Messaggi del 19/08/2011

I tre talismani

Post n°459 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio contadino che aveva tre figli. Prima di morire, li chiamo’ e disse loro: "Ho un talismano per ognuno di voi. A te Cassandrino, che sei poeta, lascio una borsa: troverai dentro sempre il denaro che ti serve. A te Sansonetto, che sei contadino, lascio una tovaglia: appena la distenderai appariranno tante pietanze pertutte le persone che vuoi. A te Oddo, che sei mercante, un mantello:sarà sufficiente che tu te lo metta sulle spalle per diventare invisibile e andare dove vuoi". Cassandrino si reco' in citta’ per far la vita del gran signore. Tutti dicevano che era un principe in esilio e lui volle far visita al re, del quale divenne subito amico. La corte era meravigliata della sua generosita’, ma la cameriera della principessa ebbe il sospetto di una magia e ne parlo’ alla padrona: la borsa era piccola ma ne usciva sempre molto denaro. La sera dopo, a cena, Cassandrino bevve del vino con del sonnifero e cadde in un sonno profondo. Fu portato in una stanza e la cameriera gli prese la borsa e la consegno’ alla sua padrona. quando si sveglio' Cassandrino si trovo’ in un campo e capi’ tutto. Per vendicarsi, torno’ dal fratello contadino, racconto’ la disavventura che gli era capitata e si fece dare in prestito la tovaglia magica. Cassandrino torno’ in citta’ vestito poveramente e si presento’ al palazzo del re come cuoco. Un giorno che il re dava un pranzo di gala per il sultano, Cassandrino chiese al capocuoco d’esser lasciato solo che avrebbe pensato lui a preparare tutto. Poco prima del pranzo, sali’ nel salone e distese la tovaglia. Subito apparirono cristalli e argenterie scintillanti e i cibi e i vini piu’ prelibati. I commensali furono entusiasti e il re volle fargli i suoi complimenti in presenza di tutti. Anche questa volta , la cameriera sospetto’ qualcosa e lo disse alla padrona. Per impossessarsi della tovaglia, la notte seguente forzo’ il cassetto dove era riposta e la sostitui’ con un’altra. L'indomani Cassandrino si rese conto di essere stato di nuovo imbrogliato. Usci’ dal palazzo deciso a vendicarsi e ando’ dal fratello mercante per chiedergli in prestito il mantello magico. In un attimo, Cassandrino fu di nuovo in citta’, sali’ non visto le scale del palazzo, entro’ nella stanza della principessa che stava dormendo e le copri’ il volto con un lembo del mantello. Immediatamente, i due si trovarono nelle Isole Fortunate. La principessa fece finta di rassegnarsi all'esilio e riusci’ a scoprire il segreto del mantello, una notte glielo levo' da sotto la nuca per tornare a palazzo. Cassandrino passo’ molti mesi nell'isola. Un giorno mangio’ una grossa mela rossa e subito senti’ un gran prurito: il suo corpo era ricoperto di squame verdi come un serpente. Allora vide delle mele gialle, ne addento’ una e la pelle gli ritorno' bianca. Dopo vari mesi pote’ tornare in citta’ grazie a dei corsari che gli diedero un passaggio sulla loro nave, portando con se' un po’ di pomi gialli e rossi. La domenica seguente si travesti’ da pellegrino, mise un banco sui gradini della chiesa dove la figlia del re si recava per assistere alla messa e vi pose sopra i tre pomi che facevano inverdire. La principessa ordino’ alla sua cameriera di comprare quelle mele, che furono presentate al pranzo reale sopra un vassoio d'oro. Il re ne prese una per se’, ne diede una alla regina e una alla principessa e rtutti si coprirono subito di squame. Nessun medico trovava la cura adatta. Alloravenne pubblicato un bando: chiunque avesse guarito la famiglia reale avrebbe ottenuto la mano della principessa o, se aveva gia' moglie, la meta’ del regno. Cassandrino si presento’ dopo qualche giorno a palazzo e comincio’ a curare il re e la regina. Dopo aver passato le loro spalle con dell’ortica, porse loro i frutti gialli. La loro pelle torno’ bianca. Poi tocco’ alla principessa, ma Cassandrino disse che l' avrebbe curata il giorno seguente e ando’ da un abate amico suo, dicendogli di recarsi il giorno dopo a palazzo per confessare la principessa che era in pericolo di vita. L’indomani, Cassandrino avviso’ la famiglia reale dell’arrivo dell’abate, poi si fece dare da lui la veste e con questa addosso si presento’ alla principessa e la fece confessare di aver rubato ad un forestiero una borsa miracolosa, una tovaglia fatata e un mantello incantato. Infine porse alla principessa, ormai pentita, il frutto giallo e subito le squame scomparvero. Il re offri’ a Cassandrino la figlia in sposa, ma lui rispose di avere gia' una fidanzata e rinuncio’ anche alla meta’ del regno. Si mise addosso il mantello fatato, volo’ verso il suo paese, restituì ai suoi fratelli i loro talismani e visse con la moglie felice e beato fra i campi.

 

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Tremotino

Post n°458 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un mugnaio che era povero, ma aveva una bella figlia. Un giorno gli capitò di parlare con il re e gli disse: -Ho una figliola che sa filare l'oro dalla paglia-. Al re, cui piaceva l'oro, la cosa piacque, e ordinò che la figlia del mugnaio fosse condotta innanzi a lui. La condusse in una stanza piena di paglia, le diede il filatoio e l'aspo e disse: -Se in tutta la notte, fino all'alba, non fai di questa paglia oro filato, dovrai morire-. Poi la porta fu chiusa ed ella rimase sola. La povera figlia del mugnaio se ne stava là senza sapere come salvarsi, poiché‚ non aveva la minima idea di come filare l'oro dalla paglia; la sua paura crebbe tanto che finì col mettersi a piangere. D'un tratto la porta si aprì ed entrò un omino che disse: -Buona sera, madamigella mugnaia, perché‚ piangi tanto?-. -Ah- rispose la fanciulla -devo filare l'oro dalla paglia e non sono capace!- Disse l'omino: -Che cosa mi dai, se te la filo io?-. -La mia collana- rispose la fanciulla. L'omino prese la collana, sedette davanti alla rotella e frr, frr, frr tirò il filo tre volte e il fuso era pieno. Poi ne introdusse un altro e frr, frr, frr, tirò il filo tre volte e anche il secondo fuso era pieno; andò avanti così fino al mattino: ed ecco tutta la paglia era filata e tutti i fusi erano pieni d'oro. Quando il re andò a vedere, si meravigliò e ne fu molto soddisfatto, ma il suo cuore divenne ancora più avido. Così fece condurre la figlia del mugnaio in una stanza molto più grande, piena di paglia, che anche questa volta doveva essere filata in una notte, se aveva cara la vita. La fanciulla non sapeva a che santo votarsi e piangeva; ma all'improvviso si aprì la porta e l'omino entrò dicendo: -Cosa mi dai se ti filo l'oro dalla paglia?-. -L'anello che ho al dito- rispose la fanciulla. L'omino prese l'anello, la ruota cominciò a ronzare e al mattino tutta la paglia si era mutata in oro splendente. A quella vista il re andò in visibilio ma, non ancora sazio, fece condurre la figlia del mugnaio in una terza stanza ancora più grande delle precedenti, piena di paglia, e disse: -Dovrai filare anche questa paglia entro stanotte; se ci riesci sarai la mia sposa-. Infatti egli pensava che da nessun'altra parte avrebbe trovato una donna tanto ricca. Quando la fanciulla fu sola, ritornò per la terza volta l'omino e disse: -Che cosa mi dai se ti filo la paglia anche questa volta?-. -Non ho più nulla- rispose la fanciulla. -Allora promettimi- disse l'omino -quando sarai regina, di darmi il tuo primo bambino.- "Chissà come andrà a finire!" pensò la figlia del mugnaio e, del resto, messa alle strette, non sapeva che altro fare, perciò accordò la sua promessa all'omino che, anche questa volta, le filò l'oro dalla paglia. Quando al mattino venne il re e trovò che tutto era stato fatto secondo i suoi desideri, la sposò; e la bella mugnaia divenne regina. Dopo un anno diede alla luce un bel maschietto e non si ricordava neanche più dell'omino, quando questi le entrò d'un tratto nella stanza a reclamare ciò che gli era stato promesso. La regina inorridì e gli offrì tutte le ricchezze del regno, purché‚ le lasciasse il bambino; ma l'omino disse: -No, qualcosa di vivo mi è più caro di tutti i tesori del mondo-. Allora la regina incominciò a piangere e a lamentarsi, tanto che l'omino s'impietosì e disse: -Ti lascio tre giorni di tempo: se riesci a scoprire come mi chiamo, potrai tenerti il bambino-. La regina passò la notte cercando di ricordare tutti i nomi che mai avesse udito, inviò un messo nelle sue terre a domandare in lungo e in largo, quali altri nomi si potevano trovare. Il giorno seguente, quando venne l'omino, ella cominciò con Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e disse tutta una lunga sfilza di nomi, ma ogni volta l'omino diceva: -Non mi chiamo così-. Il secondo giorno, ella mandò a chiedere come si chiamasse la gente nei dintorni e propose all'omino i nomi più insoliti e strani quali: Latte di gallina, Coscia di montone, Osso di balena. Ma egli rispondeva sempre: -Non mi chiamo così-. Il terzo giorno tornò il messo e raccontò: -Nuovi nomi non sono riuscito a trovarne, ma ai piedi di un gran monte, alla svolta del bosco, dove la volpe e la lepre si dicono buona notte, vidi una casetta; e davanti alla casetta ardeva un fuoco intorno al quale ballava un omino quanto mai buffo, che gridava, saltellando su di una sola gamba:-Fare oggi il pane, la birra domani, la miglior cosa per me che sarà? Avere il figlio del re dopodomani! Mi chiamo Tremotino, questo è il bello! Nessun risponderà all'indovinello!"-. All'udire queste parole, la regina si rallegrò e poco dopo quando l'omino entrò e le disse: -Allora, regina, come mi chiamo?- ella da principio domandò: -Ti chiami Corrado?-. -No.- -Ti chiami Enrico?- -No.- -Ti chiami forse Tremotino?- -Te l'ha detto il diavolo, te l'ha detto il diavolo!- gridò l'omino; e per la rabbia pestò in terra il piede destro con tanta forza, che sprofondò fino alla cintola; poi, nell'ira, afferrò con le mani il piede sinistro e si squarciò.

FINE

Immagine: Tremotino (Grimm)

 
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Storia di uno che andò in cerca della paura

Post n°457 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un padre aveva due figli. Il maggiore era giudizioso e prudente e sapeva cavarsela in ogni situazione, mentre il minore era stupido, non imparava né‚ capiva nulla e quando la gente lo incontrava diceva: “Sarà un bel peso per il padre!” Se c’era qualcosa da fare, toccava sempre al maggiore; ma se il padre lo mandava a prendere qualcosa di sera o addirittura di notte, e la strada passava vicino al cimitero o a qualche luogo terrificante, egli rispondeva: “Ah, padre mi viene la pelle d’oca!,” poiché‚ era pauroso. Oppure quando di sera, accanto al fuoco, si raccontavano delle storie da far rabbrividire, coloro che ascoltavano dicevano a volte: “Ah mi viene la pelle d’oca!” Il minore se ne stava seduto in un angolo, ascoltava e non capiva che cosa ciò potesse significare. “Dicono sempre: mi viene la pelle d’oca! mi viene la pelle d’oca! A me non viene: sarà anche questa un’arte di cui non capisco niente.”

Un bel giorno il padre gli disse: “Ascolta, tu in quell’angolo diventi grande e grosso, ed è ora che impari a guadagnarti il pane. Guarda come si dà da fare tuo fratello; ma con te è fatica sprecata.” - “Sì padre,” egli rispose, “vorrei imparare qualcosa; anzi, se fosse possibile, mi piacerebbe imparare a farmi venire la pelle d’oca; di questo non so proprio nulla.” Il fratello maggiore rise nell’udirlo e pensò fra s’: “Mio Dio, che stupido è mio fratello, non se ne caverà mai nulla. Il buon giorno si vede dal mattino.” Il padre sbuffò e gli rispose: “La pelle d’oca imparerai ad averla, ma con questo non ti guadagnerai il pane.”

Poco tempo dopo venne a fare loro visita il sagrestano; il padre gli confidò i suoi guai e gli raccontò che il figlio più giovane era maldestro in ogni cosa, non sapeva e non imparava nulla. “Pensate, quando gli ho chiesto in che modo voleva guadagnarsi il pane, ha risposto che voleva imparare a farsi venire la pelle d’oca!” - “Oh!” rispose il sagrestano, “può impararlo da me; affidatemelo, lo sgrosserò.” Il padre era contento perché‚ pensava che il giovane avrebbe messo giudizio. Così il sagrestano se lo portò a casa ed egli dovette suonargli le campane. Un paio di giorni dopo lo svegliò a mezzanotte, gli ordinò di alzarsi, di salire sul campanile e di suonare. “Imparerai che cos’è la pelle d’oca!” pensava e, per fargli prendere un bello spavento, lo precedette di nascosto e si mise davanti allo spiraglio della porta: il giovane doveva credere che fosse un fantasma. Questi salì tranquillamente fino in cima al campanile, e quando fu sopra vide una figura nello spiraglio. “Chi è là?” gridò, ma la figura non rispose n‚ si mosse. Allora gli disse: “Che vuoi qui di notte? Vattene o ti butto giù.” Il sagrestano pensò: “Non avrà intenzioni così malvagie,” tacque e restò immobile. Il giovane lo interpellò per la terza volta e, siccome non ottenne nessuna risposta, prese la rincorsa e buttò giù il fantasma che si ruppe le gambe e il collo. Suonò poi le campane e, subito dopo, discese e si rimise a dormire senza dire una parola. La moglie del sagrestano attese a lungo il marito, ma quello non veniva mai. Alla fine si spaventò, svegliò il giovane e disse: “Non sai dov’è mio marito? E’ salito con te sul campani le.” - “No,” rispose il ragazzo, “ma c’era un tale nello spiraglio, e siccome non se ne andava e non voleva rispondermi, l’ho buttato giù. Andate a vedere se è lui.” La donna corse al camposanto, piena di paura, e trovò il marito che giaceva per terra, morto.

Allora si recò urlando dal padre del ragazzo, lo svegliò e disse: “Ah, che sciagura ha causato il vostro fannullone! Ha buttato giù mio marito dal campanile, e ora giace morto al camposanto.” Il padre si spaventò, corse dal ragazzo e gli disse, rimproverandolo aspramente: “Queste empietà deve avertele ispirate il Maligno!” - “Ah padre!” rispose egli, “sono innocente: se ne stava là di notte, come uno che ha cattive intenzioni. Io non sapevo chi fosse e gliel’ho domandato tre volte; perché‚ non se n’è andato?” - “Ah,” disse il padre, “da te ho soltanto dei dispiaceri, togliti dai piedi, non ti voglio più vedere.” - “Sì padre, volentieri, aspetta solo che faccia giorno e me ne andrò, e imparerò che cosa sia avere la pelle d’oca, così conoscerò un’arte che mi darà da mangiare.” - “Impara quel che ti pare,” disse il padre, “per me fa lo stesso. Eccoti cinquanta scudi, prendili e sparisci dalla mia vista; e non dire a nessuno da dove vieni e chi è tuo padre, perché‚ mi vergogno di te.” - “Sì padre, come volete; se non chiedete altro, posso ben tenerlo a mente.”

Allo spuntar del giorno, il giovane si mise in tasca i suoi cinquanta scudi e se ne andò sulla via maestra dicendo fra s’: “Ah, se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” Lo raggiunse un uomo che sentì questo discorso; quando ebbero fatto un pezzo di strada e furono in vista della forca, questi disse al ragazzo: “Vedi, quello è l’albero su cui sette uomini hanno sposato la figlia del funaio: siediti là sotto e aspetta che venga notte, allora imparerai che cos’è la pelle d’oca.” - “Se è tutto qui,” rispose il giovane, “è presto fatto; se imparo così in fretta che cos’è la pelle d’oca, avrai i miei cinquanta scudi: ritorna da me domani mattina presto.” Il giovane andò allora alla forca, vi si sedette sotto e attese la sera. Poiché‚ aveva freddo, accese un fuoco; ma a mezzanotte il vento soffiava così gelido che egli non riusciva a scaldarsi nonostante il fuoco. Quando il vento spinse gli impiccati l’uno contro l’altro facendoli oscillare su e giù, egli pensò: “Tu geli qui accanto al fuoco, chissà che freddo hanno quelli lassù! E come si dimenano!” E siccome era di buon cuore, appoggiò la scala alla forca, salì, li staccò a uno a uno e li portò giù tutti e sette. Poi attizzò il fuoco, ci soffiò sopra e ci sedette intorno gli impiccati perché‚ si scaldassero. Ma essi se ne stavano seduti senza muoversi e il fuoco si appiccò ai loro vestiti. Allora egli disse: “Fate attenzione, altrimenti vi riappendo di nuovo lassù.” Ma i morti non sentivano, tacevano e continuavano a lasciar bruciare i loro stracci. Perciò egli andò in collera e disse: “Se non volete fare attenzione, io non posso aiutarvi: non voglio bruciare con voi.” E li riappese l’uno dopo l’altro. Poi si sedette accanto al fuoco e si addormentò. Il mattino dopo venne l’uomo che voleva i cinquanta scudi e disse: “Hai imparato che cos’è la pelle d’oca?” - “No,” rispose egli. “Come avrei potuto impararlo? Quelli lassù non hanno aperto bocca, e sono così stupidi da lasciar bruciare quei due vecchi stracci che hanno addosso.” L’uomo capì che per quel giorno non poteva prendersi i cinquanta scudi, se ne andò e disse: “Non mi è mai capitato di incontrare un tipo simile.”

Anche il giovane andò per la sua strada e ricominciò a dire fra s’: “Ah, se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” L’udì un carrettiere che camminava dietro di lui e domandò: “Chi sei?” - “Non lo so,” rispose il giovane. Il carrettiere domandò ancora: “Da dove vieni?” - “Non lo so.” - “Chi è tuo padre?” - “Non posso dirlo.” - “Che cosa vai borbottando fra i denti?” - “Ah,” rispose il giovane, “vorrei farmi venire la pelle d’oca, ma nessuno sa insegnarmelo.” - “Piantala di dire sciocchezze,” disse il carrettiere. “Vieni con me, ti troverò un posto di lavoro.” Il giovane andò con il carrettiere e la sera giunsero a un’osteria dove volevano pernottare. Entrando egli disse ad alta voce: “Se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” L’oste, all’udirlo, disse ridendo: “Se ne hai tanta voglia, qui ci sarebbe una bella occasione!” - “Ah taci!” disse l’ostessa. “Troppi audaci hanno già perso la vita. Sarebbe un vero peccato se quei begli occhi non dovessero rivedere la luce del giorno!” Ma il giovane disse: “Anche se è difficile, voglio impararlo una buona volta: me ne sono andato di casa per questo.” Non lasciò in pace l’oste finché‚ questi non gli raccontò che nelle vicinanze c’era un castello fatato, dove si poteva imparare benissimo che cosa fosse la pelle d’oca, purché‚ ci si vegliasse tre notti. A chi aveva tanto coraggio, il re aveva promesso in isposa sua figlia, la più bella fanciulla che esistesse al mondo. Nel castello erano inoltre celati dei favolosi tesori custoditi da spiriti, e sarebbero diventati di proprietà di chi avesse superato la prova. Già molti erano entrati nel castello, ma nessuno ne era uscito. Il mattino dopo, il giovane si presentò al re e disse: “Se fosse possibile vorrei vegliare tre notti nel castello fatato.” Il re lo guardò e siccome gli piacque disse: “Puoi chiedermi anche tre cose e portarle con te al castello, ma devono essere cose prive di vita.” Allora egli rispose: “Chiedo un fuoco, un tornio e un banco da ebanista con il suo coltello.”

Il re gli fece portare ogni cosa al castello durante il giorno All’imbrunire il giovane vi entrò, si accese un bel fuoco in una stanza, vi mise accanto il banco da ebanista con il coltello, e si sedette sul tornio. “Ah, se mi venisse la pelle d’oca!” disse egli. “Ma non lo imparerò neanche qui.” Verso mezzanotte volle attizzare il fuoco; mentre ci soffiava sopra, udì all’improvviso gridare da un angolo: “Ohi miao! che freddo abbiamo!” - “Scimuniti,” esclamò, “perché‚ gridate? Se avete freddo, venite, sedetevi accanto al fuoco e scaldatevi.” Come ebbe detto questo, due grossi gatti neri si avvicinarono d’un balzo e gli si sedettero ai lati guardandolo ferocemente con i loro occhi di fuoco. Dopo un poco, quando si furono scaldati, dissero: “Camerata, vogliamo giocare a carte?” - “Sì,” egli rispose, “ma mostratemi le zampe.” Essi allora tirarono fuori gli artigli “Oh,” egli disse “che unghie lunghe avete! Aspettate, devo prima tagliarvele!” Li afferrò allora per la collottola, li mise sul banco ed imprigionò loro le zampe. “Vi ho tenuti d’occhio,” disse, “e mi è passata la voglia di giocare a carte.” Li uccise e li gettò in acqua. Ma aveva appena tolto di mezzo quei due e stava per sedersi accanto al fuoco, quando sbucarono da ogni parte cani e gatti neri, attaccati a catene infuocate; erano tanti ma tanti che egli non sapeva più dove cacciarsi. Gridavano terribilmente, gli calpestavano il fuoco, disperdevano le braci e volevano spegnerlo. Per un po’ stette a guardare tranquillamente, ma quando incominciò a sentirsi a mal partito, afferrò il coltello, gridò: “Finiamola, canaglia!” e si gettò su di loro. Alcuni balzarono via, gli altri li uccise e li buttò nello stagno. Come fu di ritorno, riattizzò il fuoco soffiando sulla brace e si scaldò. E, mentre se ne stava così seduto, si accorse che non riusciva più a tenere gli occhi aperti e che aveva voglia di dormire. Allora guardò intorno a s‚, vide un gran letto in un angolo e ci si coricò. Ma come volle chiudere gli occhi, il letto incominciò a muoversi da solo e andò a spasso per tutto il castello. “Benissimo,” disse il giovane, “ancora più in fretta!” Allora il letto incominciò a rotolare su e giù per soglie e scale, come se fosse trainato da sei cavalli; d’un tratto, hopp, hopp, si ribaltò a gambe all’aria, e gli restò addosso.

Allora egli scagliò in aria coperte e cuscini, saltò fuori e disse: “Adesso vada a spasso chi ne ha voglia!” si distese accanto al fuoco e dormì sino a giorno. Al mattino venne il re e quando lo vide disteso a terra pensò che fosse morto e che gli spettri lo avessero ucciso. Allora disse: “Peccato! Un così bel ragazzo!” Il giovane lo udì, si rizzò e disse: “Non siamo ancora a questo punto!” Il re si stupì e, tutto contento, gli domandò com’era andata. “Benissimo” rispose egli “la prima notte è passata e passeranno anche le altre due!” Quando tornò dall’oste, questi fece tanto d’occhi e disse: “Non pensavo di rivederti ancora vivo; hai imparato finalmente che cos’è la pelle d’oca?” - “No,” rispose il giovane, “non lo so; se solo qualcuno me lo dicesse!”

La seconda notte salì di nuovo al vecchio castello, si sedette accanto al fuoco e disse: “Se mi venisse la pelle d’oca!” Verso mezzanotte sentì un rumore e un tramestio, prima piano, poi sempre più forte; poi un breve silenzio, infine un mezzo uomo cadde dal camino urlando, e gli piombò davanti. “Olà!” esclamò, “ce ne vuole ancora metà, così è troppo poco.” Allora il rumore ricominciò, si udì strepitare e urlare, e anche la seconda metà cadde giù. “Aspetta,” disse, “voglio attizzarti un po’ il fuoco.” Quando ebbe finito e si guardò nuovamente intorno, i due pezzi si erano riuniti e un omaccio orribile sedeva al suo posto. “Non intendevo dir questo,” disse il giovane, “il banco è mio.” L’uomo voleva respingerlo, ma il giovane non lo lasciò fare, lo spinse via con forza e si risedette di nuovo al suo posto. Allora caddero giù altri uomini che avevano nove stinchi e due teschi, li rizzarono e giocarono a birilli. Anche al giovane venne voglia di giocare e domandò: “Sentite, posso giocare anch’io?” - “Sì, se hai denaro.” - “Di denaro ne ho a sufficienza” rispose “ma le vostre palle non sono ben rotonde.” Allora egli prese i teschi, li mise sul tornio e li arrotondò. “Adesso rotoleranno meglio!” disse. “Olà, ora ci divertiremo!” Giocò e perse un po’ di denaro, ma quando suonò mezzanotte tutto sparì davanti ai suoi occhi. Si distese e si addormentò tranquillamente. Il mattino dopo venne il re a informarsi: “Come ti è andata questa volta?” domandò. “Ho giocato a birilli” rispose “e ho perduto qualche soldo.” - “Non ti è venuta la pelle d’oca?” - “macché‚” disse “me la sono spassata; se solo sapessi che cos’è la pelle d’oca!”

La terza notte sedette di nuovo al suo banco e diceva tutto malinconico: “Se mi venisse la pelle d’oca!” A notte inoltrata, giunsero sei omacci che portavano una cassa da morto. Allora egli disse: “Ah, ah, è sicuramente il mio cuginetto che è morto qualche giorno fa.” Fece un cenno con il dito e gridò: “Vieni, cuginetto, vieni!” Misero la bara a terra, ma egli si avvicinò e tolse il coperchio: dentro c’era un morto. Gli toccò il viso, ma era freddo come il ghiaccio. “Aspetta,” disse, “ti voglio riscaldare un po’.” Andò al fuoco, si riscaldò la mano e gliela mise sul viso, ma il morto rimase freddo. Allora lo tirò fuori, si sedette davanti al fuoco, se lo prese sulle ginocchia e gli strofinò le braccia per riscaldarlo, Ma siccome anche questo non servì a nulla, gli venne un’idea: “Se due sono a letto insieme, si riscaldano.” Lo portò a letto, lo coprì e gli si distese accanto. Dopo un po’ anche il morto fu caldo e incominciò a muoversi. Allora il giovane disse: “Vedi, cuginetto, se non ti avessi scaldato!” Ma il morto prese a dire: “Adesso ti voglio strozzare.” - “Cosa?” disse egli. “E’ questa la mia ricompensa? Torna pure nella tua bara!” Lo sollevò, ce lo buttò dentro e chiuse il coperchio: ritornarono i sei uomini e lo portarono via. “Non mi vuol venire la pelle d’oca,” egli disse, “qui non l’imparerò mai.”

Allora entrò un uomo, che era più grosso di tutti gli altri e aveva un aspetto terribile; ma era vecchio e aveva una lunga barba bianca. “Oh tu, nanerottolo, imparerai presto che cos’è la pelle d’oca perché‚ devi morire.” - “Non così in fretta!” egli rispose. “Per morire devo esserci anch’io.” L’uomo disse: “Ti prenderò!” - “Piano, non darti tante arie; sono forte quanto te, e forse anche di più.” - “Lo vedremo,” disse il vecchio, “se sei forte più di me, ti lascerò andare; vieni, proviamo.” Attraverso passaggi oscuri, lo condusse a una fucina, prese un’accetta e con un colpo sbatté‚ a terra un’incudine. “So fare di meglio,” disse il giovane e andò all’altra incudine; il vecchio gli si mise accanto per vedere, con la barba bianca penzoloni. Il giovane afferrò allora l’accetta, con un colpo spaccò l’incudine e vi serrò dentro la barba del vecchio. “Ora ti ho in pugno!” disse il ragazzo. “Adesso tocca a te morire.” Afferrò una sbarra di ferro e percosse il vecchio fino a che questi si mise a piagnucolare e lo pregò di smettere: gli avrebbe dato dei grossi tesori. Il giovane estrasse allora l’accetta e lasciò libero il vecchio che lo ricondusse al castello e gli mostrò in una cantina tre casse colme d’oro. “Di quest’oro,” disse, “una parte è dei poveri, l’altra del re, la terza è tua.” In quel momento suonò mezzanotte e lo spirito scomparve, sicché‚ il giovane si trovò al buio. “Me la caverò ugualmente,” disse; a tastoni trovò il cammino che lo condusse alla sua stanza, dove si addormentò accanto al fuoco. Il mattino dopo venne il re e disse: “Ora avrai imparato che cos’è la pelle d’oca!” - “No,” rispose, “che roba è questa? E’ stato qui mio cugino morto ed è venuto un vecchio barbuto che mi ha mostrato molto denaro là sotto, ma che cosa sia la pelle d’oca non me l’ha insegnato nessuno.” Il re disse: “Hai sciolto l’incantesimo del castello e sposerai mia figlia.” - “Tutto questo va benissimo, ma io continuo a non sapere che cos’è la pelle d’oca.”

L’oro fu portato su e si celebrarono le nozze, ma il giovane re, per quanto amasse la sua sposa e fosse felice con lei, diceva sempre: “Se mi venisse la pelle d’oca! Se mi venisse la pelle d’oca!” La sposa finì coll’infastidirsi. Allora la sua cameriera disse: “Ci penserò io: imparerà che cos’è la pelle d’oca!” Uscì e fece riempire un secchio di ghiozzi. Di notte, mentre il giovane re dormiva, sua moglie gli tolse la coperta e gli rovesciò addosso il secchio pieno di acqua gelata con i ghiozzi, cosicché‚ i pesciolini gli guizzarono intorno. Allora egli si svegliò e gridò: “Ah, che pelle d’oca, che pelle d’oca, moglie mia! Sì, ora so cos’è la pelle d’oca.”

FINE

Immagine: Storia di uno che se ne andò in cerca della paura (Grimm)

 
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Il lupo e i caprettini

Post n°456 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una vecchia capra, che aveva sette caprettini, e li amava come una mamma ama i suoi bimbi. Un giorno pensò di andare nel bosco a far provviste per il desinare; li chiamò tutti e sette e disse: “Cari piccini, voglio andar nel bosco; guardatevi dal lupo; se viene, vi mangia tutti in un boccone. Quel furfante spesso si traveste, ma lo riconoscerete subito dalla voce rauca e dalle zampe nere.” I caprettini dissero: “Cara mamma, staremo ben attenti, potete andar tranquilla.” La vecchia belò e si avviò fiduciosa.

Poco dopo, qualcuno bussò alla porta, gridando: “Aprite, cari piccini; c'è qui la vostra mamma, che vi ha portato un regalo per ciascuno.” Ma, dalla voce rauca, i caprettini capirono che era il lupo. “Non apriamo,” dissero, “non sei la nostra mamma; la mamma ha una vocina dolce, la tua è rauca; tu sei il lupo.” Allora il lupo andò da un bottegaio e comprò un grosso pezzo di creta; lo mangiò e così s'addolci la voce. Poi tornò, bussò alla porta e gridò: “Aprite, cari piccini, c'è la vostra mamma, che vi ha portato un regalo per ciascuno.” Ma aveva appoggiato alla finestra la sua zampa nera; i piccini la videro e gridarono: “Non apriamo; la nostra mamma non ha le zampe nere come te: tu sei il lupo.” Allora il lupo corse da un fornaio e gli disse: “Mi son fatto male al piede, spalmaci sopra un po' di pasta.” E quando il fornaio gli ebbe spalmato la zampa, corse dal mugnaio e gli disse: “Spargimi sulla zampa un po' di farina bianca.” Il mugnaio pensò: Il lupo vuole ingannare qualcuno, e rifiutò; ma il lupo disse: “Se non lo fai, ti mangio.” Allora il mugnaio ebbe paura e gli imbiancò la zampa. Già, così fanno gli uomini.

Ora il briccone andò per la terza volta all'uscio, bussò e disse: “Apritemi, piccini; la vostra cara mammina è tornata dal bosco e vi ha portato un regalo per ciascuno.” I caprettini gridarono: “Prima facci vedere la zampa, perché sappiamo se tu sei la nostra cara mammina.” Allora il lupo mise la zampa sulla finestra, e quando essi videro che era bianca credettero tutto vero quel che diceva e aprirono la porta. Ma fu il lupo a entrare. I capretti si spaventarono e cercarono di nascondersi. Il primo saltò sotto il tavolo, il secondo nel letto, il terzo nella stufa, il quarto in cucina, il quinto nell'armadio, il sesto sotto l'acquaio, il settimo nella cassa dell'orologio a pendolo. Ma il lupo li trovò tutti e non fece complimenti: li ingoiò l'un dopo l'altro; ma l'ultimo, dentro la cassa dell'orologio, non lo trovò. Quando si fu cavata la voglia, il lupo se ne andò, si sdraiò sotto un albero sul verde prato e si mise a dormire.

Poco dopo la vecchia capra tornò dal bosco. Ah, cosa le toccò vedere! La porta di casa era spalancata, tavola sedie e panche erano rovesciate, l'acquaio era in pezzi, coperta e cuscini strappati dal letto. Cercò i suoi piccoli, ma non riuscì a trovarli da nessuna parte. Li chiamò per nome, l'un dopo l'altro, ma nessuno rispose. Finalmente, quando chiamò il più piccolo, una vocina gridò: “Cara mamma, sono nascosto nella cassa dell'orologio.” Lo tirò fuori ed egli le raccontò che era venuto il lupo e aveva divorato tutti gli altri. Pensate come pianse per i suoi poveri piccini!

Alla fine uscì tutt'afflitta e il caprettino più piccolo corse fuori con lei. Quando arrivò nel prato, ecco il lupo sdraiato sotto l'albero, e russava tanto da far tremare i rami. L'osservò da tutte le parti e notò che nella pancia rigonfia qualcosa si moveva e si dimenava. “Ah, Dio mio,” pensò, “che siano ancor vivi i miei poveri piccini, che il lupo ha divorato per cena?” Disse al capretto di correre a casa e di prendere forbici, ago e filo. Poi tagliò la pancia del mostro; e al primo taglio, un capretto mise fuori la testa, poi, via via che tagliava, saltaron fuori tutti e sei ed erano tutti vivi e stavano benone; perché il mostro per ingordigia li aveva ingoiati interi. Che gioia fu quella! Si strinsero alla loro cara mamma e saltellavano contenti come pasque. Ma la vecchia disse: “Andate, ora; e cercate delle pietre da riempir la pancia a questo dannato prima che si desti.” Allora i sette caprettini trascinarono in gran fretta le pietre e ne cacciarono in quella pancia quante ne poterono portare. Poi la vecchia la ricucì in un baleno, sicché il lupo non se ne accorse e non si mosse neppure.

Finalmente, quando ebbe fatto una bella dormita, il lupo si alzò, e perché le pietre nello stomaco gli davano una gran sete, volle andare a una fontana. Ma quando cominciò a muoversi, le pietre si misero a cozzare nella pancia con gran fracasso. Allora gridò:
“Romba e rimbomba
Nella mia pancia credevo fossero
Sei caprettini, sono pietroni
Belli e buoni.”
E quando arrivò alla fontana e si chinò sull'acqua per bere, il peso delle pietre lo tirò giù, e gli toccò miseramente affogare. A quella vista i sette capretti vennero di corsa, gridando: “Il lupo è morto! il lupo è morto!” E con la loro mamma ballarono di gioia intorno alla fontana.

FINE

Immagine: Il lupo e i sette caprettini (Grimm)

 
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Fratellino e sorellina

Post n°455 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958


Confronti

 


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Traduzioni: ENGLISH (Inglese) DEUTSCH (Tedesco) FRANÇAIS (Francese) ITALIANO (Italiano) ESPAÑOL (Spagnolo) DANSK (Danese) NEDERLANDS (Olandese)

Fratellino e sorellina

tempo:  
16'
Fiaba dei fratelli Grimm - KHM 011

Il fratellino prese la sorellina per mano e disse: "Da quando è morta la mamma, non abbiamo più avuto un'ora di bene: la matrigna ci picchia ogni giorno e quando andiamo da lei ci caccia a pedate. I tozzi di pane raffermo sono il nostro cibo, e il cagnolino sotto la tavola sta meglio di noi: a lui getta ogni tanto qualcosa di buono. Dio mio, se lo sapesse la nostra mamma! Vieni, ce ne andremo insieme per il mondo." Camminarono tutto il giorno attraverso prati, campi, sentieri sassosi, e, mentre pioveva, la sorellina disse: "Dio e i nostri cuori piangono insieme." La sera giunsero in un gran bosco, ed erano così stanchi per il pianto, la fame e il lungo cammino, che si sedettero dentro a un albero cavo e si addormentarono.

La mattina dopo, quando si svegliarono, il sole era già alto nel cielo e i suoi raggi penetravano ardenti all'interno dell'albero. Allora il fratellino disse: "Sorellina ho sete; se sapessi dov'è una fonte andrei a bere; credo di averne sentito il mormorio." Il fratellino si alzò, prese la sorellina per mano e volevano cercare la sorgente. Ma la cattiva matrigna era una strega e aveva visto benissimo che i due bambini se ne erano andati; li aveva seguiti quatta quatta, di nascosto, come fanno le streghe, e aveva stregato tutte le sorgenti del bosco. Quand'essi trovarono un rivolo che saltellava scintillando sulle pietre, il fratellino volle bere; ma la sorellina udì la fonte mormorare: "Chi beve della mia acqua diventa una tigre! Chi beve della mia acqua diventa una tigre!" Allora la sorellina gridò: "Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi una belva feroce e mi sbrani." Il fratellino non bevve, anche se aveva una gran sete, e disse: "Aspetterò fino alla prossima sorgente." Quando arrivarono alla seconda fonte, la sorellina udì che anche questa diceva: "Chi beve della mia acqua diventa un lupo! Chi beve della mia acqua diventa un lupo!" Allora gridò: "Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un lupo e mi divori." Il fratellino non bevve e disse: "Aspetterò fino alla prossima sorgente, ma allora dovrò bere; puoi dire quello che vuoi, ho troppa sete." E quando giunsero alla terza fonte, la sorellina udì mormorare: "Chi beve della mia acqua diventa un capriolo! Chi beve della mia acqua diventa un capriolo!" La sorellina disse: "Ah, fratellino, ti prego, non bere, altrimenti diventi un capriolo e scappi via." Ma il fratellino si era subito inginocchiato presso la sorgente, si era chinato e aveva bevuto l'acqua; non appena le prime gocce gli toccarono le labbra, giacque a terra, trasformato in un piccolo capriolo.

La sorellina pianse sul povero fratellino stregato, e anche il piccolo capriolo piangeva, standosene tutto triste accanto a lei. Infine la fanciulla disse: "Chetati, caro caprioletto, io non ti abbandonerò mai." Sciolse la sua giarrettiera d'oro e la mise intorno al collo del capriolo, poi divelse dei giunchi e ne intrecciò una corda flessibile. Legò l'animaletto, lo condusse con s‚ e si addentrò sempre di più nel bosco. Cammina, cammina, giunsero finalmente a una casetta; la fanciulla guardò dentro e siccome era vuota pensò: "Qui possiamo fermarci ad abitare." Cercò allora foglie e muschio per fare un morbido giaciglio al capriolo e ogni mattina usciva e raccoglieva radici, bacche e noci, e al capriolo portava erba tenera; ed esso la mangiava dalla sua mano, era felice e giocherellava davanti a lei. La sera quando la sorellina era stanca e aveva detto le sue preghiere, posava il capo sul dorso del piccolo capriolo: quello era il suo cuscino e su di esso si addormentava dolcemente. E se il fratellino avesse avuto la sua figura umana, sarebbe stata una vita meravigliosa.

Per un certo periodo di tempo vissero così, soli, in quel luogo selvaggio. Ma avvenne che il re di quella zona tenesse una gran caccia nel bosco. Echeggiò fra gli alberi il suono dei corni, il latrato dei cani e le grida allegre, e il piccolo capriolo ascoltava e gli sarebbe tanto piaciuto essere della partita. "Ah," disse alla sorellina, "lasciami andare alla caccia, non posso più resistere!" E la pregò così a lungo che ella infine acconsentì. "Però," gli disse, "ritorna questa sera. Davanti ai feroci cacciatori io chiuderò la porticina: per farti riconoscere, bussa e di': "Sorellina mia, lasciami entrare!" Ma se non dici così, non aprirò." Allora il capriolo saltò fuori, e stava tanto bene, ed era così allegro all'aria aperta! Il re e i suoi cacciatori videro il bell'animaletto e lo inseguirono; ma non riuscivano a raggiungerlo, e quando credevano di prenderlo, il capriolo saltava nella boscaglia e spariva. Quando fu buio corse alla casetta, bussò e disse: "Sorellina mia, lasciami entrare!" Allora la porticina gli fu aperta, egli saltò dentro e dormì tutta la notte sul suo morbido giaciglio. Il mattino dopo la caccia ricominciò, e quando il capriolo udì nuovamente il corno e il grido dei cacciatori, non ebbe più pace e disse: "Sorellina aprimi, devo uscire." La sorellina gli aprì la porta e disse: "Ma questa sera devi essere di nuovo qui con la tua parola d'ordine." Quando il re e i suoi cacciatori rividero il capriolo con il collare d'oro, lo inseguirono tutti, ma egli era troppo rapido e svelto. La caccia durò tutto il giorno, ma finalmente a sera i cacciatori lo accerchiarono e uno lo ferì leggermente a una zampa, cosicché‚ egli si mise a zoppicare e corse via più adagio. Allora un cacciatore gli andò dietro pian piano fino alla casetta e l'udì esclamare: "Sorellina mia, lasciami entrare!" e vide che la porta gli veniva aperta e subito richiusa. Il cacciatore tenne tutto bene a mente, andò dal re e gli raccontò ciò che aveva visto e udito. Allora il re disse: "Domani andremo a caccia ancora una volta."

Ma la sorellina si spaventò terribilmente quando il piccolo capriolo rientrò ferito. Lavò la ferita, ci mise sopra delle erbe e disse: "Va' al tuo giaciglio, caprioletto mio, così guarisci." Ma la ferita era così piccola che al mattino il capriolo non sentiva più nulla e quando udì nuovamente il tripudio della caccia disse: "Non posso resistere, devo andarci; non sarà così facile acchiapparmi." La sorellina pianse e disse: "Adesso ti uccideranno; non ti lascio uscire." - "E io ti morirò qui di tristezza, se mi trattieni" rispose il capriolo. "Quando sento il corno da caccia mi sembra di non stare più nella pelle!" Allora la sorellina dovette cedere, gli aprì la porta con il cuore grosso e il capriolo corse nel bosco vispo e felice. Quando il re lo scorse, disse ai suoi cacciatori: "Inseguitelo per tutto il giorno fino a sera, ma che nessuno gli faccia del male!" Come il sole fu tramontato, il re disse al cacciatore: "Vieni e mostrami la casetta nel bosco." E quando fu davanti alla porticina bussò e gridò: "Sorellina cara, lasciami entrare!" Allora la porta si aprì e il re entrò e trovò una fanciulla così bella come non ne aveva mai viste. Ma la fanciulla si spaventò quando vide entrare un re con una corona d'oro al posto del suo piccolo capriolo. Il re la guardò amorevolmente, le diede la mano e disse: "Vuoi venire con me al mio castello e diventare la mia cara sposa?" - "Ah sì," rispose la fanciulla, "ma deve venire anche il capriolo, non lo abbandono." Disse il re: "Rimarrà con te finché‚ vivi e non gli mancherà nulla." In quel momento entrò a salti il capriolo; la sorellina lo legò di nuovo alla fune di giunco che prese in mano lei stessa, e insieme a lui lasciò la casetta nel bosco.

Il re condusse la bella fanciulla nel suo castello, dove le nozze furono celebrate con gran pompa; ora ella era Sua Maestà la regina, e vissero insieme felici per lungo tempo; il capriolo era ben nutrito e ben curato e ruzzava nel giardino del castello. Ma la cattiva matrigna, per via della quale i bambini se ne erano andati per il mondo, credeva che la sorellina fosse stata sbranata dalle bestie feroci nel bosco e che il fratellino, trasformato in un capriolo, fosse stato ucciso dai cacciatori. Quando sentì che erano felici e che stavano così bene, l'invidia e la gelosia le si destarono in cuore e non le davano pace, e non pensava che al modo di procurar loro un'altra sciagura. La sua figlia vera, che era brutta come la notte e aveva un solo occhio, protestava e diceva: "Diventare una regina! Questa fortuna spettava a me!" - "Sta' tranquilla," disse la vecchia e aggiunse allegramente: "Al momento buono, saprò cosa fare." E quando venne il momento e la regina diede alla luce un bel maschietto, mentre il re era a caccia, la vecchia strega prese le sembianze della cameriera, entrò nella stanza dove giaceva la regina e disse alla puerpera: "Venite, il bagno è pronto, vi farà bene e vi rinforzerà; presto, prima che diventi freddo." C'era anche sua figlia; insieme trasportarono la regina, debole com'era, nella stanza da bagno, la misero nella vasca e se ne andarono in fretta chiudendo la porta. Ma nella stanza da bagno avevano acceso un fuoco d'inferno, cosicché‚ la bella giovane regina soffocò ben presto.

Ciò fatto, la vecchia prese sua figlia, le mise una cuffia in testa e la pose nel letto al posto della regina. Le diede anche la sua figura e il suo aspetto, ma non pot‚ restituirle l'occhio perduto. Ma perché‚ il re non si accorgesse di nulla, si dovette coricare dalla parte dove le mancava l'occhio. La sera, quando il re ritornò e udì che gli era nato un bambino, fu pieno di gioia e volle recarsi al letto della sua cara moglie per vedere come stava. Subito la vecchia esclamò: "Per carità, lasciate chiuse le cortine: la regina non sopporta ancora la luce e deve riposare!" Il re si ritirò e non sapeva che nel letto c'era una falsa regina.

Ma quando fu mezzanotte e tutto taceva, la bambinaia, che sedeva nella camera del bambino accanto alla culla ed era l'unica a vegliare ancora, vide aprirsi la porta ed entrare la vera regina. Ella tolse il bambino dalla culla, lo prese fra le braccia e lo allattò; poi sprimacciò il suo piccolo cuscino, lo rimise a letto e lo coprì con la piccola coltre. Ma non dimenticò neanche il capriolo, andò nell'angolo dove si trovava e lo accarezzò sul dorso. Poi uscì silenziosamente dalla porta e la bambinaia, la mattina dopo, domandò alle guardie se durante la notte avessero visto qualcuno entrare nel castello; ma esse risposero: "No, non abbiamo visto nessuno."

La regina venne per molte notti, senza dire mai una parola; la bambinaia la vedeva sempre, ma non osava dire nulla a nessuno.

Quando fu trascorso un certo periodo di tempo, una notte la regina incominciò a dire:
"Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino?
Ancor due volte fin qui verrò, ma una terza non tornerò."
La bambinaia non le rispose, ma quando fu scomparsa andò dal re e gli raccontò tutto. Disse il re: "Mio Dio, che cosa è mai questa! Voglio vegliare accanto a mio figlio la prossima notte." La sera andò nella camera del bambino; a mezzanotte apparve ancora la regina e disse:
"Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino?
Ancora una volta fin qui verrò, ma una seconda non tornerò."
E si prese cura del piccino come sempre, prima di sparire. Il re non osò rivolgerle la parola, ma la notte seguente vegliò di nuovo. Ella disse:
"Che cosa fanno nel loro lettino il capriolo e il mio bambino?
Per l'ultima volta son giunta quaggiù un'altra volta non torno più."
Allora il re non pot‚ più trattenersi, corse a lei e disse: "Tu non puoi essere che la mia cara sposa." Ella rispose: "Sì, sono la tua cara sposa." E in quel momento, per grazia divina, tornò a vivere, fresca, rosea e sana. Poi raccontò al re il crimine commesso dalla strega cattiva e da sua figlia. Il re le fece giudicare entrambe, ed esse furono condannate: la figlia fu condotta nel bosco, dove le bestie feroci la sbranarono non appena la videro; la strega fu invece gettata nel fuoco e dovette bruciare miseramente. E quando fu ridotta in cenere, il piccolo capriolo si trasformò e riacquistò il suo aspetto umano; e sorellina e fratellino vissero felici insieme fino alla morte.

FINE

Immagine: Fratellino e sorellina (Grimm)

 
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I figli d'oro

Post n°454 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un pover'uomo e una povera donna, che possedevano solamente una piccola capanna, si cibavano di pesce e vivevano alla giornata. Ma un giorno, mentre l'uomo sedeva vicino all'acqua a gettare la sua rete, gli accadde di pescare un pesce che era tutto d'oro. E mentre lo contemplava, pieno di meraviglia, il pesce si mise a parlare e disse: -Ascolta, pescatore, se mi ributti in acqua, trasformerò la tua capanna in uno splendido castello-. Il pescatore rispose: -Che cosa me ne faccio di un castello se non ho niente da mangiare?-. Il pesce d'oro soggiunse: -Provvederò anche a questo: nel castello ci sarà un armadio, e ogni volta che lo aprirai vi troverai dentro dei piatti colmi di ogni sorta di cibo che tu possa desiderare-. -Se è così- disse l'uomo -posso proprio farti questo favore!- -Sì- rispose il pesce -ma a condizione che tu non dica a nessuno, chiunque egli sia, da dove viene la tua fortuna. Basta che tu dica una sola parola e tutto sparirà.- L'uomo tornò a gettare in acqua il pesce incantato e andò a casa. Ma dove c'era la sua capanna sorgeva ora un grande castello. Egli fece tanto d'occhi, entrò e vide sua moglie vestita con abiti eleganti, che se ne stava seduta in una splendida stanza. Tutta contenta gli disse: -Marito è successo tutt'a un tratto. Mi piace tanto!-. -Sì- rispose l'uomo -piace anche a me, ma ho una gran fame, dammi qualche cosa da mangiare.- La donna disse: -Non ho nulla e non so trovare niente nella casa nuova-. -Oh- disse l'uomo -vedo là un grosso armadio, aprilo un po'.- Quand'ella lo aprì, dentro c'era focaccia, carne, frutta e vino, con un aspetto molto invitante. Allora la donna esclamò, piena di gioia: -Cuor mio, che cosa desideri di più?-. Ed essi bevvero e mangiarono insieme. Quando furono sazi, la donna chiese: -Marito, di dove viene mai tutta questa ricchezza?-. -Ah!- rispose egli -non me lo domandare, non posso dirtelo, poiché‚ se lo rivelo a qualcuno la nostra fortuna è finita.- -Be'- diss'ella -dato che non devo saperlo, non mi interessa neanche.- Ma non parlava sul serio; non ebbe più pace n‚ giorno n‚ notte e prese a tormentare il marito, finché‚ questi le disse che la ricchezza proveniva da un magico pesce d'oro, che egli un giorno aveva pescato e rimesso in libertà. E come ebbe parlato, il bel castello e l'armadio scomparvero, ed essi tornarono a stare nella vecchia capanna. L'uomo dovette tornare a fare il pescatore. Ma la fortuna volle che egli pescasse di nuovo il pesce d'oro. -Ascolta- disse il pesce -se mi ributti in acqua, ti ridarò il castello con l'armadio pieno di lesso e di arrosto; bada solo a non rivelare chi te l'ha dato, altrimenti lo perdi di nuovo.- -Farò bene attenzione- rispose il pescatore e gettò il pesce in acqua. A casa tutto era tornato splendido come prima, e la moglie era felice di tanta fortuna, ma la curiosità non le lasciava pace e, dopo un paio di giorni, ella ricominciò a chiedere come fosse andata e come avesse fatto. Il marito per un po' non disse nulla, ma ella lo seccò a tal punto che finì collo sbottare e rivelò il segreto. Il castello scomparve all'istante, ed essi si ritrovarono nuovamente nella vecchia capanna. -Adesso sarai contenta!- disse l'uomo. -Così possiamo tornare a far la fame.- -Ah- disse la donna -preferisco rinunciare alla ricchezza, piuttosto che non sapere da dove viene; altrimenti non mi do pace.- L'uomo tornò a pescare e dopo un po' di tempo non gli andò diversamente: pescò per la terza volta il pesce d'oro. -Ascolta- disse il pesce -vedo bene che devo cadere nelle tue mani; portami a casa e tagliami in sei pezzi: due dalli da mangiare a tua moglie, due al tuo cavallo e due sotterrali, ti porteranno fortuna.- L'uomo portò il pesce a casa e fece quel che gli aveva detto. Ma avvenne che dai due pezzi sepolti sotto terra germogliarono due gigli d'oro, il cavallo partorì due puledri d'oro e la moglie del pescatore due figli tutti d'oro. I figli crebbero facendosi grandi e belli, e i gigli e i puledri crebbero con loro. Allora essi dissero: -Babbo, vogliamo montare sui nostri cavalli d'oro e andarcene per il mondo-. Tutto triste egli rispose: -Come farò a resistere se ve ne andate e io non so niente di voi?-. Ma essi dissero: -I due gigli d'oro rimangono qui, e dal loro aspetto potrete vedere come stiamo: se sono freschi, stiamo bene; se appassiscono siamo malati; se cadono, siamo morti-. Se ne andarono sui loro cavalli e giunsero a un'osteria dove c'era molta gente e, quando videro i due ragazzi d'oro, li derisero e li canzonarono. All'udire quelle beffe, uno dei due ragazzi si vergognò, non volle più girare il mondo, voltò il cavallo e se ne tornò a casa dal padre. L'altro invece proseguì il suo cammino e giunse a un gran bosco. Quando volle entrarvi, la gente disse: -Non potete attraversare il bosco, è pieno di briganti che vi faranno del male; se poi vedono che voi e il vostro cavallo siete d'oro, vi ammazzeranno-. Ma egli non si lasciò spaventare e disse: -Devo assolutamente attraversarlo!-. Prese delle pelli d'orso, le indossò e con esse ricoprì anche il cavallo di modo che l'oro non si vedesse più, poi si addentrò tranquillamente nel bosco. Dopo un po' udì dei fruscii nei cespugli e delle voci di gente che parlava insieme. Da una parte sentì gridare: -Eccone uno!- ma dall'altra: -Lascialo andare! E' un povero pezzente senza quattrini. Che ce ne facciamo di lui?-. Così il cavaliere d'oro attraversò felicemente il bosco senza che gli accadesse alcunché. Un giorno giunse in un villaggio dove vide una fanciulla così bella che egli pensò che non ne esistessero di più belle a questo mondo. E poiché‚ provò subito un amore ardente per lei, le si avvicinò e disse: -Ti amo con tutto il cuore: vuoi diventare la mia sposa?-. Anch'egli piacque alla fanciulla, sicché‚ ella acconsentì e disse: -Sì, sarò la tua sposa e ti sarò fedele per tutta la vita-. Così si sposarono e, durante i festeggiamenti, sul più bello, giunse il padre della sposa il quale, vedendo la figlia che si sposava, si meravigliò e disse: -Dov'è lo sposo?-. Gli indicarono il ragazzo d'oro, che indossava ancora le sue pelli d'orso. Allora il padre andò su tutte le furie e disse: -Mai e poi mai darò mia figlia a un pezzente!- e voleva ucciderlo. Allora la figlia lo supplicò con tutte le sue forze dicendo: -Ormai è mio marito e io l'amo con tutto il cuore- e alla fine egli si placò. Ma questo pensiero non gli dava pace, sicché‚ il mattino seguente si levò di buon'ora per andare a vedere se il marito di sua figlia fosse un pezzente qualunque. Ma, guardando nella stanza, vide nel letto un bell'uomo d'oro, mentre le pelli d'orso giacevano a terra. Allora ritornò indietro pensando: "Per fortuna ho frenato la mia collera!". Ma il ragazzo d'oro sognò di andare a caccia e di inseguire uno splendido cervo. Al mattino, quando si svegliò, disse alla sua sposa: -Voglio andare a caccia-. Ma ella ebbe paura e lo supplicò di restare, dicendo: -Ti potrebbe succedere una disgrazia-. Egli però rispose: -Devo assolutamente andare-. Si alzò e andò nel bosco, dove ben presto si imbatté‚ in un cervo stupendo, proprio come nel sogno. Egli prese la mira per abbatterlo, ma il cervo scappò via. Allora il cavaliere si mise a rincorrerlo per sterpi e fossati, senza stancarsi mai per tutto il giorno: ma alla sera il cervo sparì, e quando egli si guardò attorno si trovò davanti alla casina di una strega. Bussò e uscì una vecchina che gli chiese: -Che andate cercando così tardi in mezzo a questo grande bosco?-. Egli disse: -Non avete visto un cervo?-. -Sì- rispose ella -conosco bene quel cervo.- E, mentr'ella parlava, un cagnolino che era uscito con lei dalla casa abbaiava furiosamente al cavaliere. -Taci, brutto rospo- disse questi -altrimenti ti ammazzo.- Allora la vecchia strega gridò piena di collera: -Cosa? Vorresti uccidere il mio cagnolino?-. E in men che non si dica trasformò il ragazzo, sicché‚ egli giacque là impietrito, e la sua sposa lo attese invano, pensando: "E' certamente successo ciò che mi faceva tanta paura e mi opprimeva il cuore". Nel frattempo, a casa, l'altro fratello se ne stava davanti ai gigli d'oro, quando improvvisamente uno di essi cadde a terra. -Ah, Dio mio- diss'egli -a mio fratello deve essere accaduta una grave disgrazia! Devo partire per vedere di riuscire a salvarlo.- Disse il padre: -Resta qui: se perdo anche te, come farò?-. Ma egli rispose: -Devo assolutamente andare!-. Partì in sella al suo cavallo d'oro e giunse nel gran bosco dove suo fratello giaceva impietrito. La vecchia strega uscì dalla casa, lo chiamò e voleva ammaliare anche lui, ma egli non si avvicinò e disse: -Ti uccido se non ridai la vita a mio fratello-. Così, benché‚ controvoglia, ella fu costretta a toccare la pietra e a restituirgli la vita. I due ragazzi d'oro, felici di rivedersi, si baciarono e si abbracciarono; poi uscirono insieme a cavallo dal bosco, l'uno per tornare dalla sposa, l'altro a casa dal padre. E il padre disse: -Sapevo che avevi liberato tuo fratello, perché‚ il giglio d'oro si è rialzato d'un tratto e ha continuato a fiorire-. E vissero felici e prosperi fino alla morte.

FINE



 
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Andiam andiam andiamo a traslocar

Post n°453 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Inzio estate,lettori miei:tempo di scuole chiuse,vacanze,caldo e...traslochi!
All'innumerevole frotta di disgraziati che si autoinfliggono tale assurda punzione per i loro peccati passati,presenti e futuri si è recentemente aggiunta la famiglia Capricorni decisasi al gran passo dopo la nascita,tre mesi fa,di Lucio Cornelio(lo so,inorridite e pure io.Ma chi poteva pensare che la Carolina in gravidanza si sarebbe fissata con la storia romana al punto di dare un simile nome a un bimbo innocente?),terzogenito dopo Ercolino e Anselmo.
Tanto per cambiare,ne sono successe di ogni.
Qualche giorno fa i nostri,svegliatisi alle 5,schiaffati Lucio Cornelio nel portenfant e la gatta nel trasportino si sono diretti alla loro nuova casa,lasciando campo libero ai facchini.
Ora fra le due case ci sono solo 500 mt di distanza,cosa irrisoria se non fossimo a S.Tobia.
Tanto per cominciare i facchini della ditta Onofrio Bensifà si sono presentati con 4 ore di ritardo,spiegando all'imbufalito Berengario che non si sa come avevano pensato che casa Capricorni si torvasse a Monterapato (paesucolo di 5 case5 arroccato su una collina,a 233 km da S.Tobia) e che si erano persi.
A quel punto,però,il capofacchino si è reso conto di essere in pausa pranzo ed ha quindi mollato iCapricorni,per ricomparire due ore e mezzo dopo.
Nel frattempo,i poveracci stavano vivendo un dramma.
Giunta l'ora della poppata,la Carolina si è accorta con raccapriccio che nel portenfant non c'era Lucio Cornelio,ma la gatta!
Berengario,pensando ad un rapimento ha chiamato Cuccurullo.
Le ricerche non hanno dato esito alcuno,quando all'improvviso dal trasportino della gatta si è sentito l'inconfondibile bercio di un Lucio Cornelio bagnato,affamato e incacchiato col mondo.
Mezza incretinita dal sonno,la carolina aveva scambiato di posto figlio e gatta!
La Capricorni è viva perchè Cuccurullo ha tramortito Berengario con lo sfollagente.
In mezzo alla baraonda sono arrivati (deo gratias!) i facchini.Alla loro vista la gatta ha infilato a razzo la porta di casa,dandosela a zampe.
Disgrazia ha voluto che davanti passasse il furgone di Geppo con a bordo i 15 cani.Si è scatenato il finimondo e la gatta,soffiante e col pelo irto,si è rifugiata sull'unico lampione di S.Tobia.In molti hanno tentato di prenderla,rimediando graffi,morsi e sputacchi.
Sembrava che dovesse star lì sopra fino al giorno del giudizio,quando lemme lemme è arrivato ireneo,che potrà avere un caratteraccio infame ma con gli animali ci sa fare da dio.Piantatosi sotto il lampione,il pretone si è messo a sussurrare "Micio,micio"fra gli sguardi scettici e i risolini degli astanti.Ronfante e felice,la gatta è zompata giù atterrando sulla sua spalla e il pio sacerdote si è allontanato con lei verso la canonica.
Intanto a casa Capricorni i facchini hanno finito di montare i letti e se ne sono andati,lasciando i poveracci al loro destino.
La prima notte è stata tragica. I facchini avevano montato così bene il letto a castello che Ercolino ed Anselmo sono stati costretti a dormire coi genitori.Considerando che il primo scalcia e il secondo parla nel sonno,non vi dico la notte che i poveracci hanno passato.
Alle 6 del mattino si è presentato il falegname,atteso per le 9.
Tutto sommato le cose sono andate bene,eccettuato.un armadio montato al contrario,un pensile caduto sulla carrozzina (fortunatamente vuota),la libreria che per poco non accoppava Berengario e una specchiera rotta.
Andato via il falegname,è cominciato lo sballaggio dei cartoni.
I cartoni in questione non erano i loro!
Quelli della Bensifà hanno concluso che la roba dei Capricorni era finita da Odoacre Puzzettoni (altro poveraccio che aveva deciso di traslocare il giorno prima)
Berengario,fattosi prestare il carro funebre da Geremia,ci ha schiaffato su i cartoni e li ha portati ai Puzzettoni,salvandoli dal suicidio collettivo..
Arrivato a casa ha trovato l'alluvione del Polesine e i familiari arrampicati sull'armadio.
Berengario ha avuto appena il tempo di chiamare i pompieri prima di cadere a terra svenuto.
Sono passate due settimane.
Il Capricorni è ricoverato alla clinica Luminaris.Lo tengono legato al letto,perchè sennò evade per uccidere Bensifà,i suoi parenti e i suoi facchini.
La Carolina e il Puzzettoni hanno citato Bensifà a "Forum".
La gatta vive con ireneo,Belva e Cagliostro,La Carolina ha provato a riprendersela,ma ha dovuto desistere perchè accolta a morsi,graffi e colpi di spegnimoccolo.
Adesso scusatemi ma devo chiudere questa cornaca.Sono arrivati i facchini della Bensifà che si occupano del mio trasloco.Facendo i debiti scongiuri,passo e chiudo

 
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Nel gorgo (Pirandello)

Post n°452 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Al Circolo della racchetta non si parlò d’altro tutta la sera.
Il primo a darne l’annunzio fu Respi, Nicolino Respi che n’era profondamente addolorato. Alsolito, però, non riusciva a impedire che la commozione gli s’arricciasse sulle labbra in quel sorrisino nervoso che nelle discussioni più gravi, come nei momenti più difficili del giuoco, gli rendeva così caratteristico il visetto pallido, itterico, dai tratti taglienti.
Gli amici gli si fecero intorno, ansiosi e costernati:

– Impazzito davvero?

– No, per ischerzo.

Traldi, sprofondato sul divano con tutto il peso del corpaccio da pachiderma, fece più volte leva con le mani per tirarsi sù a sedere più in punta, spalancando nello sforzo gli occhi bovini, venati di sangue, schizzanti dalle orbite. Domandò:

– Ma scusa, lo dici... (ohi ohi...) lo dici, perché ha guardato anche te?

– Anche me? guardato? che vuoi dire? – domandò a sua volta, stordito, Nicolino Respi, rivolto agli amici. – Io sono arrivato questa mattina da Milano, e trovo qua questa bella notizia. Non so nulla, e non riesco ancora a comprendere come Romeo Daddi, perdio, il più placido, il più sereno, il più savio di tutti noi...

– L’hanno chiuso?

– Ma sì, vi dico! Oggi alle tre. Nella casa di salute Monte Mario.

– O povero Daddi!

– E donna Bicetta? Ma come... Sarà stata lei, donna Bicetta ?

– No! Lei, no! Lei, anzi, non voleva assolutamente!

accorso il padre, jeri l’altro, da Firenze.

– Ah, per questo...

– Già, e l’ha forzata a prender questo partito, anche per lui... Ma ditemi il fatto com’è! Tu, Traldi, perché m’hai domandato se Daddi aveva guardato anche me?

Carlo Traldi s’era riaffondato beatamente nel divano, col capo buttato indietro, la pappagorgia esposta, paonazza, sudaticcia. Dimenando le gambette esili di ranocchia, che il pancione esorbitante gli faceva tener sempre oscenamente discoste, e umettandosi di continuo le labbra non meno oscenamente, rispose, astratto:

– Ah, già... Perché credevo che lo dicessi impazzito per questo.

– Come per questo?

– Ma sì! La pazzia gli s’è palesata così. Guardava tutti in un certo modo, caro mio... Ragazzi, non mi fate parlare: diteglielo voi come guardava il povero Daddi.

Gli amici, allora, raccontarono a Nicolino Respi, che il Daddi, ritornato dalla villeggiatura, era apparso a tutti com’intronato, come assente da sé, con un sorriso vano su le labbra e gli occhi opachi, senza sguardo, appena qualcuno lo chiamava. Poi quello stordimento era sparito, s’era cangiato in una fissità acuta, strana. Fissava prima da lontano, obliquo; poi, a mano a mano, come attirato da certi segni che credeva di scoprire in questo e in quello degli amici più intimi, specie in coloro che frequentavano più assiduamente la sua casa (segni naturalissimi, perché tutti infatti erano costernati di quel cangiamento improvviso e straordinario, così in contrasto con la tranquillità serena del suo carattere), a mano a mano s’era messo a spiare più da vicino, e negli ultimi giorni era divenuto addirittura insopportabile. Si parava di fronte ora all’uno ora all’altro, posava le mani su le spalle e mirava negli occhi, affitto affitto.

– Corpo, che spavento! – esclamò a questo punto il Traldi, tirandosi di nuovo sù, a sedere più in punta.

– Ma perché? – domandò, nervoso, il Respi.

– Senti questo, che vuol sapere il perché! – tornò a esclamare il Traldi. – Ah, dici il perché dello spavento? Caro mio, avrei voluto vederti alle prese con quello sguardo! Tu ti cangi la camicia ogni giorno, suppongo; sei sicuro d’avere i piedi puliti e i calzini non spuntati. Ma sei ugualmente sicuro di non aver nulla di sudicio dentro, nella coscienza?

– Oh Dio, direi...

– Va’ là, che non sei sincero!

– E tu sì?

– Io sì, ne sono sicurissimo! E credi che avviene a tutti, più o meno, di scoprirci majali in qualche momento di lucido intervallo! Da un pezzo in qua, quasi ogni sera, quando spengo la candela, prima di prender sonno...

– Tu invecchi, caro! tu invecchi! – gli gridarono a coro gli amici.

– Sarà perché invecchio, – ammise il Traldi. – Tanto peggio! Non è uno spasso prevedere che, alla fine. mi costituirò cosi, in questa stima di me stesso, di vecchio majale. Del resto, aspetta. Ora che t’ho detto questo, vogliamo fare una prova? Silenzio tutti, voialtri!

E Carlo Traldi si levò faticosamente in piedi; posò le mani su le spalle di Nicolino Respi, e gli gridò:

– Guardami bene negli occhi. No, non ridere, caro! Guardami bene negli occhi... Aspetta! Aspetta... Silenzio...

Tacquero tutti, intorno, sospesi e intenti a quello strano esperimento.
Il Traldi coi grossi occhi ovali, venati di sangue, schizzanti dalle orbite, fissava acutissimamente quelli di Nicolino Respi e pareva col lustro maligno dello sguardo, a mano a mano più aguzzo e più intenso, gli frugasse nella coscienza e vi scoprisse nei più intimi nascondigli le cose più turpi e più atroci. A poco a poco, gli occhi di Nicolino Respi – quantunque, sotto, le labbra col solito risolino dicessero: – "Via, mi presto a uno scherzo" – cominciarono a smorire, a intorbidarsi, a sfuggire, mentre, tra il silenzio degli amici, il Traldi con voce strana, senza smettere di fissare, senz’allentare d’un punto l’intensità dello sguardo, diceva vittoriosamente:

– Ecco... vedi?... vedi?...

– Ma va’ là! – proruppe il Respi, non resistendo più e scrollandosi tutto.

– Va’ là tu, che ci siamo capiti! – gridò il Traldi. – Tu sei più porco di me!

E scoppiò a ridere. Risero anche gli altri, con un senso d’inatteso sollievo. E Traldi riprese:

– Ora questo è stato uno scherzo. Soltanto per uno scherzo uno di noi può mettersi a guardare un altro così. Perché tanto io quanto tu abbiamo in regola finora, dentro di noi, la macchinetta della civiltà, e lasciamo che la feccia di tutte le nostre azioni, di tutti i nostri pensieri, di tutti i nostri sentimenti ci si posi zitta zitta, di nascosto, in fondo alla coscienza. Ma fa’ che uno, a cui la macchinetta si sia guastata, si metta a guardarti come t’ho guardato io. non più per uno scherzo, ma sul serio, e ti rimuova, senza che te l’aspetti, dal fondo della coscienza tutta la posatura di quella feccia che hai dentro, e sappimi dire se non ti spaventi!
Carlo Traldi, così dicendo, si mosse di furia per andar via. Tornò indietro e aggiunse:

– E sai come mormorava, sotto sotto, il povero Daddi, mirandoti negli occhi? Diteglielo voi, come mormorava! Io debbo scappare.

«Che abisso... che abisso...»

– Così?

Sì... che abisso... che abisso

Il crocchio, andato via il Traldi, si sciolse, e Nicolino Respi rimase turbato, in compagnia di due soli amici che seguitarono ancora per un pezzo a parlare della sciagura del povero Daddi.
Circa due mesi fa, egli era andato a visitarlo nella sua villa presso Perugia. Lo aveva trovato tranquillo e sereno come sempre, insieme con la moglie e con un’amica di questa, Gabriella Vanzi, antica compagna di collegio, da poco tempo maritata a un ufficiale di marina, allora in crociera. Si era trattenuto tre giorni in villa, e in quei tre giorni, no, neppure una volta Romeo Daddi lo aveva guardato nel modo che il Traldi aveva detto.
Se lo avesse guardato...
Nicolino Respi fu colto da uno smarrimento, come di vertigine, e per appoggiarsi – sorridendo, pallidissimo finse di volere introdurre confidenzialmente un braccio sotto il braccio d’uno di quei due amici.

Che era stato? Che dicevano? La tortura? Che tortura? Ah, quella a cui il Daddi aveva sottoposto la moglie...

– Dopo eh? – gli scappò detto.

E i due si voltarono a guardarlo.

– Come dopo?

– Ah... no, dicevo... dopo, quando gli si guastò la... la macchinetta.

– E sfido! Prima, no di certo!

– Perdio, erano un miracolo di concordia coniugale, di pace domestica! Certo qualcosa deve essergli accaduto, in villeggiatura.

– Ma sì, per lo meno qualche sospetto gli deve esser nato.

– Ma fate il piacere! Su la moglie? – scattò Nicolino Respi. – Questo, se mai, ha potuto essere effetto, non causa della pazzia! Soltanto un pazzo...

– D’accordo! d’accordo! – gli gridarono gli amici. Una moglie come donna Bicetta!

– Insospettabile! Ma, d’altra parte...

Nicolino Respi non poté più prestare ascolto a quei due. Soffocava. Aveva bisogno d’aria, di camminare all’aperto, solo. Prese un pretesto; andò via.
Un dubbio angoscioso gli s’era insinuato nell’animo e glielo metteva in subbuglio.
Nessuno meglio di lui poteva sapere che donna Bicetta Daddi era insospettabile. Da più d’un anno egli le aveva dichiarato il suo amore, l’aveva assediata con la sua corte, senza ottenere mai altro che un sorriso dolcissimo di compatimento per le sue pene perdute. Con quella serenità che viene dalla più ferma sicurezza di sé, senza né offendersi né ribellarsi, ella gli aveva dimostrato che sarebbe stata inutile ogni sua insistenza, poiché lei era innamorata tal quale, come lui, forse più di lui, ma di suo marito. Così essendo, se egli veramente la amava, doveva intendere che ella non avrebbe potuto in alcun modo venir meno al suo amore. Se questo non intendeva, era segno che non la amava. E allora?
Ha talvolta l’acqua marina, in certi lidi solinghi, una limpidità cosi tersa e trasparente che, per quanto desiderio si abbia di immergersi in essa per averne il ristoro più delizioso, si prova quasi un sacro ritegno a intorbidarla.
Questa impressione di limpidità e questo ritegno aveva provato sempre Nicolino Respi, accostandosi all’anima di donna Bicetta Daddi. Amava la vita, questa donna, d’un cosi quieto, attento e dolce amore! Solo in quei tre giorni trascorsi nella villa di lei presso Perugia, sopraffatto dal desiderio ardentissimo, aveva sforzato quel ritegno, aveva intorbidato quella limpidità, ed era stato duramente respinto.
Ora il dubbio angoscioso era questo: che forse il turbamento, ch’egli le aveva cagionato in quei tre giorni, non s’era sedato dopo la sua partenza; era forse cresciuto così, che il marito se n’era accorto. Certamente, all’arrivo di lui nella villa, Romeo Daddi era sereno; e, dopo la partenza, in pochi giorni, era impazzito.
Dunque, per lui? Dunque ella era rimasta profondamente turbata e vinta dalla sua aggressione amorosa?
Ma si, ma si, come dubitarne?


Tutta la notte Nicolino Respi si dibatté, si torse tra fiere smanie, ora strappato al rimorso da una maligna gioja impetuosa, ora strappato a questa gioja dal rimorso.
La mattina seguente, appena gli parve l’ora opportuna, corse alla casa di donna Bicetta Daddi. Bisognava che la vedesse; bisognava che chiarisse subito, comunque, quel suo dubbio. Forse ella non lo avrebbe ricevuto; ma, a ogni modo, egli voleva presentarsi alla casa di lei, pronto ad affrontare o a subire tutte le conseguenze di quella situazione.
Donna Bicetta Daddi non era in casa.
Da un’ora, senza volerlo, senza saperlo, ella infliggeva il più crudele dei martirii alla sua amica Gabriella Vanzi, a colei che era stata per tre mesi sua ospite in villa.
Era andata da lei per cercare insieme, non la ragione, ahimè, ma il pretesto, l’incentivo almeno, di quella sua sciagura, là, nel tempo in cui s’era dapprima manifestata, durante quella villeggiatura, negli ultimi giorni di essa Ella, per quanto avesse cercato, non riusciva a scoprir nulla.
Da un’ora si ostinava a rievocare, a ricostruire, minuto per minuto, quegli ultimi giorni.

– Ti ricordi questo? Ti ricordi ch’egli la mattina scese in giardino senza prendere il suo cappellaccio di tela, e che chiamò per averlo buttato dalla finestra, e poi risalì, ridendo, con quel fascio di rose? Ti ricordi che volle ne portassi due con me; che poi m’accompagnò fino al cancello e m’ajutò a salire su l’automobile e mi disse che gli portassi da Perugia quei libri... aspetta... uno era... non so... trattava di sementi... ti ricordi? ti ricordi?

Smarrita nell’affanno di quella rievocazione di tanti minuziosi particolari senza valore, non s’accorgeva dell’angoscia, dell’agitazione a mano a mano crescenti dell’amica.
Già aveva rievocato, senza il minimo segno di turbamento, i tre giorni passati in villa da Nicolino Respi, e non s’era fermata neanche un minuto a considerare che il marito avesse potuto trovare un incentivo alla sua pazzia nella corte innocua di colui. Non era ammissibile. Era stato argomento di riso, fra loro tre, quella corte, dopo la partenza del Respi per Milano. Come supporlo? E poi, dopo quella partenza, egli, il marito, non era forse rimasto per più di quindici giorni tranquillo, sereno come prima?
No, mai, neppure il minimo accenno del più lontano sospetto! In sette anni di matrimonio, mai! Come, dove avrebbe potuto trovare il pretesto? Ed ecco che, tutt’a un tratto, lì, nella pace di quella campagna, senza che nulla fosse accaduto...

– Ah, Gabriella, Gabriella mia, credi, impazzisco, impazzisco anch’io.

All’improvviso, riavendosi da questa crisi di disperazione, donna Bicetta Daddi, nel rialzare gli occhi lacrimosi in volto all’amica, scoprì che questa s’era lividamente indurita, come un cadavere, per resistere a uno spasimo insopportabile, e ansava con le nari dilatate, e la guatava con occhi cattivi. Oh Dio! Quasi con gli stessi occhi, con cui negli ultimi giorni s’era messo a guardarla suo marito.
Si sentì raggelare, ne provò quasi terrore.

– Perché... anche tu... perché... – balbettò tremante, – perché mi guardi anche tu... così?

Gabriella Vanzi fece uno sforzo atroce per scomporre l’espressione, assunta a sua insaputa, in un sorriso benigno, di compatimento:

– Io... ti guardo?... No... pensavo... Ecco, volevo dirti... sì, lo so, tu sei sicura di te... non hai nulla... tu... proprio nulla... nulla da rimproverarti?

Donna Bicetta Daddi trasecolò: con gli occhi sbarrati, le mani su le guance, gridò:

– Ma come?... ma tu mi dici adesso... anche le sue parole?... Come?... come puoi?...

Il volto di Gabriella Vanzi si contraffece, gli occhi le s’invetrarono:

– Io?

– Tu, sì. Oh Dio... e ti smarrisci come lui... Che vuol dire? che vuol dire?

Non aveva finito di gemere così, sentendosi come sprofondare a poco a poco, che si trovò tra le braccia, sul petto, l’amica.

– Bice... Bice... tu sospetti di me?... tu sei venuta qua, perché hai sospettato di me, è vero?

– No... no... ti giuro, Gabriella... no... Solo ora...

– Ora, è vero? sì... Ma hai torto, hai torto, Bice... perché tu non puoi capire...

– Che è stato?... Gabriella, sù, dimmi, che è stato?

– Non puoi capire... non puoi capire... Io so la ragione perché tuo marito è impazzito... la so!

– La ragione? Che ragione?

– Lo so, perché è in me, anche in me, questa ragione d’impazzire. per quello che è avvenuto a noi due!

– A voi due?

– Sì... sì... a me e a tuo marito.

– Ah, dunque?

– No, no! Non come tu immagini! Tu non puoi capire Senz’inganno, senza pensarlo né volerlo... in un attimo Una cosa orribile, di cui nessuno può farsi colpa. Vedi come te ne parlo? come te lo posso dire? Perché io non ho colpa! E neanche lui! Ma appunto per questo Senti, senti; e quando avrai saputo tutto, forse impazzirai anche tu, come sto per impazzire io, com’è impazzito lui... Senti! Tu hai rievocato il giorno che andasti a Perugia, in automobile, dalla villa, è vero? ch’egli ti diede due rose e ti disse dei libri...

– Sì.

– Ebbene: fu quella mattina!

– Che cosa?

– Tutto quello che è accaduto. Tutto e nulla... Lasciami dire, per carità! Faceva gran caldo, ti ricordi? Dopo averti veduta partire, io e lui riattraversammo il giardino... Il sole bruciava e lo stridìo delle cicale stordiva... Rientrammo in villa: ci ponemmo a sedere nel salottino, accanto alla sala da pranzo. Le persiane erano serrate; gli scuri, accostati: era quasi bujo, là dentro; e la frescura immobile... (ti dico adesso la mia impressione, l’unica che potei avere, di cui mi ricordi, e mi ricorderò sempre; ma l’ebbe forse anche lui, identica... dovette averla, perché altrimenti non mi spiegherei più nulla!); fu quella frescura immobile, dopo tutto quel sole e quello stordimento delle cicale... In un attimo, senza pensarci, te lo giuro! mai, mai, né io né lui, certo... come per un’attrazione irresistibile di quel vuoto attonito, della frescura deliziosa di quella semioscurità... Bice, Bice... così, te lo giuro, in un attimo...

Donna Bicetta Daddi scattò in piedi, sospinta da un impeto d’odio e di sdegno:

– Ah, per questo? – fischiò fra i denti, addietrando felinamente.

– No! non per questo! – le gridò Gabriella Vanzi, protendendo verso di lei le braccia in atto supplice e disperato. – Non per questo, non per questo, Bice! Tuo marito è impazzito per te, per te, non per me!

– È impazzito per me? Che vuoi dire? Per rimorso?

– No! Che rimorso? Non c’è da aver rimorsi, quando non s’è voluta la colpa... Tu non puoi intendere! Come non avrei potuto intenderlo io se, considerando quel che è avvenuto a tuo marito, non avessi pensato al mio! Sì, sì, io comprendo ora la pazzia di tuo marito, perché penso al mio, che impazzirebbe allo stesso modo, se gli accadesse quel che è accaduto al tuo, con me! Senza rimorso! Senza rimorso! E appunto perché senza rimorso... Capisci? È questa la cosa orribile. Non so come fartela intendere! Io la intendo, ripeto, soltanto se penso a mio marito e vedo me, così senza rimorso d’una colpa che non ho voluto commettere. Vedi come posso parlartene, senza arrossire? Perché io non so, Bice, non so proprio come sia tuo marito; com’egli certo non sa, non può sapere come sia io... È stato come un gorgo, capisci? come un gorgo, che si è aperto tra noi all’improvviso senz’alcun sospetto, e ci ha afferrati e travolti in un attimo, e subito s’è richiuso, senza lasciar di sé la minima traccia! Subito dopo, la coscienza nostra è tornata limpida e uguale. Noi non abbiamo pensato più, neppure per un istante, a ciò ch’era accaduto tra noi; il nostro turbamento è stato momentaneo; siamo scappati uno di qua, uno di là; ma appena soli, niente, come se nulla fosse stato: non solo innanzi a te, quando poco dopo sei ritornata in villa, ma anche innanzi a noi stessi. Ci siamo potuti guardare negli occhi e parlarci, come prima, tal quale, perché non era più in noi, ti giuro, alcun vestigio di ciò ch’era stato; nulla, nulla, neppure un’ombra di ricordo, neppure un’ombra di desiderio, nulla! Finito tutto. Sparito. Il segreto d’un attimo, sepolto per sempre. Ebbene, questo ha fatto impazzire tuo marito Non la colpa, che nessuno di noi due ha pensato di commettere! Ma questo: il poter pensare che questo può accadere: che una donna onesta, innamorata di suo marito, in un attimo, senza volerlo, per un improvviso agguato dei sensi, per la complicità misteriosa dell’ora, del luogo, cada nelle braccia d’un uomo; e, un minuto dopo, sia tutto finito, per sempre; richiuso il gorgo; sepolto il segreto; nessun rimorso; nessun turbamento; nessuno sforzo per mentire di fronte agli altri, di fronte a noi stessi. Ha aspettato un giorno, due, tre non s’è sentito rimuover nulla dentro, né in tua presenza, né alla presenza mia; ha visto me, ritornata qual ero prima, tal quale, con te, con lui; ha veduto poco dopo, ti ricordi? arrivare in villa mio marito; ha veduto com’io l’ho accolto, con quale ansia, con quale amore... e allora l’abisso in cui il nostro segreto era sprofondato per sempre, senza lasciar la minima traccia, lo ha attratto a poco a poco e gli ha travolto la ragione. Ha pensato a te; ha pensato che forse anche tu...

– Anch’io?

– Ah, Bice, non ti sarà mai accaduto, ti credo, Bice mia! Ma noi, io e lui, sappiamo per prova che può accadere, e che, come è stato possibile a noi, senza volerlo, può essere a chiunque! Avrà pensato che qualche volta, ritornando a casa, ti avrà trovata sola, in salotto, con qualche suo amico, e che in un attimo sarà potuto accadere a te, e a quel suo amico, ciò ch’era potuto accadere a me e a lui, allo stesso modo; che tu potessi chiudere in te, senz’alcuna traccia, e nascondere senza mentire quello stesso segreto, ch’io chiudevo in me e nascondevo senza mentire a mio marito. E appena questo pensiero gli è entrato in mente, un bruciore sottile, acuto, ha cominciato a mordergli il cervello, nel vederti aliena, lieta, amorosa, con lui, com’io ero con mio marito; con mio marito che amo, ti giuro, più di me stessa, più di tutto al mondo! S’è messo a pensare: «Eppure, ecco questa donna, che è così con suo marito, è stata per un momento tra le mie braccia! E forse anche mia moglie, dunque, in un momento... chi sa?... chi potrà mai sapere?...». Ed è impazzito. Ah! Zitta, Bice, zitta per carità!

Gabriella Vanzi s’alzò, pallidissima, tremante.
Aveva sentito schiudere di là, nella saletta d’ingresso, la porta. Suo marito rincasava.
Donna Bicetta Daddi, nel vedere la sua amica d’un tratto ricomporsi, diventar rosea, con gli occhi limpidi, e sorridere, movendo incontro al marito, restò quasi annichilita.
Nulla, ecco, era vero: nessun turbamento più, nessun rimorso, nessuna traccia...

E donna Bicetta comprese perfettamente perché suo marito, Romeo Daddi, era impazzito.

 

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Casa mia (Ungaretti)

Post n°451 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Sorpresa
dopo tanto
d'un amore
Credevo di averlo sparpagliato
per il mondo

 
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Libri dimenticati:Il mio regno per una donna

Post n°450 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

In questo libro Martin ricostruisce una delle più grandi storie d'amore del Novecento:quella fra Edoardo VIII e Wallis Simpson.
Con grande accuratezza l'autore ricostruisce le vite di due personaggi destinati ad incontrarsi ed a stravolgere le sorti di una nazione.
Edoardo VIII,infatti,è stato il primo re inglese ad abdicare per amore,per vivere la sua vita accanto alla donna che amava,a rinunciare ai suoi privilegi e scegliere l'esilio pur di non lasciarla.
Libro da non perdere!

 
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Frase del giorno

Post n°449 pubblicato il 19 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La gente che non ha difetti è orribile,non c'è verso di usarla a proprio vantaggio (France)

 
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