Messaggi del 22/08/2011

Il sarto in paradiso

Post n°491 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un giorno morì un sarto storpio e, per questo, andò in paradiso zoppicando. Bussò alla porta, ma san Pietro, che se ne stava a fare la guardia, non aprì subito e chiese: -Chi è che bussa?-. -Sono un povero ma onesto sarto, che prega di esser lasciato entrare.- -Sì, onesto come un collo da forca!- disse san Pietro. -Avevi le mani lunghe quando scroccavi la stoffa ai clienti! Vai all'inferno, in paradiso non ci entri!- -Ah, Signore misericordioso!- gridò il sarto -io zoppico, e ho tutti i piedi piagati per il lungo cammino, non posso tornare indietro. Lasciami entrare lo stesso in cielo, starò seduto dietro la stufa e farò volentieri i lavori più umili: guarderò i bambini, pulirò le fasce, fregherò le panche sulle quali giocano, lasciatemi solo entrare!- San Pietro si lasciò impietosire e dischiuse un poco la porta del cielo al sarto, tanto che riuscisse a insinuarvisi. Tutto ciò avvenne intorno a mezzogiorno, quando il Signore, con il divin Padre e gli arcangeli voleva andare a spasso nel giardino del cielo. San Pietro ordinò al sarto di tenere in ordine il paradiso, e di fare attenzione che nulla fosse sottratto durante la loro assenza. -Sì- rispose il sarto -provvederò a ogni cosa.- Quando tutti se ne furono andati, il sarto ficcò il naso in ogni angolo del paradiso e infine salì sul trono del Signore, dal quale si poteva vedere tutto quello che accadeva sulla terra. Ed egli vide laggiù una brutta vecchia che lavava a un ruscello e sottraeva di nascosto due veli. E, benché‚ si fosse dedicato spesso, in vita, a questo genere di lavoro, e per quanto san Pietro gli avesse quasi negato l'entrata al paradiso, fu preso da una tal rabbia che afferrò lo sgabello del Signore, posto davanti al trono, e lo scagliò giù nelle costole della vecchia ladra, facendola cadere. La donna si spaventò, non capendo cosa diavolo le avessero gettato addosso, e corse a casa lasciando a terra i veli, che ritornarono così alle loro legittime padrone. Quando il Signore e Maestro rientrò con il suo seguito celeste, vide che mancava lo sgabello e domandò al sarto chi l'avesse portato via. -Oh, Signore- rispose questi tutto contento -l'ho scagliato sulla terra dietro a una vecchia che ho visto rubare due veli mentre lavava.- Allora il Signore disse: -Caro figlio mio, se io giudicassi come tu hai fatto, come credi che ti sarebbe andata già da un pezzo? E già da un pezzo non avrei più sedie qui, n‚ panche, n‚ poltrone e nemmeno un attizzatoio, ma avrei buttato giù tutto sui peccatori. Ormai non puoi più vivere in paradiso, ma fuori, davanti alla porta: vedi che bel risultato! Qui nessuno deve punire, se non io solo, il Signore-. Così san Pietro dovette ricondurre il sarto fuori, davanti alla porta del paradiso; e poiché‚ questi aveva le scarpe rotte e i piedi coperti di vesciche, prese un bastone e andò ad Aspetta un poco, dove stanno i soldati devoti a passare il tempo allegramente.

 
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Il giovane gigante

Post n°490 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un contadino aveva un figlio che era grande come un pollice e non cresceva mai; per anni non era cresciuto neanche di un filo. Un giorno il contadino volle recarsi nel campo ad arare e il piccolo gli disse: -Babbo, voglio venire anch'io-. -No- disse il padre -resta qui, là fuori non servi a nulla e potresti anche perderti.- Allora Pollicino incominciò a piangere e, per essere lasciato in pace, il padre dovette portarlo con s‚. Così se lo mise in tasca e quando fu nel campo lo tirò fuori e lo mise in un solco appena arato. Mentre il piccolo se ne stava là seduto, ecco arrivare un gran gigante attraverso le montagne. -Vedi là quel grande mostro?- disse il padre, che voleva spaventare il piccino perché‚ stesse buono. -Viene qui e ti porta via.- Ma il gigante aveva le gambe lunghe e arrivò al solco in due passi; ne tirò fuori il piccolo Pollicino e se ne andò con lui. Il padre se ne stava là senza poter proferir parola per lo spavento e credeva di avere ormai perduto il suo bambino e che non l'avrebbe più rivisto per tutta la vita. Ma il gigante lo prese con s‚ e lo allattò, sicché‚ Pollicino crebbe e divenne grande e grosso come i giganti. Quando furono trascorsi due anni, il vecchio andò con lui nel bosco e volle metterlo alla prova dicendo: -Strappati una bacchetta-. Il ragazzo era già così forte che sradicò da terra un alberello. Ma il gigante pensò che dovesse fare ancora meglio; lo prese nuovamente con s‚, lo allattò per altri due anni e quando lo condusse nel bosco per metterlo alla prova, il ragazzo fu in grado di sradicare un albero molto più grande. Ma al gigante non bastò ancora; lo allattò per altri due anni e, quando lo accompagnò nel bosco e gli disse: -Adesso strappati proprio una bella bacchetta- il giovane sradicò la quercia più grossa che si schiantò; ma per lui non fu che uno scherzo. Vedendo questo, il vecchio gigante disse: -Basta così, ormai ti sei perfezionato- e lo ricondusse al campo dove lo aveva preso. Suo padre stava arando proprio in quel momento; il giovane gigante gli andò incontro e disse: -Guardate, babbo, come sono diventato, sono vostro figlio!-. Il contadino si spaventò e disse: -No, tu non sei mio figlio, vattene via da me-. -Ma certo che sono vostro figlio! Lasciatemi arare: so farlo bene quanto voi.- -No, no tu non sei mio figlio e non sai neanche arare, vattene via!- Ma siccome aveva paura di quell'omone, lasciò stare l'aratro, si allontanò e si mise da parte sul margine del campo. Allora il giovane prese l'aratro e ci appoggiò soltanto una mano, ma con tanta forza che l'arnese sprofondò nel terreno. A quella vista, il contadino non pot‚ resistere e gli gridò: -Se vuoi arare, non devi schiacciare così forte, altrimenti farai un brutto lavoro!-. Ma il giovane staccò i cavalli, tirò egli stesso l'aratro e disse: -Va' pure a casa, babbo, e di' alla mamma di preparare un gran piatto colmo per il pranzo; io, intanto, arerò il campo-. Il contadino tornò a casa e ordinò il pranzo a sua moglie che preparò un bel piatto colmo. Il giovane, nel frattempo, arò da solo il campo, che era due giornate di terreno, poi si attaccò agli erpici e, con due alla volta, finì anche di erpicare. Quand'ebbe finito, andò nel bosco e sradicò due querce, se le mise sulle spalle e ci mise sopra gli erpici, uno davanti e l'altro dietro, e così anche i cavalli e portò tutto quanto a casa come se fosse stato un fascio di paglia. Quando entrò nel cortile, sua madre non lo riconobbe e domandò: -Chi è quell'omone spaventoso?-. Il contadino rispose: -E' nostro figlio-. Ma ella disse: -No, non può essere nostro figlio; uno così grosso non lo abbiamo mai avuto: il nostro era piccolino! Vattene, non ti vogliamo!-. Ma il giovane tacque, menò i suoi cavalli nella stalla e diede loro fieno e avena, tutto per bene. Quand'ebbe finito, andò nella stanza, si sedette sulla panca e disse: -Mamma, avrei voglia di mangiare, è pronto?-. Ella rispose di sì poiché‚ non osava contraddirlo, e portò due piatti grandi grandi e ben colmi, che a lei e a suo marito sarebbero bastati per otto giorni. Ma il giovane se li divorò da solo e chiese se non avesse altro da dargli. -No- diss'ella -è tutto ciò che abbiamo.- -Per me è stato solo un assaggio, ma mi occorre molto di più per sfamarmi.- Allora ella uscì e mise sul fuoco il calderone per il porco, ben pieno e quando fu pronto lo portò dentro. -Finalmente arriva ancora qualcosina- disse, e mangiò tutto, ma anche quello non bastò a cavargli la fame. Allora egli disse: -Babbo, vedo bene che a casa vostra non mi potrò sfamare; se mi procurerete un bastone di ferro che sia forte e che io non possa spezzare sulle mie ginocchia, me ne andrò via-. Il contadino se ne rallegrò; attaccò al carro i suoi due cavalli e si recò dal fabbro a prendere un bastone così grande e grosso che i due cavalli poterono trasportarlo a stento. Ma il giovane se lo mise sulle ginocchia e trac!, lo spezzò in due come se fosse stato un arboscello. Il padre attaccò quattro cavalli e andò a prendere un bastone così grande e grosso che ci volevano i quattro cavalli per trasportarlo. Ma il figlio spezzò anche quello in due pezzi sul ginocchio, lo gettò via e disse: -Babbo, questo non mi serve, devi attaccare degli altri cavalli e procurarmi un bastone più forte-. Allora il padre attaccò otto cavalli e andò a prenderne uno così grande e grosso che ci volevano gli otto cavalli per trasportarlo. Ma quando il figlio lo prese in mano, ne ruppe subito un pezzo da un lato e disse: -Babbo, vedo che non potete procurarmi il bastone di cui ho bisogno; me ne andrò così come sono-. Così se ne andò e si spacciò per un garzone fabbro. Giunse in un villaggio dove abitava un fabbro, un uomo avaro che non dava niente a nessuno e voleva avere tutto per s‚. Egli entrò nella fucina e gli chiese se non avesse bisogno di un garzone. -Sì- rispose il fabbro; lo guardò e pensò: -Questo è un uomo capace, lavorerà come si deve e si guadagnerà il pane". Gli chiese: -Quanto vuoi di salario?-. -Non voglio proprio nulla- rispose egli -soltanto ogni quindici giorni, quando vengono pagati gli altri garzoni, ti darò due botte e tu dovrai sopportarle. L'avaro ne fu ben contento, pensando di risparmiare molto denaro. Il mattino dopo, il garzone forestiero dovette battere per primo, ma quando il mastro portò la verga arroventata, al primo colpo il ferro andò in pezzi e l'incudine sprofondò nel terreno, tanto che non si pot‚ più tirarla fuori. Allora, l'avaro si arrabbiò e disse: -Ehi, non me ne faccio nulla di uno come te: batti con troppa forza; cosa vuoi per quell'unico colpo?-. Egli rispose: -Ti darò soltanto un colpettino e nient'altro-. Alzò il piede e gli diede una pedata che lo fece volare più alto di quattro carri di fieno. Poi prese dalla fucina la sbarra di ferro più grossa che trovò, per servirsene come bastone, e proseguì il suo cammino. Dopo un po' giunse a una fattoria e chiese al fattore se per caso avesse bisogno di un caposquadra. -Sì- rispose il fattore -ne ho bisogno: tu sembri un tipo in gamba, uno che sa cavarsela; quanto vuoi di salario all'anno?- Egli tornò a dire che non voleva salario, ma che ogni anno gli avrebbe dato tre botte e lui doveva sopportarle. Il fattore ne fu soddisfatto perché‚ anche lui era un uomo avaro. Il mattino dopo i servi dovevano andare nel bosco a far legna; erano già tutti alzati, soltanto il giovane era ancora a letto. Allora uno gli gridò: -Alzati, è ora; noi andiamo nel bosco a far legna, tu devi venire con noi-. -Ah- rispose egli, sgarbato e arrogante -andate pure, tanto ci arrivo prima di tutti voi insieme.- Allora quelli andarono dal fattore e gli raccontarono che il caposquadra era ancora a letto e non voleva andare a fare legna con loro. Il fattore disse che dovevano andare di nuovo a svegliarlo e ordinargli di attaccare i cavalli. Ma il caposquadra tornò a ripetere: -Andate pure, tanto ci arrivo prima di tutti voi insieme-. Rimase a letto ancora un paio d'ore, poi finalmente si alzò, ma prima andò nel granaio a prendersi una gran quantità di piselli, li fece cuocere e se li mangiò tranquillamente; poi attaccò i cavalli e andò nel bosco a far legna. Nei pressi del bosco c'era una gola che egli doveva attraversare; prima vi fece passare il carro, poi fermò i cavalli, andò dietro il carro, prese alberi e frasche ed eresse una gran barricata, in modo che nessun cavallo potesse passare. Quando arrivò al bosco, gli altri stavano appunto uscendone per tornarsene a casa con i loro carri carichi. Allora egli disse loro: -Andate pure, io arriverò prima di voi-. Non si addentrò molto nel bosco, sradicò subito due degli alberi più grossi, li caricò sul carro e prese la via del ritorno. Quando arrivò davanti alla barricata, gli altri erano ancora là e non potevano passare. -Vedete- disse -se foste rimasti con me, sareste comunque arrivati a casa presto e avreste potuto dormire un'ora in più.- Volle proseguire, ma i suoi quattro cavalli non riuscivano a farsi largo; allora egli li staccò, li mise in cima al carro e si mise a tirar da solo tutto quel carico e riuscì a passare così facilmente come se tirasse un carico di piume. Quando fu dall'altra parte, disse ai compagni: -Vedete, ho fatto più in fretta di voi-. E proseguì mentre gli altri dovettero fermarsi. Ma in cortile prese in mano un albero, lo mostrò al fattore e disse: -Non è un bel pezzo di legno?-. E il fattore disse a sua moglie: -Questo servo è in gamba; anche se dorme a lungo torna prima degli altri-. Il giovane servì il fattore per un anno; quando fu trascorso e gli altri servi si presero il loro salario, egli disse che era tempo anche per lui di ricevere ciò che gli spettava. Ma il fattore aveva paura delle botte che doveva buscarsi e lo pregò di risparmiarlo; piuttosto sarebbe diventato lui caposquadra e gli avrebbe lasciato fare il fattore. -No- disse il giovane -non voglio diventare fattore; sono caposquadra e voglio rimanerlo, ma voglio anche somministrarti ciò che è stato pattuito.- Il fattore voleva dargli tutto ciò che si poteva desiderare, ma non servì a nulla: il caposquadra rispondeva ogni volta di no. Allora il fattore non sapeva più a che santo votarsi e lo pregò di lasciargli quindici giorni di tempo, per poter riflettere. Il caposquadra acconsentì. Il fattore riunì tutti i suoi scrivani perché‚ ci pensassero e gli dessero un consiglio. Quelli meditarono a lungo e conclusero che si doveva accoppare il caposquadra. Il fattore avrebbe fatto trasportare delle grosse macine accanto al pozzo in cortile, poi doveva ordinare al caposquadra di scendere nel pozzo per pulirlo; una volta in fondo al pozzo gli avrebbero buttato le macine sulla testa. Al fattore piacque il consiglio, così tutto fu preparato e le macine più grosse furono poste vicino al pozzo. Quando il caposquadra vi si calò, rotolarono giù le pietre che picchiarono sul fondo tanto da far fuoriuscire l'acqua. Credevano in questo modo di avergli sfondato la testa, ma egli gridò: -Cacciate via i polli dal pozzo: lassù razzolano nella sabbia e mi gettano i grani negli occhi, che non ci vedo più-. Allora il fattore gridò: -Sciò, sciò!- e finse di far scappare i polli. Quando il caposquadra ebbe finito il lavoro, risalì e disse: -Guardate un po' che bel collare ho addosso!-. Ed erano le macine che portava intorno al collo. A quella vista il fattore tornò ad avere paura, poiché‚ il caposquadra pretendeva il suo compenso. Allora chiese altri quindici giorni di tempo e radunò nuovamente gli scrivani che gli consigliarono di mandare il caposquadra nel mulino incantato a macinarvi il grano di notte: nessuno ne era uscito vivo al mattino. La proposta piacque al fattore; così quella stessa sera mandò a chiamare il caposquadra e gli ordinò di portare al mulino otto staia di grano e di macinarle quella notte stessa: ne avevano bisogno. Il caposquadra andò nel granaio e si mise due staia nella tasca destra, due nella sinistra e le altre quattro le infilò in una bisaccia che portò per metà sulla schiena e per metà sul petto, e, così carico, si avviò verso il mulino incantato. Ma il mugnaio gli spiegò che di giorno poteva macinare benissimo, ma di notte no, perché‚ il mulino era incantato, e chi vi era entrato era stato trovato morto al mattino. Egli disse: -Io me la caverò, andatevene e mettetevi a letto-. Poi entrò nel mulino, ammucchiò il grano e verso le undici andò nella stanza del mugnaio a sedersi sulla panca. Dopo un po' che se ne stava là seduto, la porta si aprì all'improvviso, ed entrò una tavola grande grande, e sulla tavola, poiché‚ non vi era nessuno che serviva, si disposero da s‚ vino, arrosto e tanti buoni cibi. Poi si avvicinarono le sedie, ma non venne nessuno, finché‚ d'un tratto vide delle dita che maneggiavano coltelli e forchette e mettevano i cibi nei piatti; ma non riuscì a vedere nient'altro. Dato che aveva fame e vedeva i cibi, si mise a tavola anche lui e mangiò di gusto. Quando fu sazio e anche gli altri ebbero vuotato i loro piatti, tutte le candele furono spente all'improvviso, egli lo vide con chiarezza; quando fu buio pesto gli arrivò in faccia qualcosa come uno schiaffo. Allora disse: -Se capita ancora una volta, lo restituisco-. E quando ricevette il secondo schiaffo, colpì anche lui. Continuò così tutta la notte: non si lasciò spaventare e picchiò a destra e a manca con decisione. Ma allo spuntar del sole, tutto cessò. Quando il mugnaio si alzò, andò a cercarlo e si meravigliò di trovarlo ancora vivo. Egli disse: -Ho ricevuto delle sberle, ma ne ho anche date e ho mangiato a sazietà-. Il mugnaio si rallegrò e disse che ora il mulino era libero dall'incantesimo, e in premio gli avrebbe dato molto denaro. Ma egli disse: -Non voglio denaro, ne ho abbastanza-. Poi si caricò la sua farina sulle spalle, tornò a casa e disse al fattore che aveva eseguito l'ordine e che ora voleva il salario pattuito. All'udire queste parole, il fattore si spaventò ancora di più: era fuori di s‚ e camminava su e giù per la stanza con il sudore che gli gocciolava dalla fronte. Allora aprì la finestra per prendere una boccata d'aria fresca, ma, prima che se ne accorgesse, il caposquadra gli diede un calcio che lo scaraventò fuori dalla finestra, facendolo volare per aria, lontano lontano, finché‚ nessuno lo vide più. Allora il caposquadra disse alla moglie del fattore che la seconda botta toccava a lei. Ma ella disse: -Ah, no! Non resisterei!- e anche lei aprì la finestra perché‚ le gocce di sudore le colavano dalla fronte. Allora egli le diede un calcio, da far volare in aria anche lei e ancora più in alto di suo marito. L'uomo le gridò: -Vieni da me!-. Ma ella rispose: -Vieni tu da me, io non posso!-. E così rimasero sospesi in aria senza che l'uno potesse raggiungere l'altro; e se siano ancora là, non lo so. Il giovane gigante, invece, prese il suo bastone di ferro e proseguì il suo cammino.

FINE


 
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I sei servi

Post n°489 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un tempo viveva una vecchia regina che era una maga, e aveva una figlia che era la più bella fanciulla del mondo. Ma la vecchia non pensava ad altro che ad attirare gli uomini per mandarli in rovina; e se arrivava un pretendente, diceva che chi voleva sua figlia doveva prima eseguire un compito o morire. Molti si cimentavano, abbagliati dalla bellezza della fanciulla, ma non realizzavano ciò che la vecchia imponeva loro, e allora non c'era grazia: dovevano inginocchiarsi e gli mozzavano la testa. Ora avvenne che un principe aveva sentito parlare anche lui della grande bellezza della fanciulla, e disse al padre: -Caro babbo, lasciatemi andare, voglio chiedere la sua mano-. -Mai e poi mai!- rispose il padre. -Se parti, vai incontro alla morte.- Allora il principe si mise a letto, ammalato mortalmente, e stette così per sette anni, senza che nessun medico potesse aiutarlo. Quando il padre vide che non aveva più speranza, gli disse pieno di tristezza: -Va' dunque, e tenta la sorte: io non so come aiutarti altrimenti-. All'udire queste parole, il figlio si alzò, sano come un pesce, e si mise allegramente in cammino. Gli capitò di passare per una prateria e da lontano vide qualcosa che giaceva a terra; avvicinandosi, pot‚ capire che era la pancia di un uomo coricato; ma sembrava un monticello. L'uomo grasso, vedendo il cavaliere, si alzò e disse: -Se vi occorre qualcuno, prendetemi al vostro servizio-. Ma il principe rispose: -Che cosa me ne faccio di un uomo così grasso?-. -Oh!- disse l'altro -questo non è nulla! Se mi allargo del tutto, sono tremila volte più grasso.- -Se è così- disse il principe -forse puoi essermi utile: vieni con me.- Così il Grassone lo seguì; dopo un po' trovarono un tale sdraiato per terra con l'orecchio sull'erba. -Che cosa fai?- gli domandò il principe. -Ascolto- rispose l'uomo. -E cosa ascolti?- -Quel che sta succedendo nel mondo, perché‚ io sento tutto, persino l'erba che cresce.- Il principe domandò: -Dimmi un po', che cosa senti alla corte della vecchia regina, che ha una bella figlia?-. E quello rispose: -Sento fischiare la spada che taglia la testa a un pretendente-. Il principe disse: -Puoi essermi utile: vieni con me-. Proseguirono, e d'un tratto videro per terra due piedi e un tratto di gambe, ma non riuscirono a vederne la fine; dopo aver percorso un bel tratto, arrivarono al corpo, e infine la testa. -Ehi!- esclamò il principe -che razza di spilungone!- -Oh- rispose l'altro -questo non è nulla! Se mi distendo bene sono tremila volte più lungo e supero la montagna più alta della terra. Vi servirò volentieri se mi volete.- -Vieni- disse il principe -puoi essermi utile.- Proseguirono e trovarono un tale seduto sul ciglio della strada, con gli occhi bendati. Il principe disse: -Sei cieco, o hai la vista debole, che non sopporti la luce?-. -No- rispose l'uomo -non posso togliermi la benda, perché‚ qualsiasi cosa io guardi, si spezza, tanta è la forza del mio sguardo. Se può esservi utile, vi servirò volentieri.- -Vieni con me- disse il principe -puoi essermi d'aiuto.- Proseguirono e incontrarono un uomo che, sotto il sole a picco, rabbrividiva e tremava tutto per il freddo. -Come mai hai tanto freddo con un sole così caldo?- domandò il principe. -Ah- rispose l'uomo -più fa caldo e più io sento freddo, e il gelo mi penetra nelle ossa; e più fa freddo, più sento caldo: in mezzo al ghiaccio non resisto per il caldo, e in mezzo al fuoco non resisto per il freddo.- -Sei un tipo strano!- disse il principe. -Ma se mi vuoi servire, vieni con me.- Proseguirono e videro un uomo che allungava il collo, girava gli occhi all'intorno e guardava al di là dei monti. Disse il principe: -Che cosa guardi con tanto ardore?-. L'uomo rispose: -Ho una vista così acuta, che posso vedere oltre campi e boschi, monti e valli, per tutto il mondo-. Il principe disse: -Se vuoi, vieni con me: mi manca uno come te-. Poi il principe si recò, con i suoi sei servi, nella città dove viveva la bella e pericolosa fanciulla; andò dalla vecchia regina e disse: -Se volete darmi vostra figlia, farò quel che mi ordinate-. -Sì- rispose la maga -ti darò tre incarichi: se li eseguirai tutti e tre, sarai signore e sposo di mia figlia.- -Qual è il primo?- chiese il principe. -Devi riportarmi l'anello che ho lasciato cadere nel mar Rosso.- Allora il principe tornò dai suoi servi e disse: -Il primo compito non è facile: bisogna ripescare un anello nel mar Rosso. Consigliatemi voi-. Allora quello con la vista acuta disse: -Guarderò dov'è-. Guardò in fondo al mare e disse: -E' là, accanto a una pietra-. -Lo tirerei fuori, se solo lo vedessi- disse lo Spilungone. -Oh, ti aiuterò io!- esclamò il Grassone. Si coricò con la bocca sull'acqua: le onde vi entrarono ed egli bevve tutto il mare, che rimase asciutto come un prato. Allora lo Spilungone si piegò un poco e prese l'anello con la mano. Tutto felice, il principe lo portò alla vecchia. Ella lo osservò e disse meravigliata: -Sì, è proprio quello. Il primo compito l'hai eseguito, ma adesso viene il secondo. Vedi, là su quel prato davanti al mio castello pascolano trecento buoi ben pasciuti; devi mangiarli tutti con il pelo, le corna e le ossa; e giù in cantina ci sono trecento botti di vino, devi bertele tutte; ma se avanza il pelo di un bue o una gocciolina di vino, pagherai con la vita-. Il principe disse: -Non posso invitare qualche ospite? Senza compagnia non c'è gusto a mangiare-. La vecchia rise malignamente e disse: -Per aver compagnia puoi invitarne uno, ma non di più-. Allora il principe andò dai suoi servi e disse al Grassone: -Oggi sarai mio ospite, e una volta tanto mangerai a sazietà-. Allora il Grassone si allargò tutto e mangiò i trecento buoi senza lasciarne neanche un pelo e domandò se non c'era altro dopo la colazione; il vino lo bevve direttamente dalle botti, senza bisogno di bicchiere, e l'ultima goccia se la leccò sul dito. Al termine del pasto, il principe andò dalla vecchia e le disse che il compito era stato eseguito. Ella si meravigliò e disse: -A tanto non era mai arrivato nessuno, ma resta ancora il terzo compito-. E pensava: "Non mi sfuggirai, e non riuscirai a salvarti la testa!". -Stasera- disse -ti porto mia figlia in camera, la lascerò fra le tue braccia; ma bada di non addormentarti! Io verrò allo scoccare delle dodici, e se lei non è più fra le tue braccia, tu sei perduto.- "Oh" pensò il principe "il compito è semplice, terrò gli occhi bene aperti." Tuttavia chiamò i suoi servitori, raccontò loro ciò che aveva detto la vecchia e disse: -Chissà quale astuzia c'è sotto! E' bene essere prudenti: fate la guardia e badate che la fanciulla non esca dalla camera-. Quando si fece notte, la vecchia arrivò con sua figlia e la spinse fra le braccia del principe; poi lo Spilungone si acciambellò intorno a loro e il Grassone si mise davanti alla porta, sicché‚ non poteva entrare anima viva. Se ne stavano là tutt'e due e la fanciulla non diceva una parola; ma, attraverso la finestra, la luna le illuminava il volto, ed egli poteva vedere la sua meravigliosa bellezza. Il principe non faceva altro che guardarla, innamorato e pieno di gioia, e i suoi occhi non erano mai stanchi. Durò così fino alle undici; allora la vecchia gettò un incantesimo su tutti quanti, sicché‚ si addormentarono, senza potersi difendere; e, in quello stesso istante, la fanciulla sparì. Dormirono sodo fino a mezzanotte meno un quarto; allora l'incantesimo cessò ed essi si svegliarono. -Oh che disgrazia, che sciagura!- esclamò il principe -adesso sono perduto!- Anche i servi fedeli incominciarono a lamentarsi, ma Orecchiofino disse: -State zitti! Voglio ascoltare-. Ascoltò un istante, poi disse: -Si trova dentro una rupe a trecento ore da qui, e piange il suo destino. Tu puoi farcela, Spilungone: se ti rizzi, ci sei con due passi-. -Sì- rispose lo Spilungone -però deve venire anche Occhiodifolgore per spazzare via la rupe.- Così si caricò sulle spalle quello con gli occhi bendati, e in un baleno si trovarono davanti alla rupe incantata. Lo Spilungone tolse subito la benda dagli occhi del compagno; questi si guardò attorno e la rupe andò in mille pezzi. Allora lo Spilungone prese in braccio la fanciulla, in un attimo la portò a casa, tornò a prendere anche l'amico e, prima che scoccassero le dodici, erano di nuovo tutti là, allegri e contenti come prima. Allo scoccar delle dodici, arrivò piano piano la vecchia maga con un'aria beffarda, come se volesse dire: -Adesso è mio!- ed era convinta che la figlia fosse dentro la rupe a trecento ore di distanza. Ma quando la vide fra le braccia del principe, inorridì e disse: -Ecco uno che ne sa più di me-. Ma non pot‚ replicar nulla e dovette dargli sua figlia. Tuttavia le disse all'orecchio: -E' una vergogna per te essere stata vinta da dei servi, senza poterti scegliere uno sposo secondo la tua inclinazione!-. Ora la fanciulla, che aveva il cuore orgoglioso, piena d'ira, fece ammucchiare, il giorno dopo, trecento cataste di legna e disse al principe che i tre compiti erano stati eseguiti, ma che lei non l'avrebbe sposato se prima qualcuno non si fosse messo in mezzo alla legna e avesse sopportato il fuoco. Pensava infatti che, per quanto devoti, nessuno dei servi si sarebbe lasciato bruciare per lui, e per amor suo ci sarebbe andato il principe, e così lei sarebbe stata libera. Allora i servi dissero: -Abbiamo fatto tutti qualcosa, soltanto il Freddoloso non ha ancora fatto nulla!-. Lo presero, lo misero in mezzo alla catasta e vi appiccarono il fuoco. Il fuoco divampò e arse per tre giorni, finché‚ consumò tutta la legna; e, quando le fiamme si spensero, il Freddoloso era là, in mezzo alla cenere, tremante come una foglia, e diceva: -Non ho mai sofferto tanto il freddo in vita mia! Se durava ancora, mi sarei assiderato-. Adesso non c'era proprio più scampo: la bella fanciulla doveva sposare il principe. Ma quando andarono in chiesa, la vecchia disse: -Non posso tollerare questa vergogna!- e li fece inseguire dai suoi soldati, che dovevano annientare chiunque si trovasse loro davanti, e riportarle la figlia. Ma Orecchiofino era stato in ascolto e aveva sentito tutto ciò che la vecchia aveva detto. Lo disse al Grassone che vomitò un paio di volte dietro la carrozza; ed ecco formarsi un grande lago, dove i soldati furono sommersi e annegarono. Non vedendoli tornare, la maga mandò i suoi corazzieri, ma Orecchiofino, sentendoli arrivare, tolse la benda dagli occhi di Occhiodifolgore; questi fissò un istante i nemici, che andarono in pezzi come se fossero stati di vetro. Così proseguirono indisturbati, e quando gli sposi ebbero ricevuto la benedizione in chiesa, i sei servitori si congedarono e dissero: -Vogliamo tentare la fortuna in giro per il mondo-. A una mezz'ora dal castello c'era un villaggio, davanti al quale un porcaro custodiva il suo branco; quando vi giunsero, il principe disse alla moglie: -Sai chi sono davvero? Non sono un principe, ma un porcaro, e quello laggiù con il branco è mio padre, e adesso dobbiamo aiutarlo anche noi a custodire i maiali-. Poi scesero insieme alla locanda, e il principe ordinò di nascosto ai padroni di portare via alla sposa le vesti regali durante la notte. Al mattino, quando la principessa si svegliò non aveva più niente da mettersi, e l'ostessa le diede un vecchio vestito e un paio di vecchie calze di lana, con l'aria di farle un gran regalo e disse: -Se non fosse per vostro marito, non vi avrei dato nulla-. Allora ella credette che fosse davvero un porcaro, custodiva il branco con lui e pensava: "Me lo sono meritato con il mio orgoglio! ". Durò così per otto giorni, ed ella non ne poteva più, perché‚ i piedi le si erano coperti di piaghe. Allora arrivò della gente che le chiese se davvero sapeva chi era suo marito. -Sì- rispose -è un porcaro; è appena uscito per vendere un po' di nastri.- Ma quelli dissero: -Venite, vi condurremo da lui-. La condussero al castello, e quando ella entrò nella sala, suo marito era là in abiti regali. Ma ella non lo riconobbe finché‚ il principe non la prese fra le braccia, la baciò e disse: -Io ho tanto sofferto per te, e anche tu hai dovuto soffrire per me- Allora furono festeggiate le nozze, e chi l'ha raccontato, vorrebbe esserci stato.

 
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Il dottor Satutto

Post n°488 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un povero contadino chiamato Gambero, che aveva portato con due buoi un carico di legna in città e l'aveva venduta per due scudi a un dottore. Mentre veniva pagato il dottore sedeva a tavola, e il contadino vide che mangiava e beveva così bene che c'era da lasciarci il cuore, e avrebbe fatto volentieri il dottore anche lui. Così rimase là ancora un pochino e poi chiese se anche lui poteva diventarlo. -Oh, sì!- rispose il dottore -è presto fatto. Prima di tutto devi comprare un abbecedario, cioè un libro con un gallo sul frontespizio; poi vendi il carro con i buoi e con il ricavato comprati dei vestiti e tutto ciò che occorre a un dottore; infine fatti dipingere un'insegna con le parole: "Io sono il dottor Satutto- e falla appendere in alto, sopra all'uscio di casa tua.- Il contadino fece tutto come gli era stato consigliato. Non aveva incominciato da molto a fare il dottore, quando rubarono del denaro a un gran signore. Questi sentì parlare del dottore Satutto, che abitava nel tal villaggio, e che doveva sapere dov'era finito il denaro. Allora il signore fece attaccare la carrozza, si recò al villaggio e gli chiese se egli fosse il dottor Satutto. Sì, lo era. Allora doveva accompagnarlo e ritrovare il denaro rubato. Sì, disse, ma doveva venire anche sua moglie, la Ghita. Il signore acconsentì, li fece salire in carrozza e partirono insieme. Quando arrivarono al palazzo nobile la tavola era pronta, e il dottore doveva prima pranzare con loro. Sì, disse, ma anche sua moglie, la Ghita; e sedette a tavola con lei. Quando arrivò il primo servitore con un vassoio colmo di cibo, il contadino diede di gomito a sua moglie e disse: -Ghita, questo è il primo-. E intendeva dire che era quello che portava il primo piatto. Il servitore invece pensò ch'egli avesse voluto dire: "E' il primo ladro- e siccome lo era davvero, ebbe paura e disse ai suoi compagni, fuori: -Il dottore sa tutto, ci va male: ha detto che io ero il primo!-. Il secondo non voleva entrare, ma vi fu costretto. Quando entrò con il vassoio, il contadino diede di gomito a sua moglie e disse: -Ghita, questo è il secondo-. Anche il secondo ebbe paura e si affrettò a uscire. Al terzo le cose non andarono meglio; il contadino disse nuovamente: -Ghita, questo è il terzo-. Il quarto dovette portare un piatto coperto; e il padrone di casa disse al dottore che doveva dar prova della sua arte e indovinare cosa c'era sotto; erano gamberi. Il contadino guardò il piatto e, non sapendo che dire, esclamò: -Ah, povero Gambero!-. All'udirlo, il signore gridò: -Guarda, lo sa! Allora sa anche chi ha il denaro!-. Ma il servo ebbe una gran paura e ammiccò al dottore che uscisse un momento. Fuori, gli confessarono tutti e quattro di aver rubato il denaro: erano ben contenti di restituirlo e di dargli anche una grossa somma in aggiunta, se egli non li tradiva: ne andava della loro vita. Poi lo condussero dov'era nascosto il denaro. Il dottore acconsentì, rientrò e disse: -Signore, adesso voglio cercare nel mio libro dov'è nascosto il denaro-. Ma il quinto servo si rannicchiò nella stufa, per sentire se il dottore ne sapesse di più. Questi aprì il suo abbecedario e lo sfogliò qua e là, cercando il gallo. Siccome non lo trovò subito, disse: -Eppure sei qui dentro e devi uscire!-. Quello che era nella stufa credette che stesse parlando con lui, saltò fuori pieno di paura e gridò: -Quest'uomo sa tutto!-. Il dottor Satutto mostrò al padrone di casa dove si trovava il denaro, senza però dire chi l'aveva rubato; fu ricompensato da ambo le parti con molto denaro, e divenne un uomo famoso.

FINE

 
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L'asinello

Post n°487 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un re e una regina, che erano ricchi e avevano tutto quel che desideravano, ma non avevano figli. La regina se ne doleva giorno e notte e diceva: -Sono come un campo dove non cresce nulla-. Finalmente Dio la esaudì: quando però il piccolo venne al mondo, non aveva l'aspetto di un bimbo, ma di un asinello. Quando la madre lo vide, prese a piangere e a lamentarsi più che mai: avrebbe preferito non avere figli, piuttosto che avere un asino! E disse che bisognava buttarlo in acqua perché‚ lo mangiassero i pesci. Ma il re disse: -No, Dio ce l'ha dato, e sarà mio figlio e il mio erede; dopo la mia morte salirà al trono e porterà la corona regale-. Così l'asinello fu allevato, diventò grande e gli crebbero anche le orecchie, belle lunghe e diritte. Ed era d'indole allegra, saltava, giocava e aveva una particolare inclinazione per la musica, sicché‚ andò da un famoso musicista e disse: -Insegnami la tua arte, ch'io possa suonare il liuto come te-. -Ah, caro principino- rispose il musicista -vi sarà difficile, le vostre dita non sono proprio fatte per questo, sono troppo grosse; temo che le corde non reggano.- Ma non vi fu scusa che tenesse, l'asinello voleva suonare il liuto ad ogni costo, era ostinato e diligente e finì coll'imparare a suonarlo come il suo maestro. Un giorno, mentre andava a spasso soprappensiero, giunse a una fonte; vi guardò dentro e nell'acqua, chiara come uno specchio, vide riflessa la propria immagine di asinello.
Ne fu così avvilito che se ne andò per il mondo, seguito soltanto da un compagno fedele. Andarono di qua e di là, finché‚ giunsero in un regno, governato da un vecchio re, che aveva un'unica figlia, bellissima. L'asinello disse: -Ci fermeremo qui-. Bussò alla porta e gridò: -Qui fuori c'è un ospite: aprite che possa entrare-. Ma siccome non aprirono, si sedette, prese il liuto e si mise a suonarlo dolcemente con le zampe. Il guardiano fece tanto d'occhi, corse dal re e disse: -Là fuori, davanti alla porta, c'è un asinello che suona il liuto da maestro!-. -Fa' entrare il musicista- disse il re. Ma quando l'asinello entrò, tutti si misero a ridere di quel suonatore di liuto. Ora l'asinello avrebbe dovuto mangiare con i servi, ma si sdegnò e disse: -Non sono un volgare animale da stalla, ma un asinello nobile-. Allora gli dissero: -Se è così, mettiti con i soldati-. -No- rispose egli -voglio sedere vicino al re.- Il re si mise a ridere e disse allegramente: -E sia come vuoi, asinello, vieni qui con me-. Poi gli domandò: -Asinello, ti piace mia figlia?-. L'asinello volse la testa verso di lei, la guardò, annuì e rispose: -Moltissimo! Non ho mai visto fanciulla tanto bella-. -Bene, allora siediti anche vicino a lei- disse il re. -Volentieri!- rispose l'asinello. Sedette al suo fianco, mangiò e seppe comportarsi gentilmente e con cortesia. Dopo aver trascorso un certo periodo alla corte del re, la nobile bestiola pensò: "A che giova tutto ciò? Devi tornare a casa". Chinò tristemente il capo, si presentò al re e chiese commiato. Ma il re gli voleva bene e disse -Asinello, che cos'hai? Hai la faccia agra come l'aceto. Ti darò tutto ciò che desideri. Vuoi dell'oro?-. -No- rispose l'asinello, e scosse il capo. -Vuoi degli oggetti preziosi, dei gioielli?- -No.- -Vuoi metà del mio regno?- -Ah no!- -Se solo sapessi cosa ti può render felice! Vuoi la mia bella figlia in isposa?- -Ah, sì- disse l'asinello, e tornò d'un tratto allegro e di buon umore, poiché‚ era proprio quel che desiderava. Così si celebrarono le nozze con gran pompa. La sera, quando lo sposo e la sposa furono condotti nella loro cameretta, il re volle sapere se l'asinello si comportava sempre con grazia e a modo, e ordinò a un servo di nascondersi nella stanza. Quando furono entrati, lo sposo mise il catenaccio alla porta, si guardò attorno e, credendo di essere solo con la sposa, buttò via all'improvviso la sua pelle d'asino, e apparve come un bel giovane di sangue reale. -Vedi dunque chi son'io?- disse. -E che sono degno di te?- La sposa era felice, lo baciò e gli volle bene di cuore. Quando si fece mattino, però, egli balzò in piedi, indossò di nuovo la sua pelle d'asino e nessuno avrebbe mai immaginato chi vi fosse là sotto. Poco dopo arrivò anche il vecchio re -Ehi!- esclamò -l'asinello è già sveglio! Ti rende molto triste- disse alla figlia -non avere per marito un uomo?- -Ah no, caro babbo, l'amo come se fosse il più bello degli uomini e lo terrò per tutta la mia vita.- Il re si meravigliò; ma il servo, che si era nascosto nella camera, andò a rivelargli tutto. Disse il re: -Non ci crederò mai!-. -Vegliate voi stesso la prossima notte, e lo vedrete con i vostri occhi. E sapete, Maestà? Portategli via la pelle e gettatela nel fuoco, così sarà costretto a presentarsi con il suo vero aspetto.- -Il tuo consiglio mi piace- disse il re; e la sera, mentre dormivano, entrò di soppiatto nella camera, e, avvicinatosi al letto, vide al chiaro di luna uno splendido giovane addormentato; e la pelle d'asino giaceva a terra. Allora egli la portò via e fuori fece accendere un gran fuoco, vi fece buttare la pelle e rimase là davanti, finché‚ non fu ridotta in cenere. Ma siccome voleva vedere che cosa avrebbe fatto il derubato, vegliò tutta la notte, origliando. Quando il giovane si svegliò, alle prime luci dell'alba, si alzò e voleva indossare la pelle d'asino, ma non riusciva a trovarla. Allora si spaventò e disse, pieno di tristezza e di paura: -Ora devo cercare di fuggire-. Ma quando uscì, si trovò davanti il re, che disse: -Figlio mio, dove vai così di fretta? Resta qui! Sei così bello, non devi lasciarmi. Voglio darti metà del mio regno, e dopo la mia morte l'avrai tutto-. -Speriamo che tutto finisca bene com'è cominciato!- rispose il giovane -Resto con voi.- Allora il vecchio gli diede la metà del suo regno e l'anno dopo, alla sua morte, il giovane lo ereditò per intero. Inoltre, alla morte di suo padre, ebbe un altro regno ancora, e visse ricco e felice.

FINE


 

 
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Ucceltrovato

Post n°486 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un guardaboschi che andò a caccia nella foresta e, come vi giunse, gli sembrò di sentir gridare un bambino piccolo. Seguì la direzione delle grida e giunse infine a un grande albero sul quale vi era un piccino. La madre si era addormentata con il bambino in grembo ai piedi dell'albero e un uccello rapace l'aveva visto, gli era piombato addosso e, presolo nel becco, l'aveva portato sull'albero. Il guardaboschi salì a prenderlo e pensò: "Porterai il bambino a casa e lo alleverai insieme alla tua Lena-. Lo portò a casa e i due bambini crebbero insieme. Ma quello che avevano trovato sull'albero e che era stato rapito da un uccello fu chiamato Ucceltrovato. Ucceltrovato e Lena si volevano bene, tanto ma tanto che, se non si vedevano, diventavano tristi. Ma il guardaboschi aveva una vecchia cuoca che una sera prese due secchi e incominciò a recarsi alla fonte; ma non ci andò una volta sola, bensì più volte. Lena la vide e disse: -Senti un po', vecchia, perché‚ porti tanta acqua?-. -Se non lo dici a nessuno, te lo dirò.- E quando Lena promise che non l'avrebbe detto a nessuno, la cuoca rispose: -Domattina presto, quando il guardaboschi sarà a caccia, scalderò l'acqua; e quando bollirà ci butterò dentro Ucceltrovato per farlo cuocere-. La mattina dopo il guardaboschi si alzò di buon'ora per andare a caccia. Quando fu uscito i bambini erano ancora a letto, e Lena disse a Ucceltrovato: -Se non mi lasci, neppure io ti lascerò-. Ucceltrovato rispose: -N‚ ora n‚ mai-. Allora Lena disse: -Ti dirò che ieri sera la vecchia portava in casa tanti secchi d'acqua; allora le chiesi perché‚ e lei mi rispose che me l'avrebbe detto se io non l'avessi rivelato a nessuno. Io promisi che non avrei fiatato con nessuno, allora ella disse che questa mattina, dopo che il babbo fosse partito per la caccia, intendeva far bollire il paiolo, buttarti dentro e cuocerti. Alziamoci, presto, vestiamoci e scappiamo insieme-. Così i due bambini si alzarono, si vestirono in fretta e scapparono. Quando l'acqua bollì in pentola, la cuoca andò nella camera da letto per prendere Ucceltrovato e buttarvelo dentro. Ma quando entrò e si avvicinò ai letti, i bambini non c'erano più; allora le venne una gran paura e disse fra s‚: -Cosa dirò mai, quando il guardaboschi torna a casa e vede che non ci sono più i bambini? Presto, bisogna rincorrerli e riacciuffarli!-. La cuoca mandò tre servi a inseguire di corsa i bambini. Ma questi erano seduti al margine del bosco e, quando videro i tre servi venire di corsa da lontano, Lena disse a Ucceltrovato: -Se non mi lasci, neppure io ti lascerò-. E Ucceltrovato rispose: -N‚ ora n‚ mai-. Allora Lena disse: -Diventa un rosaio e io una rosellina!-. E quando i tre servi arrivarono davanti al bosco, non c'era che un rosaio con una rosellina, ma di bambini neanche l'ombra. Allora dissero: -Qui non c'è niente da fare- e se ne ritornarono a casa dicendo alla cuoca che non avevano visto nient'altro che un rosaio e una rosellina. Allora la vecchia li rimproverò aspramente e disse: -Babbei!, avreste dovuto spezzare il rosaio, cogliere la rosellina e portarla a casa: sbrigatevi a farlo!-. Così, per la seconda volta, i servi dovettero andare a cercarli. Ma i bambini li videro venir da lontano e Lena disse: -Ucceltrovato, se non mi lasci, neppure io ti lascerò!-. E Ucceltrovato rispose: -N‚ ora n‚ mai!-. Allora Lena disse: -Diventa una chiesa, e io la lumiera!-. Quando giunsero i tre servi, non c'era altro che una chiesa e, dentro, una lumiera. Dissero fra loro: -Cosa stiamo a fare qui? Torniamocene a casa!-. Quando furono a casa la cuoca domandò se non avessero trovato nulla, ed essi risposero che no, null'altro che una chiesa con dentro una lumiera. -Stupidi!- urlò la cuoca -perché‚ non avete distrutto la chiesa e portato a casa la lumiera?- Questa volta la vecchia cuoca si mise lei stessa in cammino e andò alla ricerca dei bambini con i tre servi. Ma i bambini videro venire di lontano i tre servi con la cuoca che barcollava dietro a loro. Allora Lena disse: -Ucceltrovato, se non mi lasci, neppure io ti lascerò!-. E Ucceltrovato rispose: -N‚ ora n‚ mai!-. Disse Lena: -Diventa uno stagno e io l'anitra nello stagno-. Quando la cuoca arrivò e vide lo stagno, si distese sulla riva e voleva berlo tutto. Ma l'anitra accorse a nuoto, la prese con il becco per la testa e la tirò in acqua: e così la vecchia strega dovette annegare. Poi i bimbi se ne tornarono a casa tutti contenti e, se non sono morti, sono ancora viventi.

FINE




 
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Il professor Terremoto (Pirandello)

Post n°485 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Quanti, di qui a molti anni, avranno la ventura di rivedere risorte Reggio e Messina dal terribile disastro del 28 dicembre 1908, non potranno mai figurarsi l'impressione che si aveva, allorché, passando in treno, pochi mesi dopo la catastrofe, cominciava a scoprirsi, tra il verde lussureggiante dei boschi d'aranci e di limoni e il dolce azzurro del mare, la vista atroce dei primi borghi in rovina, gli squarci e lo sconquasso delle case.
Io vi passai pochi mesi dopo, e da' miei compagni di viaggio udii i lamenti su l'opera lenta dello sgombero delle macerie, e tanti racconti di orribili casi e di salvataggi quasi prodigiosi e di mirabili eroismi.
C'era, in quello scompartimento di prima classe, un signore barbuto, il quale in particolar modo al racconto degli atti eroici mostrava di prestare ascolto. Se non che, di tratto in tratto, nei punti più salienti del racconto, scattava, scrollando tutta la magra persona irrequieta, in un'esclamazione, che a molti dava ai nervi, perché non pareva encomio degno all'eroismo narrato.
Se l'eroe era un uomo, egli esclamava, con quello scatto strano:

- Disgraziato!

Se donna:

- Disgraziata!

- Ma scusi, perché? - non poté più fare a meno di domandare a un certo punto un giovinotto, che gonfiava in silenzio da un pezzo.

Allora quel signore, come se anche lui da un pezzo attendesse quella domanda, protese impetuosamente la faccia verde di bile e sghignò:

- Ah, perché? Perché lo so io, caro signore! Lei s'indigna, è vero? s'indigna perché, se fosse stato presente al disastro, e una trave, un mobile, un muro non la avessero schiacciata come un topo; anche lei, è vero? vuole dir questo? anche lei sarebbe stato un eroe, avrebbe salvato... che dico? una donzella, eh? cinque fantolini, tre vegliardi, eh? parlo bene? stile eroico! dica la verità... Ma, caro signore, caro signore, e si figura che lei, dopo i suoi eroismi sublimi e gloriosi, sarebbe così lindo e pinto com'è adesso? No, sa! no, sa! non stia a crederlo, caro signore! Lei sarebbe come me, tale e quale. Mi vede? Come le sembro io? Viaggio in prima classe, perché a Roma mi hanno regalato il biglietto, non creda... Sono un povero disgraziato, sa? e lei sarebbe come me! Non mi faccia ridere... Un disgraziato! un disgraziato!

S'afferrò, così dicendo, con una mano e con l'altra le braccia e s'accasciò torvo e fremente nell'angolo della vettura, col mento affondato sul petto. L'ansito gli fischiava nel naso, tra l'ispida barbaccia nera, incolta, brizzolata.
Il giovinotto restò balordo, e si volse a guardare intorno, con un sorriso vano, il silenzio di tutti noi rimasti intenti a spiare il volto di quel singolare compagno.
Poco dopo, questi si sgruppò, come se la bile che gli fermentava in corpo gli si fosse rigonfiata in un nuovo bollore; sghignò come prima guardandoci tutti negli occhi; poi si volse al giovinotto; stava per riprendere a parlare, quando d'improvviso si alzò, e:

- Vuole il mio posto? - gli domandò. - Ecco, se lo prenda pure! Segga qua!

- Ma no... perché? - fece, più che mai intontito, quel giovinotto.

- Perché tante volte, sa com'è? uno parla e l'altro lo contraddice, non perché non sia convinto della ragione, ma perché quello sta seduto in un posto d'angolo. Lei mi guarda da un pezzo; me ne sono accorto; mi guarda e m'invidia perché sto qua, più comodo, col finestrino accanto e sostenuto da questo sudicio bracciuolo. Eh via! dica la verità... Tutti, specialmente in un lungo viaggio, invidiano i quattro fortunati, che stanno agli angoli. Via, segga qua e non mi contraddica più.

Il giovinotto rise con tutti noi di questo razzo inatteso; e, poiché quegli seguitava a insistere in piedi, lo ringraziò, dicendogli che rimanesse pur comodo al suo posto perché non lo contraddiceva per questo, ma perché non gli pareva proprio che si dovesse chiamar disgraziato chi aveva compiuto un'eroica azione.

- No, eh? - riprese quegli allora. - E senta questa! Prego, stieno a sentire anche lor signori. Narro il caso d'una povera donna, conosciuta da me, moglie d'un conduttore, qua, della ferrovia. Il marito viaggiava. Lei sola, inferma da tant'anni, mezza tisica, ebbe l'animo e la forza di salvare i suoi quattro figliuoli in una maniera... si figurino: scendendo e risalendo per quattro volte, dico quattro volte, con un bambino per volta aggrappato alle spalle, lungo un doccione di cisterna, dal terzo piano a terra. Una gatta non sarebbe stata capace di tanto! Sublime, è vero? Ora dico sublime anch'io, e voi tutti gongolate. Ma che sublime, signori miei! Disgraziata! disgraziata! Sapete come le andò a finire? Così, diciamo, precinta d'eroismo, così raggiante di sublimità, naturalmente apparve un'altra al marito commosso e ammirato fino al delirio, al marito che da parecchi anni, per un divieto dei medici, non la teneva più in conto di moglie e la trattava perciò a modo d'una cagna, a cinghiate e vituperii: gli apparve bella, capite? irresistibilmente desiderabile. Signori, quella poveretta morì dopo tre mesi, d'un aborto, naturale conseguenza del suo sublime eroismo!

A questa conclusione inaspettata e grottesca s'opposero, insorgendo, tutti i miei compagni di viaggio.
Ma che! ma via! ma perché doveva dirsi dipesa dall'eroismo la disgrazia di quella poveretta, e non piuttosto dal male di cui soffriva prima? Tanto vero che, se non avesse avuto quel male, apparendo allo stesso modo bella e desiderabile al marito per il recente eroismo, ella non sarebbe morta e avrebbe messo al mondo, pacificamente, un figliuolo.
Senza punto avvilirsi di quella vivace, concorde opposizione, il signore barbuto tornò a sghignare parecchie volte e, lasciando stare che anche questa della nascita d'un quinto figliuolo in quelle deliziose condizioni, a suo giudizio, sarebbe stata per se stessa una grande disgrazia, domandò se, a ogni modo, questo figliuolo, a giudizio nostro, non era stato frutto e conseguenza dell'eroismo.
Eh via, sì, questo almeno era innegabile.
Oh dunque! Innegabile? E se frutto e conseguenza dell'eroismo era stato il figliuolo, frutto e conseguenza dell'eroismo era anche la morte di lei.
Sissignori. Perché bisognava prender la donna com'era, col suo male; non già fabbricarsene una sana apposta, capace di mettere al mondo pacificamente un figliuolo, per il solo gusto di contraddire.
Il male, ella, lo aveva in sé. Ma, né fin allora ne era morta, né forse mai ne sarebbe morta, se quel suo eroismo non avesse tutt'a un tratto, dopo tanti anni d'abbandono e di maltrattamenti, ispirato al marito un tal desiderio di lei, da non fargli più tener conto del divieto dei medici.
Questo divieto, solo questo divieto era conseguenza del male; il divieto, e dunque l'abbandono, e dunque i maltrattamenti del marito. Invece, il desiderio improvviso e naturalissimo, il non tener conto di quel divieto e la morte erano conseguenza dell'eroismo. Tanto vero che, se ella non lo avesse compiuto, il marito, non solo non l'avrebbe ammirata né desiderata, ma la avrebbe trattata anche peggio di prima, e lei non sarebbe morta.

- Bella cosa! - esclamò a questo punto, acceso di fervido sdegno, il giovinotto. - E avrebbe fatto morire i quattro figliuoli senza nemmeno tentare di salvarli in qualche modo. Sarebbe stata una madre indegna e snaturata.

- D'accordo! - rimbeccò pronto quel signore. - Invece è stata un'eroina; e lei la ammira, e io la ammiro, e tutti la ammiriamo. Ma essa è morta. Mi consentirà, spero, che la chiami almeno per questo, disgraziata.

Sono così tormentosamente dialettici questi nostri bravi confratelli meridionali. Affondano nel loro spasimo, a scavarlo fino in fondo, la saettella di trapano del loro raziocinio, e fru e fru e fru, non la smettono più. Non per una fredda esercitazione mentale, ma anzi al contrario, per acquistare, più profonda e intera, la coscienza del loro dolore.

- Eppure creda che per me, caro signore, - riprese poco dopo con un sospiro - non è stata tanto disgraziata questa donna che è morta, quanto sono disgraziati tutti coloro che, dopo uno di questi eroismi, sono rimasti vivi.

«Perché lei deve riconoscere che un eroismo è l'affare di un momento. Un momento sublime, d'accordo! un'esaltazione improvvisa di tutte le energie più nobili dello spirito, un subito insorgere e infiammarsi della volontà e del sentimento, per cui si crea o si compie un atto degno di ammirazione, e diciamo pur di gloria, anche se sfortunato.
Ma sono momenti, signori miei!

(Scusatemi, se ora vi pare ch'io faccia una lezione: sono, di fatti, professore. Purtroppo!)

«La vita non è fatta di questi momenti. La vita ordinaria, di tutti i giorni, voi sapete bene com'è: irta sempre di piccoli ostacoli, innumerevoli e spesso insormontabili, e assillata da continui bisogni materiali, e premuta da cure spesso meschine, e regolata da mediocri doveri.

«E perché si sublima l'anima in quei rari momenti? Ma appunto perché si libera da tutte quelle miserie, balza su da tutti quei piccoli ostacoli, non avverte più tutti quei bisogni, si scrolla da addosso tutte quelle cure meschine e quei mediocri doveri; e, così sciolta e libera, respira, palpita, si muove in un'aria fervida e infiammata, ove le cose più difficili diventano facilissime; le prove più dure, lievissime; e tutto è fluido e agevole, come in un'ebbrezza divina.

«Respirando, palpitando, muovendosi nell'aerea sublimità di quei momenti, se lei però, signor mio, che bei tiri le gioca, che razza di scherzetti le combina, che graziose sorprese le prepara la sua anima libera e sciolta da ogni freno, destituita d'ogni riflessione, tutta accesa e abbagliata nella fiamma dell'eroismo?

«Lei non sa; lei non se n'accorge; non se ne può accorgere. Se ne accorgerà quando l'anima le ricascherà, come un pallone sgonfiato, nel pantano della vita ordinaria.

«Oh, allora....

«Guardi: torno da Roma, ove al Ministero da cui dipendo mi hanno inflitto una solenne riprensione: ove i miei maestri della Sapienza mi hanno accolto col più freddo sdegno, perché son venuto meno, dicono, a tutto ciò che s'aspettavano da me; e qua, guardi qua, ho un giornale ove si dice, a proposito d'un mio libercolo, che sono un vilissimo cinico grossolano, che mi pascolo nelle più basse malignità della vita e del genere umano: io, sissignori. Vorrebbero da me, ne' miei scritti, luce, luce d'idealità, fervor di fede, e che so io...

«Sissignori.

«Qua abbiamo questo bellissimo terremoto.

«Ce ne fu un altro, quindici anni fa, quand'io venni professore di filosofia al liceo, a Reggio di Calabria.

«Il terremoto d'allora non fu veramente come quest'ultimo. Ma le case, ricordo io, traballarono bene. I tetti si aprivano e si richiudevano, come fanno le palpebre. Tanto che, dal letto, in camera mia, attraverso una di queste aperture momentanee, io, con questi occhi, potei vedere in cielo la luna, una magnifica luna, che guardava placidissima nella notte la danza di tutte le case della città.

«Giovanotto, e allora sì acceso di tanta luce d'idealità e pieno di fede e di sogni, balzai subito dal terrore, che dapprima m'invase, eroe, eroe anch'io, credano pure, sublime, agli strilli disperati di tre creaturine, che dormivano nella cameretta accanto alla mia e di due vecchi nonni e della loro figliuola vedova, che mi ospitavano.

«Con un solo pajo di braccia, capiranno, non è possibile salvare sei, tutti in una volta, massime quando sia crollata la scala e tocchi a scendere da un balcone, prima su un terrazzino e poi dal terrazzino alla strada.

«A uno a uno, Dio ajutando!

«E ne salvai cinque, mentre le scosse seguitavano a breve distanza l'una dall'altra, scrollando e minacciando di scardinare la ringhiera del balcone a cui ci fidavamo. Avrei salvato del resto anche la sesta, se la troppa furia e il terrore non la avessero spinta sconsigliatamente a tentare da sé il salvataggio.

«Ma dicano loro: chi dovevo salvar prima? I tre bambini, no? Poi, la mamma.

«Era svenuta! E fu l'impresa più difficile. No, dico male: più difficile fu il salvataggio del vecchio padre paralitico, anche perché già le forze mie erano stremate e solo l'animo me le sosteneva. Ma si doveva avere, sì o no, una maggiore considerazione per quel povero vecchio accidentato e impotente a darsi ajuto da sé?

«Ebbene, non l'intendeva così la vecchia moglie, voleva essere salvata lei, non solo prima del marito paralitico, ma anche prima di tutti, e urlava, ballava dalla rabbia e dal terrore sul balconcino sconquassato, strappandosi i capelli, scagliando vituperii a me, alla figlia, al marito, ai nipotini.

«Mentr'io col vecchio scendevo dal terrazzo della strada, ella senz'aspettarmi, s'affidò al lenzuolo che pendeva dal balcone, e si calò giù. Vedendole scavalcare il parapetto del terrazzo, io dalla strada le gridai che or ora venivo su per lei, m'aspettasse; e, detto fatto, mi slanciai per risalire. Ma sì! Cocciuta, incornata, per non dovermi nulla, prese nello stesso tempo a discendere. A un certo punto, il lenzuolo, non potendo più reggerci entrambi, si snodò dalla ringhiera e patapùmfete, giù, io e lei.

«Io non mi feci nulla; lei si fratturò il femore.

«Parve questa, a tutti, e anche a me allora, povero imbecille, l'unica disgrazia che ci fosse toccata (in quel salvataggio, s'intende!). Ma anche a questa non si diede molto peso, perché in fin dei conti era un frattura, dovuta per giunta alla troppa furia, quando potevamo invece essere morti tutti quanti col terremoto.

«E la vita eroica seguitò, seguitò per circa tre mesi. Come professore di liceo, io m'ebbi una della prime baracche, e naturalmente vi portai dentro i bambini, la signora, i due vecchi; e, come lor signori si possono immaginare, diventai - tranne che per quella vecchia - il loro nume.

«Ah, quella vita di bivacco, tre mesi, sotto la baracca, con la gioventù che ferve in corpo, e la riconoscenza che brilla e aizza, senza saperlo, senza volerlo, dagli occhi d'una madre ancora giovane e bella!

«Tutto facile, tra quella difficoltà; tutto agevole, tra quella indescrivibile confusione; e l'alacrità più ilare, col disdegno dei più urgenti bisogni; e la soddisfazione, non si sa bene di che, una soddisfazione che inebria e incita a sempre nuovi sacrifizi, che non paion più tali, per il premio che danno.

«E tra le rovine, quindici anni fa, non come queste, è vero, luttuose e orrende, negli attendamenti, si folleggiava la notte, sotto le stelle davanti a questo mare divino; e canti e suoni e balli.

«Fu così, ch'io alla fine mi ritrovai secondo padre di tre bambini non miei, e poi, d'anno in anno, padre legittimo di cinque miei, che fanno - se non sbaglio - otto, e nove con la moglie, e undici coi suoceri, e dodici con me, e quindici - tutto sommato - con mio padre e mia madre e una mia sorella nubile, al cui mantenimento provvedo io.

«Ecco l'eroe, cari signori!

«Quel terremoto è passato; anche quest'altro è passato: terremoto perpetuo è rimasta la vita mia.

«Ma sono stato un eroe, non c'è che dire!

«E ora m'accusano che non faccio più il mio dovere; che sono un pessimo professore; e ho il disprezzo freddo di chi sperò in me; e i giornali mi danno del cinico; e non m'arrischio a parlare - per non dar spettacolo soverchio a lor signori - di tutto ciò che mi ribolle qua dentro e mi sconvolge la ragione, se penso ai sogni miei d'una volta, ai propositi miei!

«Signori, se in qualche momento di tregua io tento di raccogliermi e cedo alla vana speranza di potermi rimettere a conversare con l'anima mia d'un tempo, ecco quella vecchia sciancata, quella mia suocera immortale a cui è rimasta in corpo una rabbia inestinguibile contro di me, presentarsi alla soglia del mio studiolo, arrovesciar le mani sui fianchi con le gomita appuntate davanti e, chinandosi quasi fino a terra, ruggirmi tra le gengive bavose, non so se per imprecazione, o per ingiuria, o per condanna:

«"Terremoto! Terremoto! Terremoto!"

«I miei scolari l'hanno risaputo. E sapete come mi chiamano? Il professor Terremoto.»

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Ma che bella giornata!3

Post n°484 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,la iella ha colpito ancora:dopo Ireneo e lo Scaracchioni,c'è stata un'altra vittima del famigerato lunedì 17,nella persona del veterinario Egisto Brodolotti,da poco trasferitosi nel nostro paesino
Ecco,minuto per minuto,la cronaca del suo martirio
7.30- Il veterinario è stato bloccato sulla porta di casa dalla sua dirimpettaia,la Clementina,beghina ufficiale del paese:il suo adorato pappagallo parlante era rimasto,non si sa come,incastrato nella caffettiera.
Dopo venti minuti il Brodolotti ha liberato il volatile,che per poco non lo ha accecato a beccate.
8.30-Cesarone aveva un ascesso sul posteriore.Dato che era venerdì 17,l'anestesia non ha fatto effetto e il Brodolotti si è ritrovato con l'Astorre in groppa al toro infuriato.
Dopo una corsa pazza per il paese,conclusasi per fortuna senza danni,l'anestesia ha finalmente fatto effetto e toro e passeggeri sono finiti nella fontana
9.30-Uno dei tre porcellini d'India dei Capricorni ha il raffeddore.Lucio Cornelio,convinto che il Brodolotti volesse uccidere l'animaluccio suo,gli ha vibrato due belle martellate sugli alluci.
Il pover'uomo è svenuto dal dolore.
10.30- Un tacchino di Teobaldo si era ferito una zampa.Dopo averlo medicato,il Brodolotti si è asciugato il sudore con un fazzoletto rosso.
Ora,anche il cretino più cretino sa che i tacchini odiano il rosso tanto quanto i tori,
Tutti i 18 tacchini di Teobaldo lo hanno assalito,costringendolo a rifugiarsi su un fico.
Dato che era venrdì 17,si è scatenato un violento temporale estivo,e il poveraccio si è inzuppato fino all'osso
14.30-Ripresosi,il Brodolotti è andato dallo Scozzagalli.
Il gatto ,appena lo ha visto,si è arrampicato sull'altissima libreria del soggiorno e il povero veterinario si è dovuto arrampicare.Siccome era venerdì 17 la scala si è rotta e il poveretto si è ritrovato sospeso nel vuoto,a portata di artigli del felino.
Alla fine ha mollato la presa,piombando addosso al padrone di casa
I parenti imbufaliti volevano linciarlo.
16.00-Seminati gli Scozzagalli,il Brodolotti è andato dall'ultimo paziente.Dato che era venerdì 17,si trattava di Belva col mal di denti.
Cagliostro e la gatta,sentendo i lamenti del cagnazzo,si sono scaglaiti contro il Brodolotti,
Vi risparmio i truculenti particolari.
Sono passate due settimane.
Il pappagallo non parla più e la Clementina ha citato a Forum il Brodolotti.
Cesarone dorme ancora.
Melchiorre ha perso la memoria e i parenti hanno denunciato il veterinario per tentato omicidio.
L'Egisto è ricoverato nella clinica Luminaris:abbaia,miagola,si gratta come se avesse un miliardo di pulci e quando deve fare la pipì usa gli infermieri come alberi.Il personale minaccia il licenziamento in massa.
Rivedremo il nostro giovane veterinario? Per conto mio,ne dubito molto!

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Sereno (Ungaretti)

Post n°483 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle

Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore del cielo

Mi riconosco
immagine
passeggera

Presa in un giro
Immortale

 
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libri dimenticati: Chi ama è perduto

Post n°482 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La storia fra Benito Mussolini e Claretta Petacci raccontata da una testimone d'eccezione:Myriam Petacci,sorella minore di Claretta.
E' un libro da leggere per capire bene il legame fra questa giovane donna della borghesia,che per amore sceglie consapevolmente la morte,e il capo del fascismo

 
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Frase del giorno

Post n°481 pubblicato il 22 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Finchè s'hanno denti in bocca non si sa quel che ci tocca (Mia nonna)

 
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