Messaggi del 20/08/2011

Le bestie del Signore e quelle del diavolo

Post n°469 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Nostro Signore aveva creato tutti gli animali e aveva scelto i lupi che gli facessero da cani; aveva dimenticato soltanto la capra. Allora ci si mise il diavolo: anche lui voleva creare qualcosa, e fece le capre con le code lunghe e sottili. Quando andavano a pascolare nella brughiera, le code s'impigliavano sempre ai rovi, e il diavolo doveva andar là in mezzo e scioglierle con gran fatica. Alla fine perse la pazienza e con un morso staccò a tutte la coda, come si può vedere ancora oggi dai mozziconi. Ora le lasciava pascolare da sole, ma avvenne che Nostro Signore le vedesse mentre rosicchiavano un albero da frutta, o mentre danneggiavano le viti preziose, o mentre rovinavano altre piante delicate. Ciò gli spiacque, sicché‚, per bontà e misericordia, aizzò i suoi lupi che ben presto sbranarono le capre che passavano di là. Quando il diavolo lo venne a sapere, si presentò al Signore e disse: -Le tue creature hanno sbranato le mie-. Il Signore rispose: -Le avevi create per il male-. Il diavolo disse: -Naturalmente! Come il mio spirito tende al male, ciò che ho creato non poteva essere diverso; e tu me la pagherai cara-. -Te la pagherò appena cadono le foglie delle querce; allora vieni e troverai il denaro contato.- Quando le foglie delle querce furono cadute; il diavolo venne e pretese ciò che gli spettava. Ma il Signore disse: -Nella chiesa di Costantinopoli c'è un'alta quercia che ha ancora tutte le sue foglie-. Smaniando e bestemmiando, il diavolo corse a cercare la quercia; errò sei mesi nel deserto, prima di trovarla, e quando tornò tutte le altre querce si erano ricoperte di foglie verdi. Così dovette rinunciare al suo credito, e per la rabbia cavò gli occhi alle capre rimaste e li sostituì con i suoi. Per questo tutte le capre hanno gli occhi da diavolo e le code mozze; e il diavolo prende volentieri il loro aspetto.

FINE


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La saggia Ghita

Post n°468 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una cuoca di nome Ghita che aveva un paio di scarpe con i tacchi rossi; e, quando se le metteva, si voltava di qua e di là, tutta contenta, e pensava: "Sei proprio una bella ragazza!". E, quando tornava a casa, per la gioia beveva un sorso di vino, e dato che il vino fa venir fame, assaggiava le cose migliori che aveva cucinato finché‚ era sazia e diceva: -Una cuoca deve sapere che gusto hanno le sue pietanze!-. Ora avvenne che una volta il padrone le disse: -Ghita, questa sera viene un ospite, preparami due bei polli-. -Sarà fatto, padrone- rispose Ghita. Sgozzò i polli, li scottò, li spennò, li infilò allo spiedo e, verso sera, li mise sul fuoco ad arrostire. I polli incominciavano a prendere un bel colore ed erano quasi cotti, ma l'ospite non arrivava. Allora Ghita gridò al padrone: -Se l'ospite non viene, devo togliere i polli dal fuoco; ma è un vero peccato non mangiarli subito, quando sono ben sugosi-. Il padrone disse: -Andrò a chiamare l'ospite di corsa-. Come il padrone ebbe voltato le spalle, Ghita mise da parte lo spiedo con i polli e pensò: "Stare tanto tempo accanto al fuoco fa sudare e venir sete; chissà quando vengono! Nel frattempo faccio un salto in cantina a bere un sorso". Corse giù, prese un boccale dicendo: -Buon pro ti faccia, Ghita!- e bevve un bel sorso. -Un sorso tira l'altro- aggiunse -e non va bene interrompersi.- Poi tornò in cucina, rimise i polli sul fuoco, li unse di burro e girò allegramente lo spiedo. Ma l'arrosto aveva un odore così buono che ella pensò: "Potrebbe mancare qualcosa, devo assaggiarlo!". Si leccò il dito e disse: -Come sono buoni questi polli! E' un vero peccato non mangiarli subito!-. Corse alla finestra a vedere se il padrone e l'ospite arrivavano, ma non vide nessuno; tornò ai polli e pensò: "Quest'ala brucia, è meglio che la mangi". Così la tagliò e se la mangiò di gusto; quand'ebbe finito pensò: "Devo far sparire anche l'altra, altrimenti il padrone si accorge che manca qualcosa!". Dopo aver mangiato le due ali, tornò a guardare se arrivava il padrone, ma non lo vide. "Chissà" le venne in mente "forse non vengono affatto e sono andati a mangiare da qualche altra parte." Allora disse: -Animo, Ghita, sta' allegra: uno l'hai già incominciato, beviti un altro bel sorso e finiscilo; quando non ce n'è più sei tranquilla: perché‚ sciupare tutto quel ben di Dio?-. Corse di nuovo in cantina, bevve un sorso poderoso e finì allegramente il pollo. Quando l'ebbe ingoiato, siccome il padrone non veniva, Ghita guardò anche l'altro pollo e disse: -Devono farsi compagnia, dov'è l'uno deve esser l'altro; quel che conviene all'uno, va bene anche all'altro; credo che se berrò un sorso non mi farà male-. Così diede un'altra bella sorsata e mandò il secondo pollo a tenere compagnia al primo. Sul più bello, mentre stava mangiando, arrivò in fretta il padrone, dicendo: -Svelta, Ghita, l'ospite sta per arrivare.- -Sì, padrone, preparo subito!- rispose Ghita. Nel frattempo il padrone andò a vedere se la tavola era bene apparecchiata, prese il coltello grosso con cui trinciava i polli, e si mise ad affilarlo. In quella giunse l'ospite, e bussò con fare discreto alla porta. Ghita corse a guardare chi fosse; vedendo l'ospite, si mise un dito sulla bocca e disse: -Zitto! zitto! Fuggite in fretta: guai a voi se il mio padrone vi acchiappa! Se vi ha invitato a cena, è solo perché‚ ha intenzione di tagliarvi le due orecchie. Ascoltate come sta affilando il coltello!-. L'ospite udì il rumore e si precipitò giù per le scale più in fretta che pot‚. Ghita, senza perdere tempo, corse gridando dal padrone e disse: -Bell'ospite che avete invitato!-. -Perché‚, Ghita, che intendi dire?- -Sì- diss'ella -non ha fatto che prendere dal piatto di portata i due polli che stavo per portare in tavola ed è corso via.- -Che modi!- esclamò il padrone, dispiaciuto per quei due polli. -Se almeno me ne avesse lasciato uno, mi sarebbe rimasto qualcosa da mangiare!- Gli gridò di fermarsi, ma l'ospite fece finta di non sentire. Allora gli corse dietro con il coltello ancora in mano gridando: -Uno solo! uno solo!- intendendo che l'ospite gli lasciasse almeno un pollo e non se li portasse via tutti e due l'ospite invece pensò di dover lasciare una delle sue orecchie, e corse via come se avesse il fuoco alle calcagna, per portarsele a casa tutt'e due.

FINE


 
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Lo spirito nella bottiglia

Post n°467 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un povero taglialegna che lavorava dal mattino fino a notte tarda. Quand’ebbe finalmente racimolato un po’ di denaro, disse a suo figlio: “Sei il mio unico figlio: il denaro che ho guadagnato con il sudore della mia fronte voglio impiegarlo per la tua istruzione; se impari qualcosa per bene, puoi mantenermi da vecchio, quando le mie membra si saranno indurite e dovrò starmene a casa.” Così il giovane andò all’Università e studiò assiduamente, tanto da meritarsi le lodi dei maestri, e rimase là per qualche tempo. Aveva già frequentato un paio di corsi, ma non si era ancora perfezionato in tutto, che già quel poco denaro guadagnato dal padre era sfumato, ed egli dovette fare ritorno a casa. “Ah!” disse il padre tristemente, “non ho più nulla da darti, e in tempi così difficili non posso neanche guadagnare un centesimo in più del pane quotidiano.” - “Caro babbo,” rispose il figlio, “non crucciatevi tanto: se questa è la volontà di Dio, sarà per il mio meglio; mi adatterò. Rimarrò qui e verrò con voi nel bosco ad accatastare e a tagliar legna.” - “Ma figlio mio,” disse il padre, “faresti troppa fatica; non sei abituato ai lavori pesanti, non resisteresti; e poi ho soltanto un’ascia e non ho denaro per comprarne un’altra.” - “Andate dal vicino,” rispose il figlio, “vi impresterà la sua ascia finché‚ non avrò i soldi per comprarmene una.”

Allora il padre andò dal vicino, si fece prestare l’ascia e il mattino dopo, all’alba, andarono insieme nel bosco. Il figlio aiutava il padre ed era tutto allegro e brioso. Quando il sole fu a picco, il padre disse: “Riposiamoci e mangiamo: dopo riprenderemo con maggior vigore.” Il figlio prese il suo pane e disse: “Riposatevi pure, babbo, io non sono stanco; andrò un poco in giro per il bosco in cerca di nidi.” - “Oh che sciocchino!” disse il padre. “Cosa vuoi mai andartene in giro a zonzo? Poi ti stanchi e non puoi più alzare il braccio; resta qui e siediti accanto a me.”

Ma il figlio se ne andò nel bosco, mangiò il suo pane ed era tutto allegro, e guardava tra il verde dei rami, se mai scorgesse qualche nido. Così se ne andò di qua e di là finché‚ giunse a una grossa quercia dall’aria minacciosa, che certo doveva avere molti secoli, e cinque uomini insieme non avrebbero potuto circondarla. Si fermò a guardarla e pensò che qualche uccello doveva pur averci fatto il nido. D’un tratto gli parve di avere udito una voce umana. Tese l’orecchio, e sentì come un cupo grido: “Lasciami uscire, lasciami uscire!” Si guardò attorno, ma non vide nessuno; e gli sembrava che la voce uscisse da sotto terra. Allora gridò: “Dove sei?” La voce rispose: “Sono qua sotto, fra le radici della quercia. Fammi uscire, fammi uscire!” Lo studente si mise a rimuovere la terra sotto l’albero e a cercare fra le radici, finché‚ vi trovò una bottiglietta. L’alzò, e mettendola controluce, vide una cosetta simile a una rana, che saltava su e giù. “Lasciami uscire, lasciami uscire!” gridò di nuovo; e lo studente, che non pensava a nulla di male, tolse il tappo alla bottiglia. Subito ne uscì uno spirito che incominciò a crescere, e crebbe così in fretta che in un attimo davanti allo studente stava un orrendo mostro, grande come metà dell’albero. “Sai,” gridò con voce da far paura, “qual è la ricompensa che ti spetta per avermi liberato?” - “No,” rispose lo studente senza paura. “Come faccio a saperlo?” - “Allora te lo dirò io!” gridò lo spirito. “Devo romperti il collo!” - “Avresti dovuto dirmelo prima,” rispose lo studente, “e ti avrei lasciato dov’eri. Ma la mia testa rimarrà dove si trova; devi domandare ad altri.” - “Ma che altri!” gridò lo spirito. “Devi avere la tua ricompensa! Pensi forse che io sia stato rinchiuso tanto tempo per grazia? No, era per punizione. Io sono il potentissimo Mercurio; a chi mi libera, devo rompere il collo.” - “Piano,” rispose lo studente, “non così in fretta! Prima devo sapere se sei davvero stato in quella bottiglietta e se sei proprio lo spirito vero; se sei capace di rientrarci, allora ti crederò e potrai fare di me quel che vorrai.” - “Oh!” disse lo spirito superbamente, “niente di più facile!” Rimpicciolì, e si fece così sottile e piccino come era stato all’inizio, in modo da poter passare attraverso il collo della bottiglia. Ma vi era appena entrato che lo studente rimise il tappo, gettò la bottiglia al suo posto fra le radici della pianta, e così lo spirito fu ingannato.

Lo studente voleva ritornare da suo padre, ma lo spirito gridò con voce lamentosa: “Ah! Lasciami uscire, lasciami uscire!” - “No,” rispose lo studente, “non una seconda volta. Chi ha attentato alla mia vita, se l’acchiappo, non lo rimetto in libertà.” - “Liberami,” gridò lo spirito, “e ti ricompenserò per il resto della tua vita.” - “No,” rispose lo studente, “mi inganni come la prima volta.” - “Stai sprecando la tua fortuna,” disse lo spirito, “non ti farò niente, e ti ricompenserò invece, riccamente.” Lo studente pensò: “Voglio tentare; forse mantiene la promessa e non mi farà del male.” Tolse il tappo e lo spirito uscì come la prima volta, s’ingrandì e diventò come un gigante. Porse allo studente uno straccetto simile a un cerotto e disse: “Se con un capo tocchi una ferita, guarisce subito; e se con l’altro tocchi ferro o acciaio, lo tramuti in argento.” - “Devo prima provare!” disse lo studente; andò a un albero e ne scalfi la corteccia con l’ascia, poi la strofinò con un capo del cerotto: subito la ferita si richiuse e guarì. “E’ proprio vero!” disse allo spirito. “Adesso possiamo separarci.” Lo spirito lo ringraziò per averlo liberato, e lo studente ringraziò lo spirito per il suo dono e tornò dal padre.

“Dov’eri finito?” domandò il padre. “Hai dimenticato il lavoro: io l’avevo detto subito che non avresti combinato nulla!” - “State tranquillo babbo, rimedierò.” - “Sì, rimediare!” disse il padre in collera. “Ci vuol altro!” - “Fate attenzione, babbo, voglio buttare giù con un solo colpo quell’albero, da farlo schiantare.” Prese il cerotto, lo passò sull’ascia e menò un gran colpo; ma siccome il ferro si era mutato in argento, il taglio si ripiegò. “Babbo, guardate un po’ che cattiva ascia mi avete dato; si è piegata tutta!” Allora il padre si spaventò e disse: “Ah, cos’hai fatto! Adesso devo pagare l’ascia e non so come fare: questo è il vantaggio che ho dal tuo lavoro!” - “Non arrabbiatevi” rispose il figlio “l’ascia la pagherò io.” - “Oh, sciocco!” gridò il padre “e con che cosa vorresti pagarla? Non hai niente all’infuori di quello che ti do io; hai soltanto grilli da studente nella testa, ma quanto a tagliar la legna, non ne capisci niente!”

Dopo un po’ lo studente disse: “Babbo, non posso più lavorare, smettiamo.” - “Come!” rispose il padre. “Pensi forse ch’io voglia starmene con le mani in mano, come te? Devo lavorare ancora, tu vattene se vuoi.” - “Babbo, è la prima volta che vengo nel bosco, e non so trovare la strada da solo: venite con me.” Poiché‚ la rabbia gli era sbollita, il padre si lasciò infine convincere e andò a casa con lui. Allora disse al figlio: “Va’ a vendere l’ascia guasta e guarda un po’ quel che ne ricavi; il resto dovrò guadagnarlo io per poterla pagare.” Il figlio prese l’ascia e la portò in città da un orefice; questi la saggiò, la mise su di una bilancia e disse: “Vale quattrocento scudi, ma non ne ho abbastanza in contanti.” Lo studente disse: “Datemi quello che avete; del resto vi faccio credito.” L’orefice gli diede trecento scudi e restò in debito di cento. Poi lo studente andò a casa e disse: “Babbo, ho il denaro: andate a chiedere al vicino quanto vuole per l’ascia.” - “Lo so già,” rispose il vecchio, “uno scudo e sei soldi.” - “Allora dategli due scudi e dodici soldi; è il doppio e mi pare che basti. Guardate, ho denaro in abbondanza!” Diede al padre cento scudi e disse: “Non ve ne mancherà mai, vivete comodamente.” - “Dio mio,” disse il vecchio, “come hai fatto ad avere tutta quella ricchezza?” Allora il figlio gli raccontò com’erano andate le cose, e quale ricca preda avesse fatto nel bosco, confidando nella sua fortuna. Con il resto del denaro, tornò all’Università e continuò a studiare; e siccome con il suo cerotto poteva risanare tutte le ferite, divenne il dottore più famoso del mondo.

FINE

Immagine: Lo spirito nella bottiglia (Grimm)

 
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La luce azzurra

Post n°466 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re che aveva un soldato al suo servizio, e quando questi invecchiò e non pot‚ più lavorare, lo mandò via senza dargli nulla. Il soldato non sapeva come campare; se ne andò tutto triste e camminò per tutto il giorno, finché‚ a sera giunse in un bosco. Vi entrò e poco dopo vide una luce che lo guidò, e giunse a una casa dove abitava una strega. Egli la pregò di dargli un giaciglio per la notte, qualcosa da mangiare e da bere; ella rifiutò, ma poi disse: -Ti ospiterò per misericordia, però tu domani devi vangare il mio giardino-. Il soldato promise di farlo e così fu alloggiato. Il giorno dopo vangò il giardino della strega e lavorò fino a sera. Ella voleva mandarlo via, ma egli disse: -Sono tanto stanco, lasciami rimanere ancora una notte!-. La strega non voleva, ma poi finì coll'accettare: il giorno dopo, però, il soldato doveva spaccarle un carro pieno di legna. Così il secondo giorno il soldato spaccò la legna, e alla sera aveva lavorato tanto che non se la sentì nuovamente di andarsene e le chiese asilo per la terza volta. Il giorno dopo egli doveva, però, ripescare dal pozzo la luce azzurra. La strega lo portò così al pozzo, lo legò a una lunga corda, ed egli vi si calò.
Quando fu sul fondo, trovò la luce azzurra e fece segno alla vecchia per risalire. La strega lo tirò su, ma quando egli fu vicino all'orlo, così vicino che poteva toccarlo con la mano, ella volle prendergli la luce azzurra per poi lasciarlo ricadere sul fondo. Ma egli si accorse delle sue cattive intenzioni e disse: -No, non ti do la luce azzurra se prima non ho toccato terra con tutti e due i piedi-. Allora la strega s'infuriò, lo lasciò cadere nel pozzo con la luce e se ne andò. Il soldato era tutto triste, là sotto in quel pantano umido al buio, e pensava già alla sua fine. Per caso gli venne fra le mani la sua pipa, ancora mezzo piena, e pensò: "Sarà il tuo ultimo piacere!". L'accese alla luce azzurra e si mise a fumare. Quando il fumo si sparse un poco nel pozzo, apparve d'un tratto un omino nero che gli chiese: -Padrone, cosa comandi?-. Il soldato rispose: -Cosa devo comandarti?-. L'omino replicò: -Devo fare tutto quello che vuoi-. -Allora, prima di tutto, aiutami a uscire dal pozzo!- L'omino nero lo prese per mano e lo condusse fuori, portando con s‚ la luce azzurra. Poi il soldato disse: -Adesso ammazzami la strega-. Dopo aver fatto anche questo, l'omino gli mostrò l'oro e i tesori della vecchia, e il soldato li prese caricandoseli sulle spalle. Poi l'omino disse: -Se hai bisogno di me, non hai che da accendere la pipa alla luce azzurra-. Il soldato si recò quindi in città, nella migliore locanda, si fece fare bei vestiti, e ordinò all'oste di arredargli una camera il più sfarzosamente possibile. Quando fu pronta, il soldato chiamò l'omino nero e disse: -Il re mi ha cacciato facendomi patire la fame, poiché‚ non potevo più servirlo; questa sera portami qui la principessa: mi farà da serva ed eseguirà i miei ordini-. L'omino disse: -E' cosa rischiosa-. Tuttavia andò a prendere la principessa; la sollevò dal suo letto mentre dormiva, la portò al soldato, ed ella dovette obbedirgli e fare ciò che egli le ordinava. Al mattino, prima che il gallo cantasse, l'omino la riportò indietro. Quando la principessa si alzò, disse al padre: -Questa notte ho fatto un sogno strano: mi è parso di esser stata portata via e di aver servito un soldato, cui dovevo fare da serva-. Allora il re disse: -Fa' un buchino nella tasca e riempila di ceci: il sogno potrebbe essere vero, e in questo caso i ceci usciranno e lasceranno una traccia sulla strada-. La fanciulla seguì il consiglio, ma l'omino aveva udito le parole del re e, quando si fece sera e il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, egli sparse ceci per tutta la città, e quei pochi che caddero dalla tasca della principessa non lasciarono nessun segno. L'indomani, la gente mondò ceci per tutto il giorno. La principessa tornò a raccontare al padre ciò che le era successo, e il re disse: -Tieni con te una scarpa, e nascondila là dove ti trovi-. L'omino nero udì ogni cosa e, quando il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la principessa, gli disse: -Questa volta non posso più esserti di aiuto: ti andrà male se ti scoprono-. Ma il soldato non sentì ragione. -Allora domani mattino presto dovrai fuggire, quando l'avrò riportata a casa- disse l'omino. La principessa tenne con s‚ una scarpa e la nascose nel letto del soldato. La mattina seguente, quand'ella si trovò nuovamente presso il padre, questi fece cercare la scarpa di sua figlia per tutta la città, e la trovarono dal soldato. Egli, benché‚ avesse lasciato la stanza, fu presto raggiunto e gettato in prigione. Così ora giaceva in catene e, per giunta, nella fuga precipitosa aveva dimenticato il meglio, la luce azzurra e l'oro, e non aveva in tasca che un ducato. Mentre, tutto triste, se ne stava alla finestra della prigione, vide passare uno dei suoi camerati, lo chiamò e disse: -Se mi vai a prendere il fagottino che ho lasciato alla locanda, ti darò un ducato-. Quello andò e in cambio di un ducato gli portò la luce azzurra e l'oro. Il prigioniero accese la sua pipa e chiamò l'omino nero che disse: -Non temere! Va' tranquillamente dal giudice, e accada quello che vuole; bada solo di prendere con te la luce azzurra-. Il soldato fu sottoposto a giudizio e condannato a morte. Quando lo condussero fuori, chiese al re un'ultima grazia. -Quale?- domandò il re. -Di fare ancora una pipata per via.- -Puoi farne anche tre se vuoi- rispose il re. Allora il soldato tirò fuori la sua pipa e l'accese alla luce azzurra, ed ecco subito comparire l'omino nero. -Uccidi tutti quanti- disse il soldato -e il re fallo in tre pezzi.- Allora l'omino incominciò a far fuori la gente intorno, sicché‚ il re chiese grazia e per avere salva la vita diede al soldato il regno e sua figlia in isposa.

FINE


 

 
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Gian Porcospino

Post n°465 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un ricco contadino che non aveva figli. Spesso, quando si recava in città con gli altri contadini, questi lo canzonavano e gli domandavano perché‚ non avesse figli. Un giorno si arrabbiò e quando arrivò a casa disse: “Voglio avere un figlio, fosse anche un porcospino.” Ed ecco, sua moglie mise al mondo un bambino, mezzo porcospino e mezzo uomo, e quando lo vide inorridì e disse: “Vedi, ci hai gettato un maleficio!” Disse l’uomo: “Che cosa ci vuoi fare? Dobbiamo battezzarlo lo stesso, ma non possiamo prendere un compare.” La donna rispose: “E non possiamo chiamarlo che Gian Porcospino.” Dopo il battesimo, il parroco disse: “Con questi aculei non può entrare in un letto normale.” Così sistemarono un po’ di paglia dietro la stufa e ci misero Gian Porcospino. Egli non poteva neanche essere allattato dalla madre, perché‚ l’avrebbe punta con quegli aculei. Così se ne stette dietro la stufa per otto anni, e suo padre non ne poteva più e si augurava solo che morisse; ma egli non morì e se ne stava là disteso. Ora avvenne che ci fu un mercato in città, e il contadino volle andarci, perciò domandò alla moglie che cosa dovesse portarle. “Un po’ di carne e qualche panino, quel che occorre in casa,” disse lei. Poi chiese alla serva, che voleva un paio di pantofole e delle calze con lo sprone. Infine chiese: “E tu, Gian Porcospino, cosa vuoi?” - “Babbino,” disse questi, “portami una cornamusa.” Quando il contadino tornò a casa, diede alla moglie ciò che aveva comprato, carne e panini; poi diede alla serva le pantofole e le calze con lo sprone, infine andò dietro la stufa e diede la cornamusa a Gian Porcospino. E quando questi ebbe la cornamusa, disse: “Babbino, andate alla fucina e fatemi ferrare il mio gallo, così partirò e non tornerò mai più.” Il padre era felice di potersene liberare; gli fece ferrare il gallo e, quando fu pronto, Gian Porcospino gli salì in groppa, portando con s‚ anche asini e porci che voleva custodire nel bosco. Nel bosco il gallo dovette volare con lui su un albero alto, ed egli rimase lassù a custodire asini e porci. Egli rimase molti anni lassù mentre il suo branco si ingrossava e suo padre non sapeva più nulla di lui. Sull’albero, egli suonava la sua cornamusa, e la musica era bellissima. Un giorno un re che si era perduto passò di là e udì la musica; se ne meravigliò e mandò un suo servo a vedere da dove venisse. Quello si guardò attorno ma vide soltanto un animaletto seduto in cima a un albero; sembrava un gallo, con un porcospino in groppa che suonava. Allora il re ordinò al servo di domandargli perché‚ se ne stesse là seduto, e se sapesse dove passava la strada per il suo regno. Allora Gian Porcospino scese dall’albero e disse che gli avrebbe indicato il cammino se il re gli prometteva per iscritto la prima cosa che a corte gli fosse venuta incontro al suo arrivo. Il re pensò: “Puoi farlo benissimo, tanto Gian Porcospino non capisce nulla e tu puoi scrivere quello che vuoi.” Così prese penna e inchiostro e scrisse qualcosa e, quando ebbe finito, Gian Porcospino gli indicò la strada ed egli arrivò felicemente a casa. Ma sua figlia, vedendolo da lontano, piena di gioia gli corse incontro e lo baciò. Egli pensò a Gian Porcospino e le raccontò quel che gli era successo: che aveva dovuto promettere per iscritto a uno strano animale ciò che a casa gli fosse venuto incontro per primo; l’animale stava in groppa a un galletto e suonava molto bene; ma egli aveva scritto che non gli avrebbe dato nulla perché‚, tanto, Gian Porcospino non sapeva leggere. La principessa ne fu felice e disse che era ben fatto, perché‚ non ci sarebbe andata in nessun caso.

Ma Gian Porcospino custodiva gli asini e i porci, era sempre allegro e sedeva sull’albero a suonare la cornamusa. Ora avvenne che un altro re arrivò in carrozza con i suoi servi e alfieri; si era perduto e non sapeva tornare a casa, poiché‚ il bosco era tanto grande. Udì subito la bella musica da lontano e disse al suo alfiere di andare a vedere cos’era e di dove veniva la musica. Questi andò sotto l’albero e vide il gallo con Gian Porcospino in groppa. Gli domandò che cosa stesse facendo lassù. “Custodisco asini e maiali; ma voi, cosa volete?” L’alfiere rispose che si erano persi e che non potevano più tornare nel loro regno, e s’egli voleva indicare loro il cammino. Allora Gian Porcospino scese dall’albero con il gallo e disse al vecchio re che gli avrebbe indicato la strada se gli avesse concesso la prima cosa che gli fosse venuta incontro davanti al suo castello. Il re rispose di sì e firmò la promessa a Gian Porcospino. Allora questi lo precedette in groppa al suo gallo, gli mostrò la strada, e il re fece ritorno felicemente nel suo regno. Quando giunse a corte, la gioia fu grande. Il re aveva un’unica figlia, molto bella; lei gli venne incontro, gli saltò al collo, lo baciò, felice che il vecchio padre fosse tornato. Gli chiese dove fosse stato così a lungo in giro per il mondo, ed egli le raccontò di essersi perso e che forse non avrebbe più fatto ritorno; ma mentre attraversava un gran bosco, un essere mezzo porcospino e mezzo uomo, che stava in cima a un albero in groppa a un gallo, e suonava molto bene, lo aveva aiutato e gli aveva mostrato il cammino; in cambio però egli aveva dovuto promettergli la prima cosa che gli fosse venuta incontro a corte, e questa era lei, e ora egli era tanto afflitto. Ma lei gli promise che, all’arrivo di Gian Porcospino, lo avrebbe seguito volentieri per amore del suo vecchio padre.

Ma Gian Porcospino custodiva i suoi porci, e i porci mettevano al mondo altri porci e diventarono tanti che tutto il bosco n’era pieno. Allora Gian Porcospino mandò a dire a suo padre di sgombrare tutti i porcili del villaggio e di fare spazio, poiché‚ egli sarebbe arrivato con un branco tale di porci che, se avessero voluto, tutti avrebbero potuto macellare. All’udire questa notizia, il padre si rattristò perché‚ pensava che Gian Porcospino fosse morto da un pezzo. Gian Porcospino, invece, salì in groppa al suo gallo, menò i porci fino al villaggio e li fece macellare. Ah, fu una strage il cui rumore si poteva udire a due ore di distanza! Poi Gian Porcospino disse: “Babbino, andate nella fucina a far ferrare ancora una volta il mio gallo; poi me ne vado e non torno più in vita mia.” Allora il padre fece ferrare il gallo ed era felice che Gian Porcospino non volesse più tornare.

Gian Porcospino se n’andò nel primo regno; il re aveva ordinato che, se arrivava uno in groppa a un gallo e con una cornamusa, gli sparassero tutti contro, lo battessero e lo ferissero, perché‚ non entrasse nel castello. Così quando arrivò Gian Porcospino, gli si gettarono addosso con le baionette; ma egli spronò il suo gallo, e volò oltre la porta, fino alla finestra del re; vi si posò e gli gridò di dargli ciò che aveva promesso, altrimenti avrebbe ucciso lui e sua figlia. Allora il re pregò la figlia di andare da Gian Porcospino, per salvare la sua vita e quella del padre. Lei si vestì di bianco, e il padre le diede una carrozza con sei cavalli, valletti sfarzosi, denaro e beni. Lei salì in carrozza e Gian Porcospino vi si sedette accanto con il gallo e la cornamusa; poi presero congedo e partirono, e il re pensava che non l’avrebbe mai più rivista. Invece andò in modo ben diverso. Quando furono a qualche distanza dalla città, Gian Porcospino la svestì e la punse con i suoi aculei finché‚ fu tutta sanguinante e disse: “Questa è la ricompensa per la vostra slealtà; vattene, non ti voglio.” Così la cacciò e la rimandò a casa, e lei fu disonorata per tutta la vita.

Gian Porcospino invece proseguì sul suo gallo e con la sua cornamusa verso il secondo regno, dove si trovava l’altro re al quale aveva indicato la strada. Questi aveva ordinato, se arrivasse uno come Gian Porcospino, di presentargli le armi, lasciarlo entrare liberamente, gridare evviva e introdurlo nel castello. Quando la principessa lo vide, inorridì perché‚ il suo aspetto era davvero bizzarro; ma pensò che non c’era nient’altro da fare, l’aveva promesso a suo padre. Così diede il benvenuto a Gian Porcospino, egli dovette accompagnarla alla tavola regale, e lei sedette al suo fianco, mangiarono e bevvero insieme. Alla sera, quando fu ora di andare a dormire, lei aveva molta paura dei suoi aculei, ma egli le disse di non temere, non le avrebbe fatto alcun male; e disse al vecchio re di mandare quattro uomini che facessero la guardia davanti alla porta della loro camera e accendessero un gran fuoco: entrato in camera per mettersi a letto, egli sarebbe sgusciato fuori dalla sua pelle di porcospino e l’avrebbe lasciata davanti al letto; allora i quattro uomini dovevano raccoglierla in fretta, gettarla nel fuoco e aspettare che il fuoco l’avesse distrutta. Quando la campana suonò le undici, egli entrò in camera, si tolse la pelle di porcospino e la lasciò per terra davanti al letto; allora vennero gli uomini, la presero in fretta e la gettarono nel fuoco; e quando il fuoco l’ebbe distrutta, egli fu libero dall’incantesimo, e giaceva nel letto ormai del tutto uomo; però era nero come il carbone, come se lo avessero bruciato. Il re mandò a chiamare il suo medico, che lo lavò con dei buoni unguenti e lo profumò; ed egli divenne un giovane signore, bianco e bello. Quando lo vide, la principessa ne fu felice; si alzarono contenti, mangiarono e bevvero, si festeggiarono le loro nozze e Gian Porcospino ottenne il regno dal vecchio re.

Quando fu trascorso qualche anno, andò con la sua sposa dal padre e gli disse che era suo figlio; ma il padre rispose che non ne aveva: glien’era nato solo uno che aveva gli aculei come un porcospino, e se n’era andato in giro per il mondo. Allora egli si fece riconoscere e il vecchio padre si rallegrò e lo seguì nel suo regno.

FINE

Immagine: Gian Porcospino (Grimm)

 
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L'oca d'oro

Post n°464 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era un uomo che aveva tre figli; il minore, chiamato il Grullo, era disprezzato, dileggiato e messo da parte in ogni occasione. Un giorno il maggiore volle andare nel bosco a far legna e prima di uscire la madre gli diede una bella frittata e una bottiglia di vino perché‚ non patisse la fame e la sete. Quando giunse nel bosco, incontrò un vecchio omino grigio, che lo salutò e disse: -Dammi un pezzo della tua frittata e fammi bere un sorso del tuo vino, ho tanta fame e tanta sete!-. Ma il figlio avveduto rispose: -Se ti do la mia frittata e il mio vino, a me non resta più nulla. Vattene per la tua strada!- e se ne andò. Incominciò a tagliare un albero, ma ben presto sbagliò il colpo ferendosi il braccio con la scure e dovette andare a casa a farsi bendare. In realtà si trattava del castigo dell'omino grigio. Poi toccò al secondo figlio andare nel bosco, e la madre diede anche a lui una frittata e una bottiglia di vino. Anch'egli s'imbatté‚ nel vecchio omino grigio, che gli chiese un pezzo di frittata e un sorso di vino. Ma anche il secondo figlio parlò ragionevolmente: -Ciò che do a te, manca a me. Vattene per la tua strada!- e proseguì. L'omino non fece tardare il castigo: dopo aver dato due o tre colpi di scure a un albero, il giovane si ferì la gamba e dovettero trasportarlo a casa. Allora il Grullo disse: -Padre, voglio andare a far legna anch'io-. Il padre rispose: -I tuoi fratelli si sono fatti male; tu lascia perdere, tanto non ne capisci niente-. Ma il Grullo lo pregò tanto che il padre finì col dirgli: -Va' pure, imparerai a tue spese-. La madre gli diede una focaccia cotta nella cenere e una bottiglia di birra acida. Quando arrivò nel bosco, incontrò anch'egli il vecchio omino grigio, che lo salutò e gli disse: -Dammi un pezzo della tua focaccia e un sorso della tua bottiglia, ho tanta fame e tanta sete-. Il Grullo rispose: -Ho soltanto una focaccia cotta nella cenere e birra acida; se ti va bene possiamo sederci a mangiare-. Si sedettero e quando il Grullo tirò fuori la sua focaccia, trovò una bella frittata, e la birra acida era del buon vino. Mangiarono e bevvero, poi l'omino disse: -Poiché‚ hai buon cuore e dividi volentieri con altri ciò che è tuo, voglio renderti fortunato. Là c'è un vecchio albero; abbattilo e troverai qualcosa nelle radici-. Ciò detto si congedò da lui. Il Grullo andò ad abbattere l'albero, e quand'esso cadde trovò nelle radici un'oca dalle piume d'oro puro. La tirò fuori, la prese con s‚ e andò a pernottare in una locanda. Ma l'oste aveva tre figlie che, vedendo l'oca, erano curiose di sapere di che strano uccello si trattasse, e avrebbero preso volentieri una delle sue piume d'oro. La maggiore pensò: "Devo assolutamente avere una piuma!". Aspettò che il Grullo fosse uscito e afferrò l'oca per l'ala, ma le dita vi rimasero appiccicate. Poco dopo arrivò la seconda, e non aveva altro pensiero che prendersi anche lei una piuma; si avvicinò, ma non appena ebbe sfiorato la sorella, vi rimase attaccata. Infine venne anche la terza a reclamare una piuma; allora le altre gridarono: -Sta' lontana, per l'amor di Dio, sta' lontana!-. Ma ella non capiva il perché‚ e pensò: "Se ci sono loro posso esserci anch'io". Si avvicinò di corsa, ma non appena ebbe sfiorato sua sorella, le rimase attaccata. Così dovettero trascorrere la notte con l'oca. Il mattino dopo il Grullo prese in braccio l'oca, e se ne andò senza curarsi affatto delle tre fanciulle. Esse erano costrette a corrergli sempre dietro, a destra e a sinistra, dove lo portavano le gambe. Il mezzo ai campi incontrarono il parroco che, vedendo quella processione, disse: -Vergognatevi razza di scostumate. Vi pare decente correre per i campi dietro a quel ragazzo?-. Ciò detto afferrò la più giovane per la mano perché‚ si fermasse ma, non appena l'ebbe sfiorata, rimase attaccato anche lui e dovette correre dietro a loro. Poco dopo giunse il sagrestano e vide il parroco che stava tallonando tre ragazze. Meravigliato, gridò: -Ehi, signor parroco, dove andate così in fretta? Oggi abbiamo ancora un battesimo!-. Lo rincorse, lo afferrò per la manica e rimase attaccato anche lui. Mentre i cinque trottavano così uno dietro l'altro, dal campo giunsero due contadini con le loro zappe e il parroco li chiamò, pregandoli di venire a liberarli. Ma avevano appena sfiorato il sagrestano che rimasero attaccati anche loro; così adesso erano in sette a correr dietro al Grullo con l'oca. Poi egli giunse in una città dove regnava un re che aveva una figlia tanto seria che nessuno riusciva a farla ridere. Perciò egli aveva stabilito che l'avrebbe avuta in isposa solo colui che vi fosse riuscito. Il Grullo, quando lo seppe, si presentò con l'oca e tutto il seguito alla principessa; e quand'ella vide i sette che correvano l'uno dietro l'altro, incominciò a ridere forte, e non la smetteva più. Allora il Grullo pretese che gliela si desse in moglie, ma il re fece un mucchio di obiezioni e disse che prima doveva portargli un uomo che fosse in grado di bere tutto il vino di una cantina. Il Grullo pensò che l'omino grigio avrebbe potuto aiutarlo; andò nel bosco e là dove aveva abbattuto l'albero vide un uomo seduto con la faccia tutta triste. Il Grullo domandò che cosa lo addolorasse tanto. -Ah!- rispose quello -ho tanta sete e non ho da bere a sufficienza; ho sì vuotato una botte di vino, ma cos'è una goccia su di una pietra bollente?- -Posso aiutarti io- disse il Grullo -vieni con me, ti disseterai.- Lo condusse nella cantina del re e l'uomo si gettò su quelle grosse botti, e bevve, bevve tanto che gli dolevano i fianchi; prima che fosse trascorsa la giornata aveva vuotato la cantina. Il Grullo chiese nuovamente la fanciulla in isposa, ma il re si seccò che un volgare ragazzotto, che tutti chiamavano il Grullo, gli portasse via la figlia, e pose altre condizioni: doveva portargli un uomo che fosse in grado di mangiare una montagna di pane. Il Grullo si recò nuovamente nel bosco e dove si trovava l'albero trovò un uomo che si stringeva la vita con una cinghia e diceva, con viso burbero: -Ho mangiato un'intera infornata di panini, ma non può certo bastare con la fame che mi ritrovo! Mi sento lo stomaco vuoto, e non mi resta che stringermi la vita se non voglio morire di fame-. Udendo queste parole, il Grullo disse, tutto contento: -Alzati e vieni con me, ti sazierai-. Lo condusse a corte dove il re aveva ordinato di raccogliere tutta la farina del regno e di cuocere un'enorme montagna di pane. Ma l'uomo del bosco vi si mise davanti, incominciò a mangiare e in un giorno e una notte l'intera montagna era sparita. Il Grullo chiese nuovamente la sposa, ma il re cercò un'altra scusa e gli disse di procurargli una nave che andasse per mare e per terra; se fosse riuscito in quest'impresa avrebbe avuto subito la fanciulla in isposa. Il Grullo andò ancora una volta nel bosco e ci trovò il vecchio omino grigio al quale aveva dato la sua focaccia e che gli disse: -Ho bevuto e mangiato per te, e ora ti darò anche la nave. Faccio tutto questo perché‚ sei stato pietoso con me-. Gli diede la nave che andava per mare e per terra; e, quando il re la vide, dovette accordargli la figlia. Furono celebrate le nozze, il Grullo ereditò poi il regno e visse a lungo felice con la sua sposa.

FINE


 
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Cinci (Pirandello)

Post n°463 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un cane, davanti una porta chiusa, s’accula paziente aspettando che gli s’apra; al piú, alza ogni tanto una zampa e la gratta, emettendo qualche sommesso guaito.
Cane, sa che non può fare di piú.
Di ritorno dalle lezioni del pomeriggio, Cinci, col fagotto dei libri e dei quaderni legati con la cinghia sotto il braccio, trova il cane lì davanti alla porta e, irritato da quell’attesa paziente – un calcio; calci anche alla porta, pur sapendo che è chiusa a chiave e che in casa non c’è nessuno; alla fine, ciò che gli pesa di piú, quel fagotto di libri, rabbiosamente per sbarazzarsene lo scaraventa contro la porta, come se attraverso il legno possa passare e andare a finir dentro casa. La porta, invece, con la stessa forza glielo rimanda subito sul petto. Cinci ne resta sorpreso, come d’un bel gioco che la porta gli abbia proposto, e rilancia il fagotto. Allora, poiché già sono in tre a giocare, Cinci il fagotto e la porta, ci si mette anche il cane e springa a ogni lancio, a ogni rimbalzo, abbajando. Qualche passante si ferma a guardare: chi sorride, quasi avvilito della sciocchezza di quel gioco e del cane che ci si diverte; chi s’indigna per quei poveri libri; costano danari; non dovrebbe esser lecito trattarli con tanto disprezzo. Cinci leva lo spettacolo; a terra il fagotto e, strisciando con la schiena sul muro, ci si cala a sedere; ma il fagotto gli sguscia di sotto e lui sbatte a sedere in terra; fa un sorriso balordo e si guarda attorno, mentre il cane salta indietro e lo mira.
Tutte le diavolerie che gli passano per il capo Cinci le dà quasi a vedere in quei ciuffi scompigliati dei suoi capelli di stoppa e negli occhi verdi aguzzi che sembrano vermicarne. È nell’età sgraziata della crescenza, ispido e giallo. Tornando a scuola, quel pomeriggio, ha dimenticato a casa il fazzoletto, per cui ora, di tanto in tanto, lì seduto a terra, sorsa col naso. Si fa venire quasi sulla faccia le ginocchia enormi delle grosse gambe scoperte, perché porta ancora, e non dovrebbe piú, i calzoni corti. Butta sbiechi i piedi, camminando; e non ci sono scarpe che gli durino; queste che ha ai piedi sono già rotte. Ora, stufo, s’abbraccia le gambe, sbuffa e si tira su con la schiena contro il muro. Si leva anche il cane e pare gli domandi dove si vada adesso. Dove? In campagna, a far merenda, rubando qualche fico o qualche mela. È un’idea; non ne è ancora ben sicuro.
Il lastricato della strada finisce lì, dopo la casa; poi comincia la via sterrata del sobborgo che conduce in fondo in fondo alla campagna. Chi sa che bella sensazione deve provarsi, andando in carrozza, quando i ferri dei cavalli e le ruote passano dal duro del lastricato strepitoso al molle silenzioso dello sterrato. Sarà forse come quando il professore, dopo aver tanto sgridato perché lui l’ha fatto arrabbiare, tutt’a un tratto si mette a parlargli con una molle bontà soffusa di rassegnata malinconia, che tanto piú gli piace quanto piú l’allontana dal temuto castigo. Sì, andare in campagna; uscire dallo stretto delle ultime case di quel puzzolente sobborgo, fin dove la via allarga laggiú nella piazzetta all’uscita del paese. C’è ora l’ospedale nuovo laggiú, i cui muri intonacati di calce sono ancora così bianchi che al sole bisogna chiudere gli occhi, da come accecano. Vi hanno trasportato ultimamente tutti gli ammalati che erano nel vecchio, con le ambulanze e le lettighe; è parsa quasi una festa, vederne tante in fila; le ambulanze avanti, con tutte le tele svolazzanti ai finestrini; e, per gli ammalati piú gravi, quelle belle lettighe traballanti sulle molle, come ragni. Ma ora è tardi; il sole sta per tramontare, e qua e là ai finestroni non staranno piú affacciati i convalescenti, in camice grigio e zucchetto bianco, a guardare con tristezza la chiesina vecchia dirimpetto, che sorge là tra poche altre case, vecchie anch’esse, e qualche albero. Dopo quella piazzetta la strada si fa di campagna e monta alla costa del poggio.

Cinci si ferma; torna a sbuffare. Ci deve andare davvero? Si riavvia svogliato, perché comincia a sentirsi ribollire nelle viscere tutto il cattivo che gli viene da tante cose che non sa spiegarsi: sua madre, come viva, di che viva, sempre fuori di casa, e ostinata a mandarlo ancora a scuola; maledetta, così lontana: ogni giorno, a volare, almeno tre quarti d’ora, di quaggiú dove sta, per arrivarci; e poi per tornare a mezzogiorno; e poi di nuovo per ritornarci, finito che ha di buttar giú due bocconi; come fare a tempo? e sua madre dice che il tempo gli passa a giocare col cane, e che è un bighellone, e insomma a sbattergli in faccia sempre le stesse cose: che non studia, che è sudicio, che se lo manda a comprare qualcosa, la peggio roba l’appiccicano a lui...
Dov’è Fox?
Eccolo: gli trotta dietro, povera bestia. Eh, lui almeno lo sa che cosa deve fare: seguire il suo padrone. Fare qualche cosa: la smania è proprio questa: non sapere che cosa. Potrebbe pur lasciargliela, sua madre, la chiave, quando va a cucire a giornata, come gli dà a intendere, nelle case dei signori. Ma no, dice che non si fida, e che al suo ritorno dalla scuola, se lei non è rincasata, poco potrà tardare, e che dunque la aspetti. Dove? Li fermo davanti alla porta? Certe volte ha aspettato perfino due ore, al freddo, e anche sotto la pioggia; e apposta allora, in luogo di ripararsi, è andato al cantone a pigliarsi lo sgrondo, per farsi trovare da lei tutto intinto da strizzare. Vederla alla fine arrivare, affannata, con un ombrello prestato, il volto in fiamme, gli occhi lustri sfuggenti, e così nervosa che non trova neanche piú la chiave nella borsetta.

– Ti sei bagnato? Abbi pazienza, ho dovuto far tardi. –

Cinci aggrotta le ciglia. A certe cose non vuol pensare. Ma suo padre, lui, non l’ha conosciuto; gli è stato detto che è morto, prima ancora che lui nascesse; ma chi era non gli è stato detto; e ora lui non vuole piú né domandarlo né saperlo. Può essere anche quell’accidentato che si trascina perso da una parte – sì, bravo – ancora alla taverna. Fox gli si para davanti e gli abbaja. Gli farà impressione la stampella. Ed ecco qua tutte queste donne a crocchio, con tanto di pancia senz’esser gravide; forse una sì; quella con la sottana rizzata davanti un palmo dal suolo e che dietro spazza la strada; e quest’altra col bambino in braccio che ora cava dal busto... ah, peuh, che pellàncica! La sua mamma è bella, ancora tanto giovane, e a lui bambino il latte, così dal seno, lo diede anche lei, forse in una casa di campagna, in un’aja, al sole. Ha il ricordo vago d’una casa di campagna, Cinci; dove forse, se non l’ha sognata, abitò nell’infanzia, o che forse vide allora in qualche parte, chi sa dove. Certo ora, a guardarle da lontano, le case di campagna, sente la malinconia che deve invaderle quando comincia a farsi sera, col lume che vi s’accende a petrolio, di quelli che si portano a mano da questa stanza a quella, che si vedono scomparire da una finestra e ricomparire dall’altra. E arrivato alla piazzetta. Ora si vede tutta la cala del cielo dove il tramonto s’è già ammorzato, e sopra il poggio, che pare nero, il celeste tenero tenero. Sulla terra è già l’ombra della sera, e il grande muro bianco dell’ospedale è illividito. Qualche vecchia in ritardo s’affretta alla chiesina per il Vespro. Cinci d’improvviso s’invoglia d’entrarci anche lui, e Fox si ferma a guardarlo, perché sa bene che a lui non è permesso. Davanti all’entrata la vecchina in ritardo s’affanna e pìgola alle prese col coltrone di cuojo troppo pesante Cinci l’ajuta a sollevarlo, ma quella, invece di ringraziarlo, lo guarda male, perché capisce che non entra in chiesa per divozione. La chiesina ha il rigido d’una grotta; sull’altare maggiore i guizzi baluginanti di due ceri e qua e là qualche lampadino smarrito. Ha preso tanta polvere, povera chiesina, per la vecchiaja; e la polvere sa d’appassito in quella cruda umidità; il silenzio tenebroso pare che stia con tutti gli echi in agguato d’ogni minimo rumore. Cinci ha la tentazione di gettare un bercio per farli tutti sobbalzare. Le beghine si sono infilate nelle panche, ciascuna al suo posto. Il bercio no, ma gettare a terra quel fagotto di libri che gli pesa, come se gli cadesse per caso di mano, perché no? Lo getta, e subito gli echi saltano addosso al colpo che rintrona e lo schiacciano, quasi con dispetto. Questa dell’eco che salta addosso a un rumore come un cane infastidito nel sonno e lo schiaccia, è un’esperienza che Cinci ha fatta con gusto altre volte Non bisogna abusare della pazienza delle povere beghine scandalizzate. Esce dalla Chiesina; ritrova Fox pronto a seguirlo e riprende la strada che sale al poggio. Qualche frutto da addentare bisogna che lo trovi, scavalcando piú là una muriccia e buttandosi tra gli alberi. Ha lo struggimento; ma non sa propriamente se per bisogno di mangiare o per quella smania che gli s’è messa allo stomaco, di fare qualche cosa.

Strada di campagna, in salita, solitaria; ciottoli che gli asinelli alle volte si prendono tra gli zoccoli e fanno ruzzolare per un tratto e poi, dove si fermano, stanno; eccone uno lì: un colpo con la punta della scarpa: godi, vola! erba che spunta sulle prode o a piè delle muricce, lunghi fili d’avena impennacchiati che fa piacere brucare: tutti i pennacchietti restano a mazzo nelle dita; si gettano addosso a qualcuno, e quanti se n’attaccano, tanti mariti (se è una donna) prenderà, e tante mogli se un uomo. Cinci vuol far la prova su Fox. Sette mogli, nientemeno. Ma non è prova, perché sul pelo nero di Fox son rimasti impigliati tutti quanti. E Fox, vecchio stupido, ha chiuso gli occhi ed è rimasto, senza capir lo scherzo, con quelle sette mogli addosso.
Non ha piú voglia d’andare avanti, Cinci. È stanco e seccato. Si tira a sedere sulla muriccia a manca della strada e di là si mette a guardare nel cielo la larva della luna che comincia appena appena a ravvivarsi d’un pallido oro nel verde che s’estenua nel crepuscolo morente. La vede e non la vede; come le cose che gli vagano nella mente e l’una si cangia nell’altra e tutte l’allontanano sempre piú dal suo corpo lì seduto inerte, tanto che non se lo sente piú; la sua stessa mano, se gli s’avvistasse, posata sul ginocchio, gli sembrerebbe quella d’un estraneo, o quel suo piede penzoloni nella scarpa rotta, sporca: non è piú nel suo corpo: è nelle cose che vede e non vede, il cielo morente, la luna che s’accende, e là quelle masse cupe d’alberi che si stagliano nell’aria fatta vana, e qua la terra solla, nera, zappata da poco, da cui esala ancora quel senso d’umido corrotto nell’afa delle ultime giornate d’ottobre, ancora di sole caldo.
A un tratto, tutt’assorto com’è, chi sa che gli passa per le carni, stolta, e istintivamente alza la mano a un orecchio. Una risatina stride da sotto la muriccia. Un ragazzo della sua età, contadinotto, s’è nascosto laggiú, dalla parte della campagna. Ha strappato e brucato anche lui un lungo filo d’avena, gli ha fatto un cappio in cima e, zitto zitto, con esso, alzando il braccio, ha tentato d’accappiare a Cinci l’orecchio. Appena Cinci, risentito, si volta, subito quello gli fa cenno di tacere e tende il filo d’avena lungo la muriccia, dove tra una pietra e l’altra spunta il musetto d’una lucertola, a cui con quel cappio egli dà la caccia da un’ora. Cinci si sporge a guardare, ansioso. La bestiola, senz’accorgersene, ha infilato da sè il capo nel cappio lì appostato; ma ancora è poco; bisogna aspettare che lo sporga un tantino di piú, e può darsi che invece lo ritragga, se la mano che regge il filo d’avena tremola e le fa avvertire l’insidia. Forse ora è sul punto d’assaettarsi per evadere da quel rifugio divenuto una prigione. Sì, sì; ma attenti allora a dare a tempo la stratta per accappiarla. È un attimo. Eccola! E la lucertola guizza come un pesciolino in cima a quel filo d’avena. Irresistibilmente Cinci salta giú dalla muriccia; ma l’altro, forse temendo che voglia impadronirsi della bestiola, rotea piú volte in aria il braccio e poi la sbatte con ferocia su un lastrone che si trova lì tra gli sterpi. – No! – grida Cinci; ma è troppo tardi: la lucertola giace immobile su quel lastrone col bianco della pancia al lume della luna. Cinci se ne adira. Ha voluto sì, anche lui, che quella povera bestiola fosse presa, preso lui stesso per un momento da quell’istinto della caccia che è in tutti agguattato; ma ucciderla così, senza prima vederla da vicino, negli occhietti acuti fino allo spasimo, nel palpito dei fianchi, nel fremito di tutto il verde corpicciuolo; no, è stato stupido e vile. E Cinci avventa con tutta la forza un pugno in petto a quel ragazzo e lo manda a ruzzolare in terra tanto piú lontano quanto piú quegli, così tutto squilibrato indietro, tenta di riprendersi per non cadere. Ma caduto, subito si rizza inferocito, ghermisce un toffo di terra e lo scaglia in faccia a Cinci, che ne resta accecato e con quel senso d’umido in bocca che piú gli sa di sfregio e l’imbestialisce. Prende anche lui di quella terra e la scaglia. Il duello si fa subito accanito. Ma l’altro è piú svelto e piú bravo; non fallisce colpo, e gli viene sempre piú addosso, avanzando, con quei toffi di terra che, se non feriscono, percuotono sordi e duri e, sgretolandosi, sono come una grandinata da per tutto, in petto e sulla faccia tra i capelli agli orecchi e fin dentro le scarpe. Soffocato, non sapendo piú come ripararsi e difendersi, Cinci, furibondo, si volta, spicca un salto e col braccio alzato strappa una pietra dalla muriccia. Qualcuno di là si ritrae: sarà Fox. Scagliata la pietra, d’un tratto – com’è? – da che tutto prima gli si sconvolgeva, balzandogli davanti agli occhi, quelle masse d’alberi, in cielo la luna come uno striscio di luce, ora ecco nulla si muove piú, quasi che il tempo stesso e tutte le cose si siano fermati in uno stupore attonito intorno a quel ragazzo traboccato a terra. Cinci, ancora ansante e col cuore in gola, mira esterrefatto, addossato alla muriccia, quell’incredibile immobilità silenziosa della campagna sotto la luna, quel ragazzo che vi giace con la faccia mezzo nascosta nella terra, e sente crescere in sé formidabilmente il senso d’una solitudine eterna, da cui deve subito fuggire. Non è stato lui; lui non l’ha voluto; non ne sa nulla. E allora, proprio come se non sia stato lui, proprio come se s’appressi per curiosità, muove un passo e poi un altro, e si china a guardare. Il ragazzo ha la testa sfragellata, la bocca nel sangue colato a terra nero, una gamba un po’ scoperta, tra il calzone che s’è ritirato e la calza di cotone. Morto, come da sempre. Tutto resta lì, come un sogno. Bisogna che lui se ne svegli per andar via in tempo. Lì, come in un sogno, quella lucertola arrovesciata sul lastrone, con la pancia alla luna e il filo di avena che pende ancora dal collo. Lui se ne va, col suo fagotto di libri di nuovo sotto il braccio, e Fox dietro, che anche lui non sa nulla.

A mano a mano che s’allontana, discendendo dal poggio, diviene sempre piú così stranamente sicuro, che non s’affretta nemmeno. Arriva alla piazzetta deserta; c’è anche qui la luna; ma è un’altra, se ora qui rischiara, senza saper nulla, la bianca facciata dell’ospedale. Ecco ora la via del sobborgo, come prima. Arriva a casa: sua madre non è ancora rientrata. Non dovrà dunque dirle neppure dove è stato. È stato lì ad aspettarla. E questo, che ora diventa vero per sua madre, diventa subito vero anche per lui; difatti, eccolo con le spalle appoggiate al muro accanto alla porta.

Basterà che si faccia trovare così.

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NOVELLE PER UN ANNO - 1934 - "BERECCHE E LA GUERRA"

8. Di sera, un geranio (1934)

 

 

«Corriere della Sera», 6 maggio 1934.

 

 
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In memoria (Ungaretti)

Post n°462 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

 
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Libri dimenticati:Jennie

Post n°461 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Tutti conoscono Winston Churchill,ma chi conosce quella donna coraggiosa e indomita che fu sua madre?
La giovane Jennie,amricana di New York,sposa per amore Randolph Churchill,nobile e pari d'Inghilterra,ma ben presto il suo matrimonio si trasforma in un incubo,perchè il marito,donnaiolo impenitente,contrae la sifilide e muore praticamente pazzo.Ella riversa tutto il suo amore sul figlio Winston,sostenendone la carriera politica e al tempo stesso essendo uno dei pilastri dell'high society londinese,che scandalizzerà quando,ultracinquantenne e ormai vedova, sposerà un uomo assai più giovane.
Martin ci offre non solo il ritratto di una donna che val la pena conoscere,ammirata e forse anche amata da Edoardo VII,ma anche il ritratto di un'epoca e di una società

 
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Frase del giorno

Post n°460 pubblicato il 20 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno

 
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