rubi mezzo alfabeto, mi fai dire oa e cao, e ridi? No, caa! Vieni qua! Mi tio una pistoettata, com’è veo Dio. Questo spasso io non te lo do! Mi sparo, m’ammazzo com’è vero Dio! Questo spasso non te lo do.

Tutta la sera e poi il giorno appresso e per parecchi giorni di fila non pensò ad altro, non parlò d’altro, a casa, per via, al caffè, alla fiaschetteria, quasi se ne fosse fatta una fissazione. Domandava a tutti:

- Avete veduto Beniamino Lenzi?

E se qualcuno gli rispondeva di no:

- Colpito! Morto per metà! Rimbambito... Come non s’ammazza? Se io fossi medico, lo ammazzerei! Per carità di prossimo... Gli fanno girare il tornio, invece... Sicuro! Il tornio... Il medico gli fa girare il tornio nel cortile... e lui crede che guarirà! Beniamino Lenzi, capite? Beniamino Lenzi che s’è battuto tre volte in duello, dopo aver fatto con me la campagna del ’66, ragazzotto... Perdio, e quando mai l’abbiamo calcolata noi, questa pellaccia? La vita ha prezzo per quello che ti dà... Dico bene? Non ci penserei neanche due volte...

Gli amici, alla fiaschetteria, alla fine non ne poterono più.

- M’ammazzo... m’ammazzo... E ammazzati una buona volta e falla finita!

Cristoforo Golisch si scosse, protese le mani:

- No; io dico, se mai...

 


II

Circa un mese dopo, mentre desinava con la sorella vedova e il nipote, Cristoforo Golisch improvvisamente stravolse gli occhi, storse la bocca quasi per uno sbadiglio mancato; e il capo gli cadde sul petto e la faccia sul piatto.
Una toccatina, lieve lieve, anche a lui.
Perdette lì per lì la parola e mezzo lato del corpo: il destro.
Cristoforo Golisch era nato in Italia, da genitori tedeschi; non era mai stato in Germania, e parlava romanesco come un romano di Roma. Da un pezzo gli amici gli avevano italianizzato anche il cognome, chiamandolo Golicci, e gl’intimi anche Golaccia, in considerazione del ventre e del formidabile appetito. Solo con la sorella egli soleva di tanto in tanto scambiare qualche parola in tedesco, perché gli altri non intendessero.
Ebbene, riacquistato a stento, in capo a poche ore, l’uso della parola, Cristoforo Golisch offrì al medico un curioso fenomeno da studiare; non sapeva più parlare in italiano: parlava tedesco.
Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura, contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi più volte provato a snodar la lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò, rivolto al medico:

- Ih...ihr... wie ein Faustschlag...

Il medico non comprese, e bisognò che la sorella, mezzo istupidita dall’improvvisa sciagura, gli facesse da interprete.
Era divenuto tedesco a un tratto, Cristoforo Golisch: cioè, un altro; perché tedesco veramente, lui, non era mai stato. Soffiata via, come niente, dal suo cervello ogni memoria della lingua italiana, anzi tutta quanta l’italianità sua.
Il medico si provò a dare una spiegazione scientifica del fenomeno: dichiarò il male: emiplegia; prescrisse la cura. Ma la sorella, spaventata, lo chiamò in disparte e gli riferì i propositi violenti manifestati dal fratello pochi giorni innanzi avendo veduto un amico colpito da quello stesso male.

- Ah, signor dottore, da un mese non parlava più d’altro quasi se la fosse sentita pendere sul capo la condanna! S’ammazzerà... Tiene la rivoltella lì, nel cassetto del comodino... Ho tanta paura...

Il medico sorrise pietosamente.

- Non ne abbia! non ne abbia, signora mia! Gli daremo a intendere che è stato un semplice disturbo digestivo e vedrà che...

- Ma che, dottore!

- Le assicuro che lo crederà. Del resto, il colpo, per fortuna, non è stato molto grave. Ho fiducia che tra pochi giorni riacquisterà l’uso degli arti offesi, se non bene del tutto, almeno da potersene servire pian piano... e, col tempo, chi sa! Certo è stato per lui un terribile avviso. Bisognerà cangiar vita e tenersi a un regime scrupolosissimo per allontanare quanto più sarà possibile un nuovo assalto del male.

La sorella abbassò le palpebre per chiudere e nascondere negli occhi le lagrime. Non fidandosi però dell’assicurazione del medico, appena questo andò via, concertò col figliuolo e con la serva il modo di portar via dal cassetto del comodino la rivoltella: lei e la serva si sarebbero accostate alla sponda del letto con la scusa di rialzare un tantino le materasse, e nel frattempo - ma, attento per carità! - il ragazzo avrebbe aperto il cassetto senza far rumore e... - attento! - via, l’arma.
Così fecero. E di questa sua precauzione la sorella si lodò molto, non parendole naturale, di lì a poco, la facilità con cui il fratello accolse la spiegazione del male, suggerita dal medico: disturbo digestivo.

- Ja... ja... es ist doch...

Da quattro giorni se lo sentiva ingombro lo stomaco.

- Unver... Unverdaulichkeit... ja... ja...

Ma possibile, - pensava la sorella, - ch’egli non avverta la paralisi di mezzo lato del corpo? possibile ch’egli, già prevenuto dal caso recente del Lenzi, creda che una semplice indigestione possa avere un tale effetto?
Fin dalla prima veglia cominciò a suggerirgli amorosamente, come a un bambino, le parole della lingua dimenticata: gli domandò perché non parlasse più italiano.
Egli la guardò imbalordito. Non s’era accorto peranche di parlare in tedesco: tutt’a un tratto gli era venuto di parlar così né credeva che potesse parlare altrimenti. Si provò tuttavia a ripetere le parole italiane, facendo eco alla sorella Ma le pronunziava ora con voce cangiata e con accento straniero, proprio come un tedesco che si sforzasse di parlare italiano. Chiamava Giovannino il nipote, Ciofaio. E il nipote - scimunito! - ne rideva, come se lo zio lo chiamasse così per ischerzo.

Tre giorni dopo, quando alla Fiaschetteria Toscana si seppe del malore improvviso del Golisch, gli amici accorsi a visitarlo poterono avere un saggio pietoso di quella sua nuova lingua. Ma egli non aveva punto coscienza della curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo.
Pareva un naufrago che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della sua gente. E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto bambino, a quarant’otto anni, e straniero.
E contentissimo era. Sì, perché proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena appena il braccio e la mano. La gamba no, ancora. Ma sentiva che forse il giorno dopo, con uno sforzo, sarebbe riuscito a muovere anche quella. Ci si provava anche adesso, ci si provava... e, no eh? non scorgevano alcun movimento gli amici?

- Tomai... tomai...

- Ma sì, domani, sicuro!

A uno a uno gli amici, prima d’andar via - quantunque lo spettacolo offerto dal Golisch non désse più luogo ad alcun timore - stimarono prudente raccomandare alla sorella la sorveglianza.
Da un momento all’altro, non si sa mai... Può darsi che la coscienza gli si ridesti, e...
Ciascuno pensava ora, come già aveva pensato il Golisch da sano: che l’unica, cioè, era di finirsi con una pistolettata per non restar così malvivo e sotto la minaccia terribile, inovviabile d’un nuovo colpo da un momento all’altro.
Ma loro sì, adesso, lo pensavano: non più il Golisch però. L’allegrezza del Golisch, invece, quando - una ventina di giorni dopo - sorretto dalla sorella e dal nipote, poté muovere i primi passi per la camera!
Gli occhi, è vero, no, senza uno specchio non se li poteva vedere: attoniti, smarriti, come quelli di Beniamino Lenzi; ma della gamba sì, perbacco, avrebbe potuto accorgersi bene che la strascicava a stento... Eppure, che allegrezza!

Si sentiva rinato. Aveva di nuovo tutte le meraviglie d’un bambino, e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per ogni nonnulla. Da tutti gli oggetti della camera sentiva venirsi un conforto dolcissimo, familiare, non mai provato prima; e il pensiero ch’egli ora poteva andare co’ suoi piedi fino a quegli oggetti, a carezzarli con le mani, lo inteneriva di gioja fino a piangerne. Guardava dall’uscio gli oggetti delle altre stanze e si struggeva dal desiderio di recarsi a carezzare anche quelli. Sì, via... pian piano, pian piano, sorretto di qua e di là... Poi volle fare a meno del braccio del nipote, e girò appoggiato alla sorella soltanto e col bastone nell’altra mano; poi, non più sorretto da alcuno, col bastone soltanto; e finalmente volle dare una gran prova di forza:

- Oh... oh... guaddae, guaddae, sea battoe...

E davvero, tenendo il bastone levato, mosse due o tre passi Ma dovettero accorrere con una seggiola per farlo subito sedere.
Gli era quasi scolata d’addosso tutta la carne, e pareva l’ombra di se stesso; pur non di meno, neanche il minimo dubbio in lui che il suo non fosse stato un disturbo digestivo; e sedendo ora di nuovo a tavola con la sorella e il nipote condannato a bere latte invece di vino, ripeteva per la millesima volta che s’era presa una bella paura:

- Una bea paua...

Se non che, la prima volta che poté uscir di casa, accompagnato dalla sorella, in gran segreto manifestò a questa il desiderio d’esser condotto alla casa del medico che curava Beniamino Lenzi. Nel cortile di quella casa voleva esercitarsi il piede al tornio anche lui.

La sorella lo guardò, sbigottita. Dunque egli sapeva?

- Di’, vuoi andarci oggi stesso?

- Sì... sì...

Nel cortile trovarono Beniamino Lenzi, già al tornio, puntuale.

- Beiamìo! - chiamò il Golisch.

Beniamino Lenzi non mostrò affatto stupore nel riveder lì l’amico, conciato come lui: spiccicò le labbra sotto i baffi, contraendo la guancia destra; biascicò:

- Tu pue?

E seguitò a spingere la leva. Due pertiche ora molleggiavano e brandivano, facendo girare i rocchetti con la corda.

Il giorno dopo Cristoforo Golisch, non volendo esser da meno del Lenzi che si recava al tornio da solo, rifiutò recisamente la scorta della sorella. Questa, dapprima, ordinò al figliuolo di seguire lo zio a una certa distanza, senza farsi scorgere; poi, rassicurata, lo lasciò davvero andar solo.
E ogni giorno, adesso, alla stess’ora, i due colpiti si ritrovano per via e proseguono insieme facendo le stesse tappe; al lampione, prima; poi, più giù, alla vetrina del bazar, a contemplare la scimmietta di porcellana sospesa all’altalena; in fine, alla ringhiera del giardinetto.
Oggi, intanto, a Cristoforo Golisch è saltata in mente un’idea curiosa; ed ecco, la confida al Lenzi. Tutti e due, appoggiati al fido lampione, si guardano negli occhi e si provano a sorridere, contraendo l’uno la guancia destra, l’altro la sinistra. Confabulano un pezzo, con quelle loro lingue torpide; poi il Golisch fa segno col bastone a un vetturino d’accostarsi. Ajutati da questo, prima l’uno e poi l’altro, montano in vettura, e via, alla casa di Nadina in Piazza di Spagna.
Nel vedersi innanzi quei due fantasmi ansimanti. che non si reggono in piedi dopo l’enorme sforzo della salita. La povera Nadina resta sgomenta, a bocca aperta. Non sa se debba piangere o ridere. S’affretta a sostenerli, li trascina nel salotto, li pone a sedere accanto e si mette a sgridarli aspramente della pazzia commessa, come due ragazzini discoli, sfuggiti alla sorveglianza dell’ajo

Beniamino Lenzi fa il greppo, e giù a piangere.

Il Golisch, invece, con molta serietà, accigliato, le vuole spiegare che si è inteso di farle una bella sorpresa.

- Una bea soppea...

(Bellino! Come parla adesso, il tedescaccio!)

- Ma sì, ma sì, grazie... - dice subito Nadina. - Bravi! Siete stati bravi davvero tutt’e due... e m’avete fatto un gran piacere... Io dicevo per voi, venire fin qua, salire tutta questa scala... Sù, sù, Beniamino! Non piangere, caro... Che cos’è? Coraggio, coraggio!

E prende a carezzarlo su le guance, con le belle mani lattee e paffutelle, inanellate.

- Che cos’è? che costa? Guardami!... Tu non volevi venire, è vero? Ti ha condotto lui, questo discolaccio! Ma non farò nemmeno una carezza a lui... Tu sei il mio buon Beniamino, il mio gran giovanottone sei... Caro! caro!... Suvvia, asciughiamo codeste lagrimucce... Così... così... Guarda qua questa bella turchese: chi me l’ha regalata? chi l’ha regalata a Nadina sua? Ma questo mio bel vecchiaccio me l’ha regalata... Toh, caro!

E gli posa un bacio su la fronte. Poi si alza di scatto e rapidamente con le dita si porta via le lagrime dagli occhi.

- Che posso offrirvi?

Cristoforo Golisch, rimasto mortificato e ingrugnato, non vuole accettar nulla; Beniamino Lenzi accetta un biscottino e lo mangia accostando la bocca alla mano di Nadina che lo tiene tra le dita e finge di non volerglielo dare, scattando con brevi risatine:

- No... no... no...

Bellini tutt’e due, adesso, come ridono, come ridono a quello scherzo...

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"Dove vai le son cipolle!"

Post n°418 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Questa la frase rivolta da Carolina Capricorni al marito Berengario dopo tutto quello che ha passato a causa sua.
Ma andiamo per ordine.
Qualche tempo fa la Carolina ,esasperata dalle intemperanze di Dio ci scampi aveva chiesto la separazione.Il poveraccio,per riconquistarla,le ho proposto di passare sette giorni a Venezia,città che la Carolina non aveva mai visto.
Tre settimane fa,lasciati i bambini alla Taide,i Capricorni sono partiti.
Potevano le cose andare bene con un tipo come Berengario?Scordatevelo!
Ecco,minuto per minuto,quello che è acaduto
LUNEDI'- Melchiorre Scozzagalli ha consigliato a Berengario un ottimo albergo vicino a Piazza S.Marco, "Il colombo d'oro".Berengario ,cretino cretino,è partito senza prenotare e solo una volta arrivato ha scoperto che detto albergo era stato chiuso 50 anni prima (Melchiorre è l'uomo più vecchio di S.Tobia,nda),Peccato che prima di saperlo abbia girovagato con moglie e bagagli al seguito per 7 ore.
Alla fine,i Capricorni hanno preso una camera nella prima pensione che hanno trovato ,la "Pensione Pagliaccion"
MARTEDI'- I poveracci all'alba sono scappati.
Hanno dovuto passare la notte in un sottoscala,dividendosi un sacco a pelo che puzzava di piscio di gatto e,per farla più pulita,hanno pure dovuto contendere il sacco a pelo a una famiglia di pantegane che non erano affatto contente di essere state sfrattate.
Per fortuna hanno trovato una pensione decente vicino al Ponte di Rialto.
MERCOLEDI'- Il Capricorni voleva fotografare la moglie in piedi sulla spalletta del ponte e non ha sentito ragioni.
La poveretta è caduta di sotto,atterrando sulla gondola che trasportava i coniugi giapponesi Nakakata,che si sono leggermente alterati e l'hanno scaraventata in acqua.
GIOVEDI'- I Capricorni hanno deciso di salire sul campanile di S.marco,Berengario era avanti e teneva la moglie per mano,ma ad un certo punto l'ha lasciata andare per soffiarsi il naso.
La Carolina è caduta all'indietro,travolgendo chi? Ma i Nakakata, naturalmente!
Stavolta è stata presa a colpi di karatè
VENERDI'- Berengario voleva fotografare la moglie in Piazza S.Marco,circondata dai colombi.
243 colombi l'hanno usata come water in contemporanea,cosa che non accadeva da ben 314 anni!
Berengario e tutti i presenti sono stati colti da ridarella.
SABATO- Berengario ha portato la moglie in gondola.
Ad un certo punto si è alzato di scatto,facendo cadere in acqua il gondoliere Bepi Mutandon.
L'imbarcazione alla deriva è finita addosso ad una chiatta addetta al trasporto dell'immondizia.
I Capricorni sono finiti in mezzo al pattume
DOMENICA- Quando il marito le ha proposto un'altra gita in gondola,la Carolina,pazza di rabbia,ha cominciato a inseguirlo,decisa a restare vedova,ma Berengario è riuscito a seminarla.
Come dicevo questo accadeva tre settimane fa.
La Carolina è più che mai decisa a separarsi.
Berengario è scomparso e nessuno ne sente la mancanza
Il qui scrivente passa e chiude.



 
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Scrivo a te,donna (Fiume)

Post n°417 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ogni mattina, dopo il segno della croce,
scriverti
è come recitare una preghiera.
Non si può far di peggio,
ma io so fare di meglio.
Ora che non ti vedo,
di buon mattino,
mentre tutti dormono,
prendo la penna, come un ladro prenderebbe
la chiave di un forziere,
e con la penna
rubo la vita che non mi appartiene
e scavo un camminamento
per raggiungere te che, contro ogni legge,
considero mia.

 
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Libri dimenticati:Non te ne andrai (Rule)

Post n°416 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Delaware,1996.
Anne Marie Fahey,giovane assistente del governatore dello stato,sparisce misteriosamente da casa sua,senza alcun motivo,lasciando nello sconforto i fratelli e il fidanzato.
E' chiaro che la sua non è una scomparsa volontaria.
Lentamente,gli investigatori cominciano a scoprire molte cose sulla ragazza e puntano i sospetti su un noto imprenditore della zona,Tom Capano,con cui la ragazza aveva una relazione e che aveva lasciato.
E' solo l'inizio di una storia tragica e crudele,la storia di un uomo assetato di dominio sulle donne,che arriva anche all'omicidio pur di non perdere quello che ritiene suo di diritto.
Avvincente,toccante,da non perdere,il resoconto di una storia purtroppo vera di stalking finito tragicamente

 
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Frase del giorno

Post n°415 pubblicato il 16 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un vero amico è quello che ti chiede come stai ed ascolta pure la risposta

 
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