Messaggi del 18/08/2011

La danza degli gnomi

Post n°448 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una vedova maritata ad un vedovo. E il vedovo aveva una figlia della sua prima moglie e la vedova aveva una figlia del suo primo marito. La figlia del vedovo si chiamava Serena, la figlia della vedova si chiamava Gordiana. la matrigna odiava Serena ch'era bella e buona e concedeva ogni cosa a Gordiana, brutta e perversa.
La famiglia abitava un castello principesco, a tre miglia dal villaggio, e la strada attraversava un crocevia, tra i faggi millenari di un bosco; nelle notti di plenilunio i piccoli gnomi vi danzavano in tondo e facevano beffe terribili ai viaggiatori notturni.
La matrigna che sapeva questo, una domenica sera, dopo cena, disse alla figlia:
- Serena, ho dimenticato il mio libro di preghiere nella chiesa del villaggio: vammelo a cercare.
- Mamma, perdonate... è notte.
- C'è la luna più chiara del sole!
- Mamma, ho paura! Andrò domattina all'alba...
- Ti ripeto d'andare! - replicò la matrigna.
- Mamma, lasciate venire Gordiana con me...
- Gordiana resta qui a tenermi compagnia. E tu va'!
Serena tacque rassegnata e si pose in cammino. Giunse nel bosco e rallentò il passo, premendosi lo scapolare sul petto, con le due mani.
Ed ecco apparire fra gli alberi il crocevia spazioso, illuminato dalla luna piena.
E gli gnomi danzavano in mezzo alla strada.
Serena li osservò fra i tronchi, trattenendo il respiro. Erano gobbi e sciancati come vecchietti, piccoli come fanciulli, avevano barbe lunghe e rossigne, giubbini buffi, rossi e verdi, e cappucci fantastici. Danzavano in tondo, con una cantilena stridula accompagnata dal grido degli uccelli notturni. Serena allibiva al pensiero di passare fra loro; eppure non c'era altra via e non poteva ritornare indietro senza il libro della matrigna. Fece violenza al tremito che la scuoteva, e s'avanzò con passo tranquillo.
Appena la videro, gli gnomi verdi si separarono da quelli rossi e fecero ala ai lati della strada, come per darle il passo. E quando la bimba si trovò fra loro la chiusero in cerchio, danzando. E uno gnomo le porse un fungo e una felce.
- Bella bimba, danza con noi!
- Volentieri, se questo può farvi piacere...
E Serena danzò al chiaro della luna, con tanta grazia soave che gli gnomi si fermarono in cerchio, estatici ad ammirarla.
- Oh! Che bella graziosa bambina! - disse uno gnomo.
Un secondo disse: - Ch'ella divenga della metà più bella e più graziosa ancora.
Disse un terzo:
- Oh! Che bimba soave e buona!
Un quarto disse: - Ch'ella divenga della metà più ancora bella e soave!
Disse un quinto: - E che una perla le cada dall'orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.
Un sesto disse: - E che si converta in oro ogni cosa ch'ella vorrà.
- Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce lieta e crepitante.
Ripresero la danza vertiginosa, tenendosi per mano, poi spezzarono il cerchio e disparvero. Serena proseguì il cammino, giunse al villaggio e fece alzare il sacrestano perché la chiesa era chiusa.
Ed ecco che ad ogni parola una perla le usciva dall'orecchio sinistro, le rimbalzava sulla spalla e cadeva per terra. Il sagrestano si mise a raccoglierle nella palma della mano. Serena ebbe il libro e ritornò al castello paterno. La matrigna la guardò stupita. Serena splendeva di una bellezza mai veduta:
- Non t'è occorso nessun guaio, per via?
- Nessuno, mamma.
- E raccontò esattamente ogni cosa. E ad ogni parola una perla le cadeva dall'orecchio sinistro.
La matrigna si rodeva d'invidia.
- E il mio libro di preghiere?
- Eccolo, mamma.
La logora rilegatura di cuoio e di rame s'era convertita in oro tempestato di brillanti.
La matrigna trasecolava.
Poi decise di tentare la stessa sorte per la figlia Gordiana. La domenica dopo, alla stessa ora, disse alla figlia di recarsi a prendere il libro nella chiesa del villaggio.
- Così sola? Di notte? Mamma, siete pazza?
E Gordiana scrollò le spalle.
- Devi ubbidire, cara, e sarò un gran bene per te, te lo prometto.
- Andateci voi!
Gordiana, non avvezza ad ubbidire, smaniò furibonda e la madre fu costretta a cacciarla con le busse, per deciderla a partire.
Quando giunse al crocevia, inargentato dalla luna, i piccoli gnomi che danzavano in tondo si divisero in due schiere ai lati della strada, poi la chiusero in cerchio; e uno si avanzò porgendole il fungo e la felce e invitandola garbatamente a danzare.
- Io danzo con principi e con baroni: non danzo con brutti rospi come voi.
E gettò la felce e il fungo e tentò di aprire la catena dei piccoli ballerini con pugni e con calci.
- Che bimba brutta e deforme! - disse uno gnomo.
Un secondo disse: - Ch'ella diventi della metà più ancora cattiva e villana.
- E che sia gobba!
- E che sia zoppa!
- E che uno scorpione le esca dall'orecchio sinistro ad ogni parola della sua bocca.
- E che si copra di bava ogni cosa ch'ella toccherà.
- Così sia! Così sia! Così sia!... - gridarono tutti con voce irosa e crepitante.
Ripresero la danza prendendosi per mano, poi spezzarono la catena e disparvero.
Gordiana scrollò le spalle, giunse alla chiesa, prese il libro e ritornò al castello.
Quando la madre la vide dié un urlo:
- Gordiana, figlia mia! Chi t'ha conciata così?
- Voi, madre snaturata, che mi esponete alla mala ventura.
E ad ogni parola, uno scorpione dalla coda forcuta le scendeva lungo la persona.
Trasse il libro di tasca e lo diede alla madre; ma questa lo lasciò cadere con un grido d'orrore.
- Che schifezza! È tutto lordo di bava!
La madre era disperata di quella figlia zoppa e gobba, più brutta e più perversa di prima. E la condusse nelle sue stanze, affidandola alle cure di medici che s'adoprarono inutilmente per risanarla.
Si era intanto sparsa pel mondo la fama della bellezza sfolgorante e della bontà di serena, e da tutte le parti giungevano richieste di principi e di baroni; ma la matrigna perversa si opponeva ad ogni partito.
Il Re di Persegonia non si fidò degli ambasciatori, e volle recarsi in persona al castello della bellezza famosa. Fu così rapito dal fascino soave di Serena che fece all'istante richiesta della sua mano.
La matrigna soffocava dalla bile; ma si mostrò ossequiosa al re e lieta di quella fortuna. E già macchinava in mente di sostituire a Serena la figlia Gordiana.
Furono fissate le nozze per la settimana seguente. Il giorno dopo il Re mandò alla fidanzata orecchini, smaniglie, monili di valore inestimabile.
Giunse il corteo reale per prendere la fidanzata. La matrigna coprì dei gioielli la figlia Gordiana e rinchiuse Serena in un cofano di cedro.
Il Re scese dalla carrozza dorata e aprì lo sportello per farvi salire la fidanzata. Gordiana aveva il volto coperto d'un velo fitto e restava muta alle dolci parole dello sposo.
- Signora mia suocera, perché la sposa non mi risponde?
- È timida, Maestà.
- Eppure l'altro giorno fu così garbata con me...
- La solennità di questo giorno la rende muta...
Il Re guardava con affetto la sposa.
- Serena, scopritevi il volto, ch'io vi veda un solo istante!
- Non è possibile, Maestà - interruppe la matrigna - il fresco della carrozza la sciuperebbe! Dopo le nozze si scoprirà.
il Re cominciava ad inquietarsi.
Proseguirono verso la chiesa e già la madre si rallegrava di veder giungere a compimento la sua frode perversa.
Ma passando vicino ad un ruscello, Gordiana, smemorata ed impaziente, si protese dicendo:
- Mamma, ho sete!
Non aveva detto tre parole che tre scorpioni neri scesero correndo sulla veste di seta candida.
Il Re e il suocero balzarono in piedi, inorriditi, e strapparono il velo alla sposa. Apparve il volto orribile e feroce di Gordiana.
- Maestà, queste due perfide volevano ingannarci.
Il suocero e il Re fecero arrestare il corteo a mezza strada. Il Re salì a cavallo e volle ritornare, solo, di gran galoppo, al castello della fidanzata.
Salì le scale e prese ad aggirarsi per le sale chiamando ad alta voce.
- Serena! Serena! Dove siete?
- Qui, Maestà!
- Dove?
- Nel cofano di cedro!
Il Re forzò il cofano con la punta della spada e sollevò il coperchio. Serena balzò in piedi, pallida e bella. Il re la sollevò fra le braccia, la pose sul suo cavallo e ritornò dove il corteo l'aspettava. Serena prese posto nella berlina reale, tra il padre e il fidanzato.
Furono celebrate le nozze regali.
Della matrigna e della figlia perversa, fuggite attraverso i boschi, non si ebbe più alcuna novella.
 
Guido Gozzano

 
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La giubba verde del diavolo

Post n°447 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta tre fratelli che allontanavano sempre il più piccolo di loro; quando vollero andarsene per il mondo, gli dissero: -Non abbiamo bisogno di te, vattene da solo-. Così lo abbandonarono ed egli dovette procedere solo; giunse in una gran brughiera ed era molto affamato. Nella brughiera c'era un cerchio d'alberi: vi si sedette sotto e si mise a piangere. D'un tratto udì un rumore e, quando si guardò attorno, vide venire il diavolo con una giubba verde e un piede di cavallo. -Che cos'hai, perché‚ piangi?- disse. Allora egli gli confidò la sua pena e disse: -I miei fratelli mi hanno scacciato-. Disse il diavolo: -Voglio aiutarti: indossa questa giubba verde, ha delle tasche che sono sempre piene di denaro; puoi prenderne fin che vuoi. In compenso però voglio che per sette anni tu non ti lavi, non ti pettini n‚ preghi. Se muori in questi setti anni, sei mio; ma se rimani in vita, sarai libero e ricco fino alla fine dei tuoi giorni-. Il giovane finì coll'accettare, per via del bisogno in cui si trovava; così indossò la giubba verde che il diavolo si era tolta di dosso, e quando infilò la mano in tasca la trovò piena di denaro. Così se ne andò in giro per il mondo con la giubba verde. Il primo anno andò bene: tutto ciò che desiderava lo pagava con il suo denaro, ed era ancora considerato come un essere umano. Ma già il secondo anno le cose andarono peggio: i capelli gli erano cresciuti tanto che nessuno più lo riconosceva; inoltre nessuno voleva dargli alloggio per via del suo aspetto orrendo. E, più passava il tempo, peggiore diventava. Ma ovunque egli dava del denaro ai poveri, perché‚ pregassero per lui, che non morisse entro i sette anni e cadesse così nelle mani del diavolo. Nel quarto anno giunse a un'osteria dove l'oste non voleva accoglierlo. Ma egli tirò fuori di tasca una manciata di denaro e pagò in anticipo, così ottenne finalmente una stanza. La sera udì piangere forte nella stanza attigua, aprì la porta e scorse un vecchio che piangeva disperatamente e gli disse di andarsene poiché‚ non poteva aiutarlo di certo. Ma il giovane gli domandò che cosa mai lo affliggesse tanto, e il vecchio disse che non aveva più soldi; era in debito con l'oste che l'avrebbe trattenuto finché‚ non avesse pagato. Allora il giovane dalla giubba verde disse: -Se è tutto qui, di denaro io ne ho a sufficienza: pagherò per voi-. E liberò l'uomo dai suoi debiti. Il vecchio aveva tre belle figlie e gli disse di scegliersene una in moglie come ricompensa. Ma quando giunsero a casa e la maggiore lo vide, si mise a gridare all'idea di sposare un essere così orrendo, che non aveva più aspetto umano e sembrava un orso. Anche la seconda fuggì via e preferì andarsene per il mondo. La terza invece disse: -Caro babbo, se gli avete promesso una sposa, ed egli vi ha aiutato nel momento del bisogno, vi ubbidirò-. Allora il giovane dalla giubba verde si tolse dal dito un anello, lo spezzò, ne diede metà alla fanciulla e tenne per s‚ l'altra; e nella prima scrisse il proprio nome, nell'altra il nome di lei, pregandola di serbare con cura la metà dell'anello. Rimase ancora un po' di tempo con lei, e infine disse: -Ora debbo prender congedo, rimarrò lontano per tre anni, siimi fedele in questo periodo di tempo; quando tornerò celebreremo le nostre nozze. Se invece non torno sei libera, perché‚ io sarò morto, ma tu prega Dio che mi tenga in vita-. In quei tre anni le due sorelle maggiori della sposa si fecero beffe di lei e le dicevano che avrebbe avuto un orso per marito al posto di un uomo normale. Ma la fanciulla taceva e pensava che qualunque cosa succedesse doveva ubbidire al padre. Il giovane dalla giubba verde, invece, se ne andò in giro per il mondo, mise spesso le mani in tasca e comprò per la sua sposa le cose più belle che gli capitavano sotto gli occhi. Non fece nulla di male, anzi fece del bene dove poteva e dette del denaro ai poveri affinché‚ pregassero per lui. Allora Dio gli fece la grazia e, trascorsi i tre anni, egli era ancora vivo e sano. Quando il tempo fu trascorso si recò nuovamente nella brughiera e si sedette sotto quel cerchio di alberi. Si udì un forte sibilo, ed ecco arrivare il diavolo tutto arrabbiato e brontolante; gli buttò la sua vecchia giubba e rivolle indietro quella verde. Il giovane se la tolse con gioia, la porse al diavolo ed era ricco e libero per sempre. Poi se ne andò a casa, si ripulì per bene e si mise in cammino per recarsi dalla sua sposa. Quando giunse al portone d'ingresso, incontrò il padre; lo salutò e disse di essere lo sposo, ma quello non lo riconobbe e non voleva credergli. Allora egli salì dalla sposa, ma anch'ella non voleva credergli. Infine egli le domandò se avesse ancora la metà dell'anello. Ella rispose di sì e andò a prenderla; anch'egli prese la sua, l'accostò all'altra e si vide che le due parti combaciavano perfettamente: egli non poteva che essere il suo sposo E quand'ella vide che era un bell'uomo, si rallegrò, lo amò e celebrarono il matrimonio. Le due sorelle, invece, erano così furiose di aver perso quella fortuna, che lo stesso giorno del matrimonio l'una si annegò, mentre l'altra si impiccò. La sera, bussarono alla porta e si sentì un brontolio; quando lo sposo andò ad aprire, ecco il diavolo in giubba verde, che disse -Vedi, adesso ho due anime in cambio della tua!-.

FINE


 

 
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Lo gnomo

Post n°446 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re motto ricco che aveva tre figlie; esse andavano tutti i giorni a passeggio nel giardino del castello. Il re aveva una gran passione per tutti gli alberi belli, e uno gli piaceva in particolare, tanto che, se qualcuno ne coglieva una mela, egli lo malediva, che potesse sprofondare cento braccia sotto terra. Quando venne l'autunno, le mele sull'albero divennero rosse come sangue. Le tre fanciulle andavano tutti i giorni sotto l'albero e guardavano se il vento non avesse per caso buttato a terra qualche mela, ma non ne trovavano mai, e l'albero ne era così carico che sembrava dovesse spezzarsi, e i rami pendevano fino a terra. La più giovane ebbe una gran voglia di mangiarne e disse alle sorelle: -Nostro padre ci ama troppo per poterci maledire; credo che l'abbia fatto solo con gli estranei-. Così dicendo, la fanciulla colse una bella mela, corse davanti alle sorelle e disse: -Ah, assaggiate care sorelline! Non ho mai mangiato nulla di così buono-. Allora anche le altre due principesse assaggiarono la mela, e tutte e tre sprofondarono sotto terra senza che nessuno se ne accorgesse. A mezzogiorno il re volle chiamarle a tavola, ma non riuscì a trovarle da nessuna parte: le cercò a lungo nel castello e in giardino, ma invano. Egli se ne addolorò molto e rese noto in tutto il regno che chiunque gli avesse riportato le figlie ne avrebbe avuta una in isposa. Allora molti giovani partirono alla loro ricerca, facendo l'impossibile per trovarle: poiché‚ tutti amavano le tre fanciulle che erano così gentili con tutti e così belle. Partirono anche tre giovani cacciatori, e dopo aver camminato otto giorni, arrivarono a un gran castello dove c'erano delle sale bellissime e in una di queste sale c'era una tavola apparecchiata, coperta di cibi deliziosi, così caldi che fumavano ancora; ma in tutto il castello non si sentiva n‚ si vedeva anima viva. Aspettarono ancora mezza giornata e i cibi erano sempre caldi e fumanti; alla fine erano così affamati che si misero a tavola e mangiarono; e stabilirono di rimanere nel castello e di tirare a sorte, di modo che uno restasse a casa e gli altri due andassero a cercare le principesse. Così fecero, e per sorte toccò al maggiore rimanere al castello. Il giorno dopo i due più giovani andarono a cercare le principesse e il maggiore dovette restare a casa. A mezzogiorno arrivò un omino piccolo piccolo che chiese un pezzetto di pane; allora il giovane prese del pane che aveva trovato là, ne tagliò una fetta e fece per dargliela; come gliela porse, l'omino la lasciò cadere e lo pregò, per favore, di raccoglierla. Egli acconsentì, si chinò, e intanto l'omino prese un bastone, l'afferrò per i capelli e lo picchiò. Il giorno dopo rimase a casa il secondo, e non gli andò meglio. La sera, quando gli altri due rincasarono, il maggiore gli chiese: -Be', come ti è andata?-. -Oh, malissimo!- Allora si confidarono le loro disavventure, ma al minore non dissero nulla: non lo potevano soffrire e lo chiamavano sempre il Grullo. Il terzo giorno rimase a casa il più giovane; tornò l'omino e gli chiese un pezzetto di pane. Il giovane glielo diede ed egli lo lasciò cadere e lo pregò, per piacere, di ridarglielo. Allora il giovane disse all'omino: -Che cosa?! Non puoi raccoglierlo tu? Se non sai nemmeno darti da fare per il tuo pane quotidiano, non meriti neanche di mangiarlo-. Allora l'omino andò su tutte le furie e gli ordinò di darglielo; ma egli, senza perder tempo, prese il nostro omino e lo picchiò di santa ragione. L'omino strillava a più non posso e gridava: -Basta, basta! Lasciami stare, e ti dirò dove sono le principesse!-. All'udire queste parole, il giovane smise di picchiarlo e l'omino gli disse che era uno gnomo e che ce n'eran più di mille come lui; gli disse di seguirlo che gli avrebbe mostrato dove si trovavano le principesse. E gli indicò un pozzo profondo, dove però non c'era acqua. Sapeva bene, gli disse, che i suoi fratelli non erano sinceri con lui; se voleva liberare le principesse, doveva fare da solo. Anche gli altri due fratelli avrebbero liberato volentieri le principesse, ma non volevano esporsi a rischi e fatiche. Egli doveva prendere un gran cesto, entrarvi con il suo coltello da caccia e con un campanello e farsi calare giù. Sotto c'erano tre stanze, in ognuna delle quali c'era una principessa, costretta a spidocchiare un drago con molte teste: egli doveva mozzare le teste del drago. Detto questo, lo gnomo sparì. A sera ritornarono a casa gli altri due e gli domandarono come fosse andata. Egli disse: -Oh, mica male!-; non aveva visto nessuno fino a mezzogiorno, quand'era arrivato un omettino che gli aveva domandato un pezzetto di pane; lui glielo aveva dato, e l'omino l'aveva lasciato cadere e lo aveva pregato di raccoglierlo; e siccome egli aveva rifiutato, l'omino aveva incominciato a maltrattarlo; ma la cosa non gli era piaciuta e l'aveva picchiato, e allora l'omino gli aveva detto dove si trovavano le principesse. Gli altri due diventarono verdi e gialli dalla rabbia. Il mattino dopo si recarono al pozzo e tirarono a sorte chi dovesse entrare per primo nel cesto; toccò di nuovo al maggiore che dovette entrarvi e prendere il campanello. Disse: -Se suono dovete tirarmi su in fretta-. Era sceso da poco quando si sentì scampanellare e lo tirarono su; entrò nel cesto il secondo, che fece lo stesso; infine toccò al più giovane, che si fece calare fino in fondo. Come uscì dal cesto, prese il suo coltello da caccia, si fermò davanti alla prima porta e stette ad ascoltare: e sentì il drago russare forte. Aprì la porta piano piano: nella stanza era seduta la maggiore delle principesse, e aveva in grembo nove teste di drago e le spidocchiava. Allora egli prese il suo coltello, colpì con gran forza e le nove teste caddero. La principessa balzò in piedi, gli saltò al collo abbracciandolo e baciandolo, prese la sua collana d'oro rosso, e gliela mise al collo. Poi egli andò dalla seconda principessa, che doveva spidocchiare un drago con sette teste, e liberò anche lei; e così andò pure dalla più giovane, che doveva spidocchiare un drago con quattro teste. Allora tutte e tre quante domande si fecero! E non finivano mai di baciarsi e di abbracciarsi. Egli suonò forte, finché‚ lo sentirono in alto. Fece entrare le principesse nel cesto, l'una dopo l'altra, e le fece tirare su tutt'e tre. Ma quando toccò a lui, gli vennero in mente le parole dello gnomo, e cioè che i suoi compagni avevano cattive intenzioni nei suoi confronti. Allora prese un pietrone che era là per terra e lo mise nel cesto, e quando il cesto fu quasi a metà del pozzo, i fratelli malvagi tagliarono la fune, sicché‚ il cesto precipitò con la pietra, e credettero che egli fosse morto. Fuggirono poi con le tre principesse e si fecero promettere che avrebbero detto al padre di essere state liberate da loro due; andarono dal re e le chiesero in matrimonio. Nel frattempo il fratello più giovane vagava tutto triste per le tre stanze e pensava che avrebbe dovuto morire. Vide un flauto appeso alla parete e disse: -Che cosa ci fai lì appeso? Qui nessuno può essere allegro-. Guardò anche le teste del drago e disse: -Neanche voi potete aiutarmi-. E passeggiò a lungo su e giù, tanto che il pavimento divenne liscio. Alla fine gli venne un'altra idea, staccò il flauto dalla parete e suonò un'arietta: d'un tratto arrivarono tanti gnomi, e a ogni nota ne arrivava un altro; ed egli continuò a suonare finché‚ la stanza fu piena. Tutti gli chiesero che cosa desiderasse, ed egli rispose che voleva ritornare sulla terra, alla luce del giorno. Allora lo afferrarono per i capelli, quanti ne aveva in testa, e volarono con lui fuori dal pozzo. Come fu fuori dal pozzo, egli andò al castello regale, dove stavano per celebrare le nozze della maggiore delle principesse, ed entrò nella stanza dove si trovava il re con le sue tre figlie. Al vederlo le fanciulle svennero. Allora il re andò in collera e lo fece subito gettare in prigione, perché‚ credeva che avesse fatto loro del male. Ma quando le principesse tornarono in s‚, lo pregarono di rimetterlo in libertà. Il re volle sapere perché‚ ed esse risposero che non potevano dirlo, ma il padre disse loro di raccontarlo alla stufa. Poi uscì e si mise ad ascoltare dietro la porta e sentì tutto. Allora fece impiccare i due fratelli, mentre al più giovane diede la figlia minore. E io avevo un paio di scarpe di vetro, ma inciampai in una pietra: fecero "clinc!" e si spezzarono.

FINE


 
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L'uccello d'oro

Post n°445 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re che aveva un parco nel quale si trovava un albero che aveva delle mele d'oro. Quando le mele furono mature, non fece in tempo a trascorrere la notte e già ne mancava una, sicché‚ il re andò in collera e ordinò al giardiniere di vegliare ogni notte sotto l'albero. Il giardiniere lasciò di guardia il figlio maggiore, ma questi a mezzanotte si addormentò e il giorno dopo mancava un'altra mela. La notte seguente dovette vegliare il secondo, ma a mezzanotte anch'egli di addormentò e al mattino mancava una mela. Ora era la volta del terzo figlio, e il giardiniere non ne era gran che soddisfatto, ma poi si convinse e gli permise di fare la guardia. Il giovane si distese sotto l'albero e vegliò, vegliò. Allo scoccare della mezzanotte, udì nell'aria un frullar d'ali e vide un uccello d'oro giungere in volo. Mentre l'uccello stava staccando con il becco una mela dall'albero, il figlio del giardiniere rapidamente gli tirò una freccia. La freccia non gli fece nulla e l'uccello fuggì, lasciando tuttavia cadere a terra una delle sue piume d'oro. Il giovane la raccolse e il mattino dopo la portò al re che riunì subito il consiglio. Tutti dichiararono, unanimi, che una piuma come quella valeva più di tutto il regno. Allora il re disse: -Non me ne faccio nulla di una sola piuma: voglio tutto l'uccello e l'avrò-. Il figlio maggiore si mise allora in cammino, sicuro di trovare l'uccello d'oro. Dopo un po' scorse una volpe al limitare del bosco; subito imbracciò il fucile e prese la mira. Ma l'animale incominciò a parlare e disse: -Non sparare e ti darò un buon consiglio. So che stai cercando l'uccello d'oro, e questa sera arriverai in un villaggio dove ci sono due locande, l'una dirimpetto all'altra. Una è ben illuminata e piena di allegria, ma non entrarci: vai invece nell'altra, anche se ha un brutto aspetto!-. Ma il giovane pensò: "Un animale può forse darmi un consiglio assennato?" e sparò, senza riuscire tuttavia a colpire la volpe che distese la coda e fuggì nel bosco. Egli proseguì e la sera giunse nel villaggio dove si trovavano le due locande: in una cantavano e ballavano, mentre l'altra aveva un aspetto povero e angusto. "Sarei un vero sciocco" pensò "se andassi in quella miserabile locanda, invece di andare nella più bella!" Così entrò nell'allegra osteria, si diede alla bella vita e scordò l'uccello e la propria terra natia. Passò un po' di tempo, siccome il figlio maggiore non faceva ritorno, si mise in cammino il secondo. Anche lui incontrò la volpe che gli diede il buon consiglio ma, quando giunse davanti alle due locande, vide suo fratello che lo chiamava dalla finestra di quella piena di baldoria. Egli non seppe resistere e scordò ogni buon proposito. Passò un'altro po' di tempo e anche il terzo fratello volle mettersi in cammino, ma il padre non voleva lasciarlo andare perché‚ gli era affezionato e temeva gli capitasse una disgrazia per cui non potesse più far ritorno come gli altri due. Tuttavia, per aver pace, lo lasciò infine partire. Così anche il terzo figlio incontrò la volpe al margine del bosco e ricevette il buon consiglio. Egli era buono d'animo e le risparmiò la vita; allora la volpe disse: -Sali dietro, sulla mia coda, così andremo più in fretta!-. Non appena fu a posto, la volpe si mise a correre, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Quando arrivarono al villaggio, il giovane smontò, seguì il buon consiglio e, senza guardarsi attorno, entrò nella misera locanda, dove pernottò tranquillamente. Il mattino dopo incontrò di nuovo la volpe che gli disse: -Cammina sempre dritto e giungerai a un castello davanti al quale si troverà un intero reggimento di soldati. Dormiranno e russeranno tutti e tu non devi badare a loro: entra invece nel castello, e dentro troverai una stanza dov'è appesa una gabbia di legno con l'uccello d'oro Accanto vi sarà, in bella mostra, una gabbia d'oro; ma bada bene di non togliere l'uccello dalla sua brutta gabbia per metterlo in quella preziosa: potrebbe andarti male-. Dopo aver detto queste parole, la volpe distese nuovamente la coda, il giovane vi si sedette sopra, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Giunto al castello, il principe trovò tutto come gli aveva detto la volpe. Entrò nella stanza dove c'era l'uccello d'oro in una gabbia di legno, accanto vi era un'altra gabbia, tutta d'oro, e anche le tre mele, sparse qua e là. Allora egli pensò: "Sarebbe ridicolo lasciare quel bell'uccello in una gabbia così brutta- Così aprì la porticina, afferrò l'animale e lo mise nella gabbia d'oro. Ma subito l'uccello mandò un grido così acuto che i soldati si svegliarono, catturarono il principe e lo condussero davanti al re. Il giorno dopo fu giudicato e, siccome egli ammise la propria colpa, fu condannato a morte. Ma il re disse. -Puoi aver salva la vita a una sola condizione: devi portarmi il cavallo d'oro che corre veloce come il vento; in compenso ti potrò regalare l'uccello d'oro-. Il principe si mise in cammino, tutto triste, sospirando. D'un tratto si trovò davanti la volpe che gli disse: -Vedi cosa ti è successo a non ascoltarmi? Tuttavia, se vuoi seguirmi, ti aiuterò a trovare il cavallo d'oro. Devi andare sempre dritto fino a quando arriverai a un castello; e lì, nella scuderia c'è il cavallo d'oro. Davanti alla scuderia ci saranno gli stallieri, ma dormiranno e russeranno, così tu potrai entrare tranquillamente e portare via il cavallo d'oro. Bada solo di mettergli la sella brutta di legno e cuoio non quella d'oro appesa lì accanto-. Dopo che la volpe ebbe detto queste parole, il principe le si sedette sulla coda, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Tutto si svolse come aveva detto la volpe: gli stallieri russavano tenendo in mano delle selle d'oro. Ma quando egli vide il cavallo d'oro, si rammaricò di dovergli mettere la sella brutta. "Farà una brutta figura" pensò. "E' opportuno che gli metta una sella che si addica a un animale così bello!" E mentre stava cercando di togliere una sella d'oro dalle mani di uno stalliere, questi si svegliò, e con lui si svegliarono anche gli altri, acciuffarono il giovane e lo gettarono in prigione. Il giorno dopo fu nuovamente condannato a morte, tuttavia gli promisero di fargli grazia e di regalargli l'uccello e il cavallo d'oro, se fosse riuscito a conquistare una meravigliosa principessa. Il giovane si mise in cammino tutto triste, ma ben presto si imbatté‚ di nuovo nella volpe. -Perché‚ non mi hai ascoltato?- disse l'animale. -A quest'ora avresti l'uccello e il cavallo. Ti aiuterò ancora una volta: vai sempre dritto e questa sera giungerai a un castello. A mezzanotte la bella principessa va a fare il bagno nel padiglione, tu entraci e dalle un bacio: così potrai portarla con te; bada solo che non dica addio ai suoi genitori.- Poi la volpe stese la coda, e via di carriera, che i capelli fischiavano al vento. Quando giunse al castello trovò tutto come aveva detto la volpe e a mezzanotte egli baciò la bella principessa nel padiglione. Ella disse che l'avrebbe seguito volentieri, ma lo supplicò piangendo di lasciarla andare a prendere congedo dal padre. Da principio egli rifiutò, ma la principessa piangeva sempre più e gli si gettò ai piedi, finché‚ egli finì col cedere. Ma non appena la fanciulla andò dal padre, questi si svegliò, e con lui si svegliarono tutti gli altri che erano nel castello; arrestarono il giovane e lo misero in prigione. Il re gli disse: -Non avrai mai mia figlia, a meno che tu non riesca a spianare il monte che è davanti alle mie finestre e mi toglie la vista; ti do otto giorni di tempo-. Ma la montagna era così grande che neanche la forza di tutti gli uomini del mondo avrebbe potuto spostarla. Il principe lavorò sette interi giorni senza interrompersi mai, ma quando vide quanto poco avesse concluso ne ebbe grande dolore. Tuttavia la sera del settimo giorno arrivò la volpe e gli disse: -Va' pure a dormire, farò io il, tuo lavoro-. Il mattino dopo, quando il giovane si svegliò, la montagna era scomparsa; allora andò dal re tutto contento, gli disse che aveva assolto il suo compito e che a lui toccava ceder la figlia. Volente o nolente, il re dovette mantenere la promessa. Così i due partirono insieme, ma la volpe li raggiunse e disse: -Adesso dobbiamo fare in modo di ottenere tutte e tre le cose: la fanciulla, il cavallo e l'uccello-. -Sì, se ti riesce- rispose il giovane -ma sarà difficile.- -Ascoltami e sarà cosa fatta- disse la volpe, e aggiunse: -Quando giungerai dal re che ti ha chiesto di portargli la principessa meravigliosa, digli: "Eccovela!". Tutti andranno in visibilio e tu monterai subito in sella al cavallo d'oro, porgerai la mano a tutti in segno d'addio, e per ultimo, alla bella fanciulla. Allora tirala su di slancio e parti a spron battuto-. Il principe seguì il consiglio e si portò via la bella fanciulla; allora la volpe gli disse di nuovo: -Quando arriveremo davanti al castello dov'è custodito l'uccello, io e la principessa ti aspetteremo fuori dal portone; tu invece entrerai nel cortile a cavallo dicendo: "Vedete bene che vi ho portato l'animale che volevate!". Essi allora ti porteranno l'uccello, ma tu rimarrai seduto a cavallo e dirai che anche tu vuoi vedere se davvero si tratta dell'animale che volevi, e, quando lo avrai in mano, parti alla gran carriera-. Tutto andò a meraviglia e, quando il principe ebbe anche l'uccello d'oro, fece sedere la fanciulla sul cavallo e proseguirono il cammino finché‚ giunsero in un gran bosco. Là li raggiunse la volpe e disse: -Adesso devi uccidermi e tagliarmi la testa e le zampe-. Ma il giovane rifiutò e la volpe disse: -Se proprio non vuoi farlo, accetta ancora un buon consiglio. Guardati da due cose: non comprare carne da forca e non sederti sull'orlo di un pozzo-. "Se non si tratta che di questo, non è niente di difficile!" pensò il giovane. Proseguì per la sua strada con la fanciulla, finché‚ giunse al villaggio dove erano rimasti i suoi fratelli. C'era gran tumulto e rumore, e quand'egli chiese di che si trattasse, gli risposero che dovevano essere impiccati due furfanti. Avvicinandosi, vide che si trattava dei suoi due fratelli, che avevano compiuto ogni sorta di misfatti dissipando i loro averi. Allora egli disse: -Non è proprio possibile risparmiare la loro vita?-. -No- rispose la gente -a meno che non vogliate impiegare il vostro denaro per riscattarli.- Egli non stette a pensarci due volte e pagò quanto gli chiesero. Allora i fratelli furono liberati e proseguirono il viaggio con lui. Ma quando giunsero nel bosco in cui avevano incontrato la volpe per la prima volta, il luogo era tanto fresco e ameno che i due fratelli dissero: -Riposiamoci un po' accanto al pozzo, mangiamo e beviamo!-. Egli acconsentì, e mentre parlavano, si sedette distrattamente sull'orlo del pozzo, senza alcun sospetto. Ma i due fratelli lo spinsero all'indietro, facendolo precipitare in fondo al pozzo; poi presero la fanciulla, il cavallo e l'uccello e ritornarono dal padre dicendo: -Abbiamo conquistato tutte queste cose e te le portiamo-. Tutti erano felici, tranne il cavallo che non mangiava, l'uccello che non cantava e la fanciulla che piangeva sempre. Il fratello minore si trovava intanto in fondo al pozzo, che per fortuna era asciutto e, benché‚ non si fosse rotto neanche un osso, non riusciva tuttavia a escogitare il modo di uscirne. In quel mentre arrivò ancora una volta la volpe e lo sgridò perché‚ non aveva ascoltato il suo consiglio. -Pure- disse -non posso fare a meno di aiutarti a venir fuori; afferra la mia coda e tienti forte.- Così, strisciando, la volpe riuscì a tirarlo fuori dal pozzo Quando furono in salvo, l'animale disse: -I tuoi fratelli hanno fatto appostare delle sentinelle che hanno l'incarico di ucciderti se ti vedono-. Allora egli indossò le vesti di un pover'uomo e giunse così, senza che nessuno lo riconoscesse, alla corte di suo padre. E non appena arrivò il cavallo si rimise a mangiare l'uccello riprese a cantare e la fanciulla smise di piangere. Il re si stupì e domandò spiegazioni alla fanciulla. -Non so- rispose la principessa -ero così triste, e ora sono tanto felice! Come se fosse arrivato il mio vero sposo.- E gli raccontò tutto quello che era successo, malgrado gli altri fratelli avessero minacciata di ucciderla se mai rivelava qualcosa. Il re fece chiamare a raccolta tutta la gente del castello, e venne anche il giovane, nei suoi cenci da mendicante, ma la fanciulla lo riconobbe subito e gli si gettò fra le braccia. I fratelli furono arrestati e giustiziati, mentre il giovane sposò la bella fanciulla e, dopo la morte del padre, ne ereditò il regno. Molto tempo dopo, il principe tornò nel bosco e incontrò la vecchia volpe che lo supplicò nuovamente di ucciderla e di tagliarle la testa e le zampe. Egli lo fece, e subito la volpe si trasformò in un uomo: era il fratello della regina che finalmente era libero da un incantesimo.

FINE




 
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La penna del grifone

Post n°444 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re che aveva una malattia agli occhi. Consultò una maga, la quale gli propose, come rimedio, la penna dell'uccello grifone, un animale rarissimo e pericoloso, perché divorava gli uomini. Il re chiese ai due figli di portargli una penna di quell’uccello, senza rischiare la vita.

I due fratelli partirono insieme, poi si separarono per cercare meglio, dandosi appuntamento l’anno successivo nello stesso posto. Il più giovane voleva bene a suo padre e desiderava che guarisse; il maggiore si augurava che morisse per ereditare il trono. Invece di cercare la penna dell'uccello, si fermò in una città, sperperò i soldi che aveva al gioco e con le donne e fu costretto a vendersi i cavalli.

Il più giovane camminò per giorni e notti, chiedendo in ogni paese notizie dell'uccello grifone, ma tutti lo commiseravano perché pensavano al pericolo al quale andava incontro. Incontrò la maga che aveva dato consigli al re suo padre; ella gli indicò una pianta altissima dove viveva il grifone e gli insegnò come prendergli la penna. Egli riuscì nel suo intento e prese la strada del ritorno.

Era ormai trascorso un anno ed egli pensava a suo fratello. Infine arrivò al luogo dell'incontro. Lo vide in lontananza e gli gridò: Ho trovato la penna dell'uccello grifone. Il fratello maggiore, mentendo, gli disse di aver speso tutto il denaro per pagare la gente perché lo aiutassero a trovare la penna. Il fratello minore lo rincuorò, dicendo che l’importante era portare al padre una penna per salvarlo.

Ma suo fratello lo uccise per impossessarsi della penna e lo seppellì in un prato d’erba. Tornò a casa e disse al re suo padre di aver trovato la penna, ma di non aver incontrato suo fratello. Il re guarì, ma era preoccupato del figlio minore. Tempo dopo, sul luogo della sepoltura, un pastorello trovò un osso con il quale costruì un flauto. Cominciò a suonarlo, ma per miracolo ne uscì una struggente melodia:

O pastore, o pastore

Tienimi stretto e non mi lasciare.

Per una penna d’uccello grifone

Mio fratello è stato un traditore.

Mi ha ucciso, mi ha lasciato,

nella fossa mi ha gettato..

Il pastorello mostrò a tutti il suo flauto meraviglioso. La cosa giunse all'orecchio del re che lo convocò a corte. Ne uscì questa melodia:

O padre mio, o padre mio

Tienimi stretto e non mi lasciare.

Per una penna d’uccello grifone

Mio fratello è stato un traditore.

Mi ha ucciso, mi ha lasciato,

nella fossa mi ha gettato.

Il re riconobbe la voce del figlio minore e subito sospettò del maggiore e lo obbligò a suonare il flauto. Questa volta le parole furono:

O fratello, o fratello

Tienimi stretto e non mi lasciare.

Per una penna d’uccello grifone

Tu, o fratello, sei stato un traditore.

Mi hai ucciso, mi hai lasciato,

nella fossa mi hai gettato.

Il re punì  il figlio maggiore e trascorse la sua vita a meditare sulla sua tragedia. Aveva riconquistato la salute, ma aveva perduto i suoi fig

 
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Il fuligginoso fratello del diavolo

Post n°443 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un soldato in congedo non aveva di che vivere e non sapeva che pesci prendere. Andò nel bosco e, dopo aver camminato per un po’, incontrò un omino che era il diavolo. L’omino gli disse: “Che cos’hai? Hai un’aria così triste!” Allora il soldato rispose: “Ho fame e non ho denaro.” Disse il diavolo: “Se vuoi entrare al mio servizio e diventare mio servo, ne avrai abbastanza per tutta la vita. Devi servirmi per sette anni, poi sarai libero, ma a una condizione: non puoi lavarti n’ pettinarti, non devi soffiarti il naso, n’ tagliarti unghie e capelli, non devi asciugarti gli occhi.” Il soldato disse: “E sia se così dev’essere!” E se n’andò con l’omino che lo condusse dritto all’inferno. Poi gli disse quali erano i suoi compiti: doveva attizzare il fuoco sotto i paioli dov’erano i dannati, tenere pulita la casa, portare la spazzatura dietro la porta e badare che fosse tutto in ordine. Ma se avesse guardato anche una sola volta nei paioli, gli sarebbe andata male. Il soldato disse: “Va bene, provvederò a tutto.” Il vecchio diavolo tornò a uscire, e il soldato incominciò il suo servizio: accese il fuoco, scopò e portò la spazzatura dietro la porta. Quando il vecchio diavolo ritornò, si mostrò soddisfatto e uscì per la seconda volta. Il soldato si guardò bene attorno: tutt’in giro c’erano i paioli, e sotto era acceso un bel fuoco e si sentiva bollire e sfrigolare. Avrebbe dato l’anima per guardarci dentro, ma gli era stato vietato così severamente! Alla fine non pot‚ più trattenersi, si avvicinò e sollevò un pochino il coperchio del primo paiolo, guardandoci dentro. Ci vide seduto dentro il suo antico furiere. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Lasciò cadere in fretta il coperchio, attizzò il fuoco e aggiunse dell’altra legna. Poi andò al secondo paiolo, sollevò un poco il coperchio e diede un’occhiatina: dentro c’era il suo alfiere. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Chiuse di nuovo il coperchio e aggiunse un altro ceppo, che lo scaldasse per bene. Adesso volle vedere chi c’era nel terzo paiolo: c’era addirittura il suo generale. “Ah, merlo!” disse, “sei qui? Sono stato nelle tue mani, adesso sei tu nelle mie!” Prese il soffietto e fece divampare il fuoco dell’inferno proprio sotto quel paiolo. Così prestò servizio per sette anni; non si lavò, non si pettinò, non si soffiò il naso, non si tagliò n’ unghie n’ capelli e non si asciugò gli occhi, e i sette anni passarono così in fretta che gli sembrò non fossero trascorsi più di sei mesi. Quando fu trascorso tutto quel tempo, venne il diavolo e disse: “Bene, che cosa hai fatto?” - “Ho attizzato il fuoco sotto i paioli, ho spazzato e portato la spazzatura dietro la porta.” - “Però hai anche guardato dentro ai paioli. Per tua fortuna hai aggiunto altra legna, altrimenti eri perduto. Adesso il tuo servizio è finito; vuoi tornare a casa?” - “Sì,” rispose il soldato, “vorrei vedere che cosa fa mio padre.” Disse il diavolo: “Perché‚ tu abbia il compenso che ti sei meritato, va’ a riempirti lo zaino di spazzatura, e portatela a casa. Devi andare senza lavarti, senza pettinarti, con i capelli e la barba lunga, con le unghie non tagliate e gli occhi cisposi; e se ti chiedono da dove vieni, devi dire: ‘Dall’inferno.’ E se ti chiedono chi sei, devi dire: ‘Il fuligginoso fratello del diavolo e il re di me stesso.’” Il soldato tacque e fece quello che gli aveva detto di fare il diavolo, ma non era affatto soddisfatto della sua ricompensa.

Quando ritornò sulla terra e si trovò nel bosco, tolse lo zaino dalla schiena e voleva vuotarlo. Ma quando lo aprì, la spazzatura era diventata oro puro. Al vederlo, egli fu tutto contento ed entrò in città. Davanti all’osteria c’era l’oste, e vedendolo venire si spaventò perché‚ aveva un aspetto orrendo, peggio di uno spaventapasseri. Lo chiamò e gli disse: “Da dove vieni?” - “Dall’inferno.” - “Chi sei?” - “Il fuligginoso fratello del diavolo e il re di me stesso.” L’oste non voleva lasciarlo entrare ma, quando gli mostrò l’oro, andò ad aprirgli egli stesso la porta. Il soldato si fece dare la stanza migliore, si fece servire di tutto punto, mangiò e bevve a sazietà, ma non si lavò, n‚ si pettinò come gli aveva detto di fare il diavolo; infine si mise a letto. Ma l’oste continuava ad avere davanti agli occhi quello zaino pieno d’oro, e non ebbe pace finché, durante la notte, entrò di soppiatto e glielo rubò.

Il mattino dopo, quando il soldato si alzò, voleva pagare l’oste e proseguire il cammino, ma lo zaino era sparito. Subito si dominò e pensò: “Della tua sfortuna non hai colpa.” E se ne tornò dritto all’inferno dove si lagnò con il vecchio diavolo della sua sventura e gli chiese aiuto. Il diavolo disse: “Ti laverò, ti pettinerò e ti soffierò il naso, ti taglierò unghie e capelli e ti pulirò gli occhi.” Quand’ebbe finito, tornò a dargli lo zaino pieno di spazzatura e disse: “Vai e di’ all’oste di ridarti l’oro, altrimenti vengo io a prenderlo e lo faccio lavorare al tuo posto.” Il soldato tornò su e disse all’oste: “Tu hai rubato il mio oro: se non me lo restituisci, finirai all’inferno al mio posto, e avrai l’aspetto orribile che avevo io.” Allora l’oste gli diede l’oro e n’aggiunse dell’altro ancora, pregandolo di tacere; così egli divenne un uomo ricco.

Si mise in cammino per tornare da suo padre, si comprò un brutto camiciotto di tela e se n’andò in giro a suonare, poiché‚ all’inferno, stando con il diavolo, aveva imparato. Nel paese c’era un vecchio re, ed egli dovette suonare alla sua presenza; il re ne fu così contento, che gli promise in moglie la figlia maggiore. Ma quando costei udì che doveva sposare un uomo qualsiasi, con un camiciotto bianco, disse: “Piuttosto mi butterei in fondo a un pozzo.” Allora il re gli diede la più giovane, che acconsentì per amore del padre. Così il fuligginoso fratello del diavolo sposò la principessa e alla morte del vecchio re ereditò anche il regno.

FINE


 
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I musicanti di Brema

Post n°442 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un uomo aveva un asino che lo aveva servito assiduamente per molti anni; ma ora le forze lo abbandonavano e di giorno in giorno diveniva sempre più incapace di lavorare. Allora il padrone pensò di toglierlo di mezzo, ma l’asino si accorse che non tirava buon vento, scappò e prese la via di Brema: là, pensava, avrebbe potuto fare parte della banda municipale. Dopo aver camminato un po’, trovò un cane da caccia che giaceva sulla strada, ansando come uno sfinito dalla corsa. “Perché‚ soffi così?” domandò l’asino. “Ah,” rispose il cane, “siccome sono vecchio e divento ogni giorno più debole e non posso più andare a caccia, il mio padrone voleva accopparmi, e allora me la sono data a gambe; ma adesso come farò a guadagnarmi il pane?” - “Sai?” disse l’asino. “Io vado a Brema a fare il musicante, vieni anche tu e fatti assumere nella banda.” Il cane era d’accordo e andarono avanti. Poco dopo trovarono per strada un gatto dall’aspetto molto afflitto. “Ti è andato storto qualcosa?” domandò l’asino. “Come si fa a essere allegri se ne va di mezzo la pelle? Dato che invecchio, i miei denti si smussano e preferisco starmene a fare le fusa accanto alla stufa invece di dare la caccia ai topi, la mia padrona ha tentato di annegarmi; l’ho scampata, è vero, ma adesso è un bel pasticcio: dove andrò?” - “Vieni con noi a Brema: ti intendi di serenate, puoi entrare nella banda municipale.” Il gatto acconsentì e andò con loro. Poi i tre fuggiaschi passarono davanti a un cortile; sul portone c’era il gallo del pollaio che strillava a più non posso. “Strilli da rompere i timpani,” disse l’asino, “che ti piglia?” - “Ho annunciato il bel tempo,” rispose il gallo, “perché‚ è il giorno in cui la Madonna ha lavato le camicine a Gesù Bambino e vuol farle asciugare; ma domani, che è festa, verranno ospiti, e la padrona di casa, senza nessuna pietà, ha detto alla cuoca che vuole mangiarmi lesso, così questa sera devo lasciarmi tagliare il collo. E io grido a squarciagola finché‚ posso.” - “Macché‚ Cresta rossa,” disse l’asino, “vieni piuttosto con noi, andiamo a Brema; qualcosa meglio della morte lo trovi dappertutto; tu hai una bella voce e, se faremo della musica tutti insieme, sarà una bellezza!” Al gallo piacque la proposta e se ne andarono tutti e quattro.

Ma non potevano raggiungere Brema in un giorno e la sera giunsero in un bosco dove si apprestarono a passare la notte. L’asino e il cane si sdraiarono sotto un albero alto, mentre il gatto e il gallo salirono sui rami, ma il gallo volò fino in cima, dov’egli era più al sicuro. Prima di addormentarsi guardò ancora una volta in tutte le direzioni, e gli parve di vedere in lontananza una piccola luce, così gridò ai compagni che, non molto distante, doveva esserci una casa poiché‚ splendeva un lume. Allora l’asino disse: “Mettiamoci in cammino e andiamo, perché‚ qui l’alloggio è cattivo.” E il cane aggiunse: “Sì, un paio d’ossa e un po’ di carne mi andrebbero anche bene!” Perciò si avviarono verso la zona da cui proveniva la luce e, ben presto, la videro brillare più chiara e sempre più grande, finché‚ giunsero davanti a una casa bene illuminata dove abitavano i briganti. L’asino, che era il più alto, si avvicinò alla finestra e guardò dentro. “Cosa vedi, testa grigia?” domandò il gallo. “Cosa vedo?” rispose l’asino. “Una tavola apparecchiata con ogni ben di Dio e attorno i briganti che se la spassano.” - “Farebbe proprio al caso nostro,” disse il gallo. “Sì, sì; ah, se fossimo là dentro!” esclamò l’asino. Allora gli animali tennero consiglio sul modo di cacciar fuori i briganti, e alla fine trovarono il sistema. L’asino dovette appoggiarsi alla finestra con le zampe davanti, il cane saltare sul dorso dell’asino, il gatto arrampicarsi sul cane, e infine il gallo si alzò in volo e si posò sulla testa del gatto. Fatto questo, a un dato segnale incominciarono tutti insieme il loro concerto: l’asino ragliava, il cane abbaiava, il gatto miagolava e il gallo cantava; poi dalla finestra piombarono nella stanza facendo andare in pezzi i vetri. I briganti, spaventati da quell’orrendo schiamazzo, credettero che fosse entrato uno spettro e fuggirono atterriti nel bosco. I quattro compagni sedettero a tavola, si accontentarono di quello che era rimasto e mangiarono come se dovessero patir la fame per un mese.

Quando ebbero finito, i quattro musicisti spensero la luce e si cercarono un posto per dormire comodamente, ciascuno secondo la propria natura. L’asino si sdraiò sul letamaio, il cane dietro la porta, il gatto sulla cenere calda del camino e il gallo si posò sulla trave maestra; e poiché‚ erano tanto stanchi per il lungo cammino, si addormentarono subito. Passata la mezzanotte, i briganti videro da lontano che in casa non ardeva più nessun lume e tutto sembrava tranquillo; allora il capo disse: “Non avremmo dovuto lasciarci impaurire” e mandò uno a ispezionare la casa. Costui trovò tutto tranquillo andò in cucina ad accendere un lume e, scambiando gli occhi sfavillanti del gatto per carboni ardenti, vi accostò uno zolfanello perché‚ prendesse fuoco. Ma il gatto se n’ebbe a male e gli saltò in faccia, sputando e graffiando. Il brigante si spaventò a morte e tentò di fuggire dalla porta sul retro, ma là era sdraiato il cane che saltò su e lo morse a una gamba; e quando attraversò dl corsa il cortile, passando davanti al letamaio, l’asino gli diede un bel calcio con la zampa di dietro; e il gallo, che si era svegliato per il baccano, strillò tutto arzillo dalla sua trave: “Chicchiricchì!” Allora il brigante tornò dal suo capo correndo a più non posso e disse: “Ah, in casa c’è un’orribile strega che mi ha soffiato addosso e mi ha graffiato la faccia con le sue unghiacce e sulla porta c’è un uomo con un coltello che mi ha ferito alla gamba; e nel cortile c’è un mostro nero che mi si è scagliato contro con una mazza di legno; e in cima al tetto il giudice gridava: ‘Portatemi quel furfante!’ Allora me la sono data a gambe!” Da quel giorno i briganti non si arrischiarono più a ritornare nella casa, ma i quattro musicanti di Brema ci stavano così bene che non vollero andarsene. E a chi per ultimo l’ha raccontata ancor la bocca non s’è freddata.

FINE

Immagine: I musicanti di Brema (Grimm)

 
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Fuoco alla paglia (Pirandello)

Post n°441 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Non avendo più nessuno a cui comandare, Simone Lampo aveva preso da un pezzo l’abitudine di comandare a se stesso. E si comandava a bacchetta:

- Simone, qua! Simone, là!

S’imponeva apposta, per dispetto del suo stato, le faccende più ingrate. Fingeva talvolta di ribellarsi per costringersi a obbedire, rappresentando a un tempo le due parti in commedia. Diceva, per esempio, rabbioso:

- Non lo voglio fare!

- Simone, ti bastono. T’ho detto, raccogli quel concime! No?

Pum... S’appioppava un solennissimo schiaffo. E raccoglieva il concime.
Quel giorno, dopo la visita al poderetto, l’unico che gli fosse restato di tutte le terre che un tempo possedeva (appena due ettari di terra, abbandonati lassù, senza custodia d’alcun villano), si comandò di sellar la vecchia asinella, con la quale soleva pur fare, ritornando al paese, i più speciosi discorsi.
L’asinella, drizzando ora questa ora quella orecchia spelata, pareva gli prestasse ascolto, paziente, non ostante un certo fastidio, che da qualche tempo il padrone le infliggeva e ch’essa non avrebbe saputo precisare: qualcosa che, nell’andare, le sbatteva dietro, sotto la coda.
Era un cestello di vimini, senza manico, legato con due lacci al posolino della sella e sospeso sotto la coda alla povera bestia, per raccogliervi e conservare belle calde, fumanti, le pallottole di fimo, ch’essa altrimenti avrebbe seminato lungo la strada.
Tutti ridevano vedendo quella vecchia asinella col cestino dietro, lì pronto al bisogno; e Simone Lampo ci scialava.
Era ben noto alla gente del paese con quale e quanta liberalità fosse un tempo vissuto e in che conto avesse tenuto il denaro. Ma ora, ecco, era andato a scuola dalle formiche, le quali, b-a-ba, b-a-ba, gli avevano insegnato questo espediente per non perdere neanche quel po’ di fimo buono a ingrassar la terra! Sissignori!

- Sù, Nina, sù, làsciati mettere questa bella gala qua! Che siamo più noi, Nina? Tu niente e io nessuno. Buoni soltanto da far ridere il paese. Ma non te ne curare. Ci restano ancora a casa qualche centinaio d’uccellini. Cïo-cïo-cïo-cïo... Non vorrebbero essere mangiati! Ma io me li mangio: e tutto il paese ride. Viva l’allegria!

Alludeva a un’altra sua bella pensata, che poteva veramente fare il pajo col cestello appeso sotto la coda dell’asina.
Mesi addietro aveva finto di credere che avrebbe potuto novamente arricchire con la cultura degli uccelli. E aveva fatto delle cinque stanze della sua casa in paese tutt’una gabbia (per cui era detta la gabbia del matto), riducendosi a vivere in due stanzette del piano superiore con la scarsa suppellettile scampata al naufragio delle sue sostanze e con gli usci, gli scuri e le invetriate delle finestre e dei finestroni, che aveva chiuso, per dar aria agli uccelli, con ingraticolati.
Dalla mattina alla sera, dalle cinque stanze da basso venivan sù, con gran delizia di tutto il vicinato, ringhii e strilli e cìnfoli e squittii, chioccolio di merli, spincionar di fringuelli; un cinguettio, un passeraio fitto, continuo, assordante.
Da parecchi giorni però, sfiduciato del buon esito di quel negozio, Simone Lampo mangiava uccellini a tutto pasto, e aveva distrutto lì, nel poderetto, l’apparato di reti e di canne, con cui aveva preso, a centinaia e centinaia, quegli uccellini.

Sellata l’asina, cavalcò e si mise in via per il paese.
Nina non avrebbe affrettato il passo, neanche se il padrone la avesse tempestata di nerbate. Pareva glielo facesse apposta, per fargli assaporar meglio con la lentezza del suo andare i tristi pensieri che, a suo dire, gli nascevano anche per colpa di lei, di quel tentennio del capo, cioè, ch’essa gli cagionava con la sua andatura. Sissignori. A forza di far così e così con la testa, guardando attorno dall’alto della sua groppa la desolazione dei campi che s’incupiva a mano a mano sempre più con lo spegnersi degli ultimi barlumi crepuscolari, non poteva fare a meno di mettersi a commiserar la sua rovina.
Lo avevano rovinato le zolfare.
Quante montagne sventrate per il miraggio del tesoro nascosto! Aveva creduto di scoprire dentro ogni montagna una nuova California. Californie da per tutto! Buche profonde fino a duecento, a trecento metri, buche per la ventilazione, impianti di macchine a vapore, acquedotti per la eduzione delle acque e tante e tante altre spese per uno straterello di zolfo, che non metteva conto, alla fine, di coltivare. E la triste esperienza fatta più volte, il giuramento di non cimentarsi mai più in altre imprese, non eran valsi a distoglierlo da nuovi tentativi, finché non s’era ridotto, com’era adesso, quasi al lastrico. E la moglie lo aveva abbandonato, per andare a convivere con un suo fratello ricco, poiché l’unica figlia era andata a farsi monaca per disperata.
Era solo, adesso, senza neanche una servaccia in casa; solo e divorato da un continuo orgasmo, che gli faceva commettere tutte quelle follie.
Lo sapeva, sì: era cosciente delle sue follie; le commetteva apposta, per far dispetto alla gente che, prima, da ricco, lo aveva tanto ossequiato, e ora gli voltava le spalle e rideva di lui. Tutti! tutti ridevano di lui e lo sfuggivano; nessuno che volesse dargli aiuto, che gli dicesse: - Compare, che fate? venite qua: voi sapete lavorare, avete lavorato sempre, onestamente; non fate più pazzie; mettetevi con me a una buona impresa! - Nessuno.
E la smania, l’interno rodìo, in quell’abbandono, in quella solitudine agra e nuda, crescevano e lo esasperavano sempre più.
L’incertezza di quella sua condizione era la sua maggiore tortura. Sì perché non era più né ricco, né povero. Ai ricchi non poteva più accostarsi, e i poveri non lo volevano riconoscere per compagno, per via di quella casa in paese e di quel poderetto lassù. Ma che gli fruttava la casa? Niente. Tasse, gli fruttava. E quanto al poderetto, ecco qua: c’era, per tutta ricchezza, un po’ di grano che, mietuto fra pochi giorni, gli avrebbe dato, sì e no, tanto da pagare il censo alla mensa vescovile. Che gli restava dunque, per mangiare? Quei poveri uccellini, là... E che pena, anche questa! Finché s’era trattato di prenderli, per tentare un negozio da far ridere la gente, transeat; ma ora, scender giù nel gabbione, acchiapparli, ucciderli e mangiarseli...

- Sù Nina, su! Dormi, stasera? Sù!

Maledetta la casa e maledetto il podere, che non lo lasciavano essere neanche povero bene, povero e pazzo, lì, in mezzo a una strada, povero senza pensieri, come tanti ne conosceva e per cui, nell’esasperazione in cui si trovava, sentiva un’invidia angosciosa.
Tutt’a un tratto Nina s’impuntò con le orecchie tese.

- Chi è là? - gridò Simone Lampo.

Sul parapetto d’un ponticello lungo lo stradone gli parve di scorgere, nel buio, qualcuno sdraiato.

- Chi è là?

Colui che stava lì sdraiato alzò appena il capo ed emise come un grugnito.

- Oh tu Nàzzaro! Che fai lì?

- Aspetto le stelle.

- Te le mangi?

- No: le conto.

- E poi?

Infastidito da quelle domande, Nàzzaro si rizzò a sedere sul parapetto e gridò iroso, tra il fitto barbone abbatuffolato:

- Don Simo’, andate, non mi seccate! Sapete bene che a quest’ora non negozio più; e con voi non voglio discorrere!

Così dicendo, si sdraiò di nuovo, a pancia all’aria sul parapetto in attesa delle stelle.
Quando aveva guadagnato quattro soldi, o strigliando due bestie o accudendo a qualche altra faccenda, purché spiccia, Nàzzaro diventava padrone del mondo. Due soldi di pane e due soldi di frutta. Non aveva bisogno d’altro. E se qualcuno gli proponeva di guadagnarsi, oltre a quei quattro soldi, per qualche altra faccenda, una o magari dieci lire, rifiutava, rispondendo sdegnosamente a quel suo modo:

- Non negozio più!

E si metteva a vagar per le campagne o lungo la spiaggia del mare o su per i monti. S’incontrava da per tutto, e dove meno si sarebbe aspettato, scalzo, silenzioso, con le mani dietro la schiena e gli occhi chiari, invagati e ridenti.

- Ve ne volete andare, insomma, sì o no? - gridò levandosi di nuovo a sedere sul parapetto, più iroso, vedendo che quello s’era fermato con l’asina a contemplarlo.

- Non mi vuoi neanche tu? - disse allora Simone Lampo, scotendo il capo. - Eppure, va’ là, che potremmo far bene il pajo, noi due.

- Col demonio, voi, il pajo! - borbottò Nàzzaro, tornando a sdrajarsi. - Siete in peccato mortale, ve l’ho detto!

- Per quegli uccellini?

- L’anima, l’anima, il cuore... non ve lo sentite rodere, il cuore? Sono tutte quelle creature di Dio, che vi siete mangiate! Andate... Peccato mortale!

- Arrì, - disse Simone Lampo all’asinello.

Fatti pochi passi, s’arrestò di nuovo, si voltò indietro e chiamò:

- Nàzzaro!

Il vagabondo non gli rispose.

- Nàzzaro. - ripeté Simone Lampo. - Vuoi venire con me a liberare gli uccelli?

Nàzzaro si rizzò di scatto. - Dite davvero?

- Sì.

- Volete salvarvi l’anima? Non basta. Dovreste dar fuoco anche alla paglia!

- Che paglia?

- A tutta la paglia! - disse Nàzzaro, accostandosi, rapido e leggero come un’ombra

Posò una mano sul collo dell’asina, l’altra su una gamba di Simone Lampo e, guardandolo negli occhi, tornò a domandargli:

- Vi volete salvar l’anima davvero?

Simone Lampo sorrise e gli rispose:

- Sì.

- Proprio davvero? Giuratelo! Badate, io so quello che ci vorrebbe per voi. Studio la notte, e so quello che ci vorrebbe, non per voi soltanto, ma anche per tutti i ladri, per tutti gl’impostori che abitano laggiù, nel nostro paese; quello che Dio dovrebbe fare per la loro salvazione e che fa, presto o tardi, sempre: non dubitate! Dunque, volete davvero liberare gli uccelli?

- Ma sì, te l’ho detto.

- E fuoco alla paglia?

- E fuoco alla paglia!

- Va bene. Vi prendo in parola. Andate avanti e aspettatemi. Devo ancora contare fino a cento.

Simone Lampo riprese la via, sorridendo e dicendo a Nàzzaro:

- Bada, t’aspetto.

S’intravedevano ormai laggiù, lungo la spiaggia, i lumi fiochi del paesello. Da quella via su l’altipiano marnoso che dominava il paese, si spalancava nella notte la vacuità misteriosa del mare, che faceva apparir più misero quel gruppetto di lumi laggiù.
Simone Lampo trasse un profondo sospiro e aggrottò le ciglia. Salutava ogni volta così, da lontano, l’apparizione di quei lumi.
C’eran due pazzi patentati per gli uomini che stavano laggiù, oppressi, ammucchiati: lui e Nàzzaro. Bene: ora si sarebbero messi insieme, per accrescere l’allegria del paese! Libertà agli uccellini e fuoco alla paglia! Gli piaceva questa esclamazione di Nàzzaro; e se la ripeté con crescente soddisfazione parecchie volte prima di giungere al paese.

- Fuoco alla paglia!

Gli uccellini, a quell’ora, dormivano tutti, nelle cinque stanze del piano di sotto. Quella sarebbe stata per loro l’ultima notte da passar lì. Domani, via! Liberi. Una gran volata! E si sarebbero sparpagliati per l’aria; sarebbero ritornati ai campi, liberi e felici. Sì, era una vera crudeltà, la sua. Nàzzaro aveva ragione. Peccato mortale! Meglio mangiar pane asciutto, e lì.
Legò l’asina nella stalluccia e, con la lucernetta a olio in mano, andò su ad aspettar Nàzzaro, che doveva contare, come gli aveva detto, fino a cento stelle. - Matto! Chi sa perché? Ma era forse una divozione...
Aspetta e aspetta, Simone Lampo cominciò ad aver sonno. Altro che cento stelle! Dovevano esser passate più di tre ore. Mezzo firmamento avrebbe potuto contare... Via! Via! Forse glie l’aveva detto per burla, che sarebbe venuto. Inutile aspettarlo ancora. E si disponeva a buttarsi sul letto, così vestito, quando sentì bussare forte all’uscio di strada.

Ed ecco Nàzzaro, ansante e tutto ilare e irrequieto.

- Sei venuto di corsa?

- Sì. Fatto!

- Che hai fatto?

- Tutto. Ne parleremo domani, don Simo’! Sono stanco morto.

Si buttò a sedere su una seggiola e cominciò a stropicciarsi le gambe con tutt’e due le mani, mentre gli occhi d’animale forastico gli brillavano d’un riso strano, abbozzato appena sulle labbra di tra il folto barbone.

- Gli uccelli? - domandò.

- Giù. Dormono.

- Va bene. Non avete sonno voi?

- Si. T’ho aspettato tanto...

- Prima non ho potuto. Coricatevi. Ho sonno anch’io, e dormo qua, su questa seggiola. Sto bene, non v’incomodate! Ricordatevi che siete ancora in peccato mortale! Domani compiremo l’espiazione.

Simone Lampo lo mirava dal letto, appoggiato su un gomito; beato. Quanto gli piaceva quel matto vagabondo! Gli era passato il sonno, e voleva seguitare la conversazione.

- Perché conti le stelle, Nàzzaro, di’?

- Perché mi piace contarle. Dormite!

- Aspetta. Dimmi: sei contento tu?

- Di che? - domandò Nàzzaro, levando la testa, che aveva già affondata tra le braccia appoggiate al tavolino.

- Di tutto, - disse Simone Lampo. - Di vivere così...

- Contento? Tutti in pena siamo, don Simo’! Ma non ve n’incaricate. Passerà! Dormiamo.

E riaffondò la testa tra le braccia.

Simone Lampo sporse il capo per spegnere la candela: ma, sul punto, trattenne il fiato. Lo costernava un po’ l’idea di restare al buio con quel matto là

- Di’, Nàzzaro: vorresti rimanere sempre con me?

- Sempre non si dice. Finché volete. Perché no?

- E mi vorrai bene?

- Perché no? Ma, né voi padrone, né io servo. Insieme. Vi sto appresso da un pezzo, sapete? So che parlate con l’asina e con voi stesso; e ho detto tra me: la sorba si matura. Ma non mi volevo accostare a voi, perché avevate gli uccelli prigionieri in casa. Ora che m’avete detto di voler salvare l’anima, starò con voi finché mi vorrete. Intanto, v’ho preso in parola, e il primo passo è fatto. Buona notte.

- E il rosario, non te lo dici? Parli tanto di Dio!

- Me lo son detto. È in cielo il mio rosario. Un’avemaria per ogni stella.

- Ah, le conti per questo?

- Per questo. Buona notte.

Simone Lampo, rassodato da queste parole. spense la candela E poco dopo, tutti e due dormivano.
All’alba, i primi cinguetti degli uccelli imprigionati svegliarono subito il vagabondo, che dalla seggiola s’era buttato a dormire in terra. Simone Lampo, che a quei cinguettii era già avvezzo, ronfava ancora.

Nàzzaro andò a svegliarlo.

- Don Simo’, gli uccelli ci chiamano.

- Ah, già! - fece Simone Lampo, destandosi di soprassalto e sgranando tanto d’occhi alla vista di Nàzzaro.

Non si ricordava più di nulla. Condusse il compagno nell’altra stanzetta e, sollevata la caditoia su l’assito, scesero entrambi la scala di legno della cateratta e pervennero nel piano di sotto, intanfato dello sterco di tutte quelle bestioline e di rinchiuso.
Gli uccelli, spaventati, presero tutti insieme a strillare, levandosi con gran tumulto d’ali verso il tetto.

- Quanti! quanti! - esclamò Nàzzaro, pietosamente, con le lagrime agli occhi. - Povere creature di Dio!

- E ce n’erano di più! - esclamò Simone Lampo, tentennando il capo.

- Meritereste la forca, don Simo’! - gli gridò quello mostrandogli le pugna. - Non so se basterà l’espiazione che v’ho fatto fare! Sù. andiamo! Bisognerà mandarli tutti in una stanza, prima.

- Non ce n’è bisogno. Guarda! - disse Simone Lampo. afferrando un fascio di cordicelle che, per un congegno complicatissimo, tenevano aderenti ai vani delle finestre e dei finestroni gli ingraticolati.

Vi si appese e giù! Gl’ingraticolati, alla strappata, precipitarono tutt’insieme con fracasso indiavolato.

- Cacciamo via, ora! cacciamo via! Libertà! Libertà! Sciò! sciò! sciò!

Gli uccelli, da più mesi lì imprigionati, in quel subitaneo scompiglio, sgomenti, sospesi sul fremito delle ali, non seppero in prima spiccare il volo: bisognò che alcuni, più animosi! s’avventassero via, come frecce, con uno strido di giubilo e di paura insieme; seguiron gli altri, cacciati, a stormi, a stormi, in gran confusione, e si sparpagliarono dapprima, come per rimettersi un po’ dallo stordimento, su gli scrimoli dei tetti, su le torrette dei camini, su i davanzali delle finestre, su le ringhiere dei balconi del vicinato, suscitando giù, nella strada, un gran clamore di meraviglia, a cui Nàzzaro, piangente dalla commozione, e Simone Lampo rispondevano seguitando a gridare per le stanze ormai vuote:

- Sciò, sciò! Libertà! Libertà!

S’affacciarono quindi anch’essi a godere dello spettacolo della via invasa da tutti quegli uccellini liberati alla nuova luce dell’alba. Ma già qualche finestra si schiudeva; qualche ragazzo, qualche donna tentavano, ridendo di ghermire questo o quell’uccellino: e allora Nàzzaro, furibondo, protese le braccia e cominciò a sbraitare come un ossesso:

- Lasciate! Non v’arrischiate! Ah, mascalzone! ah! ladra di Dio! Lasciateli andare!

Simone Lampo cercò di calmarlo:

- Va’ là! Sta’ tranquillo, che non si lasceranno più prendere ormai...

Ritornarono al piano di sopra, sollevati e contenti. Simone Lampo s’accostò a un fornelletto per accendere il fuoco e fare il caffè; ma Nàzzaro lo trasse di furia per un braccio.

- Che caffè, don Simo’! Il fuoco è già acceso. L’ho acceso io stanotte. Su, corriamo a vedere l’altra volata di là!

- L’altra volata? - gli domandò Simone Lampo, stordito. - Che volata?

- Una di qua, e una di là’ - disse Nàzzaro. - L’espiazione, per tutti gli uccelli che vi siete mangiati. Fuoco alla paglia non ve l’ho detto? Andiamo a sellare l’asina, e vedrete.

Simone Lampo vide passarsi come una vampa davanti agli occhi. Temette d’intendere. Afferrò Nàzzaro per le braccia e, scotendolo, gli gridò:

- Che hai fatto?

- Ho bruciato il grano del vostro podere, - gli rispose tranquillamente Nàzzaro.

Simone Lampo allibì, dapprima; poi, trasfigurato dall’ira, si lanciò contro il matto.

- Tu! Il grano? Assassino! Dici davvero? M’hai bruciato il grano?

Nàzzaro lo respinse con una bracciata furiosa.

- Don Simo’ a che gioco giochiamo? Di quanti parlari siete? Fuoco alla paglia, mi avete detto. E io ho dato fuoco alla paglia, per l’anima vostra!

- Ma io ti mando ora in galera! - ruggì Simone Lampo.

Nàzzaro ruppe in una gran risata, e gli disse chiaro e tondo:

- Pazzo siete! L’anima, eh? Così ve la volete salvare l’anima? Niente, don Simo’! Non ne facciamo niente.

- Ma tu m’hai rovinato, assassino! - gridò con altro tono di voce Simone Lampo, quasi piangente, ora. - Potevo figurarmi che tu intendessi dir questo? bruciarmi il grano? E come faccio ora? Come pago il censo alla mensa vescovile? il censo che grava sul podere?

Nàzzaro lo guardò con aria di compatimento sdegnoso:

- Bambino! Vendete la casa, che non vi serve a nulla, e liberate del censo il podere. È presto fatto.

- Si, - sghignò Simone Lampo. - E intanto che mangio io là, senza uccelli e senza grano?

- A questo ci penso io, - gli rispose con placida serietà Nàzzaro. - Non devo star con voi? Abbiamo l’asina; abbiamo la terra; zapperemo e mangeremo. Coraggio, don Simo’!

Simone Lampo rimase stupito a mirare la fiducia serena di quel matto, ch’era rimasto innanzi a lui con una mano alzata a un gesto di noncuranza sdegnosa e un bel riso d’arguta spensieratezza negli occhi chiari e tra il folto barbone abbatuffolato.

 

 
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Il distratto di S.Tobia

Post n°440 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Miei fedeli (?),rieccomi a voi!Se speravate di liberarvi di me vi ha detto male.
Stavolta vi racconterò le imprese dell'uomo più distratto di S.Tobia, tale Teseo Scozzagalli,nipote del Melchiorre,che ne ha fatte tali e tante da non poter più passare inosservato
LUNEDI- Teseo ha parcheggiato l'auto in piazza...dimenticandosi di spegnerla!
Be'erino,centrato in pieno,è finito nella fontana e la vetrina del negozio di barbiere di Teofilatto Spennacchietti non esiste più.
MARTEDI'-Teseo ha condotto il Melchiorre a Pistoia per controlli medici.In autostrada il vecchietto ha chiesto al nipote di fermarsi all'autogrill per un impellente bisogno fisiologico.Tesoe non solo è ripartito senza di lui,ma una volta in ospedale ha accusato i medici di avergli rapito il nonno ed ha chiamato la polizia.
Nel frattempo è arrivato Melchiorre, che aveva rimediato un passaggio da un camionista ucraino.
Il vecchiardo ha inseguito Teseo fino a S.Tobia,decisissimo a levarlo dal mondo.
MERCOLEDI'- Incontrata per strada la signora Cleofane Spampanoni,rimasta vedova l'altro ieri,Teseo l'ha abbracciata e si è congratulato per la sua fortuna.
Ancora non capisce come mai quella gli abbia quasi staccato un orecchio a mozzichi
GIOVEDI'- La Michelina ha incaricato il fratello di portare dal veterinario Brodolotti il suo bassotto.
Teseo è tornato a casa con la gatta dei Capricorni.
Il bassotto è introvabile.
VENERDI'- Oggi Teseo è andato al supermercato e sono accadute le seguenti cose.
a)Una vecchietta lo ha preso a borsettate.
b)Una cassiera ha avuto una crisi di riso isterico
c)Un viado brasiliano l'ha baciato in bocca
d)Una madre inviperita lo ha assalito dandogli dello sporcaccione pervertito
e)sono arrivati due poliziotti che lo hanno portato in questura accusandolo di atti osceni in luogo pubblico
Solo allora si è reso conto che era uscito di casa in costume adamitico.
SABATO- Teseo ha denunciato il furto della sua auto.
Dopo mezza giornata si èricordato che l'aveva portata dal meccanico
Telesforo lo ha denunciato per procurato allarme
DOMENICA- Teseo è stato espulso con ignominia dalla sua famiglia e cacciato a furor di popolo da S.Tobia
Sono passati tre giorni.
Be'erino è stato dimesso dall'ospedale.
Il bassotto resta introvabile.
Colpito dalla freccia di Cupido,il viado ha piantato le tende davanti a casa dell'amato bene ed attende fiducioso il suo ritorno.
Tornerà il nostro distrattone? Tutti sperano che dimentichi la strada di casa.
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Come posso dire (Boye)

Post n°439 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c'è sonno nè riposo,
finchè non saranno mie

 
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Libri dimenticati:E signore del club

Post n°438 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

America,1868.
Anne Alexander e Sally Cochrane,amiche per la pelle, si diplomano a diciotto anni e viene loro proposto di diventare socie fondatrici,insieme ad altre signore,di un club letterario per sole donne.
Non sanno ancora quanto questo club diverrà  importante per loro e per altre donne,e le accompagnerà fino alla morte,vedendole diventare spose,madri,nonne...
E' un libro da leggere.

 
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Frase del giorno

Post n°437 pubblicato il 18 Agosto 2011 da odette.teresa1958

I falsi amici sono come quei commensali che si alzano quando la tavola è vuota (Proverbio cinese)

 
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