Messaggi del 23/08/2011

La principessa incantata

Post n°502 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un povero calzolaio che aveva due figlioli: il maggiore si chiamava Elmerico ed era maligno e prepotente; l'altro si chiamava Gianni e aveva un carattere mite. Il padre, chissà perché, aveva scambiato la prepotenza di Elmerico per coraggio, e la sua malignità per furberia, mentre la mitezza di Gianni gli sembrava soltanto stupidità. Perciò stimava moltissimo il maggiore, mentre si vergognava un po' del secondo.

Un giorno in cui era andato all'osteria udì parlare alcuni clienti. "Vi assicuro che è così" diceva uno. "La figlia del re è stata rapita da uno stregone che la tiene prigioniera in un castello pieno di tesori. Chi riuscirà a superare tre prove imposte dallo stregone, sposerà la principessa e diventerà padrone di tutte quelle ricchezze." ' Ecco un'impresa fatta apposta per il mio Elmerico ', pensò subito il calzolaio. ' Coraggioso e intelligente com'è, supererà le tre prove e libererà la principessa; la sposerà e diventerà re. Corro subito a dirglielo '. E infatti, ritornò a casa in gran fretta e narrò tutto al figliolo. Elmerico, naturalmente, decise di partire subito, e il calzolaio, per dargli un equipaggiamento degno di lui, vendette persino le suppellettili di casa, e riuscì a comprargli un bel cavallo e anche un'armatura.

Al mattino successivo il giovane balzò in sella e salutò tutti: "Non appena avrò sposato la principessa manderò una carrozza d'oro tirata da sei cavalli a prendere voi e quello sciocco di Gianni." Spronò il cavallo e partì di gran corsa. Galoppa, galoppa, Elmerico giunse ben presto a una foresta selvaggia che circondava il castello dello stregone. Il viaggio, fino a quel momento, era stato facile e il giovanotto, convinto che fosse merito suo, cresceva via via in baldanza e in prepotenza. Scacciò col frustino gli uccelli che cantavano sugli alberi; fece passare il cavallo proprio sopra un formicaio fatto a cupola, schiacciando le formiche; vide un alveare appeso a un ramo e con un colpo di spada lo fece volare in pezzi; e infine, passando vicino a un lago dove nuotavano dodici anatroccoli, li chiamò offrendo loro del cibo e quando furono vicini, ne uccise undici mentre il dodicesimo riuscì a salvarsi a stento. Finalmente giunse davanti al castello, ma il portone era chiuso. Elmerico allora scese da cavallo e incominciò a sferrare gran calci alla porta. A un tratto una finestrella si socchiuse e una vecchina si affacciò: "Che cosa vuoi?" chiese. "Sono venuto a liberare la principessa. Ho fretta!" "Io no" commentò la vecchietta. "Torna domattina alle nove." La finestra si richiuse e, sebbene pieno di rabbia, Elmerico dovette rassegnarsi e passò la notte nel bosco. La vecchietta lo aspettava e aveva in mano un cestello pieno di miglio. Gettò a manate il miglio in mezzo all'erba folta poi disse: "Raccogli tutti questi granellini; fra un'ora tornerò e il lavoro dovrà essere terminato." Rientrò nel castello ed Elmerico borbottò: "Roba da pazzi! Quella vecchia scherza. Non incomincio nemmeno." Andò a fare una passeggiata e dopo un'ora ritornò. La vecchina lo aspettava: "Così non va bene" disse severamente. "Vediamo la seconda prova." Tolse di tasca dodici chiavette d'oro e le gettò in uno stagno. "Và a ripescarle" disse. "Fra un'ora tornerò. Elmerico, rimasto solo, si mise a ridere. "Dovrei ripescare le chiavette?" commentò. "E perché, allora, quella vecchia le ha buttate? È un lavoro inutile." Andò a fare una passeggiata e dopo un'ora ritornò. La vecchia lo aspettava. "Così non va bene, non va bene" ripeté con la faccia scura. Lo prese per mano ed entrarono nel castello. Salito un lungo scalone, si trovarono in una sala alla cui estremità c'erano tre figure uguali, tutte coperte di veli. "Una di quelle è la principessa" disse la vecchia. "Scegli, ma pensaci bene prima di dire qual è. Tornerò tra un'ora." "Scelgo quella di destra!" gridò il giovane sicuro di sé. Allora le tre figure gettarono i veli: quella di mezzo era la bellissima principessa; le altre, due orribili draghi. Il drago di destra afferrò Elmerico e lo gettò dalla finestra: non appena toccò terra egli diventò un sasso.

Intanto a casa i genitori aspettavano sempre la carrozza, ma non la vedevano comparire. Un giorno Gianni disse: "Babbo, lascia che provi anch'io." "Povero scioccherello!" rispose il padre scrollando la testa. "Se Elmerico, che è tanto intelligente, non è riuscito, come potrai riuscire tu?" Ma Gianni insistette tanto che finalmente ottenne il permesso. Tuttavia il padre, che aveva già speso tanto per il figlio maggiore, non possedeva più un soldo, e il ragazzo dovette partire a piedi e senza armi. Cammina, cammina, giunse nella foresta che circondava il castello. Di animo mite com'era, ringraziò gli uccelli per i loro dolci gorgheggi, evitò con cura il formicaio e anzi aiutò le formiche a ricostruire il nido distrutto; collocò un bel mazzo di fiori accanto all'alveare, e visti altri dodici anatroccoli che nuotavano nello stagno, sbriciolò nell'acqua gli avanzi della sua colazione. Finalmente giunse davanti al castello e bussò al portone con garbo. Quando la finestrella si aprì, si tolse il berretto e salutò: "Buona signora, scusate il disturbo. Vorrei provare a superare le tre prove" "Bene, figliolo: ti aspetto domattina alle nove." L'indomani quando Gianni ritornò, la vecchina gettò il miglio fra l'erba e disse: "Raccoglilo entro un'ora." Poi se n'andò. Gianni incominciò, ma era un'impresa disperata: dopo tre quarti d'ora stava per abbandonar l'opera, quand'ecco apparire fra l'erba una fila interminabile di formiche. Ciascuna portava un granello di miglio e in un attimo il cestino fu pieno. "Bene, bene" disse la vecchietta quando tornò. Gettò le dodici chiavi d'oro nello stagno e aggiunse: "Ripescale entro un'ora." Gianni stava domandandosi come avrebbe fatto, quando vide giungere i dodici anatroccoli che portavano una chiave d'oro nel becco. A uno a uno s'accostarono alla riva e gliela porsero. Così anche questa prova fu superata e finalmente la vecchia lo introdusse nella sala dov'erano le tre figure velate. "Una di esse è la principessa. Scegli bene" raccomandò. Gianni studiò a lungo le tre figure, ma erano proprio identiche! Come fare? In quel momento dalla finestra entrarono alcune api che incominciarono a ronzare intorno alla figura centrale. "Scelgo quella di mezzo" gridò il giovane. I veli caddero e quella di mezzo era proprio la principessa che portava una corona di fiori sulla testa; perciò le api si erano avvicinate a lei, fuggendo dai due draghi che puzzavano di pesce e di zolfo.

Gianni era così riuscito a rompere l'incantesimo e grazie a lui i sassi sotto le finestre ridiventarono giovanotti: fra essi c'era Elmerico. La principessa ringraziò il suo salvatore e spedì subito un servo ad avvertire il re. Alle nozze, che furono celebrate con grandi feste, parteciparono anche i genitori dei due giovani, giunti in una carrozza d'oro. Ma la carrozza era stata mandata da Gianni non da Elmerico!

 
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La figlia furba del contadino

Post n°501 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un povero contadino che non aveva terra, ma aveva soltanto una piccola casetta e un'unica figlia. La figlia disse: "Dovremmo pregare il re di darci un pezzetto di terra". Il re era venuto a sapere della loro povertà e donò loro qualche zolla erbosa; la fanciulla e il padre le zapparono per seminarci un po' di frumento e qualche altra granaglia. Quando ebbero zappato quasi tutto il campo, trovarono nella terra un mortaio d'oro puro. "Senti" disse il padre alla fanciulla "dato che il nostro re è stato così indulgente e ci ha regalato il campo dobbiamo dargli il mortaio." Ma la figlia non era d'accordo e disse: "Babbo, se abbiamo il mortaio e non il pestello, ci toccherà cercare anche il pestello; perciò è meglio tacere". Ma egli non volle ascoltarla, prese il mortaio, lo portò al re e disse che lo avevano trovato nella landa. Il re prese il mortaio e domandò se non avesse trovato altro. "No" rispose il contadino. Ma il re disse che doveva procurargli anche il pestello. Il contadino rispose che non lo avevano trovato, ma fu come se avesse parlato al vento. Fu gettato in prigione e avrebbe dovuto restarci finché non avesse reso il pestello. I servi dovevano portargli ogni giorno pane e acqua, quel che si mangia in prigione; e lo sentivano sempre gridare: "Ah, se avessi ascoltato mia figlia! Ah, se avessi ascoltato mia figlia!". Allora i servi andarono dal re e gli dissero che il prigioniero diceva sempre: "Ah, se avessi ascoltato mia figlia!" e non voleva né mangiare né bere. Allora il re ordinò ai servi di portargli il prigioniero e gli domandò perché continuasse a gridare: "Ah, se avessi ascoltato mia figlia!". "Cos'ha mai detto vostra figlia?" "Sì, ha detto di non portare il mortaio, altrimenti avrei dovuto procurare anche il pestello." "Se avete una figlia così saggia, fatela dunque venire." Ella dovette così presentarsi al re, che le domandò se fosse davvero tanto saggia, e disse che voleva proporle un indovinello: se l'avesse indovinato, l'avrebbe sposata. Ella rispose di sì, avrebbe provato a indovinare. Allora il re disse: "Vieni da me né vestita né nuda, né a cavallo né in carrozza, né sulla strada né fuori dalla strada: e se riuscirai a fare tutto questo ti sposerò". Ella se ne andò e si spogliò nuda come Dio l'aveva fatta, così non era vestita; prese poi una gran rete da pesca, vi si mise dentro e se l'avvolse attorno, così non era nuda; si fece prestare un asino, alla coda del quale legò la rete, ed esso doveva trascinarla, così non era né a cavallo né in carrozza; e l'asino dovette trascinarla sulla carreggiata in modo che toccasse terra soltanto con il dito grosso, così non era né sulla strada né fuori dalla strada.

Quando giunse dal re, questi le disse che aveva risolto l'indovinello. Liberò suo padre dalla prigione, la prese in moglie e le affidò tutto il patrimonio reale. Erano già trascorsi alcuni anni e, un giorno che il re passava la rivista, avvenne che davanti al castello si fermassero, con i loro carri, dei contadini che aveva venduto la legna: alcuni avevano dei buoi, altri dei cavalli. C'era un contadino che aveva tre cavalli e uno di questi partorì un puledrino, che corse via e andò a cacciarsi fra due buoi attaccati a un altro carro. Quando i contadini s'incontrarono, incominciarono a litigare, ad azzuffarsi e a vociare, poiché il padrone dei buoi voleva tenersi il puledro e diceva che l'avevano fatto i buoi, mentre l'altro diceva che l'avevano fatto i cavalli ed era suo.

La lite finì davanti al re, ed egli sentenziò che il puledro doveva rimanere dove si trovava; così toccò al padrone dei buoi, al quale tuttavia non apparteneva. L'altro se ne andò piangendo e lamentandosi per il suo puledro. Ma egli aveva sentito dire che la regina era tanto clemente, poiché anch'ella proveniva da una povera famiglia di contadini; perciò si recò da lei e la pregò di aiutarlo ad avere il suo puledro. Ella disse: "Sì, se mi promettete di non tradirmi, vi aiuterò. Domattina presto, quando il re è alla rivista, mettetevi in mezzo alla strada, dove egli deve passare, prendete una gran rete da pesca e fate finta di pescare; continuate a pescare e versate la rete, proprio come se fosse piena".E gli disse anche quel che doveva rispondere, se il re l'avesse interrogato. Così, il giorno dopo, il contadino era là che pescava all'asciutto. Quando il re passò lì davanti e lo vide, mandò subito il suo portaordini a chiedere che intenzioni avesse quel pazzo. Egli rispose: "Pesco". Ma l'altro gli domandò come potesse pescare visto che non c'era acqua. Disse il contadino: "Se due buoi possono fare un puledro, anch'io posso pescare all'asciutto". Il portaordini andò a riferire la risposta al re; allora questi fece chiamare il contadino e gli disse che quella non era farina del suo sacco; di chi era quella risposta? Doveva confessarlo subito. Ma il contadino non voleva parlare e continuava a dire: "Dio guardi!" e che ci aveva pensato lui. Allora lo misero su un fascio di paglia e lo picchiarono e lo tormentarono finché egli confessò di averla avuta dalla regina. Quando tornò a casa, il re disse alla moglie: "Perché sei così falsa con me? Non ti voglio più per moglie: ormai è finita, tornatene nella tua casetta di contadini, da dove sei venuta!". Tuttavia le permise di portare con sé la cosa più cara e più preziosa che avesse: questo era il suo congedo. Ella disse: "Sì, caro marito, se è ciò che vuoi, lo farò". E gli saltò al collo, lo baciò e disse che voleva prender commiato. Allora si fece portare un potente sonnifero per il brindisi d'addio: il re bevve un bel sorso, mentre lei lo toccò appena. Egli cadde subito in un sonno profondo e, quando la regina vide che dormiva, chiamò un servo, prese un bel lenzuolo di lino bianco e ve lo avvolse dentro; i servi dovettero trasportarlo in una carrozza che era davanti alla porta, poi ella lo condusse nella sua casetta. Lo mise nel suo lettino, ed egli continuò a dormire giorno e notte e, quando si svegliò, si guardò attorno e disse: "Ah, mio Dio, dove sono?". Chiamò i suoi servi, ma non ce n'era neanche uno. Finalmente la moglie si avvicinò al letto e disse: "Mio caro signore, mi avete ordinato di portare via dal castello ciò che mi era più caro e più prezioso, sicché ho deciso di prendere voi!". Il re disse: "Cara moglie, tu sei mia e io sono tuo". La condusse nuovamente al castello e volle che si ricelebrassero le nozze. E certo vivranno ancora oggi.

FINE
 
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Raperonzolo

Post n°500 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un uomo e una donna che da molto tempo desideravano invano un bimbo. Finalmente la donna scoprì di essere in attesa. Sul retro della loro casa c’era una finestrella dalla quale si poteva vedere nel giardino di una maga, pieno di fiori ed erbaggi di ogni specie. Nessuno, tuttavia, osava entrarvi. Un giorno la donna stava alla finestra e, guardando il giardino vide dei meravigliosi raperonzoli in un’aiuola. Subito ebbe voglia di mangiarne e, siccome sapeva di non poterli avere, divenne magra e smunta a tal punto che il marito se ne accorse e, spaventato, gliene domandò la ragione. “Ah! Morirò se non riesco a mangiare un po’ di quei raperonzoli che crescono nel giardino dietro casa nostra.” L’uomo, che amava la propria moglie, pensò fra s’: “Costi quel che costi, devi riuscire a portargliene qualcuno.” Così, una sera, scavalcò il muro, colse in tutta fretta una manciata di raperonzoli e li portò a sua moglie La donna si preparò subito un’insalata e la mangiò con avidità. Ma i raperonzoli le erano piaciuti a tal punto che il giorno dopo la sua voglia si triplicò. L’uomo capì che non si sarebbe chetata, così penetrò ancora una volta nel giardino. Ma grande fu il suo spavento quando si vide davanti la maga che incominciò a rimproverarlo aspramente per aver osato entrare nel giardino a rubarne i frutti. Egli si scusò come pot’‚ raccontando delle voglie di sua moglie e di come fosse pericoloso negarle qualcosa in quel periodo. Infine la maga disse: “Mi contento di quel che dici e ti permetto di portar via tutti i raperonzoli che desideri, ma a una condizione: mi darai il bambino che tua moglie metterà al mondo.” Impaurito, l’uomo accettò ogni cosa e quando sua moglie partorì, subito comparve la maga, diede il nome di Raperonzolo alla bimba e se la portò via.

Raperonzolo divenne la più bella bambina del mondo, ma non appena compì dodici anni, la maga la rinchiuse in una torre alta alta che non aveva scala n‚ porta, ma solo una minuscola finestrella in alto. Quando la maga voleva salirvi, da sotto chiamava:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli.”
Raperonzolo aveva infatti capelli lunghi e bellissimi, sottili come oro filato. Quando la maga chiamava, ella scioglieva le sue trecce, annodava i capelli in alto, al contrafforte della finestra, in modo che essi ricadessero per una lunghezza di venti braccia, e la maga ci si arrampicava.

Un giorno un giovane principe venne a trovarsi nel bosco ove era la torre, vide la bella Raperonzolo alla finestra e la udì cantare con voce così dolce che tosto se ne innamorò. Egli si disperava poiché‚ la torre non aveva porta e nessuna scala era alta a sufficienza. Tuttavia ogni giorno si recava nel bosco, finché‚ vide giungere la maga che così parlò:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!”
Così egli capì grazie a quale scala si poteva penetrare nella torre. Si era bene impresso nella mente le parole che occorreva pronunciare, e il giorno seguente, all’imbrunire, andò alla torre e gridò:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!”
Ed ecco, ella sciolse i capelli e non appena questi toccarono terra egli vi si aggrappò saldamente e fu sollevato in alto.

Raperonzolo da principio si spaventò, ma ben presto il giovane principe le piacque e insieme decisero che egli sarebbe venuto tutti i giorni a trovarla. Così vissero felici e contenti a lungo, volendosi bene come marito e moglie. La maga non si accorse di nulla fino a quando, un giorno, Raperonzolo prese a dirle: “Ditemi, signora Gothel, come mai siete tanto più pesante da sollevare del giovane principe?” - “Ah, bimba sciagurata!” replicò la maga, “cosa mi tocca sentire!” Ella comprese di essere stata ingannata e andò su tutte le furie. Afferrò allora le belle trecce di Raperonzolo, le avvolse due o tre volte intorno alla mano sinistra, prese le forbici con la destra e “zic zac”, le tagliò. Indi portò Raperonzolo in un deserto ove ella fu costretta a vivere miseramente e, dopo un certo periodo di tempo, diede alla luce due gemelli, un maschio e una femmina.

La stessa sera del giorno in cui aveva scacciato Raperonzolo, la maga legò le trecce recise al contrafforte della finestra e quando il principe giunse e disse:
“Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!”
ella lasciò cadere a terra i capelli. Come fu sorpreso il principe quando trovò la maga al posto dell’amata Raperonzolo! “Sai una cosa?” disse la maga furibonda “per te, ribaldo, Raperonzolo è perduta per sempre!” Il principe, disperato, si gettò giù dalla torre: ebbe salva la vita, ma perse la vista da entrambi gli occhi. Triste errò per i boschi nutrendosi solo di erbe e radici e non facendo altro che piangere. Alcuni anni più tardi, capitò nello stesso deserto in cui Raperonzolo viveva fra gli stenti con i suoi bambini. La sua voce gli parve nota, e nello stesso istante anch’ella lo riconobbe e gli saltò al collo. Due lacrime di lei gli inumidirono gli occhi; essi si illuminarono nuovamente, ed egli pot‚ vederci come prima.

FINE

 
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Fernando fedele e Fernando infedele

Post n°499 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un uomo e una donna che, finché‚ furono ricchi, non ebbero figli, ma quando diventarono poveri, misero al mondo un maschietto. Ma non riuscivano a trovare un compare; allora l'uomo disse che sarebbe andato nel paese vicino, per vedere se là poteva trovarlo. Per strada, incontrò un pover'uomo che gli domandò dove stesse andando; egli rispose che andava a vedere se trovava un padrino: egli era povero e perciò non trovava nessuno che volesse fargli da compare. -Oh- disse il pover'uomo -voi siete povero e io pure: vi farò io da compare. Ma sono così povero che non posso regalare nulla al bambino; andate e dite alla comare di portarlo in chiesa.- Quando arrivarono in chiesa, il pover'uomo era già là, e chiamò il bambino Fernando fedele. Uscendo di chiesa, il poveretto disse: -Ora andate a casa: io non posso darvi nulla, e anche voi non dovete darmi nulla-. Ma alla comare diede una chiave e la pregò di darla, appena a casa, al padre, che la serbasse finché‚ il bambino avesse quattordici anni; poi il ragazzo doveva andare nella brughiera, e là doveva esserci un castello che si sarebbe aperto con quella chiave, e tutto quello che c'era dentro era suo. Quando il bimbo ebbe sette anni, e si era già fatto grandicello, andò una volta a giocare con altri ragazzi, e tutti avevano ricevuto dei doni dal padrino, uno più dell'altro, ma lui non poteva dire nulla, allora si mise a piangere, andò a casa e disse al padre: -Non ho ricevuto proprio nulla dal padrino?-. -Oh sì- rispose il padre -ti ha dato una chiave: se c'è un castello nella brughiera, va' ad aprirlo.- Allora egli andò, ma non c'era proprio nessun castello. Dopo sette anni, quando ne ha quattordici, torna laggiù, ed ecco un castello. Lo apre, e dentro c'è soltanto un cavallo bianco. Il ragazzo è così felice di avere un cavallo, che vi salta in groppa e ritorna al galoppo da suo padre. -Adesso ho anch'io un cavallo, e mi metterò in viaggio!- dice. Così se ne va, e strada facendo, vede sulla strada una penna da scrivere. Dapprima vuole raccoglierla, ma poi pensa: "Oh, lasciala stare! una penna da scrivere la trovi ovunque se ne hai bisogno". Mentre si allontana sente una voce che gli grida: -Fernando fedele, prendila con te!-. Egli si volta ma non vede nessuno, allora torna indietro e raccoglie la penna. Dopo aver cavalcato un po', passa vicino a un fiume, e sulla riva c'è un pesce che boccheggia. Allora egli dice: -Aspetta, caro pesce, ti aiuterò a tornare in acqua-. Lo prende per la coda e lo getta nel fiume. Allora il pesce sporge la testa dall'acqua e dice: -Tu mi hai aiutato e io ti darò un flauto: in caso di bisogno, suonalo, e io ti aiuterò; e se qualcosa ti cadesse nell'acqua, suona il flauto e io te la riporterò-. Il giovane prosegue e incontra un uomo che gli domanda dove vuole andare. -Oh, al villaggio più vicino.- -Come vi chiamate?- -Fernando fedele.- -Ma guarda, abbiamo quasi lo stesso nome: io mi chiamo Fernando infedele.- E tutti e due se ne vanno alla locanda del villaggio vicino. Ma il guaio era che Fernando infedele sapeva tutto quello che un altro pensava e voleva fare; lo sapeva per ogni sorta di male arti. Nella locanda c'era una bella fanciulla, con un viso ridente e di belle maniere. Ella s'innamorò di Fernando fedele, perché‚ era bello; e gli chiese dove volesse andare. Oh, voleva girare il mondo. Ma lei gli disse che gli conveniva rimanere: in quel paese c'era un re che avrebbe preso volentieri un domestico o un battistrada; egli avrebbe dovuto entrare a servizio dal re. Ma Fernando fedele rispose che non poteva andare a offrirsi così. Allora la fanciulla disse: -Oh, lo farò io!-. Andò subito dal re e gli disse che conosceva un domestico di bell'aspetto. IL re ne fu contento, lo mandò a chiamare e voleva farne il suo domestico. Ma il giovane preferiva essere battistrada, perché‚ dov'era il suo cavallo, doveva esserci anche lui; e il re gli fece fare il battistrada. Quando Fernando infedele venne a saperlo, disse alla fanciulla: -Come, aiuti lui e non me?-. -Oh- diss'ella -aiuterò anche te.- E pensava: -Devi tenertelo amico, perché‚ di lui non ci si può fidare". Così va dal re e glielo offre come domestico, e il re ne è contento. Al mattino, mentre Fernando infedele lo vestiva, il re sospirava sempre: -Ah, se avessi qui con me la mia sposa!-. Ma Fernando infedele detestava Fernando fedele e, un giorno che il re riprese a lamentarsi in quel modo, disse: -Avete il battistrada: mandatelo a prenderla; e se non lo fa, tagliategli la testa-. Allora il re mandò a chiamare Fernando fedele e gli disse che aveva una promessa sposa così e così: doveva portargliela altrimenti sarebbe morto. Fernando fedele andò nella stalla dal suo cavallo bianco, e piangeva e si lamentava: -Ah, povero me!-. Allora udì una voce dietro di lui: -Fernando fedele, perché‚ piangi?-. Egli si voltò ma non vide nessuno e continuò a lamentarsi: -Oh, mio caro cavallino, adesso devo lasciarti, devo morire!-. Solo allora si accorse che era il suo cavallino bianco a interrogarlo: -Sei tu, cavallino mio? Sai parlare?-. E aggiunse: -Devo andare in un posto così e così a prendere la promessa sposa: non sai dirmi cosa devo fare?-. Il cavallino bianco rispose: -Vai dal re e digli che porterai la sposa se egli ti darà ciò che desideri: riuscirai se ti darà una nave piena di carne e una colma di pane. Sul mare a sono dei gran giganti e se tu non portassi loro della carne, ti farebbero a pezzi; e ci sono dei brutti uccelli che ti caverebbero gli occhi se tu non avessi del pane per loro-. Allora il re ordinò a tutti i beccai del paese di macellare, e a tutti i fornai di cuocere il pane, in modo da riempire le due navi. Quando furono piene, il cavallino bianco disse a Fernando fedele: -Adesso saltami in groppa e imbarcati con me; quando verranno i giganti, dirai:"Adesso l'ira conviene scordare, e senza indugio venite a mangiare!"E quando verranno gli uccelli dirai ancora:"A voi qualcosa ho voluto portare, or senza indugio venite a beccare!"Allora non ti faranno nulla, e quando arriverai al castello, i giganti ti aiuteranno: sali al castello e prendi due giganti con te, là ci sarà la principessa addormentata; tu però non svegliarla: i giganti devono sollevarla con il letto e portarla sulla nave-. E ogni cosa andò come aveva detto il cavallino bianco: Fernando fedele diede ai giganti e agli uccelli quello che aveva portato; i giganti si rabbonirono e portarono la principessa con il suo letto al re. Ma quando arrivò dal re, ella disse che non poteva vivere se non aveva le sue carte, che erano rimaste nel castello. Su suggerimento di Fernando infedele, chiamarono così Fernando fedele, e il re gli ordinò di andare a prendere le carte nel castello, altrimenti sarebbe morto. Allora egli tornò di nuovo nella stalla e pianse e disse: -Oh, mio caro cavallino, devo partire nuovamente, come faremo?-. Allora il cavallino disse che dovevano caricare ancora la nave. Tutto andò come la volta precedente e giganti e uccelli furono saziati e ammansiti dalla carne. Quando giunsero al castello il cavallo gli disse di entrare: le carte erano sul tavolo, nella camera della principessa. Fernando fedele va e le prende. Quando sono in mare, a Fernando fedele cade la penna in acqua, e il cavallo gli dice: -Adesso non posso aiutarti-. Allora gli viene in mente il flauto, incomincia a suonare ed ecco arrivare il pesce con la penna in bocca e gliela porge. Ed egli porta le carte al castello dove si stavano celebrando le nozze. Ma alla regina il re non piaceva perché‚ non aveva naso, e invece le piaceva molto Fernando fedele. Una volta che i signori della corte erano riuniti, la regina disse che si intendeva di magia: se qualcuno voleva provare, lei poteva tagliargli la testa e rimettergliela a posto.
Ma nessuno voleva essere il primo e dovette offrirsi Fernando fedele, sempre per consiglio di Fernando infedele: la regina gli tagliò la testa e gliela rimise a posto, e il taglio guarì subito, sicché‚ sembrava che avesse un filo rosso intorno al collo. Allora il re le disse: -Bimba mia, dove l'hai imparato?-. -Sì- rispose la regina -conosco l'arte: devo provare anche con te?- -Oh sì- disse il marito. Ma lei gli tagliò la testa e non gliela rimise a posto, fingendo di non riuscirci e che la testa non volesse attaccarsi bene. Così il re fu sotterrato e la regina sposò Fernando fedele. Ma questi cavalcava sempre sul suo cavallo bianco, e una volta il cavallo gli disse di andare in un'altra prateria che gli indicò, e di farne tre volte il giro al galoppo.
Quando l'ebbe fatto, il cavallo si drizzò sulle zampe di dietro e si trasformò in un principe.

FINE


 
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L'indovinello

Post n°498 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una principessa superba che non sapeva più cosa inventare per appagare la sua alterigia. Infine giunse a bandire un proclama nel quale si diceva che colui che le avesse proposto un indovinello cui ella avesse saputo dare risposta, avrebbe perso la vita. Ma se ella non avesse saputo indovinare, sarebbe diventata sua sposa. La principessa era bella, bianca come il latte e rossa come il sangue, così che nessun pretendente temeva il pericolo, e uno dopo l'altro si presentavano con il loro indovinello, ma lei indovinava ogni volta. Ne aveva già mandati a morte nove, quando il figlio di un commerciante venne a sapere del proclama, e decise di tentare. Il suo servo, che era saggio, doveva accompagnarlo e dargli manforte. "Quattro occhi vedono meglio di due" pensava il giovane. "Ce la faremo, chi ben comincia è a metà dell'opera." La madre e il padre, però, quando seppero la notizia, ne furono molto addolorati perché‚ erano convinti che il loro amato figlio sarebbe morto; essi non volevano lasciarlo andare e dissero: -E' meglio che egli muoia e venga sepolto qui da noi che in terra straniera-. Così gli versarono del veleno nel bicchiere della staffa e dissero: -Caro figlio, bevi un'ultima volta con noi-. Ma il figlio sembrò capire le loro intenzioni perché‚ non volle bere, salì a cavallo e disse: -Addio, cari genitori, devo andare prima che un altro conquisti la principessa-. Allora essi gli porsero lo stesso il bicchiere per farlo bere a forza, ma egli diede di sprone al cavallo cosicché‚ il vino si rovesciò sull'animale e gli entrò nell'orecchio. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il cavallo stramazzò a terra, così il giovane prese quello del servo e questi dovette seguirlo a piedi portando il fagotto sulle spalle. Dei corvi si posarono sul cadavere del cavallo per mangiarselo, ma siccome la carne era avvelenata, si avvelenarono anch'essi e caddero a terra. Tre di essi furono raccolti dal servo che li portò con s‚ in un'osteria e pensò: "Questo servirà da mangime per le canaglie". Li fece tagliare a piccoli pezzi e ne fece il ripieno di tre pagnotte. La mattina dopo si trovarono ad attraversare un bosco immersi nella nebbia fitta; all'improvviso saltarono fuori dodici malviventi che fermarono servo e padrone. Il servo disse: -Risparmiateci la vita; non abbiamo denaro, ma abbiamo tre pagnotte e ve le daremo-. I malviventi erano soddisfatti, presero i pani, li divisero fra loro e li mangiarono. Non passò molto tempo che il veleno li uccise ed essi caddero a terra. I due giunsero così in città e il giovane mercante si presentò alla principessa e disse che voleva proporle un indovinello. Gli fu accordato il permesso ed egli disse: -Al primo colpo uno, al secondo colpo tre, al terzo colpo dodici: come si spiega?-. La principessa rifletté‚, ma non seppe trovare la soluzione; consultò i suoi libri di indovinelli, ma non c'era. Siccome aveva tre giorni di tempo, la prima notte mandò la sua fantesca nella camera da letto dell'ospite: ella doveva origliare, se per caso nel sonno egli avesse parlato. Ma il servo accorto si era messo nel letto del padrone e quando la fantesca entrò le strappò l'abito che aveva addosso e la cacciò a vergate; l'abito invece lo nascose nel suo fagotto. La seconda notte, la principessa mandò la sua cameriera, ma il servo tolse il vestito anche a questa e la cacciò a vergate. La terza notte venne la principessa in persona che, avvolta in un abito grigio nebbia, si sedette accanto al letto del giovane. E, quando pensò che dormisse, gli rivolse la parola, sperando che rispondesse in sogno; invece egli era sveglio, udì e comprese ogni cosa. Ella chiese: -Al primo colpo uno: che cos'è?-. Egli rispose: -Il mio cavallo che morì per il veleno che gli colò nell'orecchio-. -Al secondo colpo tre: che cos'è?- -Tre corvi che mangiarono il cavallo avvelenato e per questo morirono.- -Al terzo colpo dodici: che cos'è?- -Dodici malviventi che mangiarono i corvi avvelenati, sminuzzati dentro tre pani, e per questo morirono.- Spiegato l'indovinello, la principessa voleva svignarsela, ma egli le trattenne l'abito che ella dovette abbandonare. La mattina seguente ella annunciò: -Ho risolto l'enigma-. Fece chiamare i dodici giudici e lo spiegò. Ma il giovane chiese udienza davanti a loro e disse: -Se ella non fosse entrata di notte nella mia camera e non mi avesse interrogato, non l'avrebbe risolto-. I giudici gli risposero: -Portaci delle prove-. Allora il servo mostrò i tre abiti e quando i giudici riconobbero quello grigio nebbia, dissero: -Fatelo ricamare!-. Così l'abito fu ricamato per le nozze e la principessa fu data al giovane in sposa.

 
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Il ricco e il povero

Post n°497 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Nei tempi antichi, quando il buon Dio errava ancora sulla terra, fra gli uomini, una sera che era stanco gli accadde di essere sorpreso dalla notte prima di poter giungere a una locanda. Sul suo cammino, si trovavano due case, l'una di fronte all'altra: la prima era grande e bella, la seconda piccola e dall'aspetto misero. Quella grande apparteneva a un ricco, mentre la piccola a un pover'uomo. Nostro Signore pensò: "Al ricco non darò disturbo: busserò a lui". Il ricco, udendo bussare alla sua porta, aprì la finestra e domandò al forestiero che cosa cercasse. Il Signore rispose: -Vi prego di darmi ricovero per la notte-. Il ricco squadrò il viandante da capo a piedi, e siccome il buon Dio era vestito umilmente e non aveva l'aria di uno che ha molto denaro in tasca, scosse il capo e disse: -Non posso ospitarvi: le mie stanze sono piene di verdure e di sementi; e se dovessi dare alloggio a tutti quelli che bussano alla mia porta, potrei andare in giro a mendicare. Cercate una sistemazione altrove-. Detto questo, sbatté‚ la finestra e piantò in asso il buon Dio. Allora questi gli voltò le spalle, andò alla casetta di fronte e bussò. Aveva appena bussato che il povero già gli apriva la porta pregandolo di entrare e di trascorrere la notte in casa sua. -E' già buio- disse -per oggi non potete proseguire.- Il buon Dio ne fu contento ed entrò. La moglie del povero gli porse la mano, gli diede il benvenuto e gli disse si mettersi comodo: doveva accontentarsi perché‚ non avevano molto, ma quel poco che c'era lo davano volentieri. Poi mise delle patate sul fuoco e, mentre cuocevano, munse la sua capra per avere un po' di latte da bere. Quando la tavola fu apparecchiata, il buon Dio si sedette e mangiò con loro, e quel povero cibo gli piacque, perché‚ aveva accanto a s‚ dei visi lieti. Terminata la cena, quando fu ora di dormire, la donna prese da parte il marito e gli disse: -Senti, marito caro, questa notte ci distenderemo sulla paglia e lasceremo il nostro letto al povero viandante perché‚ si riposi: ha camminato tutto il giorno ed è certo stanco-. -Ben volentieri!- rispose il marito. -Vado a offrirglielo.- Andò dal buon Dio e lo pregò, se era d'accordo, di coricarsi nel loro letto per riposare le sue membra. Il buon Dio non voleva portar via ai due vecchi il loro letto, ma essi non lo lasciarono in pace finché‚ egli acconsentì a coricarvisi; essi, invece si coricarono per terra sulla paglia. Il mattino seguente si alzarono prima che facesse giorno e prepararono all'ospite una modesta colazione. Quando il sole brillò attraverso la finestrella, il buon Dio si alzò, mangiò di nuovo con loro e si preparò a riprendere il cammino. Ma quando fu sulla soglia di casa, disse: -Poiché‚ siete così pii e misericordiosi, chiedete tre cose, e io vi esaudirò-. Il povero disse: -Che altro potrei desiderare se non l'eterna beatitudine, e che noi due, finché‚ viviamo, ci manteniamo in salute e possiamo avere il nostro pane quotidiano? Quanto alla terza cosa non so cosa potrei desiderare-. Il buon Dio disse: -Non vuoi una casa nuova al posto di quella vecchia?-. Allora l'uomo rispose che sì, se avesse potuto avere anche quella, gli avrebbe fatto piacere. Allora il Signore esaudì quei desideri e trasformò la loro vecchia casa in una bella e nuova; poi li lasciò e proseguì il cammino. Il sole era già alto quando il ricco si alzò e, messosi alla finestra, vide di fronte una bella casa al posto della vecchia capanna. Fece tanto d'occhi, chiamò la moglie e disse: -Moglie, cerca di sapere come sono andate le cose. Ieri sera c'era ancora quella misera capanna e oggi c'è una bella casa nuova. Corri di fronte e senti com'è andata-. La donna andò a interrogare il povero che così le raccontò: -Ieri sera è arrivato un viandante che cercava ricovero per la notte; questa mattina, nel prendere commiato, ha voluto concederci tre desideri: l'eterna beatitudine, buona salute in vita e il nostro pane quotidiano e, al posto della nostra vecchia capanna, una bella casa nuova-. Quand'ebbe udito tutto ciò, la moglie del ricco corse a casa a raccontare ogni cosa al marito che disse: -Meriterei di essere picchiato e fatto a pezzi! L'avessi saputo! Il forestiero è stato anche da me, ma io l'ho scacciato-. -Affrettati!- disse la moglie -sali a cavallo, il viandante non è molto lontano, puoi ancora raggiungerlo ed esprimere anche tu tre desideri.- Allora il ricco montò a cavallo e raggiunse il buon Dio. Gli si rivolse in modo amabile e cortese dicendogli che non doveva prendersela se non lo aveva fatto subito entrare: aveva cercato la chiave della porta e, nel frattempo, egli se ne era andato. Se fosse tornato un'altra volta, avrebbe dovuto alloggiare da lui. -Sì- disse il buon Dio -se torno lo farò.- Allora il ricco domandò se anche lui poteva esprimere tre desideri come il suo vicino. Sì, rispose il buon Dio, poteva benissimo, ma non era un buon affare per lui, era meglio se non esprimeva alcun desiderio. Ma il ricco pensò che avrebbe scelto comunque qualcosa di vantaggioso per s‚, purché‚ fosse sicuro di essere esaudito. Il buon Dio disse: -Va' a casa; i primi tre desideri che esprimerai saranno esauditi-. Il ricco aveva raggiunto il suo scopo; si mise in cammino verso casa e si mise a pensare a ciò che poteva desiderare. Mentre rifletteva, lasciò andare le redini, e il cavallo si mise a saltare sicché‚ egli era continuamente disturbato e non riusciva a concentrarsi. Allora si arrabbiò e gridò spazientito: -Vorrei che ti rompessi il collo!-. Come ebbe pronunciato queste parole, il cavallo stramazzò a terra, morto stecchito; e il primo desiderio era esaudito. Ma siccome era avaro, non voleva abbandonare i finimenti: li tagliò, se li mise sulla schiena, e dovette andare a casa a piedi. Tuttavia si consolava pensando che gli restavano ancora due desideri. Mentre camminava nella polvere e il sole di mezzogiorno bruciava infuocato, gli venne un gran caldo e diventò di cattivo umore: la sella gli pesava sulle spalle e continuava a non sapere quello che doveva desiderare. Se gli veniva in mente qualcosa, un attimo più tardi gli sembrava troppo poco. Nel frattempo pensò che la moglie a casa se la passava bene, seduta in una stanza fresca a mangiare di buon appetito. Questo lo indispettì per bene, e, senza riflettere, disse: -Invece di trascinarmi questo peso sulla schiena, vorrei che ci fosse lei seduta su questa sella e che non potesse scendere!-. Com'ebbe pronunciato queste parole, la sella scomparve dalla sua schiena, ed egli comprese che anche il secondo desiderio era stato esaudito. Allora sentì ancora più caldo, si mise a correre e pensava, una volta a casa, di potersi chiudere in camera da solo, per riflettere e trovare qualcosa di grande per l'ultimo desiderio. Ma quando arriva e apre la porta, vede, in mezzo alla stanza, sua moglie seduta sulla sella, che piange e si dispera perché‚ non può scendere. Allora egli disse: -Calmati! Stattene lì seduta e ti procurerò tutte le ricchezze di questo mondo!-. Ma ella rispose: -Che cosa me ne faccio di tutte le ricchezze del mondo se non posso scendere da questa sella? Tu hai desiderato ch'io finissi qua sopra, adesso devi anche aiutarmi a scendere!-. Così, che lo volesse o no, egli dovette chiedere, come terzo desiderio, che sua moglie fosse libera e potesse scendere dalla sella; e il desiderio fu subito esaudito. Così da quella storia egli non ebbe che rabbia, fatica e un cavallo perduto. I poveri invece vissero felici, tranquilli e pii fino alla loro morte serena.

FINE

 
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Il primo aprile di Bernabò

Post n°496 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Si sa che il lupo perde il pelo ma non il vizio,lettori miei e si sa pure che Bernabò Trogoloni non cambierà mai.Dopo un lungo silenzio il nostro è clamorosamente tornato alla ribalta mettendo a ferro e fuoco Firenze il giorno del primo aprile.Ecco ora per ora la cronace delle sue nefandezze
7.00-Il vicino di casa del Trogoloni,Gianlamberto Perticoni,da tempo immemorabile rompeva l'anima al nostro col problema dei pidocchi che gli infestavano le rose.Oggi,con fare cospiratorio,Bernabò gli ha detto che l'unica soluzione al suo problema c'era,arcistrasicura e perpetua:bastava comprare un sacco di terra all'ombra del campanile di Giotto,e il gioco era fatto.Chiunque avrebbe capito che era una balla spaziale,ma al Perticoni manca non solo un venrdì ma anche gli altri 6 giorni della settimana.
Appena possibile è andato nel più grande negozio specializzato della città e ha fatto la sua richiesta.Il commesso prima ha crecato di farlo ragionare,poi ha chiamato gli infermieri della clinica Luminaris,che sta di fronte.
8.30-Nottetempo Bernabò ha tappezzato Sanfrediano di manifesti che annunciavano la prematura dipartita,per indigestione di cozze, di Eufemio Scappottati,noto calciante del Calcio In Costume ed acerrimo rivale del Trogoloni a biliardo,A casa del disgraziato sono cominciati ad arrivare telegrammi,corone e tlefonate.Quando l'Eufemio,che fa la guardia notturna a Brozzi,è tornato a casa,non vi dico che è successo-
9.30- Nello stabile di fronte al Trogoloni abita l'anziana contessa Cleofe Detumistufibus,im lite perenne con l'altrettanto anziano trippaio Pericle Spidocchiati.
Bernabò ha inviato alla Cleofe una missiva hard firmata dal trippaio e a quest'ultimo ha inviato una missiva carica d'insulti,poi si è messo al balcone a godersi lo spettacolo.
Il Pericle ha tuffato la contessa nel pentolone dove bolliva il lampredotto,e per sedare la rissa ci sono voluti 25 agenti di polizia (6 finiti al pronto soccorso con traumi vari)
10.30-Bernabò ha fatto credere all'aspirante attore Niccolò Cocciatosta,suo vicino di pianerottolo,che il celebre regista tedesco Ludwig Asinonen voleva lui per il suo prossimo film.
Lo aspettava nella sua villa a Fiesole per la firma del contratto.
Il Cocciatosta è andato a Fiesole e le guardie del corpo di Asinonen lo hanno scaraventato in piscina.
11,30-Spacciandosi per il segretario del sultano del Brunei,Bernabò ha prenotato l'intero ristorante "Chef chef cocu" (tradotto in fiorentino, Dal cuoco becco) per la serata,salvo poi,tre ore dopo, ritelefonare ricordando al proprietario che giorno era.
15.00-Per concludere in bellezza,il Trogoloni,spacciandosi per il commendator Porchettoni,ha chiamato alla sua villa di Settignano carabinieri,polizia,pompieri e 118.
Il traffico è rimasto bloccato tre ore;gli automobilisti imbufaliti hanno circondato la villa tipo presa della Bastiglia.
Il Porchettoni è stato denunciato per procurato allarme.
A 3 giorni dai fatti la situazione è qeusta.
Il Perticoni ha passato due giorni in clinica prima che venissero provate la sua buonafede e sanità mentale.
Lo Scappottati si è iscritto a un corso di tortura cinese e sembra sia il migliore di tutti.
La Cleofe sposerà il Pericle,testimoni i 25 agenti di polizia.
Non solo,ma ha pure detto che abbandonerà il jet set fiorentino e diventerà trippaia.
Il Cocciatosta andrà a predicare la buona novella agli orsi marsicani.
Il proprietario del ristorante e il Porchettoni sono ricoverati nella clinica Luminaris.
E bernabò? In crociera sul Mediterraneo alla facciaccia nostra,intento a meditare chissà quali altri crimini nefandi
E su questa nota nautica passo e chiudo



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L'imbecille (Pirandello)

Post n°495 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ma che c’entrava, in fine, Mazzarini, il deputato Guido Mazzarini, col suicidio di Pulino? – Pulino? Ma come? S’era ucciso Pulino? – Lulù Pulino, sì: due ore fa. Lo avevano trovato in casa, che pendeva dall’ànsola del lume, in cucina. – Impiccato? – Impiccato, sì. Che spettacolo! Nero, con gli occhi e la lingua fuori, le dita raggricchiate. – Ah, povero Lulù! – Ma che c’entrava Mazzarini?

Non si capiva niente. Una ventina di energumeni urlavano nel caffè, con le braccia levate ( qualcuno era anche montato sulla sedia), attorno a Leopoldo Paroni, presidente del Circolo repubblicano di Costanova, che urlava più forte di tutti.

– Imbecille! sì, sì, lo dico e lo sostengo: imbecille! imbecille! Gliel’avrei pagato io il viaggio! Io, gliel’avrei pagato! Quando uno non sa più che farsi della propria vita, perdio, se non fa così è un imbecille!

– Scusi, che è stato? – – domandò un nuovo venuto, accostandosi, intronato da tutti quegli urli e un po’ perplesso, a un avventore che se ne stava discosto, appartato in un angolo in ombra, tutto aggruppato, con uno scialle di lana su le spalle e un berretto da viaggio in capo, dalla larga visiera che gli tagliava con l’ombra metà del volto.

Prima di rispondere, costui levò dal pomo del bastoncino una delle mani ischeletrite, nella quale teneva un fazzoletto appallottolato, e se la portò alla bocca, su i baffetti squallidi, spioventi. Mostrò così la faccia smunta, gialla, su cui era ricresciuta rada rada qua e là una barbettina da malato. Con la bocca otturata, combatté un pezzo, sordamente, con la propria gola, ove una tosse profonda irrompeva, rugliando tra sibili; in fine disse con voce cavernosa:

– Mi ha fatto aria, accostandosi. Scusi, lei, non è di Costanova, è vero?

(E raccolse e nascose nel fazzoletto qualche cosa.) Il forestiere, dolente, mortificato, imbarazzato dal ribrezzo che non riusciva a dissimulare, rispose:

– No; sono di passaggio.

– Siamo tutti di passaggio, caro signore.

E aprì la bocca, così dicendo, e scoprì i denti, in un ghigno frigido, muto, restringendo in fitte rughe, attorno agli occhi aguzzi, la gialla cartilagine del viso emaciato.

– Guido Mazzarini, – riprese poi, lentamente, – è il deputato di Costanova. Grand’uomo.

E stropicciò l’indice e il pollice d’una mano, a significare il perché della grandezza.

– Dopo sette mesi dalle elezioni politiche, a Costanova, caro signore, ribolle ancora furioso, come vede, lo sdegno contro di lui, perché, avversato qui da tutti, è riuscito a vincere col suffragio ben pagato delle altre sezioni elettorali del collegio. Le furie non sono svaporate, perché Mazzarini, per vendicarsi, ha fatto mandare al Municipio di Costanova... – si scosti, si scosti un poco; mi manca l’aria –. un regio commissario. Grazie. Già! un regio commissario. Cosa... cosa di gran momento... Eh, un regio commissario...
Allungò una mano e, sotto gli occhi del forestiere che lo mirava stupito, chiuse le dita, lasciando solo ritto il mignolo, esilissimo; appuntì le labbra e rimase un pezzo intontissimo a fissar l’unghia livida di quel dito.

– Costanova è un gran paese, – disse poi. – L’universo, tutto quanto, gràvita attorno a Costanova. Le stelle, dal cielo, non fanno altro che sbirciar Costanova; e c’è chi dice che ridano; c’è chi dice che sospirino dal desiderio d’avere in sé ciascuna una città come Costanova. Sa da che dipendono le sorti dell’universo? Dal partito repubblicano di Costanova, il quale non può aver bene in nessun modo, tra Mazzarini da un lato, e l’ex–sindaco Cappadona dall’altro, che fa il re. Ora il Consiglio comunale è stato sciolto e per conseguenza l’universo è tutto scombussolato. Eccoli là: li sente? Quello che strilla più di tutti è Paroni, sì, quello là col pizzo, la cravatta rossa e il cappello alla Lobbia; strilla così, perché vuole che la vita universa, e anche la morte, stiano a servizio dei repubblicani di Costanova. Anche la morte, sissignore. S’è ucciso Pulino... Sa chi era Pulino? Un povero malato, come me. Siamo parecchi, a Costanova, malati così. E dovremmo servire a qualche cosa. Stanco di penare, il povero Pulino oggi si è...

– Impiccato?

– All’ansola del lume, in cucina. Eh, ma così, no, non mi piace. Troppa fatica, impiccarsi. C’è la rivoltella, caro signore. Morte più spiccia. Bene; sente che dice Paroni? Dice che Pulino è stato un imbecille, non perché si è impiccato, ma perché, prima di impiccarsi, non è andato a Roma ad ammazzar Guido Mazzarini. Già! Perché Costanova, e conseguentemente l’universo, rifiatasse. Quando uno non sa più che farsi della propria vita, se non fa così, se prima d’uccidersi non ammazza un Mazzarini qualunque, è un imbecille. Gliel’avrebbe pagato lui il viaggio, dice. Con permesso, caro signore.

S’alzò di scatto; si strinse, da sotto, con ambo le mani lo scialle attorno al volto, fino alla visiera del berretto; e, così imbacuccato, curvo, lanciando occhiatacce al crocchio degli urloni uscì dal caffè.
Quel forestiere di passaggio restò imbalordito; lo seguì con gli occhi fino alla porta: poi si volse al vecchio cameriere del caffè e gli domandò, costernatissimo:

– Chi è?

Il vecchio cameriere tentennò il capo amaramente; si picchiò il petto con un dito; e rispose, sospirando:

– Anche lui... eh, poco più potrà tirare. Tutti di famiglia! Già due fratelli e una sorella... Studente. Si chiama Fazio. Luca Fazio. Colpa della madraccia, sa? Per soldi, sposò un tisico, sapendo ch’era tisico. Ora lei sta così, grossa e grassa, in campagna, come una badessa, mentre i poveri figliuoli, a uno a uno... Peccato! Sa che testa ha quello lì? e quanto ha studiato! Dotto; lo dicono tutti. Viene da Roma, dagli studii. Peccato!

E il vecchio cameriere accorse al crocchio degli urloni che, pagata la consumazione, si disponevano a uscire dal caffè con Leopoldo Paroni in testa.
Serataccia, umida, di novembre. La nebbia s’affettava. Bagnato tutto il lastricato della piazza; e attorno a ogni fanale sbadigliava un alone.
Appena fuori della porta del caffè tutti si tirarono su il bavero del pastrano, e ciascuno, salutando, s’avviò per la sua strada.
Leopoldo Paroni, nell’atteggiamento che gli era abituale, di sdegnosa, accigliata fierezza, sollevò di traverso il capo, e così col pizzo all’aria attraversò la piazza, facendo il mulinello col bastone. Imboccò la via di contro al caffè; poi voltò a destra, al primo vicolo, in fondo al quale era la sua casa.
Due fanaletti piagnucolosi, affogati nella nebbia, stenebravano a mala pena quel lercio budello: uno a principio, uno in fine.
Quando Paroni fu a metà del vicolo, nella tenebra, e già cominciava a sospirare al barlume che arrivava fioco dall’altro fanaletto ancor remoto, credette di discernere laggiù in fondo, proprio innanzi alla sua casa, qualcuno appostato. Si sentì rimescolar tutto il sangue e si fermò.
Chi poteva essere, lì, a quell’ora? C’era uno, senza dubbio, ed evidentemente appostato; lì proprio innanzi alla porta di casa sua. Dunque, per lui. Non per rubare, certo: tutti sapevano ch’egli era povero come Cincinnato. Per odio politico, allora... Qualcuno mandato da Mazzarini, o dal regio commissario? Possibile? Fino a tanto?
E il fiero repubblicano si voltò a guardare indietro, perplesso, se non gli convenisse ritornare al caffè o correre a raggiungere gli amici, da cui si era separato or ora; non per altro, per averli testimonii della viltà, dell’infamia dell’avversario. Ma s’accorse che l’appostato, avendo udito certamente, nel silenzio, il rumore dei passi fin dal suo entrare nel vicolo, gli si faceva incontro, là dove l’ombra era più fitta. Eccolo: ora si scorgeva bene: era imbacuccato. Paroni riuscì a stento a vincere il tremore e la tentazione di darsela a gambe; tossì, gridò forte:

– Chi è là?

– Paroni, – chiamò una voce cavernosa. Un’improvvisa gioia invase e sollevò Paroni, nel riconoscere quella voce:

– Ah, Luca Fazio... tu? Lo volevo dire! Ma come? Tu qua, amico mio? Sei tornato da Roma?

– Oggi, – rispose, cupo, Luca Fazio.

– M’aspettavi, caro?

– Sì. Ero al caffè. Non m’hai visto?

– No, affatto. Ah, eri al caffè? Come stai, come stai, amico mio?

– Male; non mi toccare.

– Hai qualche cosa da dirmi?

Sì; grave.

Grave? Eccomi qua!

Qua, no: su a casa tua.

– Ma... c’è cosa? Che c’è, Luca? Tutto quello che posso, amico mio...

– T’ho detto, non mi toccare: sto male.

Erano arrivati alla casa. Paroni trasse di tasca la chiave; aprì la porta; accese un fiammifero, e prese a salir la breve scaletta erta, seguito da Luca Fazio.

– Attento... attento agli scalini...

Attraversarono una saletta; entrarono nello scrittoio, appestato da un acre fumo stagnante di pipa. Paroni accese un sudicio lumetto bianco a petrolio, su la scrivania ingombra di carte, e si volse premuroso al Fazio. Ma lo trovò con gli occhi schizzanti dalle orbite; il fazzoletto, premuto forte con ambo le mani, su la bocca. La tosse lo aveva riassalito, terribile, a quel puzzo di tabacco.

– Oh Dio... stai proprio male, Luca...

Questi dovette aspettare un pezzo per rispondere. Chinò più volte il capo. S’era fatto cadaverico.

– Non chiamarmi amico, e scostati – prese infine a dire. – Sono agli estremi.. No, resto... resto in piedi... Tu scostati.

– Ma... ma io non ho paura... – protestò Paroni.

– Non hai paura? Aspetta... – sghignò Luca Fazio. – Lo dici troppo presto. A Roma, vedendomi così agli estremi, mi mangiai tutto: serbai solo poche lire per comperarmi questa rivoltella.

Cacciò una mano nella tasca del pastrano e ne trasse fuori una grossa rivoltella.
Leopoldo Paroni, alla vista dell’arma, in pugno a quell’uomo in quello stato, diventò pallido come un cencio, levò le mani, balbettò:

– Che... che è carica? Ohé, Luca...

– Carica, – rispose frigido il Fazio. – Hai detto che non hai paura...

– No... ma, se, Dio liberi...

– Scòstati! Aspetta... M’ero chiuso in camera, a Roma, per finirmi. Quando, con la rivoltella già puntata alla tempia, ecco che sento picchiare all’uscio...

– Tu, a Roma?

– A Roma. Apro. Sai chi mi vedo davanti? Guido Mazzarini.

– Lui? a casa tua?

Luca Fazio fece di sì, più volte, col capo. Poi seguitò:

– Mi vide con la rivoltella in pugno, e subito, anche dalla mia faccia, comprese che cosa stessi per fare; mi corse innanzi; m’afferrò per le braccia; mi scosse e mi gridò: «Ma come? così t’uccidi? Oh Luca, sei tanto imbecille? Ma va’... se vuoi far questo... ti pago io il viaggio; corri a Costanova, e ammazzami prima Leopoldo Paroni!»

Paroni, intontissimo finora al truce e strano discorso, con l’animo in subbuglio nella tremenda aspettativa d’una qualche atroce violenza davanti a lui, si sentì d’un tratto sciogliere le membra; e aprì la bocca a un sorriso squallido, vano:

– ... Scherzi?

Luca Fazio si trasse un passo indietro; ebbe come un tiramento convulso in una guancia, presso il naso, e disse, con la bocca scontorta:

– Non scherzo. Mazzarini m’ha pagato il viaggio; ed eccomi qua. Ora io, prima ammazzo te, e poi m’ammazzo.

Così dicendo, levò il braccio con l’arma, e mirò.

Paroni, atterrito, con le mani innanzi al volto, cercò di sottrarsi alla mira, gridando:

– Sei pazzo?... Luca... sei pazzo?

– Non ti muovere! – intimò Luca Fazio. – Pazzo, eh? ti sembro pazzo? E non hai urlato per tre ore al caffè che Pulino è stato un imbecille perché, prima d’impiccarsi, non è andato a Roma ad ammazzar Mazzarini?

Leopoldo Paroni tentò d’insorgere:

– Ma c’è differenza, per dio! Io non sono Mazzarini!

– Differenza? – esclamò il Fazio, tenendo sempre sotto mira il Paroni. – Che differenza vuoi che ci sia tra te e Mazzarini, per uno come me o come Pulino, a cui non importa più nulla della vostra vita e di tutte le vostre pagliacciate? Ammazzar te o un altro, il primo che passa per via, è tutt’uno per noi! Ah, siamo imbecilli per te, se non ci rendiamo strumento, all’ultimo, del tuo odio o di quello d’un altro, delle vostre gare e delle vostre buffonate? Ebbene: io non voglio essere imbecille come Pulino, e ammazzo te!

– Per carità, Luca... che fai? Ti sono stato sempre amico! – prese a scongiurar Paroni, storcendosi, per scansar la bocca della rivoltella.

Guizzava veramente negli occhi di Fazio la folle tentazione di premere il grilletto dell’arma.

– Eh, – disse col solito ghigno frigido su le labbra. – Quando uno non sa più che farsi della propria vita... Buffone! Stai tranquillo; non t’ammazzo. Da bravo repubblicano, tu sarai libero pensatore, eh? Ateo! Certamente... Se no, non avresti potuto dire imbecille a Pulino. Ora tu credi ch’io non ti ammazzi, perché spero gioie e compensi in un mondo di là... No, sai? Sarebbe per me la cosa più atroce credere che io debba portarmi altrove il peso delle esperienze che mi è toccato fare in questi ventisei anni di vita. Non credo a niente! Eppure, non t’ammazzo. Né credo d’essere un imbecille, se non t’ammazzo. Ho pietà di te, della tua buffoneria, ecco. Ti vedo da lontano, e mi sembri così piccolo e miserabile. Ma la tua buffoneria la voglio patentare.

– Come? – fece Paroni, con una mano a campana, non avendo udito l’ultima parola, nell’intronamento in cui era caduto.

– Pa–ten–ta–re, – sillabò Fazio. – Ne ho il diritto, giunto come sono al confine. E tu non puoi ribellarti. Siedi là, e scrivi.

Gl’indicò la scrivania con la rivoltella, anzi quasi lo prese e lo condusse a seder lì per mezzo dell’arma puntata contro il petto.

– Che... che vuoi che scriva? – balbettò Paroni annichilito.

– Quello che ti detterò io. Ora tu stai sotto; ma domani, quando saprai che mi sono ucciso, tu rialzerai la cresta; ti conosco; e al caffè urlerai che sono stato un imbecille anch’io. No? Ma non lo faccio per me. Che vuoi che m’importi del tuo giudizio? Voglio vendicar Pulino. Scrivi dunque... Lì, lì, va bene. Due parole. Una dichiarazioncina. «Io qui sottoscritto mi pento...» Ah, no, perdio! scrivi, sai? A questo solo patto ti risparmio la vita! O scrivi, o t’ammazzo... «... Mi pento d’aver chiamato imbecille Pulino, questa sera, al caffè, tra gli amici, perché, prima d’uccidersi, non è andato a Roma ad ammazzar Mazzarini.» Questa è la pura verità: non c’è una parola di più. Anzi, lascio che gli avresti pagato il viaggio. Hai scritto? Ora seguita: «Luca Fazio, prima d’uccidersi, è venuto a trovarmi...» Vuoi metterci armato di rivoltella? Mettilo pure: «armato di rivoltella». Tanto, non pagherò la multa per porto d’arma abusivo. Dunque: «Luca Fazio è venuto a trovarmi, armato di rivoltella», hai scritto? «e mi ha detto che, conseguentemente, anche lui, per non esser chiamato imbecille da Mazzarini o da qualche altro, avrebbe dovuto ammazzar me come un cane». Hai scritto, come un cane? Bene. A capo. «Poteva farlo, e non l’ha fatto. Non l’ha fatto perché ha avuto schifo e pietà di me e della mia paura. Gli è bastato che gli dichiarassi che il vero imbecille sono io.»

Paroni, a questo punto, congestionato, scostò furiosamente la carta, e si trasse indietro protestando:

– Questo poi...

– Che il vero imbecille sono io, – ripeté, freddo, perentoriamente, Luca Fazio. – La tua dignità la salvi meglio, caro mio, guardando la carta su cui scrivi, anziché quest’arma che ti sta sopra. Hai scritto? Firma adesso.

Si fece porgere la carta; la lesse attentamente; disse:

– Sta bene. Me la troveranno addosso, domani.

La piegò in quattro e se la mise in tasca.

– Consolati, Leopoldo, col pensiero ch’io vado a fare adesso una cosa un tantino più difficile di quella che or ora hai fatto tu. Buona notte.

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Sono triste (Schuler)

Post n°494 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

uoi baci fanno buio, sulla mia bocca.
Io non ti sono più cara.
E come giungesti!
Azzurro di paradiso;
Alla tua più dolce fonte
Il mio cuore faceva il giocoliere.
Ora lo voglio truccare
Come le puttane il rosa
Appassito dei fianchi di rosso.
I nostri occhi sono socchiusi,
Come un cielo morente
La luna è invecchiata.
La notte non si sveglia più.
Tu non ti ricordi di me.
Dove me ne andrò con questo cuore?

 
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Libri dimenticati:Il superfascista

Post n°493 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

E' la biografia di Alessandro Pavolini,uno dei fedelissimi di Mussolini,finito anche a lui a Piazzale Loreto.
Dai primi inizi a Firenze all'amicizia poi rinnegata con Ciano,dalla lenta ascesa all'amore per la diva di regime Doris Duranti,Petacco ci narra la parabola di quest'uomo in un libro imperdibile

 
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Frase del giorno

Post n°492 pubblicato il 23 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Lusingarsi di essere senza pregiudizi è già di per sè un grande pregiudizio (France)

 
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