Messaggi del 21/08/2011

Il fedele Giovanni

Post n°480 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio re che era malato e pensava: “Questo sarà il mio letto di morte!” Allora disse: “Fate venire il mio fedele Giovanni.” Il fedele Giovanni era il suo servo prediletto e si chiamava così perché‚ gli era stato fedele per tutta la vita. Quando fu al suo capezzale, il re gli disse: “Mio fedelissimo Giovanni, sento che la mia fine si avvicina e non ho altro timore che per mio figlio. Si trova ancora in un'età in cui spesso non si sa che via scegliere, e se tu non mi prometti di insegnargli tutto quello che deve sapere, e di essere il suo tutore, non posso chiudere gli occhi in pace.” Il fedele Giovanni rispose: “Non lo abbandonerò e lo servirò con fedeltà, dovesse costarmi la vita.” Allora il vecchio re disse: “Muoio contento e in pace.” E aggiunse: “Dopo la mia morte devi mostrargli tutto il castello: tutte le stanze, le sale, i sotterranei e i tesori che in esso vi sono. Solo una camera devi celargli: quella dov'è nascosto il ritratto della principessa dal tetto d'oro; se egli per caso la vedesse, proverebbe per lei un amore ardente, cadrebbe svenuto e correrebbe gran pericoli; devi preservarlo da questo.” E come il fedele Giovanni rinnovò la sua promessa, il vecchio re tacque, adagiò la testa sul cuscino e morì.

Quando fu seppellito, il fedele Giovanni raccontò al giovane quello che aveva promesso a suo padre sul letto di morte e disse: “Lo manterrò certamente e ti sarò fedele, dovesse costarmi la vita.” Il giovane piangendo esclamò: “Io pure non dimenticherò mai la tua fedeltà.” Finito il lutto, il fedele Giovanni gli disse: “E' tempo che tu veda i tuoi beni; voglio mostrarti il castello paterno.” Lo condusse in giro da ogni parte, su e giù, e gli fece vedere tutti i tesori e le splendide stanze; non aprì soltanto la camera che racchiudeva il ritratto. Il ritratto era posto in modo che aprendo la porta lo si vedesse subito; era dipinto con tanta arte da sembrare vivo e non vi era al mondo nulla di più soave e di più bello. Ma il giovane re si accorse subito che il fedele Giovanni passava sempre davanti a questa porta senza fermarsi e disse: “Perché‚ questa non la apri?” - “Vi è qualcosa dentro che ti spaventerebbe,” rispose il servo. Ma il re replicò: “Ho visto tutto il castello; voglio sapere anche che cosa c'è qua dentro.” Andò alla porta e cercò di aprirla con la forza. Allora il fedele Giovanni lo trattenne e disse: “Prima che morisse, ho promesso a tuo padre che non avresti visto quello che vi è nella stanza: potrebbe causare a entrambi grande sventura.” - “No,” rispose il giovane re, “se non entro è la mia rovina: non avrò pace giorno e notte, finché‚ non l'avrò visto; non me ne andrò di qui finché‚ non avrai aperto.”

Il fedele Giovanni vide allora che non vi era più nulla da fare e, col cuore grosso e molti sospiri, cercò la chiave nel grosso mazzo. Poi aprì la porta della stanza ed entrò per primo pensando che il re non potesse vedere il ritratto; ma questi era troppo curioso, si mise sulla punta dei piedi e guardò al di sopra della sua spalla. E quando vide l'immagine della fanciulla, così bella e splendente d'oro, cadde a terra svenuto. Il fedele Giovanni lo sollevò, lo portò a letto e pensò preoccupato: “La disgrazia è avvenuta; Signore Iddio, che sarà mai?” Poi lo rinvigorì con del vino finché‚ si riebbe, ma la prima cosa che il giovane re disse fu: “Ah, di chi è quei bel ritratto?” - “E' la principessa dal tetto d'oro,” rispose il fedele Giovanni. Allora il re disse: “Il mio amore per lei è così grande che se tutte le foglie degli alberi fossero lingue, non potrebbero esprimerlo. Pur di ottenerla in isposa rischierei la vita; tu sei il mio fedelissimo Giovanni e devi aiutarmi.”

Il fedele servitore pensò a lungo come agire, poiché‚ giungere al cospetto della principessa era cosa assai difficile. Alla fine escogitò un sistema e disse al re: “Tutto ciò che la circonda è d'oro: tavoli, sedie, piatti, bicchieri, scodelle e ogni altra suppellettile domestica. Fra i tuoi beni vi sono cinque tonnellate d'oro; fanne lavorare una dagli orefici del regno, che ne facciano ogni sorta di vasellame e di utensile, ogni sorta di uccelli, fiere e mostri, con queste cose andremo e tenteremo la fortuna.” Il re fece radunare tutti gli orefici e li fece lavorare giorno e notte, finché‚ furono pronti gli oggetti più splendidi. Il fedele Giovanni fece allora caricare il tutto su di una nave, indossò degli abiti da mercante e così fece pure il re in modo da rendersi irriconoscibile. Poi salparono e navigarono a lungo per il mare finché‚ giunsero alla città nella quale abitava la principessa dal tetto d'oro.

Il fedele Giovanni disse al re di rimanere sulla nave e di aspettarlo. “Forse,” disse, “porterò con me la principessa, per questo abbiate cura che tutto sia in ordine: esponete il vasellame d'oro e fate adornare tutta la nave.” Poi radunò nel grembiule ogni sorta di oggetti d'oro, sbarcò e andò dritto al castello reale. Quando giunse nel cortile del castello, c'era alla fonte una bella fanciulla, che aveva in mano due secchi d'oro e attingeva acqua. Quand'ella si volse per portar via l'acqua dai bagliori dorati, vide lo straniero e gli domandò chi fosse. Allora egli rispose: “Sono un mercante,” e aprì il grembiule, lasciando che vi guardasse dentro. Allora ella esclamò: “Oh, che begli oggetti d'oro!” depose i secchi e si mise a esaminarli uno dopo l'altro. Poi disse: “Deve vederli la principessa, gli oggetti d'oro le piacciono tanto che vi comprerà tutto.” Lo prese per mano e lo condusse fino alle stanze superiori, poiché‚ era la cameriera. Quando la principessa vide la merce, tutta contenta disse: “E' così ben lavorata che voglio comprarti tutto.” Ma il fedele Giovanni disse: “Io sono soltanto il servo di un ricco mercante; ciò che ho qui è nulla in confronto a quello che il mio padrone ha sulla sua nave; là vi è quanto di più artistico e di più prezioso sia mai stato lavorato in oro.” Ella voleva che le portassero tutto al castello, ma egli disse: “Per fare questo occorrono molti giorni, poiché‚ vi è moltissima merce; ci vogliono tante sale per esporla che la vostra casa non basterebbe.” Così la curiosità e il desiderio crebbero in lei sempre più, finché‚ disse: “Conducimi alla nave: voglio andare io stessa a vedere i tesori del tuo padrone.”

Tutto contento, il fedele Giovanni la condusse alla nave e il re, quando la vide, credette che il cuore gli scoppiasse e pot‚ trattenersi a fatica. Ella salì sulla nave e il re la condusse all'interno, ma il fedele Giovanni rimase presso il timoniere e ordinò che la nave salpasse: “Spiegate le vele, che voli come un uccello nell'aria!” Intanto il re le faceva vedere all'interno tutti gli oggetti d'oro uno per uno: i piatti, i bicchieri, le ciotole, gli uccelli, le fiere e i mostri. Passarono diverse ore ed ella rimirava ogni cosa con tale gioia da non accorgersi che la nave era partita. Quand'ebbe esaminato l'ultimo oggetto, ringraziò il mercante e volle ritornare a casa; ma, giunta sul ponte, vide che la nave correva a vele spiegate in alto mare, lontano da terra. “Ah,” gridò spaventata, “sono stata ingannala, rapita; sono nelle mani di un mercante: preferirei morire!” Ma il re la prese per mano e disse: “Non sono un mercante ma un re, non inferiore a te per nascita. Se ti ho rapita con l'astuzia è stato solo per il grande amore che ti porto. Quando vidi il tuo ritratto la prima volta, caddi a terra svenuto.” All'udire queste parole, la principessa dal tetto d'oro si consolò; e fu così incline ad amarlo, che accettò volentieri di diventare sua moglie.

Ma, mentre navigavano in alto mare, il fedele Giovanni, che sedeva a prua e suonava, scorse in aria tre corvi che si avvicinavano a volo. Smise di suonare e ascoltò quel che dicevano, perché‚ lo capiva bene. Uno gracchiò: “Ah, si porta a casa la principessa dal tetto d'oro!” - “Sì” rispose il secondo “ma non l'ha ancora!” E il terzo disse: “Ma sì, è con lui sulla nave!” Allora il primo riprese a dire: “A che giova questo? Quando sbarcheranno, gli balzerà incontro un cavallo sauro: allora egli vorrà cavalcarlo e se lo farà il cavallo correrà via con lui e si alzerà in volo, cosicché‚ egli non rivedrà mai più la sua fanciulla.” Il secondo disse: “Non vi è modo per salvarsi?” - “Oh sì, se colui che è in sella estrae il fucile che è infilato nella cavezza del cavallo e lo uccide, il giovane re è salvo; ma chi può saperlo? E chi sapendolo glielo dicesse, diventerebbe di pietra dalla punta dei piedi alle ginocchia.” Allora il secondo disse: “Io so di più: anche se il cavallo viene ucciso, il giovane re non serba la sua sposa! Quando entreranno nel castello, troveranno su di un vassoio una camicia nuziale che sembrerà intessuta d'oro e d'argento, ma non si tratterà che di pece e zolfo: Se egli la indosserà brucerà fino al midollo.” Il terzo disse: “Non vi è modo per salvarsi?” - “Oh sì,” rispose il secondo, “se uno afferra la camicia con dei guanti e la getta nel fuoco, in modo che bruci, il giovane re è salvo. Ma a che giova? Chi sapendolo glielo dicesse, diventerebbe di pietra dal ginocchio al cuore.” Allora il terzo disse: “Io so di più: anche se bruciasse la camicia nuziale, il giovane re non avrebbe ancora la sua sposa! Quando, dopo le nozze, incomincerà il ballo e la giovane regina danzerà, impallidirà all'improvviso e cadrà come morta. E se qualcuno non la solleva e non succhia tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e non le risputa, ella morirà. Ma se qualcuno lo sa e lo rivela, diventerà tutto di pietra, dalla testa fino alla punta dei piedi.” Quando i corvi si furono scambiati queste parole, volarono via, e il fedele Giovanni aveva capito tutto; ma da quel momento in poi fu triste e taciturno: infatti se avesse taciuto al suo signore ciò che aveva udito, questi sarebbe stato infelice, e se glielo avesse rivelato avrebbe dovuto sacrificare la sua stessa vita. Infine egli disse fra s’: “Voglio salvare il mio signore, anche se questo dovesse causare la mia rovina.”

Quando giunsero a terra, accadde quel che il corvo aveva predetto e uno splendido sauro balzò loro innanzi. “Oh,” esclamò il re, “mi porterà al mio castello,” e volle montare in sella; ma il fedele Giovanni lo precedette, balzò velocemente in sella, estrasse l'arma dalla cavezza e lo uccise. Allora gli altri servi del re, che non amavano il fedele Giovanni, esclamarono: “Che cosa ignobile, uccidere quel bell'animale che doveva portare il re al castello!” Ma il re disse: “Tacete e lasciatelo fare: è il mio fedelissimo Giovanni, avrà un buon motivo.” Poi andarono al castello e nella sala c'era il vassoio sul quale era posata la camicia nuziale, che sembrava tutta d'oro e d'argento. Il giovane re si fece avanti per prenderla, ma il fedele Giovanni lo spinse via, afferrò la camicia con i guanti, la gettò nel fuoco e la bruciò. Gli altri servi ricominciarono a mormorare e dissero: “Guardate, ora brucia persino la camicia nuziale del re!” Ma il giovane re disse: “Avrà un buon motivo, lasciatelo fare, è il mio fedelissimo Giovanni.” Poi si celebrarono le nozze; il ballo incominciò e anche la sposa vi prese parte. Il fedele Giovanni stava attento e la guardava in viso. D'un tratto impallidì e cadde a terra come morta. Allora egli corse a lei, la sollevò e la portò in una stanza; qui la distese, si inginocchiò, succhiò le tre gocce di sangue dalla sua mammella destra e le sputò. Subito ella riprese a respirare e si riebbe, ma il giovane re aveva visto tutto e, non sapendo perché‚ il fedele Giovanni lo avesse fatto, andò in collera e gridò: “Gettatelo in prigione!” Il mattino dopo il fedele Giovanni fu condannato e condotto al patibolo e quando fu lassù e stava per essere giustiziato, disse: “Chi deve morire, può parlare ancora una volta prima della sua fine; ho anch'io questo diritto?” - “Sì,” rispose il re, “ti sia concesso.” Allora il fedele Giovanni disse: “Sono condannato ingiustamente e ti sono sempre stato fedele.” E gli raccontò come avesse udito sul mare il discorso dei corvi e deciso di salvare il suo signore; per questo aveva dovuto fare tutto quello che aveva fatto. Allora il re esclamò: “Oh mio fedelissimo Giovanni! Grazia! Grazia! Portatelo giù.” Ma il fedele Giovanni, appena aveva pronunciato l'ultima parola, era caduto senza vita ed era diventato di pietra.

Il re e la regina se ne afflissero molto e il re diceva: “Ah, come ho mal ricompensato tanta fedeltà!” Fece sollevare la statua di pietra e la fece mettere nella sua stanza accanto al suo letto. Ogni volta che la guardava, piangeva e diceva: “Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!” Passò qualche tempo e la regina partorì due gemelli, due maschietti, che crebbero ed erano la sua gioia. Un giorno che la regina era in chiesa e i due bambini giocavano accanto al padre, il re guardò la statua di pietra con grande tristezza, sospirò e disse: “Ah, potessi ridarti la vita, mio fedelissimo Giovanni!” Allora la statua incominciò a parlare e disse: “Sì, puoi ridarmi la vita se sarai disposto a dare ciò che ti è più caro.” Allora il re esclamò: “Per te darò tutto quello che ho al mondo!” La pietra proseguì: “Se di tua mano tagli la testa ai tuoi due bambini e mi ricopri con il loro sangue, allora riavrò la vita.” Il re inorridì quando udì che doveva uccidere egli stesso i suoi diletti figli, ma pensò alla grande fedeltà del fedele Giovanni, che era morto per lui: trasse la spada e di sua mano tagliò la testa ai bambini. E quando ebbe ricoperto la statua con il loro sangue, essa si rianimò e il fedele Giovanni gli stette di nuovo innanzi, fresco e sano. Ed egli disse al re: “Voglio ricompensare la tua fedeltà” e, prese le teste dei bambini, le rimise sul busto e spalmò le ferite con il loro sangue. In un attimo i bambini ritornarono sani e ripresero a saltare e a giocare come se nulla fosse accaduto. Il re era felice e, quando vide venire la regina, nascose il fedele Giovanni e i due bambini in un grande armadio. Quando ella entrò le disse: “Hai pregato in chiesa?” - “Sì” rispose la regina “ma ho sempre pensato al fedele Giovanni che è stato così sventurato per colpa nostra.” Allora egli disse: “Cara moglie, noi possiamo ridargli la vita, ma a prezzo del sacrificio dei nostri figlioletti.” La regina impallidì e le si gelò il sangue, ma disse: “Glielo dobbiamo per la sua grande fedeltà.” E il re si rallegrò che ella pensasse come lui; andò ad aprire l'armadio e ne uscirono i bambini e il fedele Giovanni. Il re disse: “Grazie a Dio egli è libero dall'incantesimo e abbiamo ancora i nostri figlioletti.” E le raccontò tutto quello che era successo. Poi vissero felici insieme fino alla morte.

FINE

 
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Il corvo

Post n°479 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una madre che aveva una bambina piccola e doveva ancora portarla in braccio. Un giorno la bambina era inquieta; la mamma poteva dire ciò che voleva, ma lei non si chetava mai. Allora la donna si spazientì e, poiché‚ c'erano dei corvi che volavano intorno alla casa, aprì la finestra e disse: -Vorrei che fossi un corvo e che volassi via, così sarei tranquilla-. Aveva appena pronunciato queste parole che la bimba si tramutò in corvo e volò via dalle sue braccia, fuori dalla finestra. Volò lontano, senza che nessuno potesse raggiungerla, e andò a rifugiarsi nel folto di un bosco, ove rimase un bel pezzo. Un giorno un uomo passava per il bosco, udì il corvo gridare e seguì la voce; quando si fu avvicinato il corvo disse: -Sono una principessa di stirpe reale, ma sono stata stregata, e tu puoi liberarmi-. -Che cosa debbo fare?- domandò l'uomo. -Va' in quella casa laggiù; troverai una vecchia che ti offrirà da mangiare e da bere. Tu però non prender nulla, poiché‚ la bevanda contiene del sonnifero e non potrai liberarmi. Nel giardino, dietro la casa, c'è un gran mucchio di torba: devi stare lassù ad aspettarmi. Verrò da te alle due del pomeriggio in una carrozza trainata da quattro cavalli bianchi; ma se tu dormi invece di vegliare, io non sarò liberata.- L'uomo promise che avrebbe fatto tutto ciò che ella aveva chiesto, ma il corvo disse: -Ah, so già che non mi libererai! Accetterai qualcosa da quella donna-. L'uomo tornò a promettere che non avrebbe toccato nulla, n‚ cibo n‚ bevanda. Ma quando entrò nella casa la vecchia gli si avvicinò e disse: -Oh, come siete sfinito! Venite a ristorarvi, mangiate e bevete-. -No- rispose l'uomo -non voglio n‚ bere n‚ mangiare.- Ma ella non gli dette pace e disse. -Se non volete mangiare, almeno bevete un sorso dal bicchiere: uno non fa numero-. Egli si lasciò persuadere e bevve un sorso. Il pomeriggio, verso le due, andò fuori in giardino, sul mucchio di torba, e voleva aspettare il corvo. Mentre se ne stava là si sentì all'improvviso molto stanco; non voleva sdraiarsi, ma non pot‚ farne a meno e dovette farlo per un poco; però non voleva addormentarsi. Ma non appena si fu sdraiato, gli si chiusero gli occhi, si addormentò e dormì d'un sonno così profondo che nulla al mondo avrebbe potuto svegliarlo. Alle due arrivò il corvo nella carrozza con i quattro cavalli bianchi, ma era già molto triste e diceva: -So già che dorme-. E, quando entrò in giardino, lo vide disteso sul mucchio di torba, addormentato. Quando fu davanti a lui, scese dalla carrozza, si mise a scuoterlo e a chiamarlo, ma egli non si svegliò. Finalmente, a forza di gridare, riuscì a svegliarlo e gli disse: -Vedo bene che per oggi non puoi liberarmi, ma domani tornerò di nuovo in una carrozza trainata da quattro sauri; ti supplico però di non prender nulla di ciò che ti offre la donna, n‚ da mangiare n‚ da bere-. -No, certamente- rispose egli. Ma il corvo disse: -Ah, so già che prenderai qualcosa!-. Il giorno dopo, verso mezzogiorno, venne la vecchia e gli chiese come mai non mangiasse né bevesse nulla. Egli rispose! -Non voglio n‚ mangiare n‚ bere-. Ma la vecchia gli portò delle vivande: gli mise il piatto sotto il naso, sicché‚ il profumo gli salì alle nari, e riuscì anche a convincerlo a bere un altro sorso. Alle due l'uomo andò in giardino sul mucchio di torba e voleva aspettare il corvo, ma si sentì di nuovo così stanco che le membra non lo reggevano più; non ci fu nulla da fare, dovette sdraiarsi e dormire un po'. Quando arrivò il corvo nella carrozza con i quattro sauri, era di nuovo molto triste e diceva: -So già che dorme-. Quando giunse davanti a lui, lo trovò profondamente addormentato; scese dalla carrozza, lo scosse e cercò di svegliarlo; fu più difficile del giorno precedente, ma alla fine vi riuscì. Allora il corvo disse: -Vedo bene che per oggi non puoi liberarmi; domani pomeriggio, alle due, tornerò ancora un'ultima volta; i miei cavalli e la mia carrozza saranno neri. Ma tu non devi accettare nulla dalla vecchia, n‚ da mangiare, n‚ da bere-. -No, certamente- diss'egli. Ma il corvo disse: -Ah, so già che prenderai qualcosa!-. Il giorno dopo venne la vecchia e chiese come mai non mangiasse n‚ bevesse nulla. Egli disse: -Non voglio n‚ mangiare n‚ bere-. Ma la vecchia disse che doveva almeno assaggiare qualcosa, era così buono! Voleva forse morire di fame? Così egli si lasciò persuadere e bevve ancora un sorso. Quando fu ora, andò in giardino sul mucchio di torba e aspettò la principessa; ma tornò a sentirsi così stanco che non pot‚ resistere, si sdraiò e dormì come un sasso. Alle due arrivò il corvo in una carrozza trainata da quattro cavalli neri, e anche la carrozza era nera e così tutto il resto. Ma era già molto triste e disse: -So già che dorme e che non può liberarmi-. Quando giunse da lui lo trovò profondamente addormentato. Lo scosse e lo chiamò, ma non pot‚ svegliarlo, continuava a dormire. Allora gli mise accanto un pane: poteva mangiarne quanto voleva senza vederlo diminuire; poi un pezzo di carne: anche di questa poteva mangiarne quanto voleva senza che scemasse; infine gli mise accanto una bottiglia di vino: poteva bere quanto voleva senza che il vino diminuisse. Poi si tolse l'anello d'oro che portava al dito e lo infilò in quello di lui: vi era inciso il suo nome. In ultimo gli mise accanto una lettera nella quale gli spiegava ciò che gli aveva dato e che non si poteva mai consumare; inoltre c'era scritto: -Vedo bene che qui non puoi liberarmi; ma se vuoi ancora farlo, vieni al castello d'oro di Stromberg; là potrai liberarmi, lo so di certo-. Dopo avergli dato tutte queste cose, salì in carrozza e andò al castello d'oro di Stromberg. Quando l'uomo si svegliò e si accorse di aver dormito, se ne afflisse motto e disse: -Certo è passata qui davanti e io non l'ho liberata-. Lo sguardo gli cadde sulle cose che aveva accanto, e lesse la lettera dove si diceva com'erano andate le cose. Allora egli si alzò e si mise in cammino per raggiungere il castello d'oro di Stromberg, ma non sapeva dove fosse. Già da un pezzo vagava per il mondo, quando giunse in una foresta buia, e per quindici giorni camminò senza trovare la via d'uscita. Si fece nuovamente sera, ed egli era così stanco che si sdraiò accanto a un cespuglio e si addormentò. Il giorno dopo proseguì il suo cammino e la sera, quando volle sdraiarsi nuovamente accanto a un cespuglio, udì urla e lamenti e non si pot‚ addormentare. E quando fu l'ora in cui si accendono i lumi, ne vide brillare uno, si alzò e andò verso quella luce. Giunse a una casa che pareva tanto piccola perché‚ c'era davanti un gran gigante. Egli pensò: "Se entri potresti forse rimetterci la vita, ma provaci lo stesso-. Si avvicinò e quando il gigante lo vide disse: -Vieni proprio a proposito, non ho mangiato nulla da un pezzo: ti ingoierò per cena!-. -Lascia stare- disse l'uomo -se vuoi mangiare, ho qualcosa che va bene per te.- -Se è così- disse il gigante -mi va bene.- Entrarono, si sedettero a tavola e l'uomo tirò fuori il pane, il vino e la carne che non finivano mai; così tutti e due mangiarono fino a saziarsi. Poi l'uomo disse al gigante: -Non sai dirmi dove si trova il castello d'oro di Stromberg?-. Il gigante rispose: -Andrò a vedere la mia carta geografica, sulla quale si trovano tutte le città, i villaggi e le case-.
Prese così la carta geografica che aveva in camera sua e cercò il castello; ma non c'era. -Non importa- disse -sopra, in un armadio, ho delle carte anche più grandi: vedrò se riesco a trovarlo là.- Andarono a vedere, ma inutilmente. L'uomo voleva proseguire il suo viaggio, ma il gigante lo pregò di aspettare ancora qualche giorno, finché‚ tornasse suo fratello, che era andato via per cercare qualcosa da mangiare. Anche lui aveva una carta geografica, avrebbero cercato ancora una volta insieme, e avrebbero trovato sicuramente il castello. Allora l'uomo aspettò e quando il fratello del gigante tornò disse che non lo sapeva con esattezza, ma comunque credeva che il castello d'oro di Stromberg si trovasse sulla carta. Tutti e tre mangiarono ancora una volta a sazietà, poi il secondo gigante disse: -Vado a vedere se c'è sulla mia carta-. Ma non c'era di nuovo. Allora disse che di sopra aveva una stanza piena di carte geografiche, e doveva andare a vedere là. Quando le ebbe portate di sotto, si misero di nuovo a cercare e finalmente trovarono il castello d'oro di Stromberg; ma era mille miglia lontano. -Come farò a raggiungerlo?- disse l'uomo. -Ho due ore di tempo- disse il gigante. -Ti porterò fin nelle vicinanze, ma poi devo tornare a casa ad allattare il nostro bambino.- Il gigante lo portò all'incirca a cento ore dal castello e disse: -Adesso devo tornare indietro, il resto della strada puoi farlo da te-. -Oh sì!- rispose l'uomo -posso benissimo!- Prima di congedarsi, l'uomo disse ancora: -Sfamiamoci per bene-. Mangiarono insieme, poi il gigante lo salutò e se ne tornò a casa. L'uomo invece andò avanti giorno e notte, finché‚ giunse al castello d'oro di Stromberg. Ma il castello era su di un monte di vetro, sul quale vide la fanciulla stregata in carrozza; egli voleva raggiungerla, ma ogni volta che ci provava scivolava in basso. Allora si rattristò molto e pensò fra s‚: -La cosa migliore che puoi fare è di costruirti una capanna qui; da mangiare e da bere non ti manca-. Così si costruì una capanna e ci restò per un anno intero; e tutti i giorni vedeva la principessa passare con la carrozza in cima al monte, ma non poteva salire fino a lei. Un giorno vide tre giganti che si azzuffavano e gridò loro: -Dio sia con voi!-. A quel grido essi si fermarono ma, non vedendo nessuno, ricominciarono a picchiarsi con gran ferocia. Egli tornò a gridare: -Dio sia con voi!-. Quelli si fermarono di nuovo, si guardarono intorno, ma siccome non vedevano nessuno, ripresero nuovamente a picchiarsi. Allora egli disse per la terza volta: -Dio sia con voi!- e pensò: "Devi proprio andate a vedere che intenzioni hanno quei tre". Andò da loro e domandò perché‚ si picchiassero. Allora uno disse di aver trovato un bastone: se con esso batteva su una porta, questa si spalancava; il secondo disse di aver trovato un mantello: se lo indossava, diventava invisibile; ma il terzo disse di aver catturato un cavallo con il quale si poteva andare sul monte di vetro. Allora l'uomo disse: -Voglio barattare con voi queste tre cose; di denaro veramente non ne ho, ma ho dell'altro che vale di più. Prima però devo fare una prova, per vedere se avete detto la verità-. Quelli lo fecero salire a cavallo, gli misero il mantello addosso e il bastone in mano; e quando egli ebbe tutto ciò, non poterono più vederlo. Allora egli li caricò di botte e gridò: -Adesso siete soddisfatti?- e cavalcò sul monte di vetro. Quando arrivò davanti al castello lo trovò chiuso; allora picchiò alla porta con il bastone, e subito la porta si spalancò. Egli entrò, salì le scale, e nella sala di sopra, trovò la fanciulla che aveva dinanzi a s‚ un calice d'oro colmo di vino; ella tuttavia non poteva vedere l'uomo, poiché‚ egli indossava il mantello. E quando le fu davanti, egli si tolse dal dito l'anello ch'ella gli aveva dato, e lo gettò nel calice che tintinnò. Allora ella esclamò: -E' il mio anello! Deve esserci, dunque, anche l'uomo che mi libererà!-. Lo cercarono in tutto il castello ma non lo trovarono, poiché‚ egli era uscito, si era seduto a cavallo e si era tolto il mantello. Quando uscirono dalla porta, lo videro e gridarono di gioia. Egli scese da cavallo e prese la principessa fra le braccia; ed ella lo baciò e disse: -Adesso mi hai davvero liberata!-. Poi festeggiarono le nozze e vissero felici insieme.

FINE


 

 
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Le tre principesse nere

Post n°478 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una volta una città in oriente era assediata dai nemici, che non volevano togliere l'assedio se prima non venivano dati loro seicento scudi. Allora la città proclamò che colui che avesse potuto procurarli sarebbe diventato borgomastro. Ora c'era un povero pescatore, che pescava in riva al mare con suo figlio; giunsero i nemici, fecero prigioniero il figlio, e in cambio diedero al padre seicento scudi. Il padre andò a darli ai capi della città, i nemici si ritirarono e il pescatore divenne borgomastro. Allora fu stabilito che chi non avesse detto -signor Borgomastro- sarebbe stato impiccato. Il figlio sfuggì ai nemici e arrivò in un grande bosco, su di un'alta montagna. La montagna si aprì ed egli entrò in un grande castello incantato, dove sedie, tavole e panche erano tutte parate a lutto. Arrivarono tre principesse che erano tutte nere, con solo un po' di bianco sul viso. Gli dissero che non doveva avere paura: non gli avrebbero fatto nulla, ed egli poteva liberarle. Egli disse che sì, le avrebbe liberate ben volentieri se avesse saputo cosa fare. Allora dissero che per un anno non doveva parlare con loro n‚ guardarle; se desiderava qualcosa doveva dirlo; se potevano rispondergli l'avrebbero fatto. Dopo aver trascorso là un po' di tempo, egli disse che desiderava andare da suo padre. Le fanciulle risposero che poteva andare, doveva prendere una certa borsa piena di denaro, indossare un certo vestito, ed essere di ritorno entro otto giorni. Egli si sentì sollevare e subito si trovò in quella città dell'oriente. Ma nella capanna suo padre non c'era più, ed egli domandò alla gente che fine avesse fatto il povero pescatore. Allora gli dissero che non doveva dire così, altrimenti sarebbe finito sulla forca. Egli andò da suo padre e disse: -Pescatore, come avete fatto ad arrivare fin qui?-. Il padre rispose: -Non dovete dire così: se i capi della città se ne accorgono, vi impiccheranno-. Ma egli non volle smetterla e fu condotto alla forca. Quando è là, dice: -Oh, miei Signori, datemi il permesso di andare ancora una volta nella vecchia capanna del pescatore-. Là indossa il suo vecchio camiciotto, torna dai signori e dice: -Lo vedete ora? Non sono forse il figlio del povero pescatore? Fino a oggi ho guadagnato il pane per i miei genitori-. Allora lo riconobbero e gli chiesero perdono e se lo portarono a casa, dov'egli raccontò tutto quel che gli era accaduto: ch'era arrivato in un gran bosco, su di un'alta montagna, e la montagna si era aperta, ed egli era entrato in un castello incantato, dove tutto era parato a lutto, ed erano venute tre principesse, che erano tutte nere, salvo un po' di bianco sul viso. Gli avevano detto che non doveva avere paura, e che poteva liberarle. Allora sua madre disse che doveva esserci sotto qualcosa di brutto: egli doveva prendere una candela benedetta e far gocciolare la cera bollente sul viso delle principesse. Egli tornò al castello e aveva una gran paura; fece gocciolare la cera sul viso delle principesse mentre dormivano, ed esse diventarono mezze bianche. Allora saltarono in piedi tutt'e tre e dissero: -Cane maledetto, il nostro sangue griderà vendetta sopra di te! Non è nato nessun altro al mondo che possa liberarci, n‚ nascerà mai più. Ma noi abbiamo ancora tre fratelli, sono legati da sette catene, e ti faranno a pezzi!-. Si udì uno strepito in tutto il castello, ed egli ebbe appena il tempo di saltare dalla finestra, rompendosi una gamba. Il castello sprofondò, la montagna si chiuse, e nessuno seppe più dov'era stato.

FINE

 
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I tre omini del bosco

Post n°477 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un uomo a cui morì la moglie e una donna a cui morì il marito; l'uomo aveva una figlia e la donna pure. Le due ragazze erano amiche e andando a spasso insieme si recarono un giorno, a casa della donna.

Ella disse alla figlia dell'uomo: "Ascolta, di' a tuo padre che vorrei sposarlo; poi ogni mattina ti laverai nel latte e berrai vino; mia figlia invece si laverà nell'acqua e berrà acqua." La fanciulla andò a casa e raccontò al padre ciò che la donna le aveva detto. L'uomo disse: "Che cosa devo fare? Sposarsi è una gioia e un tormento insieme!" Infine si tolse lo stivale e disse: "Prendi questo stivale che ha un buco nella suola; vai in solaio, appendilo al chiodo grosso e versaci dentro dell'acqua. Se tiene, prenderò di nuovo moglie; ma se l'acqua cola, non la prenderò." La fanciulla fece come le era stato ordinato; ma l'acqua restrinse il buco e lo stivale si riempì fino all'orlo. Allora riferì al padre com'era andata; egli stesso salì in solaio e quando vide che era proprio vero andò dalla vedova, la chiese in sposa, e furono celebrate le nozze.

La mattina dopo, quando le due fanciulle si alzarono, davanti alla figlia dell'uomo c'era latte per lavarsi e vino da bere mentre davanti alla figlia della donna c'era acqua per lavarsi e acqua da bere. La seconda mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere sia davanti all'una sia davanti all'altra. E la terza mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere davanti alla figlia dell'uomo, e latte per lavarsi e vino da bere davanti alla figlia della donna; e così fu sempre. La donna si accanì contro la figliastra e non sapeva cosa inventare per farla stare ogni giorno peggio. Era anche invidiosa, perché‚ la figliastra era bella e amabile, mentre la figlia vera era brutta e antipatica.

Una volta, d'inverno, che c'era un gelo da spaccare le pietre e il monte e la valle erano coperti di neve, la donna fece un vestito di carta, chiamò la figliastra e disse: "Su, mettiti questo vestito va' nel bosco e raccoglimi un cestino di fragole: ne ho voglia." - "Buon Dio," disse la fanciulla, "d'inverno non crescono le fragole, la terra è gelata e la neve ha coperto tutto. E come posso andare con l'abito di carta? Fuori fa così freddo che gela il fiato, il vento lo attraverserà e le spine me lo strapperanno di dosso." - "Vuoi anche contraddirmi?" disse la matrigna. "Vattene e non farti vedere se non hai riempito il cestino di fragole." Poi le diede anche un pezzetto di pane duro e disse: "Così hai da mangiare per tutto il giorno." E pensava: Fuori gelerà e morirà di fame: non mi comparirà mai più davanti agli occhi.

La fanciulla obbedì, indossò il vestito di carta e uscì col cestino. Da ogni parte non c'era che neve e neanche un filo di verde. Quando giunse nel bosco, vide una piccola casetta dalla quale sbirciavano tre nani. La fanciulla diede loro il buongiorno e bussò alla porta.

Essi gridarono: "Avanti!" ed ella entrò nella stanza e si sedette sulla panca accanto alla stufa; voleva scaldarsi e mangiare la sua colazione. I nani dissero: "Danne un po' anche a noi." - "Volentieri," ella disse; divise in due il suo pezzetto di pane e ne diede loro metà. Essi domandarono: "Che cosa cerchi nel bosco d'inverno, con quel vestitino leggero?" - "Ah," rispose ella, "devo riempire un cestino di fragole, e non posso tornare a casa se non le trovo." Quando ebbe mangiato il suo pane, essi le diedero una scopa e dissero: "Spazza via la neve davanti alla porta, dietro casa." Ma come fu uscita, i tre omini dissero fra loro: "Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così gentile e buona e ha diviso il suo pane con noi?"

Allora disse il primo: "Che diventi più bella ogni giorno."

Disse il secondo: "Che le cadano di bocca monete d'oro a ogni parola che dice."

Il terzo disse: "Che venga un re e la sposi."

La fanciulla, con la scopa dei nani, spazzò via la neve dietro alla piccola casetta, e là sotto era tutto rosso di belle fragole mature. Allora, con gran gioia, si affrettò a riempire il cestino, ringraziò gli omini, prese congedo da loro e corse a casa a portare le fragole alla matrigna.

Quando entrò e disse: "Buona sera!" subito le cadde di bocca una moneta d'oro. Poi raccontò quel che le era accaduto nel bosco, e a ogni parola che diceva le uscivano di bocca le monete d'oro, cosicché‚ ben presto l'intera casa ne fu piena. Ma la sorellastra divenne invidiosa e insistette a lungo con la madre perché‚ la mandasse nel bosco. Questa però non voleva e disse: "No, mia cara piccina, è troppo freddo, potresti gelare." Ma dato che la figlia continuava ad insistere e non la lasciava in pace, finì col cedere, ma prima le cucì un magnifico giubbetto di pelliccia, glielo fece indossare e le diede pane, burro e focaccia da mangiare per la strada. La fanciulla giunse nel bosco proprio dove si trovava la casetta.

Anche questa volta i tre nanetti sbirciavano fuori, ma lei non li salutò ed entrò nella stanza senza indugio, sedette vicino alla stufa e incominciò a mangiare il suo pane imburrato e la sua focaccia. "Daccene un po'," esclamarono i nani, ma ella rispose: "Non basta neanche a me, come potrei darne ad altri?"

Quando ebbe finito di mangiare, essi dissero: "Eccoti una scopa, spazza davanti alla porta dietro casa." - "Sì, spazzate voi," rispose, "non sono mica la vostra serva!" Quando vide che non volevano regalarle nulla, prese la porta. Allora gli omini dissero fra loro: "Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così scortese e ha un cuore cattivo e invidioso, senza carità?"

Il primo disse: "Che diventi ogni giorno più brutta."

Il secondo disse: "Che le esca di bocca un rospo a ogni parola che dice."

Il terzo disse: "Che muoia di mala morte."

La ragazza fuori cercò le fragole ma, non avendone trovata neanche una, andò a casa stizzita. E quando aprì la bocca per raccontare a sua madre quel che le era successo nel bosco, a ogni parola le saltava fuori un rospo, cosicché‚ tutti avevano ribrezzo di lei. Allora la matrigna si adirò ancora di più e pensava soltanto a tormentare la figlia del marito, che tuttavia ogni giorno diventava più bella. Infine prese un paiolo, lo mise sul fuoco e vi fece bollire del filo. Quando fu bollito lo diede alla povera ragazza insieme a una scure, perché‚ andasse sul fiume gelato, aprisse un buco nel ghiaccio e vi immergesse il filo.

Ella obbedì, andò e fece un buco nel ghiaccio; e, mentre adoperava la scure, arrivò una splendida carrozza in cui sedeva il re. Questi si fermò e chiese: "Bimba mia, cosa fai qui?" - "Sono una povera fanciulla e bagno il filo." Allora il re si impietosì e vedendo che era così bella disse: "Vuoi venire con me?" - "Ah sì, di tutto cuore," ella rispose; poiché‚ era felice di lasciare la madre e la sorella.

Salì dunque in carrozza e partì con il re, e quando giunsero al castello si celebrarono le nozze con gran pompa, come gli omini avevano augurato alla fanciulla. Dopo un anno la giovane regina partorì un bambino e, quando la matrigna venne a sapere la fortuna che le era toccata, venne con sua figlia con il pretesto di farle visita. Ma una volta che il re non era in casa, e non c'era nessun altro, la perfida donna afferrò la regina per la testa e sua figlia l'afferrò per i piedi, la sollevarono dal letto e la gettarono dalla finestra nel fiume che scorreva là sotto. Poi la matrigna fece distendere la brutta figlia nel letto e la coprì fin sopra la testa. Quando il re fu di ritorno e volle parlare con sua moglie, la vecchia gridò: "Zitto, zitto, adesso no: è tutta in sudore, dovete lasciarla riposare per oggi."

Il re non pensò a nulla di malvagio e tornò soltanto la mattina dopo, e quando parlò con sua moglie ed ella dovette rispondergli, a ogni parola saltava fuori un rospo, mentre di solito cadeva una moneta d'oro. Allora egli chiese di che cosa si trattasse, ma la vecchia disse che era l'effetto di quella gran sudata e che poi tutto sarebbe scomparso.

Ma quella notte lo sguattero vide un'anatra che veniva nuotando lungo la canaletta di scolo dell'acqua e che disse:
"Che fa a quest'ora il mio Sire?
Veglia o è già andato a dormire?"
E, siccome egli non diede risposta, aggiunse:
"Le mie ospiti che stan facendo?"
Lo sguattero rispose:
"A quest'ora stanno dormendo."
Ha chiesto:
"E il mio bimbo che cosa fa?"
Egli rispose:
"Nel suo lettino dorme di già!"
Allora ella prese le sembianze della regina, allattò il bambino, gli sprimacciò il lettino, lo coprì e nuotò via lungo lo scolo dell'acqua con l'aspetto di anatra. Allo stesso modo venne per due notti; la terza disse allo sguattero: "Vai e di' al re che prenda la spada e, sulla soglia, la brandisca per tre volte sul mio capo." Lo sguattero corse a dirlo al re; questi venne con la sua spada e la brandì tre volte sullo spettro, e alla terza volta gli apparve la sua sposa, viva e sana come prima.

Il re era felice ma tenne la regina nascosta in una camera fino alla domenica, giorno in cui il bambino doveva essere battezzato. Dopo il battesimo, disse: "Che cosa merita una persona che ne toglie un'altra dal letto e la getta in acqua?" - "Ah," rispose la vecchia, "che sia messa in una botte foderata di chiodi e fatta rotolare giù per il monte nell'acqua." Allora il re mandò a prendere una botte siffatta e vi fece mettere dentro la vecchia e sua figlia; poi ne inchiodarono il fondo e la fecero ruzzolare giù per il pendio, fin che rotolò nel fiume.

FINE


 
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Il re Bazza di Tordo

Post n°476 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un re aveva una figlia di straordinaria bellezza, ma molto altera e sdegnosa, sicché‚ nessun pretendente le pareva degno di lei, ed ella li respingeva l'uno dopo l'altro, deridendoli per giunta. Una volta il re ordinò una gran festa e invitò quanti desiderassero ammogliarsi. I pretendenti furono messi in fila secondo il grado e il ceto: prima i re, poi i duchi, i principi, i conti e i baroni, e infine i nobili. La principessa fu condotta fra di loro, ma a ciascuno trovava qualcosa da ridire: questo era troppo grasso: -Che botte!- esclamava; quello era troppo lungo: -Lungo, lungo, alto fin là, bella andatura proprio non ha!-; il terzo troppo piccolo: -Così grasso e piccolino, sembra proprio un maialino!-; il quarto troppo pallido: -Terreo come la morte!-; il quinto troppo rosso: -Che tacchino!-; il sesto non era perfettamente diritto: -Legna verde seccata dietro la stufa!-. E così trovava sempre qualcosa da ridire su ciascuno; ma in particolare beffeggiò un buon re che si trovava in prima fila e aveva il mento un po' ricurvo. -Oh- esclamò ridendo -quello ha il mento come il becco di un tordo!- E da quel momento lo chiamarono Bazza di Tordo. Ma il vecchio re andò in collera vedendo che la figlia non faceva altro che prendersi gioco dei pretendenti là riuniti, sdegnandoli, e giurò di darla in moglie al primo mendicante che bussasse alla sua porta. Qualche giorno più tardi un suonatore si mise a cantare sotto la finestra per avere una piccola elemosina. Quando il re l'udì, disse: -Fatelo salire!-. Entrò un suonatore lurido e cencioso, cantò davanti al re e a sua figlia e, quand'ebbe finito, domandò una modesta ricompensa. Il re disse: -Il tuo canto mi è così piaciuto che voglio darti mia figlia in isposa-. La principessa inorridì, ma il re disse: -Ho fatto giuramento di darti al primo accattone e lo manterrò-. A nulla valsero le proteste: fu chiamato il parroco ed ella dovette sposare il suonatore. Celebrate le nozze, il re disse: -Non si confà che la moglie di un mendicante abiti nel mio castello, non hai che da andartene con tuo marito-. Il mendicante se ne andò così insieme a lei. Arrivarono in un grande bosco ed ella domandò:-Questo bel bosco a chi appartiene?- -Bazza di Tordo in suo poter lo tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato.- -Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!-Poi attraversarono un bel prato ed ella chiese ancora:-Questo prato verde a chi appartiene?- -Bazza di Tordo in suo poter lo tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato.- -Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!-Giunsero poi in una gran città ed ella tornò a domandare:-Che prospera città! A chi appartiene?- -Bazza di Tordo in suo poter la tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato.- -Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!-Allora il suonatore disse: -Non mi garba affatto che tu rimpianga sempre un altro marito; non ti basto io, forse?-. Finalmente giunsero ad una piccola casetta, ed ella disse:-Ah, Dio mio! Che casa piccina! A chi appartiene la povera casina?-Il suonatore rispose: -E' la mia casa e la tua, dove abiteremo insieme-. -Dove sono i servi?- chiese la principessa. -macché‚ servi!- rispose il mendicante -devi farti da sola ciò che vuoi. Accendi subito il fuoco e metti l'acqua a bollire per la cena: sono stanco morto.- Ma la principessa non sapeva n‚ accendere il fuoco n‚ cucinare, e il mendicante dovette darle una mano perché‚ potesse cavarsela. Quand'ebbero mangiato il pasto frugale, si coricarono ma, il mattino dopo, egli la buttò fuori dal letto di buon'ora perché‚ sbrigasse le faccende di casa. Per un paio di giorni vissero così alla meno peggio e consumarono le loro provviste. Poi l'uomo disse: -Moglie, non possiamo continuare così, a mangiare senza guadagnare. Farai dei canestri-. Andò a tagliare dei giunchi e li portò a casa; ella incominciò a intrecciarli, ma i giunchi duri le ferivano le mani delicate. -Vedo che non va- disse l'uomo. -Fila piuttosto forse ti riesce meglio.- Ella si mise a sedere e cercò di filare; ma il filo duro le tagliò ben presto le tenere dita facendole sanguinare. -Vedi- disse l'uomo -non sei buona a nulla: con te sono capitato male. Be', voglio provare a commerciare in pentole e stoviglie di terra: venderai la merce al mercato- "Ah," pensò la principessa "se viene al mercato gente dal regno di mio padre, e mi vede seduta a vendere, si farà beffe di me!" Ma non c'era via d'uscita, dovette andarci se non voleva morir di fame. La prima volta andò bene: per la sua grande bellezza, la gente comprava volentieri la sua merce e pagava ciò che ella chiedeva; molti le diedero addirittura il denaro lasciandole le pentole. Tirarono avanti con quel guadagno finché‚ durò, poi l'uomo acquistò un altro mucchio di stoviglie. Ella si mise a sedere in un angolo del mercato ed espose la merce in vendita intorno a s‚. Ma improvvisamente arrivò al galoppo un ussaro ubriaco che finì con il cavallo proprio fra le pentole, mandandole in mille pezzi. Ella si mise a piangere e per l'affanno non sapeva che fare. -Ah, che sarà di me!- esclamò. -Cosa dirà mio marito!- Corse a casa e gli raccontò l'accaduto. -Chi mai va a sedersi all'angolo del mercato con stoviglie di terra!- disse l'uomo. -Smettila di piangere, vedo bene che non sei buona a nulla. Proprio per questo sono stato al castello del nostro re e ho domandato se aveva bisogno di una sguattera; mi hanno promesso che ti prenderanno, in cambio ti daranno da mangiare.- Così la principessa diventò sguattera; dovette aiutare il cuoco ed eseguire i lavori più faticosi. A ogni tasca fissava un pentolino per portare a casa gli avanzi; e così campavano. Ora avvenne che si dovevano celebrare le nozze del figlio primogenito del re; la povera donna salì le scale e si mise davanti alla porta della sala per guardare. Fra tanto lusso e splendore, ella pensava tutta afflitta al suo destino e malediva la superbia e l'arroganza che l'avevano precipitata in tanta miseria. Ogni tanto i servi le buttavano qualche avanzo dei piatti deliziosi che venivano serviti, ed ella li metteva nei suoi pentolini per portarli a casa. D'un tratto entrò il principe tutto vestito d'oro e, quando vide la bella donna sulla porta, la prese per mano e voleva ballare con lei. Ma lei rifiutò, spaventata, poiché‚ riconobbe il re Bazza di Tordo, il pretendente che aveva respinto e dileggiato. Mentre ella faceva resistenza, il principe la tirò nella sala; così si ruppe il cordino da cui pendevano le tasche: i pentolini caddero a terra facendo colar fuori la minestra e gli avanzi si sparsero qua e là. A quella vista, tutti scoppiarono a ridere, sbeffeggiandola; ed ella si vergognò tanto che avrebbe preferito essere mille braccia sotto terra. Corse alla porta e voleva fuggire, ma sulle scale un uomo la raggiunse e la riportò indietro. E quando ella lo guardò, vide che era di nuovo il re Bazza di Tordo. -Non aver paura- le disse questi -io e il suonatore che abitava con te nella misera casetta siamo la stessa persona: per amor tuo mi sono travestito così: e sono anche l'ussaro che ti ha spezzato le stoviglie. Tutto ciò è accaduto per spezzare il tuo orgoglio e per punire l'arroganza con la quale ti sei presa gioco di me. Ma ora tutto è finito, e adesso festeggeremo le nostre nozze.- Allora vennero le ancelle e le fecero indossare le vesti più sontuose, e venne il padre della principessa con tutta la corte per farle gli auguri per il suo sposalizio con il re Bazza di Tordo; e la vera festa incominciò solo allora. Se io e te ci fossimo stati!

FINE



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Lo zaino,il cappellino e la cornetta

Post n°475 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta tre fratelli tanto poveri e, quando la loro miseria crebbe al punto che essi non avevano più nulla da mettere sotto i denti, decisero di andarsene in giro per il mondo per cercare fortuna altrove. Cammina cammina per campi e strade, arrivarono infine in un gran bosco dove c'era un monte d'argento. Il maggiore, soddisfatto, ne prese quanto poteva trasportarne e ritornò a casa; gli altri due invece si augurarono una maggior fortuna, perciò non toccarono l'argento e proseguirono. Dopo aver fatto un bel pezzo di strada, arrivarono a una montagna che era tutta d'oro. Il secondo fratello disse: -Che devo fare? Devo arricchirmi con quest'oro, o andare avanti?-. Si fermò a riflettere, ma alla fine si mise in tasca tutto quel che pot‚ e se ne ritornò a casa. Il fratello minore invece pensò: "Oro e argento non mi toccano: non voglio perdere la mia fortuna, forse mi aspetta qualcosa di meglio-. Lasciò l'oro dov'era, proseguì e dopo tre giorni giunse in un'immensa foresta che non finiva mai; e siccome egli non aveva da mangiare n‚ da bere, fu sul punto di morire di fame. Allora salì su di un albero alto, per vedere se di lassù riusciva a scorgere il limite del bosco, ma non vide che cime d'alberi a perdita d'occhio. Scese dall'albero pensando: "Potessi almeno saziarmi una volta!". Quando fu a terra il suo desiderio si era esaudito: ai piedi dell'albero si trovava infatti un tavolo abbondantemente apparecchiato con cibi di ogni sorta il cui profumo giunse alle sue narici. -Viene proprio a proposito!- diss'egli, s'avvicinò alla tavola e mangiò di gusto finché‚ si fu cavata la fame. Quand'ebbe finito, prese la tovaglietta, la piegò accuratamente e la mise nella bisaccia. Poi proseguì e la sera, quando ebbe di nuovo fame, tirò fuori la tovaglietta, la spiegò e disse: -Desidero che tu ti copra di cibi squisiti-. E d'un tratto comparve una gran quantità di piatti di portata colmi di ogni ben di Dio. Egli comprese così che si trattava di una tovaglietta magica ed esclamò: -Mi sei ben più cara dell'argento e dell'oro!-. Ma non volle ancora tornare a casa e proseguì il suo cammino in giro per il mondo. Una sera giunse da un carbonaio che stava facendo carbone e aveva messo sul fuoco delle patate per cena. Chiacchierarono un po'. Poi il carbonaio invitò il giovane a mangiare le patate con lui. -No- rispose -non voglio toglierti la cena; sarai tu a essere mio ospite.- -E chi preparerà?- disse il carbonaio. -Vedo bene che non hai niente con te.- -Eppure sarà un'ottima cena- rispose il giovane. Prese dalla bisaccia la tovaglietta, la spiegò, formulò il suo desiderio, ed ecco apparire i piatti già bell'e pronti. Il carbonaio strabuzzò gli occhi per lo stupore, ma poi allungò la mano e si servì. Quand'ebbero finito di mangiare, il carbonaio disse: -La tua tovaglietta mi piace, se vuoi fare cambio ti do un vecchio zaino militare che è dotato di virtù magiche e che io non uso più-. -In che cosa consiste la sua virtù?- domandò il giovane. Il carbonaio rispose: -Se lo batti con la mano, compare ogni volta un caporale con sei uomini provvisti di moschetto e arma bianca, ed essi fanno quello che tu ordini-. -Se così deve essere- rispose l'altro -il cambio mi sta bene.- Così il carbonaio si tenne la tovaglietta, mentre il giovane se ne andò con lo zaino. Quand'ebbe fatto un tratto di strada disse: -Devo provare le virtù magiche dello zaino- e bussò. Subito comparvero i sette eroi e il caporale disse: -Cosa comanda il mio signore?-. -Andate dal carbonaio e riprendetegli la tovaglietta magica.- Fianco sinist e, dopo non molto tempo, ritornarono con l'oggetto richiesto, sottratto al carbonaio senza fare troppi complimenti. Egli ordinò loro di ritirarsi e proseguì, sperando che la fortuna lo favorisse sempre. Al tramonto arrivò da un altro carbonaio che si stava preparando la cena sul fuoco. -Salute a te!- disse il carbonaio. -Se vuoi mangiare con me patate senza strutto, non hai che da servirti.- -No- rispose egli -per questa volta sarai tu mio ospite.- Stese la tovaglietta che subito si ricoprì di ogni ben di Dio, ed essi mangiarono e bevvero insieme allegramente. Dopo cena il carbonaio disse: -Darei l'anima per avere la tua tovaglietta! Là c'è un cappellino che non mi serve a nulla: se uno lo mette in testa e lo fa girare, le colubrine sparano come se ne avessero appostate dodici in fila e distruggono tutto. Se mi lasci la tovaglietta ti darò il cappello-. Il giovane accettò, prese il cappello e lasciò la tovaglietta. Ma non aveva fatto molta strada che picchiò sul suo zaino e disse al caporale: -Vai con i tuoi sei uomini e riportami la tovaglietta magica-. I soldati gliela riportarono: così egli ci guadagnò il cappello. Tuttavia non voleva fare ritorno a casa e pensava: "Non è ancora ora che torni; devo proseguire". Ma il bosco non aveva fine, ed egli dovette camminare ancora per un giorno intero. La sera giunse da un terzo carbonaio che, come gli altri, lo invitò a mangiare patate senza strutto. Ma egli divise con lui la cena della tovaglietta magica, e il carbonaio mangiò così di gusto, che finì coll'offrirgli una cornetta. A suonarla crollavano tutte le fortificazioni, le città e i villaggi. Egli lascio la tovaglietta al carbonaio, ma la fece reclamare subito dopo dalla soldatesca, sicché‚ alla fine aveva zaino, cappellino e cornetta insieme. -Ora sono a posto- disse -è tempo che faccia ritorno a casa a vedere come se la passano i miei fratelli.- All'arrivo, trovò che essi vivevano nel fasto grazie alla ricchezza accumulata. Ma quando lo scorsero, in abiti vecchi e laceri, non vollero riconoscerlo e lo scacciarono. Allora egli andò in collera e picchiò sullo zaino finché‚ non ebbe davanti centocinquanta uomini. Ordinò loro di dare una bella lezione ai due fratelli, perché‚ si ricordassero chi egli fosse. Scoppiò un gran baccano, e l'intero paese accorse in aiuto dei due malcapitati; i soldati, tuttavia, erano invincibili. Ne fu informato il re che mandò un capitano con la sua truppa. Ma l'uomo dagli strumenti magici, vedendoli venire, picchiò sullo zaino e radunò altri soldati e cavalieri, sicché‚ il capitano e i suoi uomini furono respinti e dovettero ritirarsi con la faccia pesta. Il re disse: -Bisogna assolutamente sottometterlo!- e il giorno seguente gli mandò contro truppe più numerose. Ma il giovane picchiò sullo zaino finché‚ non si trovò davanti un intero esercito schierato, al quale ordinò di scagliarsi sul nemico. Poi girò un paio di volte il suo cappellino: allora incominciarono a sparare le artiglierie pesanti e gli uomini del re furono battuti e messi in fuga. -Adesso non faccio la pace- diss'egli -se non mi danno la principessa in sposa, e tutto il regno da governare in nome del re.- Il re disse alla figlia: -E' dura da digerire, ma se voglio mantenere la pace e conservare la corona, devo cederti-. Così furono celebrate le nozze, ma la principessa non accettava di essere stata costretta a sposare un uomo tanto sgradevole; rimuginava giorno e notte sul modo di sbarazzarsene e nessun pensiero le era più gradito. Tentò di scoprire su che cosa si fondasse il suo potere, ed egli stesso finì col rivelarle la magia dello zaino. Allora ella prese a fargli mille moine per farselo dare e quando finalmente lo ottenne, abbandonò il marito. Allora egli radunò l'esercito, ma la principessa picchiò sullo zaino aumentando del doppio il numero dei propri soldati. Egli sarebbe stato perduto se non avesse avuto il cappellino. Se lo mise in testa e lo fece girare un paio di volte: subito presero a tuonare le artiglierie e tutto crollò; sicché‚ la principessa stessa dovette andare a chiedere grazia. Egli si lasciò persuadere e le accordò la pace. Dopo non molto tempo, la principessa ricominciò a fare delle indagini e, accortasi dei poteri del cappellino, riuscì a convincere il marito a farselo dare a furia di chiacchiere. Ma non appena l'ebbe ottenuto, fece cacciare lo sposo, pensando così di averla spuntata. Ma egli prese la cornetta e si mise a suonarla: e subito crollarono mura e fortini, città e villaggi, seppellendo il re e la principessa. E se egli non avesse deposto la cornetta e l'avesse suonata ancora un po', tutto sarebbe finito in un cumulo di macerie e non sarebbe rimasta pietra su pietra. Così sopravvisse solo lui e regnò su tutto il paese.

FINE

Immagine: Lo zaino, il cappellino e la cornetta (Grimm)

 
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E due! (Pirandello)

Post n°474 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Dopo aver vagato a lungo per il quartiere addormentato dei Prati di Castello, rasentando i muri delle caserme, sfuggendo istintivamente il lume dei lampioni sotto gli alberi dei lunghissimi viali, pervenuto alla fine sul Lungotevere dei Mellini, Diego Bronner montò, stanco, sul parapetto dell'argine deserto e vi si pose a sedere, volto verso il fiume, con le gambe penzoloni nel vuoto.
Non un lume acceso nelle case di fronte, della Passeggiata di Ripetta, avvolte nell'ombra e stagliate nere nel chiaror lieve e ampio che, di là da esse, la città diffondeva nella notte. Immobili, le foglie degli alberi del viale, lungo l'argine. Solo, nel gran silenzio, s'udiva un lontanissimo zirlio di grilli e - sotto - il cupo borbogliare delle acque nere del fiume, in cui, con un tremolio continuo, serpentino, si riflettevano i lumi dell'argine opposto.
Correva per il cielo una trama fitta d'infinite nuvolette lievi, basse, cineree, come se fossero chiamate in fretta di là, di là, verso levante, a un misterioso convegno, e pareva che la luna, dall'alto, le passasse in rassegna.
Il Bronner stette un pezzo col volto in su a contemplar quella fuga, che animava con così misteriosa vivacità il silenzio luminoso di quella notte di luna. A un tratto udì un rumor di passi sul vicino ponte Margherita e si volse a guardare.

Il rumore dei passi cessò.
Forse qualcuno, come lui, s'era messo a contemplare quelle nuvolette e la luna che le passava in rassegna, o il fiume con quei tremuli riflessi dei lumi nell'acqua nera fluente.
Trasse un lungo sospiro e tornò a guardare in cielo, un po' infastidito della presenza di quell'ignoto, che gli turbava il triste piacere di sentirsi solo. Ma egli, qua, era nell'ombra degli alberi: pensò che colui, dunque, non avrebbe potuto scorgerlo; e quasi per accertarsene, si voltò di nuovo a guardare.
Presso un fanale imbasato sul parapetto del ponte scorse un uomo in ombra. Non comprese dapprima che cosa colui stesse a far lì, silenziosamente. Gli vide posare come un involto su la cimasa, a piè del fanale. - Involto? No: era il cappello. E ora? che! Possibile? Ora scavalcava il parapetto. Possibile?
Istintivamente il Bronner si trasse indietro col busto, protendendo le mani e strizzando gli occhi; si restrinse tutto in sé; udì il tonfo terribile nel fiume.
Un suicidio? Così?

Riaprì gli occhi, riaffondò lo sguardo nel bujo. Nulla. L'acqua nera. Non un grido. Nessuno. Si guardò attorno. Silenzio, quiete. Nessuno aveva veduto? nessuno udito? E quell'uomo intanto affogava... E lui non si moveva, annichilito. Gridare? Troppo tardi, ormai. Raggomitolato nell'ombra, tutto tremante, lasciò che la sorte atroce di quell'uomo si compisse, pur sentendosi schiacciare dalla complicità del suo silenzio con la notte, e domandandosi di tratto in tratto: «Sarà finito? sarà finito?» come se con gli occhi chiusi vedesse quell'infelice dibattersi nella lotta disperata col fiume.
Riaprendo gli occhi, risollevandosi, dopo quel momento d'orribile angoscia, la quiete profonda della città dormente, vegliata dai fanali, gli parve un sogno. Ma come guizzavano ora quei riflessi dei lumi nell'acqua nera! Rivolse paurosamente lo sguardo al parapetto del ponte: vide il cappello lasciato lì da quell'ignoto. Il fanale lo illuminava sinistramente. Fu scosso da un lungo brivido alle reni, e col sangue che gli frizzava ancora per le vene, in preda a un tremito convulso di tutti i muscoli, come se quel cappello là potesse accusarlo, scese e, cercando l'ombra, s'avviò rapidamente verso casa.

- Diego, che hai?

- Nulla, mamma. Che ho?

- No, mi pareva... È già tardi...

- Non voglio che tu m'aspetti, lo sai; te l'ho detto tante volte. Lasciami rincasare quando mi fa comodo.

- Sì, sì. Ma vedi, stavo a cucire... Vuoi che t'accenda il lumino da notte?

- Dio, me lo domandi ogni sera!

La vecchia madre, come sferzata da questa risposta alla domanda superflua, corse, curva, trascinando un po' una gamba, ad accendergli in camera il lumino da notte e a preparargli il letto.
Egli la seguì con gli occhi, quasi con rancore; ma, com'ella scomparve dietro l'uscio, trasse un sospiro di pietà per lei. Subito però il fastidio lo riprese.
E rimase lì ad aspettare, senza saper perché, né che cosa, in quella tetra saletta d'ingresso che aveva il soffitto basso basso, di tela fuligginosa, qua e là strappata e con lo strambello pendente, in cui le mosche s'eran raccolte e dormivano a grappoli.
Vecchi arredi decaduti, mescolati con rozzi mobili e oggetti nuovi di sartoria, stipavano quella saletta: una macchina da cucire, due impettiti manichini di vimini, una tavola liscia massiccia per tagliarvi le stoffe, con un grosso pajo di forbici, il gesso, il metro e alcuni smorfiosi giornali di moda.
Ma, ora, il Bronner, percepiva appena tutto questo.
S'era portato con sé, come uno scenario, lo spettacolo di quel cielo corso da quelle nuvolette basse e lievi; e del fiume con quei riflessi dei fanali; lo spettacolo di quelle alte case nell'ombra, là dirimpetto stagliate nel chiarore della città, e di quel ponte con quel cappello... E l'impressione spaventosa, come di sogno, dell'impassibilità di tutte quelle cose ch'erano con lui là, presenti, più presenti di lui, perché lui, anzi, nascosto nell'ombra degli alberi, era veramente come se non ci fosse. Ma il suo orrore, lo sconvolgimento, adesso, erano appunto per questo, per esser egli rimasto lì in quell'attimo come quelle cose, presente e assente, notte, silenzio, argine, alberi, lumi, senza gridare ajuto, come se non ci fosse; e il sentirsi ora qua stordito, stralunato, come se quello che aveva veduto e sentito, lo avesse sognato.

A un tratto vide venire a posarsi con un balzo agile e netto, là su la tavola massiccia, il grosso gatto bigio di casa. Due occhi verdi, immobili e vani.
Ebbe un momentaneo terrore di quegli occhi, e aggrottò le ciglia, urtato.
Pochi giorni addietro, quel gatto era riuscito a far cadere dal muro di quella saletta una gabbia col cardellino, di cui sua madre aveva cura amorosa. Con industriosa e paziente ferocia, cacciando le granfie di tra le gretole, l'aveva tratto fuori e se l'era mangiato. La madre non se ne sapeva ancora dar pace; anche lui pensava tuttora allo scempio di quel cardellino; ma il gatto, eccolo là: del tutto ignaro del male che aveva fatto. Se egli lo avesse cacciato via da quella tavola sgarbatamente, non ne avrebbe mica capito il perché.
Ed ecco già due prove contro di lui, quella sera. Due altre prove. E questa seconda gli balzava innanzi all'improvviso, con quel gatto; come all'improvviso gli era venuta l'altra, con quel suicidio dal ponte. Una prova; che egli non poteva essere come quel gatto là che, compiuto uno scempio, un momento dopo non ci pensava più; l'altra prova: che gli uomini, alla presenza d'un fatto, non potevano restare impassibili come le cose, per quanto come lui si forzassero, non solo a non parteciparvi, ma anche a tenersene quasi assenti.
La dannazione del ricordo in sé, e il non poter sperare che gli altri dimenticassero. Ecco. Queste due prove. Una dannazione e una disperazione.
Che modo nuovo di guardare avevano acquistato da un pezzo in qua i suoi occhi? Guardava sua madre, ritornata or ora dall'avergli apparecchiato il letto di là e acceso il lumino da notte, e la vedeva non più come sua madre, ma come una povera vecchia qualunque, quale essa era per sé, con quel grosso porro accanto alla pinna destra del naso un po' schiacciato, le guance esangui e flaccide, striate da venicciuole violette, e quegli occhi stanchi che subito, sotto lo sguardo di lui così stranamente spietato, le s'abbassavano, ecco, dietro gli occhiali, quasi per vergogna, di che? Ah, egli lo sapeva bene, di che. Rise d'un brutto riso; disse:

- Buona notte, mamma.

E andò a chiudersi in camera.
La vecchia madre, piano piano per non farsi sentire, si rimise a sedere nella saletta e a cucire: a pensare.
Dio, perché così pallido e stravolto, quella notte? Bere, non beveva, o almeno dal fiato non si sentiva. Ma se fosse ricaduto in mano dei cattivi compagni che lo avevano rovinato, o fors'anche di peggiori?
Questa era la paura sua più grave.
Tendeva di tanto in tanto l'orecchio per sentire che cosa egli facesse di là, se si fosse coricato, se già dormisse; e intanto ripuliva gli occhiali, che a ogni sospiro le s'appannavano. Lei, prima d'andare a letto, voleva finire quel lavoro. La pensioncina che il marito le aveva lasciato, non bastava più, ora che Diego aveva perduto l'impiego. E poi accarezzava un sogno, che pur sarebbe stato la sua morte: metter tanto da parte, lavorando e risparmiando, da mandare il figlio lontano, in America. Perché qua, lo capiva, il suo Diego, ora, non avrebbe trovato più da collocarsi, e nel triste ozio, che da sette mesi lo divorava, si sarebbe perduto per sempre.
In America... là - oh, il suo figliuolo era tanto bravo! sapeva tante cose! scriveva, prima, anche nei giornali... - in America, là, - lei magari ne sarebbe morta - ma il suo figliuolo avrebbe ripreso la vita, avrebbe dimenticato, cancellato il suo fallo di gioventù, di cui erano stati cagione i cattivi compagni: quel Russo, o Polacco che fosse, pazzo, crapulone, capitato a Roma per la sciagura di tante oneste famiglie. Giovinastri, si sa! Invitati a casa da questo forestiere, riccone e scostumato, avevano fatto pazzie: vino, donnacce... s'ubriacavano... Ubriaco, quello voleva giocare a carte, e perdeva... Se l'era procacciata da sé, con le sue mani, la rovina: che c'entrava poi l'accusa a tradimento dei suoi compagni di crapula, quel processo scandaloso, che aveva sollevato tanto rumore e infamato tanti giovanotti, scapati, sì, ma di famiglie onorate e per bene?
Le parve di sentire un singhiozzo di là e chiamò:

- Diego!

Silenzio. Rimase un pezzo con l'orecchio teso e gli occhi intenti.

Sì: era sveglio ancora. Che faceva?

Si alzò, e, in punta di piedi, s'accostò all'uscio, a origliare; poi si chinò per guardare attraverso il buco della serratura: - Leggeva... Ah, ecco! quei maledetti giornali ancora! il resoconto del processo... - Come mai, come mai s'era dimenticata di distruggerli, quei giornali, comperati nei tremendi giorni del processo? - E perché, quella notte, a quell'ora, appena rincasato, li aveva ripresi e tornava a leggerli?

- Diego! - chiamò di nuovo, piano; e schiuse timidamente l'uscio.

Egli si voltò di scatto, come per paura.

- Che vuoi? Ancora in piedi?

- E tu?... - fece la madre. - Vedi, mi fai rimpiangere ancora la mia stolidaggine...

- No. Mi diverto, - rispose egli, stirando le braccia.

Si alzò; si mise a passeggiare per la stanza.

- Stracciali, buttali via, te ne prego! - supplicò la madre a mani giunte. - Perché vuoi straziarti ancora? Non ci pensare più!

Egli si fermò in mezzo alla stanza; sorrise e disse:

- Brava. Come se, non pensandoci più io, per questo poi non dovessero più pensarci gli altri. Dovremmo metterci a fare i distratti, tutti quanti... per lasciarmi vivere. Distratto io, distratti gli altri... - Che è stato? Niente. Sono stato tre anni «in villeggiatura». Parliamo d'altro... - Ma non vedi, non vedi come mi guardi anche tu?

- Io? - esclamò la madre. - come ti guardo?

- Come mi guardano tutti gli altri!

- No, Diego! ti giuro! Guardavo... ti guardavo, perché... dovresti passare dal sarto, ecco...

Diego Bronner si guardò addosso il vestito, e tornò a sorridere.

- Già, è vecchio. Per questo tutti mi guardano... Eppure, me lo spazzolo bene, prima d'uscire; mi aggiusto... Non so, mi sembra che potrei passare per un signore qualunque, per uno che possa ancora indifferentemente partecipare alla vita... Il guajo è là, è là... - aggiunse, accennando i giornali su la scrivania. - Abbiamo offerto un tale spettacolo, che, via, sarebbe troppa modestia presumere che la gente se ne sia potuta dimenticare... Spettacolo d'anime ignude, gracili e sudicette, vergognose di mostrarsi in pubblico, come i tisici alla leva. E cercavamo tutti di coprirci le vergogne con un lembo della toga dell'avvocato difensore. E che risate il pubblico! Vuoi che la gente, per esempio, si dimentichi che il Russo, noi, quel cagliostro, lo chiamavamo Luculloff e che lo paravamo da antico romano, con gli occhiali d'oro a stanghetta sul naso rincagnato? Quando lo han veduto là con quel faccione rosso brozzoloso, e han saputo come noi lo trattavamo, che gli strappavamo i coturni dai piedi e lo picchiavamo sodo sul cranio pelato, e che lui, sotto a quei picchi sodi, rideva, sghignava, beato...

- Diego! Diego, per carità! - scongiurò la madre.

- ...Ubriaco. Lo ubriacavamo noi...

- Tu no!

- Anch'io, va' là, con gli altri. Era uno spasso! E allora venivano le carte da giuoco. Giocando con un ubriaco, capirai, facilissimo barare...

- Per carità, Diego!

- Così... scherzando... Oh, questo, te lo posso giurare. Là risero tutti, giudici, presidente; finanche i carabinieri; ma è la verità. Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scherzare. Non ci pareva una truffa. Erano i denari d'un pazzo schifoso, che ne faceva getto così... E del resto, neppure un centesimo ne rimaneva poi nelle nostre tasche: ne facevamo getto anche noi, come lui, con lui, pazzescamente...

S'interruppe; s'accostò allo scaffale dei libri; ne trasse uno.

- Guarda. Questo solo rimorso. Con quei denari comprai una mattina, da un rivendugliolo, questo libro qua.

E lo buttò su la scrivania. Era La corona d'olivo selvaggio del Ruskin, nella traduzione francese.

- Non l'ho aperto nemmeno.

Vi fissò lo sguardo, aggrottando le ciglia. Come mai, in quei giorni, gli era potuto venire in mente di comprare quel libro? S'era proposto di non leggere più, di non più scrivere un rigo; e andava lì, in quella casa, con quei compagni, per abbrutirsi, per uccidere in sé, per affogare nel bagordo un sogno, il suo sogno giovanile, poiché le tristi necessità della vita gl'impedivano d'abbandonarsi a esso, come avrebbe voluto.
La madre stette un pezzo a guardare anche lei quel libro misterioso; poi gli chiese dolcemente:

- Perché non lavori? perché non scrivi più, come facevi prima?

Egli le lanciò uno sguardo odioso, contraendo tutto il volto, quasi per ribrezzo.

La madre insistette, umile:

- Se ti chiudessi un po' in te... Perché disperi? Credi tutto finito? Hai ventisei anni... Chi sa quante occasioni ti offrirà la vita, per riscattarti...

- Ah sì, una, proprio questa sera! - sghignò egli. - Ma sono rimasto lì, come di sacco. Ho visto un uomo buttarsi nel fiume...

- Tu?

- Io. Gli ho veduto posare il cappello sul parapetto del ponte; poi l'ho visto scavalcare, quietamente, poi ho udito il tonfo nel fiume. E non ho gridato, non mi son mosso. Ero nell'ombra degli alberi, e ci sono rimasto, spiando se nessuno avesse veduto. E l'ho lasciato affogare. Sì. Ma poi ho scorto lì, sul parapetto del ponte, sotto il fanale, il cappello, e sono scappato via, impaurito...

- Per questo... - mormorò la madre.

- Che cosa? Io non so nuotare. Buttarmi? tentare? La scaletta d'accesso al fiume era lì, a due passi. L'ho guardata, sai? e ho finto di non vederla. Avrei potuto... ma già era inutile... troppo tardi... Sparito!...

- Non c'era nessuno?

- Nessuno. Io solo.

- E che potevi fare tu solo, figlio mio? È bastato lo spavento che ti sei preso, e quest'agitazione... Vedi? tremi ancora... Va', va' a letto, va' a letto... È molto tardi... Non ci pensare!...

La vecchia madre gli prese una mano e gliela carezzò. Egli le fe' cenno di sì col capo e le sorrise.

- Buona notte, mamma.

- Dormi tranquillo, eh? - gli raccomandò la madre, commossa dalla carezza a quella mano, che egli s'era lasciata fare e, asciugandosi gli occhi, per non guastarsi questa tenerezza angosciosa, se n'uscì.

Dopo circa un'ora, Diego Bronner era di nuovo seduto sull'argine del fiume, al posto di prima, con le gambe penzoloni.
Continuava per il cielo la fuga delle nuvolette lievi, basse, cineree. Il cappello di quell'ignoto sul parapetto del ponte non c'era più. Forse eran passate di là le guardie notturne e se l'erano preso.
All'improvviso, si girò verso il viale, ritraendo le gambe; scese dalla spalletta dell'argine e si recò là, sui ponte. Si tolse il cappello e lo posò allo stesso posto di quell'altro.

- E due! - disse.

Ma come se facesse per giuoco; per un dispetto alle guardie notturne che avevano tolto di là il primo.

Andò dall'altra parte del fanale, per vedere l'effetto del suo cappello, solo là, su la cimasa, illuminato come quell'altro. E rimase un pezzo, chinato sul parapetto, col collo proteso, a contemplarlo, come se lui non ci fosse più. A un tratto rise orribilmente: si vide là appostato come un gatto dietro il fanale: e il topo era il suo cappello... Via, via, pagliacciate!
Scavalcò il parapetto: si sentì drizzare i capelli sul capo: sentì il tremito delle mani che si tenevano rigidamente aggrappate: le schiuse; si protese nel vuoto.

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Un giorno memorabile

Post n°473 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

ccomo a voi,cari lettori,per raccontarvi cos'è successo due settimane fa in occasione del battesimo del terzogenito di Berengario e Carolina Capricorni,Lucio Cornelio.
"Un battesimo?! E a noi...?"
Lettori,lettori,ma vi devo sempre rammentare dove siamo?devo sempre ricordarvi che ciò che altrove è normale qua diventa (se va bene)una catastrofe?
Ma andiamo per ordine.
Alle 15.30 è iniziata la cerimonia ed è cascato il primo asino.
I Cuccurullo dovevano essere i padrini del battenzzando.Il problema è che,se Asmodeo ed Ercolino sono amici fraterni,Anselmo e lo stesso si detestano cordialmente.
Metterli nello stesso posto per mezzo secondo equivale a far scoppiare le 4 giornate di Napoli e le 5 giornate di Milano messe insieme.
Quando Anselmo ed Asmodeo si sono visti,entrambi,lancaito un urlo belluino ed incuranti del luogo sacro,hanno cominciato a darsele di santa ragione,decisi a levarsi dal mondo l'un l'altro.
A riportare la calma ci ha pensato Ireneo che prima li ha tramortiti con lo spegmnimococli e poi li ha fatti chiudere in cantina da Evaristo.
E qua è cascato il secondo asino.
Le nonne di Lucio Cornelio si sono commosse:una ha cominciato a piangere come una fontana,l'altra a ridere istericamente.
In pochi secondi metà dei presenti piangeva (compreso Ireneo,le cui soffiate di naso hanno impaurito i pratesi,convinti che fosse arrivato il giorno del giudizio) e l'altra rideva (compreso Berengario,le cui omeriche risate hanno spaventato a morte tutti gli animali del circondario.Cesarone si è addirittura arrampicato su un fico)
Per tornare alla nomralità c'è voluta mezz'ora.
Nel frattempo Telesforo è stato colto da allergia fulminante per le candele ed è dovuto intervenire il 118.
Rimasti senza padrini,I Capricorni hanno beccato i primi che passavano davanti alla chiesa ,vale a dire il becchino Geremia e la moglie Fidalma.
Dato che la Carolina non ha mai dimenticato la passione giovanile del marito per la Martellacci nè l'ha dimenticata Geremia,non vi dico con che spirito la cerimonia è proseguita.
Al momento del battesimo Lucio Cornelio,infastidito dall'acqua,ha azzannato il pollice del Cornacchioni e ci è attaccato,come e peggio di un rotweiler.
Mentre Ireneo lanciava urla terrificanti che costringevano i fiorentini all'esodo in massa, i presenti tentavano di liberare il poveraccio.
Alla fine la Carolina,con grande sprezzo del pericolo,ha infilato in bocca a quel piranha che si ostina a chiamare figlio il ciuccio e come Dio vuole la cerimonia è finalmente terminata.
Sono passate due settimane.
Ireneo ancora non è guarito e il suo umore segna tempesta perfetta.
Cuccurullo è in convalescenza.
Asmodeo e Anselmo se le danno come prima.
E Lucio Cornelio?
Per ora mangia,beve e dorme ma son certo che sentiremo ancora parlare di lui.

 
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Stelle (Ungaretti)

Post n°472 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Tornano in alto ad ardere le favole.
Cadranno colle foglie al primo vento.
Ma venga un altro soffio,
Ritornerà scintillamento nuovo.

 
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Libri dimenticati:Affinchè nessuno muoia

Post n°471 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Protagonista di questo romanzo è Ran Warren,giovane orfano che con infiniti sacrifici riesce a diventare medico.
Ran è un idealista e un medico onesto,destinato a scontrarsi con i giochi di potere delle industrie farmaceutiche e dei baroni della medicina ed a vivere tragedie personali prima di riuscire ad ottenere ciò che vuole.
E' un romanzo intenso,toccante,da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°470 pubblicato il 21 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Meglio una brutta verità che una bella bugia

 
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