Messaggi del 24/08/2011

Re Porcaro

Post n°514 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

I

 

Un Re aveva tre figliuole belle come il sole e ch'egli amava più degli occhi suoi.

Avvenne che il Re, rimasto vedovo, riprese moglie e cominciò per le tre fanciulle una ben triste esistenza. La matrigna era gelosa dell'affetto immenso che il Re portava alle figlie e le odiava in segreto. Con mille arti aveva cercato di farle cadere in disgrazia del padre, ma visto che le calunnie non servivano che a farle amare di più, deliberò di consigliarsi con una fattucchiera. "Si può farle morire" rispose costei. "Impossibile: il Re ammazzerebbe anche me." "Si può deturparle per sempre." "Impossibile: il Re m'ammazzerebbe" "Si può affatturarle in qualche modo..." "Vorrei una fatatura che le facesse odiare dal padre, per sempre." La strega meditò a lungo, poi disse: "L'avrete. Ma mi occorre che mi portiate un capello di ciascuna strappato con le vostre mani e tre setole porcine, strappate con le vostre mani..."

La matrigna ritornò a palazzo e la mattina seguente entrò sorridendo nelle stanze delle tre principesse, mentre le cameriste ne pettinavano le chiome fluenti. "Figliuole mie" disse con voce affettuosa "voglio insegnarvi un'acconciatura di mia invenzione..." E preso il pettine dalle mani delle donne, pettinò Doralice. "Ah! mamma, che mi strappate i capelli!..." Pettinò Lionella. "Ah! mamma, che mi strappate i capelli!..." Pettinò Chiaretta. "Ah! mamma, che mi strappate i capelli!..." Salutò le figliastre e uscì con i tre capelli attorti nel dito indice... Attraversò i giardini, i cortili, giunse alle fattorie, entrò nel porcile e con le sue dita inanellate strappò tre setole da tre scrofe grufolanti. Poi ritornò dalla strega. La strega pose in un lambicco i tre capelli dorati e le tre setole nere, vi unì il succo di certe erbe misteriose e ne distillò poche gocce verdastre che raccolse in una boccetta. "Eccovi, Maestà. Le verserete nel bicchiere del Re, all'ora del pranzo. È la fattura dello scambio; l'effetto sarà immediato." La Regina si tolse dalla corona la pietra più bella, la regalò alla strega e se ne andò.

II

 

Alla mensa regale sedevano il Re, la Regina, le tre principesse, cinquecento dame e cinquecento cavalieri. La Regina versò furtivamente nel calice del Re il filtro fatato e attese, ansiosa di vederne l'effetto. Aveva appena bevuto che il Re stralunò gli occhi, come preso da sdegno e da meraviglia, e si alzò accennando verso le figlie: "Che beffa è questa? Chi ha messo tre scrofe al posto delle mie figliuole? Che beffa è questa? Via di qui! Via le bestie immonde!" E alzatosi furibondo cominciò a malmenare, a percuotere le figlie, a spingerle, a inseguirle attraverso le sale, i giardini, i cortili, fino al porcile dove le rinchiuse. Dal porcile trasse, invece, le tre scrofe corpulente e prese ad abbracciarle, chiamandole coi nomi delle figlie; poi le condusse a palazzo, le fece salire a mensa, sui seggi delle tre principesse: "Chiaretta, Doralice, Lionella, povere figlie mie, chi vi fece l'onta di chiudervi là dentro?" E le baciava amorosamente. Tutta la Corte, seduta a mensa, rideva. Il Re aggrottò le ciglia. "Perché si ride?" Allora un cavaliere si alzò: "Maestà, perdonate, ma quelle sono tre scrofe!" Il Re, furibondo, lo fece immediatamente tradurre in prigione, nei sotterranei delle torri. E riprese a baciare le tre bestie che grugnivano. La Corte rideva. "Perché si ride?" Un secondo cavaliere si alzò: "Maestà, perdonate; ma, in nome di Dio, quelle non sono le tre reginette, sono tre scrofe." Il Re lo fece decapitare all'istante, per lesa maestà. E la Corte non rise più.

Le tre bestie furono vestite con abiti regali, adorne di gioielli, servite da cento cameriste. Il re le voleva vicine sempre, le accompagnava a passeggio, a mensa, a Corte, alle danze, ai ricevimenti. E ovunque le tre scrofe passavano, dame e cavalieri facevano ala, piegandosi fin in terra, inchinandole e ossequiandole come principesse del sangue. Ma tutti soffocavano le risa, mormorando: "Passa il Re ammattito, passa il Re Porcaro!..."

III

 

Chiaretta, Lionella, Doralice passavano i loro giorni nel porcile, piangendo e invocando pietà. Il Re, che amava occuparsi in persona delle sue fattorie, passava talvolta con la Regina accanto al porcile; e le sue figlie si protendevano piangendo verso il padre che non le riconosceva. "Padre! Padre caro, non ci ravvisate? siamo le vostre figliuole! Che colpa è la nostra? Che vendetta è la vostra? Liberateci, per pietà!..." Il Re le guardava distratto attraverso le sbarre del porcile e diceva alla Regina: "È strano come queste tre bestie grugniscono pietosamente e protendono le zampe verso di me..." La Regina, inquieta, voleva liberarsi delle figliastre definitivamente. "Osservate, Maestà, come son fresche e rosee: io consiglierei il gastaldo di farne salame..." "Dite bene" rispose il Re "oggi stesso darò ordine di farle sgozzare..."

Le tre reginette caddero prive di sensi.

IV

 

Rinvennero al luccichìo di coltellacci enormi. Furono legate mani e piedi ad un bastone; ogni bastone, sorretto ai capi da due bifolchi, prese la via del macello. Cammin facendo le tre sorelle supplicavano i loro aguzzini: "Comando del Re!" Esse piangevano, disperate. "Comando del re! Se il Re si sapesse disobbedito farebbe sgozzare anche noi." Ma quelle tanto piansero e supplicarono che i sei carnefici s'impietosirono. "Bisogna promettere di non ritornare alla Reggia mai più." Le tre sorelle promisero. Allora i bifolchi le portarono fino ai confini del regno, le slegarono e le abbandonarono al loro destino.

V

 

Rimaste sole e povere, in paese straniero, le tre principesse dovettero lavorare per campare la vita. Per loro fortuna avevano imparato fin da bimbe ogni lavoro donnesco; e sapevano cucire e ricamare a perfezione. La bellezza misteriosa delle tre ricamatrici faceva correre strane voci nella città, ma esse vivevano quiete e laboriose nella piccola casa modesta. Rimpiangevano talvolta l'affetto del padre e il regno perduto. Lionella sparecchiava la mensa e diceva: "A quest'ora ci si abbigliava per il ballo..." Doralice rigovernava i piatti e diceva: "A quest'ora le nostre donne ci davano il bagno nell'acqua di rose..." Chiaretta scopava e diceva: "A quest'ora si andava a caccia dell'airone col girifalco..." E sospiravano.

Picchiava sovente alla porta un vecchio mendicante dalla barba bianca; e sempre le sorelle gli donavano una scodella di minestra. "Grazie, figliuole! Che mani da principesse!..." "Siamo principesse." E una sera si sedettero col vecchio sulla panca della strada e gli confidarono la loro storia. "Povere figliuole! Non m'è nuovo questo incantesimo... Il Re, vostro padre, ha bevuto la fatatura dello scambio..." E trasse fuori dalla bisaccia un libercolo di pergamena sgualcito e cominciò a sfogliarlo attentamente. L'aveva trovato anni addietro, nella caverna di un monte, presso lo scheletro d'un eremita. "Contro la fatatura dello scambio c'è un'acqua infallibile: l'acqua che balla, che suona, che canta; ma non si sa dove sia..." Per molti giorni le sorelle meditarono le parole del vecchio. E una sera Lionella disse: "Sorelle mie, io sono la primogenita. Ho deciso di tentar la sorte per tutte. Partirò alla ricerca dell'acqua miracolosa. Abbracciò le sorelle piangenti e sul fare dell'alba se ne partì. Passarono i giorni, le settimane, i mesi; e Lionella non ritornava.

Compiva l'anno, il mese, il giorno quando Doralice disse a Chiaretta: "Sorella mia, sono la secondogenita. È giusto ch'io mi metta alla ventura. Partirò domani." All'alba abbracciò la sorella e se ne partì. Chiaretta restò sola nella piccola casa deserta. Passò il tempo.Compiva l'anno, il mese, il giorno e Chiaretta decise di porsi alla ventura. Cammina, cammina, cammina... Attraversò fiumi e boschi, monti e pianure, mendicando un tozzo di pane ai casolari. Le massaie, sulla soglia, guardavano stupite quella bella mendica giovinetta. "Buone donne, sapreste darmi notizia dell'acqua che balla, che suona, che canta?" Ma quelle si stringevano nelle spalle. Nessuna sapeva. E Chiaretta riprendeva sconfortata il cammino.

Una sera si addormentò tra le foglie secche, sotto un castagno. All'alba si sentì tirare una ciocca, sulla tempia: si volse e vide una lucertola con due code impigliata nei suoi capelli d'oro. "Ho passata la notte nei tuoi capelli ed ora son prigioniera...Liberami e ti ricompenserò!" Chiaretta liberò le zampine dall'intrico dei legami sottili. La lucertola le diede una delle sue due code. "Tienla preziosa. Ad ogni domanda ti risponderà." Chiaretta contemplò a lungo il moncherino che s'agitava nella sua palma distesa. "Coda, codina, sai dirmi dov'è l'acqua che suona, che balla, che canta?" E la coda girò nella palma della mano, si tese verso un punto dell'orizzonte come l'ago di una bussola. Chiaretta prese quella direzione. Cammina, cammina, cammina, giunse in un paese lontano, fra dirupi spaventosi; e sentì la codina agitarsi nella sua tasca, quasi ad avvisarla. Domandò ad una vecchietta notizie dell'acqua portentosa. "Sì, la fonte è qui! Ma è in custodia di un negromante che abita lassù, in quel castello che vedete. Arrivano sovente dame e cavalieri, entrano nel giardino delle sette porte, ma nessuno ne esce più..."

Chiaretta entrò coraggiosa nel giardino fatato, stringendo in una mano l'ampolla vuota, nell'altra la codina miracolosa. Il giardino era un labirinto dalle mille strade tortuose dove fatto il primo passo si restava smarriti. Ma Chiaretta seguiva ogni movimento della codina oscillante nella palma della sua mano. E gira e rigira, sul tramonto riuscì in una pianura dove in una conca immensa si raccoglieva l'acqua meravigliosa. Attorno alla fontana si vedevano, a perdita d'occhio, statue di marmo candidissimo. Chiaretta fece per riempire l'ampolla, ma sentì la codina agitarsi disperata nell'altra mano, e l'osservò. Il moncherino cominciò a piegarsi a N, poi a O, poi ancora a N, poi prese a parlare con lettere viventi: "Non toccare l'acqua fatata! Chi la tocca resta di marmo." Allora Chiaretta appese l'ampolla ad un filo, la calò e l'estrasse ricolma; poi la turò e la pose in tasca. Pensava al ritorno quando riconobbe in una statua la sorella Doralice; guardò quella dopo: era Lionella. Prese ad abbracciare il freddo marmo, piangendo. "Coda, codina, risuscita le mie sorelle!" Accostò il moncherino alle statue e quelle rivissero all'istante. Le tre principesse ripresero la via della patria.

VI

 

Giunte al regno del padre, le sorelle si travestirono da pellegrine, per non essere riconosciute dalla matrigna che le credeva morte; e col volto coperto d'un velo fitto e il petto adorno di conchiglie e d'amuleti si presentarono al palazzo. Il Re le ricevette nella sala del trono. Accanto a lui sedeva la matrigna e le tre scrofe usurpatrici, vestite di stoffe preziose, adorne d'oro e di gemme. "Sire! Siamo pellegrine reduci di Terra Santa. Abbiamo portato dai paesi del Gran Turco un'acqua dilettosa che vogliamo offrire alla Maestà Vostra." E Chiaretta trasse fuori l'ampolla, la sturò, la depose ai piedi del trono. Subito ne balzò fuori l'acqua fatata, fece un inchino e cominciò a salire i gradini del trono danzando e cantando al suono di una musica lontana. La sua canzone narrava di tre principesse perseguitate dalla matrigna e d'un Re insanito per un filtro malvagio, narrava tutta l'istoria pietosa delle tre giovinette. La matrigna fece per ghermire e disperdere l'acqua delatrice ma la toccò appena che restò di marmo. Al Re fu come cadesse dagli occhi una benda; vide le tre bestie immonde sedute sui seggi delle figlie rinnegate, capì, e scese a braccia aperte stringendo le tre pellegrine che si erano scoperte il viso. La Corte acclamava il Re rinsavito e le principesse redivive. Queste, pietose, vollero ritornare in vita la Regina pietrificata, e cercarono la coda di lucertola, ma la coda non c'era più. E la matrigna di marmo, col volto furente e le mani protese, fu collocata su un piedistallo, nell'atrio del palazzo, e vi restò nei secolo come statua della malvagità.

immagine corona

 
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Il falso uccello e lo sposo stregone

Post n°513 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio mago che, preso l’aspetto di un mendicante, andava di casa in casa chiedendo l’elemosina e si portava via le belle ragazze. Nessuno aveva idea di  dove le portasse, né di che fine facessero, perché non tornavano mai più. Un giorno arrivò davanti alla porta di un uomo che aveva tre belle figliole, lo stregone aveva l’aspetto di un poverello e portava sulla schiena una gerla come se volesse raccogliere lì i doni che riceveva. Chiese per carità un pezzo di pane e quando la figlia più grande glielo offrì, la toccò appena e quella dovette balzargli nella gerla. Poi lo stregone se n’andò a grandi passi e se la portò nella sua casa che stava nella boscaglia più fitta. In casa tutto era splendente, egli le diede tutto quello che bramava e le disse: "Tesoruccio, ti piacerà sicuramente qui da me, avrai tutto ciò che il tuo cuore desidera. "

Andò avanti così un paio di giorni e poi disse: "Debbo partire e lasciarti sola per un po’, eccoti le chiavi di casa, puoi andare da qualsiasi parte e guardare tutto, ma non nella stanza che si apre con questa chiave piccina, lì ti vieto d’entrare, pena la vita." Poi le consegnò un uovo e le disse: "Conservamelo bene e portalo sempre con te, perché se andrà smarrito, ne verrà una grande sventura." Lei prese le chiavi e l’uovo e diede parola di far tutto per bene. Quando quello se n’andò, girò la casa da cima a fondo, le stanze lampeggiavano d’argento e d’oro e lei considerò che mai aveva visto una simile ricchezza. Alla fine giunse alla porta proibita, voleva passare più avanti, ma il desiderio di sapere non le dava pace. Guardò attentamente la chiave, pareva una chiave come tutte le altre, l’infilò nella serratura, girò un pochino e la porta si aprì del tutto. Ma cosa vide quando entrò? In mezzo alla stanza c’era una vasca insanguinata e lì nell'interno c’erano dei morti fatti a pezzi e di fianco c’era un ceppo e sul ceppo un’ascia. S’impaurì a tal punto che l’uovo che aveva in mano vi cadde dentro. Lei lo ripescò e lo lavò dal sangue, ma inutilmente, subito il sangue ricompariva. Lavava e strofinava, ma non riusciva ad asportarlo. Poco dopo ritornò l’uomo dal suo viaggio e subito richieste la chiave e l’uovo. Lei glieli porse, ma rabbrividiva tutta e, dalle macchie rosse, lui osservò subito che era entrata nella camera insanguinata. "Sei entrata contro il mio volere, ora vi entrerai contro il tuo." La buttò dentro, l’afferrò per i capelli, le fece appoggiare la testa sul ceppo e gliela tagliò e il suo sangue scolò sul pavimento. Poi la buttò con le altre nella vasca. "Ora andrò a prendere la seconda" disse lo stregone.

E sotto le sembianze di un mendicante, si recò nella casa del pover’uomo a domandare l’elemosina. La seconda figlia gli portò un pezzo di pane, e anche di questa s’impadronì con un solo tocco e poi se la portò via. Non andò meglio neppure alla sorella, si lasciò prendere dalla curiosità, aprì la stanza insanguinata, guardò dentro e al ritorno dello stregone dovette pagare con la vita. Egli andò a prendere la terza che era prudente e scaltra. Quando l’uomo le diede la chiave e partì, per prima cosa mise l’uovo bene al sicuro, poi esaminò la casa, alla fine andò nella stanza proibita. Dio mio, cosa vide! Le sue care sorelle giacevano nella vasca, pietosamente uccise e fatte a pezzi. Ma lei cercò e raccolse le parti del corpo sparse le riunì, testa, corpo, braccia, gambe. E quando non mancava più niente, le membra iniziarono a far dei movimenti e si saldarono bene l’un l’altra e tutte e due le ragazze spalancarono gli occhi e furono di nuove vive. Allora si fecero festa e si baciarono e abbracciarono. L’uomo, al suo ritorno, chiese subito la chiave e l’uovo e poiché non c’erano impronte di sangue, l’uomo disse: "Hai superato la prova, sarai mia moglie." Lui in questo modo non possedeva più poteri su di lei e doveva fare quello che lei desiderava. "Benissimo" rispose la ragazza, "ma prima porta un cesto d’oro a mio padre e a mia madre e portalo tu stesso sulla schiena. Io nel frattempo farò i preparativi per le nozze." Poi corse dalle sorelle che aveva nascoste in uno stanzino e disse loro: "È sopraggiunto il momento per strapparvi al pericolo, quel miserabile vi porterà lui stesso a casa, ma appena sarete a casa mandatemi aiuto." Mise ambedue nel canestro e le rivestì d’oro così che non potessero vedere. Poi chiamò lo stregone e gli disse: "Porta il cesto, ma io ti guarderò dalla finestra, guai a te se ti fermi o riposi." Lo stregone innalzò il canestro, se lo mise sulle spalle e corse via, ma era talmente pesante che gli scolava il sudore sul viso. Allora si sedette e voleva riposare un po’, ma dal cesto una gridò: "Guardo dalla finestra e vedo che riposi, vai subito avanti." Egli ponderò che fosse la sposa e si alzò e si rimise per via. Ancora una volta voleva sedersi, ma subito sentì gridare: "Guardo dalla finestra e vedo che riposi, vai subito avanti. " E ogni volta che si fermava, una strillava e lui dovette correre, fino a che senza fiato e spossato morto portò l’oro e le fanciulle alla casa dei genitori. Nel frattempo in casa la sposa faceva preparativi le nozze e invitò gli amici dello stregone. Poi prese un teschio con i denti sghignazzanti, lo agghindò con i gioielli e una corona di fiori, lo portò su in soffitta e lo sistemò come se stesse guardando fuori. Quando tutto fu pronto, s’immerse in un barile di miele, aprì il piumino e ci si rotolò dentro, tanto che sembrava uno strano uccello e nessuno l’avrebbe potuta individuare. Uscì da casa e, per via, incontrò una parte degli ospiti e loro le domandavano:

"Da dove vieni uccelletto felice?"
"Vengo dalla casa di piuma di gallina."
"E cosa fa la giovane sposina?"
"Ha spazzato tutta la casina e guarda dalla finestra."

Infine incontrò proprio lo sposo che se ne ritornava con lentezza verso casa. Anche lui, come gli altri chiese:

"Da dove vieni uccelletto felice?"
"Vengo dalla casa di piuma di gallina."
"E cosa fa la mia sposina?"
"Ha spazzato tutta la casina e guarda giù dalla finestra."

Lo sposo guardò su e scorse il teschio tutto abbigliato. Allora pensò che fosse la sua sposa e le fece un bel gesto di saluto. Quando fu in casa con tutti i suoi ospiti, ecco arrivare i parenti e i fratelli della sposa che erano venuti a portarle aiuto. Allora tutti insieme chiusero le porte e barricarono le finestre in modo che nessuno potesse uscire e appiccarono il fuoco così lo stregone e tutta la sua discendenza dovettero bruciare.

 
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Valdemar e le sue figlie

Post n°512 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Quando il Vento corre sull'erba, allora questa si increspa come l'acqua quando corre sul grano, allora questo ondeggia come un lago, questa è la danza del Vento; ascoltalo quando racconta: esso racconta cantando, e risuona diversamente tra gli alberi della foresta che tra aperture, fenditure e crepe del muro. Vedi come lassù il Vento dà la caccia alle nuvole come se fosse un gregge di pecore! Senti come il Vento quaggiù urla attraverso il portone aperto come se fosse il guardiano notturno che suona il corno! Esso urla in modo strano giù nel comignolo e dentro al caminetto; per questo il fuoco divampa e scintilla, illumina quasi interamente la stanza e si sta tanto bene seduti al caldo ad ascoltare. Devi soltanto lasciar raccontare il vento: esso conosce le fiabe e le storie, più di tutti noi insieme. Ascolta ora come racconta:

"Ffu-u-o-ri! scomparire!" - ecco il ritornello della canzone.

"Vi è sulle rive dello stretto del grande Belt una vecchia proprietà con i muri spessi e rossi!" dice il Vento, "ne conosco ogni pietra, vidi ognuna di esse prima quando stava nella fortezza di Marsk Stig il traditore sul promontorio; questa dovette essere tirata giù! la pietra venne rimessa e diventò un nuovo muro, una nuova proprietà, altrove, fu la proprietà di Borreby, corre si presenta ancora oggi! Ho visto e conosciuto i signori e le signore di alto lignaggio, le famiglie cbe si sono alternate per abitarvi, ora racconto di Valdemar Daae e delle sue figlie! Egli teneva la testa così alta, era di stirpe regale! era capace di ben altre cose che non di dare la caccia al cervo e di vuotare un boccale; - in fondo si potevano arrangiare da soli, diceva lui stesso. La sua sposa avanzava dritta, con una veste di seta ricamata d'oro in casa, sul pavimento lucido a disegni; le tappezzerie erano magnifiche, i mobili costosi, erano intagliati con grande arte. Ella aveva portato argenteria e oro in casa; in cantina vi era la birra tedesca quando c'era qualcosa; neri cavalli focosi nitrivano nella stalla; la ricchezza era grande nella proprietà di Borrreby quando c'era la ricchezza. E vi erano bambini; tre belle fanciulle, Ide, Johanne e Anna Dorothea: ricordo ancora i nomi. Era gente ricca, era gente distinta, nata e cresciuta nella magnificenza! "Ffuu-o-ri! scomparire!" cantò il Vento e poi raccontò di nuovo. "Qui non vidi, come nelle altre vecchie proprietà, l'illustre signora seduta nella sala dei cavalieri con le sue ragazze a girare la rocca, ella suonava il liuto melodioso accompagnandolo col suo canto, non sempre però con i vecchi canti danesi, ma con canzoni in lingua straniera. Vi era vita e festa, venivano ospiti distinti da vicino e da lontano, la musica risuonava, i boccali risuonavano, non riuscii a coprire le loro voci!" disse il Vento. "Vi era superbia insieme a spavalderia e chiasso, signori, ma non vi era Nostro Signore! Era proprio la vigilia della festa di maggio", disse il Vento, "io venni da Ovest, avevo visto le navi ridotte a carcasse sulla costa occidentale dello Iutland, mi ero affrettato passando sulla brughiera e sulla costa verde di boschi, passando sull'isola di Fionia, e passavo ora sullo stretto del Grande Belt, a tutta velocità e soffiando forte.

Poi mi misi a riposare sulla costa dell'isola di Selandia, vicino alla proprieú di Borreby, dove il bosco aveva ancora querce magnifiche. I giovani garzoni della zona vennero qui fuori a raccogliere cime e rami, i più grandi e i più secchi che potessero trovare. Se li portarono in città, ne fecero un cumulo, vi appiccarono fuoco, e le ragazze e i garzoni danzarono intorno cantando. Io stavo fermo", disse il Vento, "ma piano piano toccai un ramo, quello posto dal più bello dei garzoni; la sua legna avvampò, emettendo la fiamma più grande; egli fu l'eletto, ebbe il nome d'onore di Re della foresta, fu il primo a scegliere tra le ragazze la sua compagna, l'Agnellina della festa; la gioia e l'allegria furono più grandi lì di quelle nella ricca proprietà di Borreby." "E alla proprietà arrivò in una carrozza dorata con sei cavalli la nobile siruora e le sue tre figlie, tanto fini, tanto giovani, tre deliziosi fiori: la rosa, il riglio e il giacinto pallido. La madre stessa era un tulipano vanitoso, non salutò una sola persona di tutta la schiera che fermò il suo gioco per fare la riverenza e mostrarle rispetto, si dovette credere che la signora fosse di gambo fragile. La rosa, il giglio e il giacinto pallido, sì, li vidi tutti e tre! di chi sarebbero un giorno state l'Agnellina della festa, pensai; il loro Re della festa sarà un cavaliere orgoglioso, forse un principe! - Ffu-u-o-ri - scomparire! scomparire!

Si, la carrozza proseguì con loro e la danza proseguì con i contadini. L'estate fu portata a cavallo nel paese di Borreby, di Tjaereby, in tutti i paesi lì intorno. Ma di notte, quando mi alzai", disse il Vento, "la signora di alto lignaggio si mise a letto per non alzarsi mai più; fu presa così come tutti gli uomini tengono presi, non è una novità. Valdemar Daae stette tutto serio e pensoso per un breve momento; l'albero più orgoglioso può essere piegato ma non rotto, disse una voce dentro di lui; le figlie piansero e nella proprietà tutti si asciugarono gli occhi, ma la signora Daae era scomparsa, - e io scomparii! ffu-u-o-ri!", disse il Vento. "Tornai, tornai spesso, sopra l'isola di Fionia e l'acqua dello stretto del Belt, mettendomi seduto sulla spiaggia di Borreby, vicino al meraviglioso bosco di querce; lì il falco pescatore, il colombaccio, i corvi blu e perfino la cicogna nera costruiscono i loro nidi. Era la prima parte dell'anno, alcuni avevano le uova e alcuni avevano i piccoli. Ebbene, come volavano, come strillavano; si sentirono colpi d'ascia, colpo dopo colpo; il bosco andava abbattuto, Valdemar Daae voleva costruirsi una nave preziosa, una nave da guerra con tre castelli di prua che il re probabilmente avrebbe comprato, ed ecco perché il bosco, il segno dei marinai, la casa degli uccelli, andava abbattuto. L'averla volò via spaventata, il suo nido venne distrutto; il falco pescatore e tutti gli uccelli del bosco persero la loro casa, volarono dappertutto insicuri strillando di angoscia e di rabbia, io li capii anche troppo bene. Le cornacchie e le taccole gridarono ad alta voce per scherno: ' Fuori dal nido! Fuori dal nido! Frò! Frò!".

E in mezzo al bosco, con la schiera dei braccianti, stette Valdemar Daae e le sue tre figlie, e risero tutti degli strilli selvaggi degli uccelli, ma la sua figlia minore, Anna Dorothea, sentì la desolazione nel suo cuore a causa di tutto questo, e quando vollero pure abbattere un albero mezzo morto sul cui ramo spoglio la cicogna nera aveva costruito il suo nido, e dove i piccoli sporgevano la testa, ella pregò per questa, pregò con le lacrime agli occhi. E così l'albero ebbe il permesso di rimanere in piedi con il nido per la cicogna nera. Era solo una piccola cosa. Tagliavano, segavano, si costruiva una nave con tre castelli di prua. Il costruttore stesso era di famiglia umile ma di aspetto nobile; gli occhi e la fronte parlavano di quanto fosse intelligente e Valdemar Daae amava sentirlo raccontare, lo fece anche la piccola Ide, la maggiore, la figlia quindicenne: e mentre egli costruiva la nave per il padre, costruì per se stesso il castello dei suoi sogni, in cui egli e la piccola Ide stavano seduti, marito e moglie, e sarebbe stato anche così se il castello fosse stato di pietre murate con bastione e fosso, con bosco e giardino. Ma con tutta la sua intelligenza il mastro era ugualmente soltanto un misero uccello, e cosa fa il passero in mezzo alla danza delle gru? Ffu-u-o-ri! - io me ne volai via ed egli se ne volò via, e poiché non osò rimanere, e la piccola Ide superò tutto questo, poiché dovette su perarlo !" "Nella stalla i cavalli neri nitrivano, valeva la pena guardarli, e venivano guardati. Il re in persona aveva mandato l'ammiraglio per vedere la nuova nave da guerra e per parlare del suo acquisto, egli parlava ad alta voce in ammirazione dei cavalli impetuosi; lo sentii bene!" disse il Vento; "seguii i signori attraverso la porta aperta seminando le pagliuzze davanti ai loro piedi come stecche d'oro. Valdemar Daae voleva l'oro, l'ammiraglio voleva i cavalli neri, ecco perché egli li lodava, ma ciò non venne capito e allora nemmeno la nave venne comprata, rimase lì, tutta brillante vicino alla riva, coperta da tavole, un'arca di Noè che non venne mai messa in acqua. Ffu-u-ori! scomparire! scomparire! e faceva pietà!

Al momento dell'inverno, quando i campi erano coperti di neve, il ghiaccio galleggiante riempiva lo stretto del Belt e io l'avevo portato con un soffio sulla riva", disse il Vento, "arrivarono i corvi e le cornacchie, gli uni più neri degli altri, grandi schiere; si sedettero sulla nave deserta, morta, abbandonata vicino al mare e gridarono con voce rauca parlando della foresta che non c'era più, dei tanti preziosi nidi d'uccello che erano rimasti deserti, dei vecchi senza tetto, dei piccoli senza tetto e tutto quello per causa di quella baracca di quella imbarcazione orgogliosa che non avrebbe mai navigato. Io feci turbinare i fiocchi di neve; la neve stava ammucchiata come grandi laghi intorno a essa, coprendola! le feci sentire la mia voce, quello che una tempesta ha da dire; so di aver fatto la mia parte in modo che potesse acquisire delle esperienze di navigazione. Ffu-u-o-ri! scomparire!

E l'inverno scomparì, l'inverno e l'estate passarono e passano come io passo, come i fiocchi di neve cadono, come i petali del fiore del melo cadono, come fiocchi e come cadono le foglie! scomparire, scomparire, scomparire, anche gli uomini! Ma le figlie erano ancora giovani, la piccola Ide una rosa bella da vedere, come quando la vide il costruttore della nave. Spesso acchiappavo i suoi lunghi capelli marroni quando stava pensosa sotto il melo nel giardino senza sentire che io le seminavo i fiori sui capelli, che si scioglievano, ed ella guardava il sole rosso e il fondo dorato del cielo tra gli alberi e i cespugli scuri del giardino.

Sua sorella era come un giglio, brillante e dritto, Johanne; aveva un bel portamento e la testa alta, era di gambo fragile come la madre. Passeggiava volentieri nella grande sala, dove erano appesi i ritratti di famiglia; le signore erano rappresentate in velluto e seta con un piccolo cappelletto ricamato con le perle sui capelli intrecciati; erano belle signore! si vedevano i loro mariti vestiti d'acciaio oppure con il mantello prezioso con la fodera in pelle di oiattolo e il collo plissettato blu; la spada era cinta intorno alla coscia e non intorno ai reni. Chissà dove sarebbe stato appeso un giorno il ritratto di Johanne e come si sarebbe presentato il nobile marito? sì, ella pensava a questo, ella ne parlava un pochino, io lo sentii quando corsi per il lungo corridoio dentro la sala per tornarmene indietro!

Anna Dorothea, il giacinto pallido, soltanto una bambina di quattordici anni, era silenziosa e pensierosa; i grandi occhi blu come l'acqua sembravano pieni di pensieri, ma sulla bocca vi era un sorriso da bambina, non riuscivo a soffiarlo via, e non volevo nemmeno farlo. La incontrai nel giardino, sulla strada infossata e sul campo della proprietà, ella coglieva erbe e fiori, quelle che sapeva che potevano servire a suo padre per le bevande e le gocce, sapeva distillare; Valdemar Daae era orgoglioso e borioso, ma anche informato e sapeva tante cose; lo notavano bene, ne mormoravano; nel suo camino c'era il fuoco acceso anche d'estate; la porta della camera era chiusa; prendeva sempre più sostanza man mano che passavano i giorni e le notti, ma non ne parlava molto; bisogna esplorare le forze della natura in silenzio, presto avrebbe senz'altro scoperto la cosa suprema: l'oro rosso. Per questo il camino fumava, per questo crepitava e vampava! sì, c'ero anch'io!" raccontò il Vento, "lasciamo passare! lasciamo passare! cantavo attraverso il comignolo. Finirà col diventare fumo, puzzo, brace e cenere! Finirai bruciato tu stesso! ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire! ma Valdenwr Daae non lasciò che passasse! I meravigliosi cavalli nella stalla, dove erano andati a finire? la vecchia argenteria e gli oggetti d'oro negli armadi e nelle camerette, le mucche nei campi, i beni e la proprietà? - eh sì, potevano essere fusi! fusi nel crogiolo; eppure non se ne sarebbe ricavato l'oro.

Il granaio e la dispensa, la cantina e la soffitta si vuotarono. Meno gente, più topi. Un vetro si crepò, uno si spaccò, non dovetti più entrare per la porta!" disse il Vento. "Non c'è fumo senza arrosto, il fumo c'era, quello che inghiotte tutti gli arrosti, per l'oro rosso. Io soffiai attraverso il portone del castello come un guardiano notturno che suona il corno, ma non vi era nessun guardiano notturno!" disse il Vento. "Girai il gallo della girotta sulla guglia, essa tuonava come se il guardiano notturno russasse sulla torre, ma non vi era nessun guardiano notturno: erano i ratti e i topi; la miseria apparecchiava la tavola, la miseria stava negli armadi e nella dispensa, la porta si staccava dal perno, venivano fuori fessure e crepe; io entravo e uscivo", disse il Vento, "ecco perché son ben informato!" In mezzo al fumo e alle ceneri, al dolore e alle notti insonni la barba e i capelli intorno alla fronte si incanutirono, la pelle divenne opaca e gialla. Gli occhi cercarono con rapacità l'oro, l'oro atteso. Io gli soffiai il fumo e le ceneri in piena faccia e sulla barba; e al posto dell'oro arrivarono debiti. Cantai attraverso i vetri spaccati e le crepe aperte soffiando fino alla cassapanca delle figlie, dove i vestiti giacevano scoloriti e logori, dovendo continuare a resistere. Sopra la culla di quelle bambine non era stata cantata quella canzone! La vita da signori divenne una vita di miseria! io solo cantavo ad alta voce nel castello", disse il Vento. "Li rinchiusi, bloccati dalla neve, si dice che riscalda; non avevano legna, il bosco da cui avrebbero dovuto prenderla era stato abbattuto. Gelava da spaccare le pietre; svolazzavo attraverso aperture e corridoi, sopra muri laterali e muri maestri per tenermi in forma; là dentro stavano nei loro letti, a causa del freddo, queste nobili figlie; il padre si infilava sotto la coperta di pelle. Niente da maigiare e niente da bruciare, questa sì che è vita da signori! ffu-u-o-ri! lasciamo passare! - Ma il signor Daae non poté! "Dopo l'inverno viene la primavera!" egli disse, "dopo la penuria vengono i tempi buoni! - ma si fanno aspettare! - Ora la proprietà è diventata un'ipoteca! Ora è il momento estremo; e poi arriva l'oro! A Pasqua!"

Io lo sentii mormorare nella ragnatela, "Tu bravo piccolo tessitore! Tu insegni a perseverare! se la tua tela viene strappata, ricominci di nuovo e finisci! di nuovo strappata - e tu riprendi infaticabile, dall'inizio! - dall'inizio! è quello che bisogna fare! e si viene ricompensati!"

Era la mattina di Pasqua, le campane suonavano, il sole giocava nel cielo. In un calore febbrile egli aveva vegliato, bollito e raffreddato, mescolato e distillato. Lo sentii che sospirava come un'anima disperata, lo sentii che pregava, ebbi la sensazione che egli trattenesse il respiro. La lucerna si era spenta, egli non se ne accorse; soffiai sui carboni ardenti, essi illuminarono il suo viso bianco come un cencio, che prese un barlume di colore, gli occhi erano affossati nelle orbite,ma ora diventarono più grandi, grandi come se volessero saltare. Guarda, il vetro dell'alchimia lampeggia là dentro! è ardente, puro e pesante! egli lo sollevò con la mano che tremava, egli gridò con la lingua che tremava: "oro! oro!" gli girò la testa alla vista, avrei potuto rovesciarlo con un soffio", disse il vento, "ma soffiai soltanto sui carboni ardenti, lo seguii attraverso la porta fin dentro dove le figlie avevano freddo. La sua tunica era coperta di cenere, stava sulla barba e nei capelli aggrovigliati. Si drizzò molto in alto, sollevò il suo ricco tesoro nel vetro fragile: "trovato! vinto! E' oro!" egli gridò, tese in aria il vetro che lampeggiava nei raggi del sole; e la mano tremolò e il vetro dell'alchimia cadde per terra rompendosi in mille pezzi; si era rotta l'ultima bolla del suo benessere. Ffu-u-o-ri! scomparire! - E io scomparii fuggendo dalla proprietà dell'alchimista.

Nell'ultima parte dell'anno, durante le giornate brevi quassù, quando la nebbia arriva con la sua spugna e strizza gocce bagnate sulle bacche rosse e sui rami senza foglie, mi sentii di buonumore, cambiai l'aria, spazzai col soffio il cielo e ruppi i rami marciti, e non è un grande lavoro, però va fatto. Fu fatto anche un altro tipo di pulizie dentro alla proprietà di Borreby da Valdemar Daae. Il suo nemico, Ove Ramel da Basnaes, si presentò e aveva pagato l'ipoteca sulla proprietà e sui mobili. Io tambureggiai sui vetri spaccati, battei le porte caduche, fischiai attraverso i crepacci e le fessure: -Ffu-i! -. Al Signor Ove non dovette venire voglia di rimanervi. Ide e Anna Dorothea piansero lacrime di afflizione; Johanne stette dritta e pallida, si morse il pollice finché sanguinò, che bell'aiuto! Ove Ramel concesse al signor Daae di rimanere nella proprietà vita natural durante, ma non ebbe ringraziamenti per la proposta; io ascoltai il seguito; vidi il signore privo di proprietà alzare la testa più orgoglioso, battere un colpo con la nuca e io battei contro la proprietà e contro i vecchi tigli, così che il ramo più grosso si ruppe, e non era marcito; esso giacque davanti al portone come una scopa, nel caso in cui qualcuno volesse dare una pulita, e si diede una pulita; difatti lo sapevo!

Fu una giornata dura, un momento teso per resistere, ma l'animo era forte e la nuca rigida. Non possedevano niente tranne i vestiti che avevano addosso; ah sì, il vetro di alchimia appena comprato e riempito con i resti raschiati da terra; il tesoro che prometteva ma non manteneva. Valdemar Daae lo nascose nel petto, prese poi il suo bastone in mano e il signore, ricco un tempo, uscì con le sue due figlie dalla proprietà di Borreby. Io soffiai aria fredda sulle sue guance ardenti, accarezzai la sua barba grigia e i suoi lunghi capelli bianchi, cantai meglio che potei: -Ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire! - Fu la fine della ricca magnificenza. Ide e Anna Dorothea camminavano accanto a lui, ciascuna da un lato: Johanne si girò nel portone, a che cosa poteva servire, la fortuna non volle girare. Ella guardò le pietre rosse del muro della fortezza di Marsk Stig, se pensava alle figlie di lui: "La maggiore prese per mano la più piccola, E viaggiarono per il vasto mondo!". Le veniva in mente quella canzone; - qui erano in tre, - vi era il padre con loro! - Camminavano per la via dove erano passati in carrozza, facevano la strada dei mendicanti col padre, fino al campo di Smidstrup, fino alla casa di travi e argilla, affittata per dieci marchi all'anno, il nuovo maniero con le pareti spoglie e i vasi vuoti. Le cornacchie e le taccole volavano sopra di loro gridando, come per scherno: "Fuori dal nido! Fuori dal nido! Frò! frò!" come gli uccelli gridarono nel bosco di Borreby quando gli alberi vennero abbattuti. Il Signor Daae e le sue figlie lo sentirono perfettamente. Io soffiai intorno alle orecchie, non era possibile ascoltarlo.

Poi entrarono nella casa di travi e argilla sul campo di Smidstrup, e io corsi affrettato sopra pantani e campi, attraverso cespugli nudi e scarne foreste verso le distese di acque, altri paesi. Ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire questo in tutti questi anni!"

Come andarono le cose per Valdemar Daae, come andarono per le sue figlie, il Vento racconta: "L'ultima che vidi, sì, l'ultima volta, fu Anna Dorothea, il giacinto pallido: ora era vecchia e curva, era passato mezzo secolo. Visse più a lungo. Ella sapeva tutto. Sulla brughiera vicino alla città di Viborg, vi era la fattoria nuova e bella del decano del capitolo con pietre rosse e con la punta del muro laterale a gradoni; il fumo usciva tutto denso dal comignolo. La dolce signora e le sue figlie sedevano nella veranda a guardare sopra alla spina Christi che peadeva la brughiera marrone -! Che cosa cercavano lì con lo sguardo? Cercavano il nido della cicogna là fuori sulla casa cadente. Il tetto era di muschio e semprevive, quello che ce n'era, quello che soprattutto servì come copertura fu il nido della cicogna, ed esso fu l'unico a essere mantenuto, e la cicogna ebbe la manuntenzione. Era una casa da guardare, non da toccare; io dovevo andare con cautela, disse il vento. "La casa fu lasciata per il nido di cicogna, altrimenti aveva aspetto spaventoso per la brughiera. La famiglia del decano non volle cacciare via la cicogna, così la catapecchia ebbe il permesso di rimanere e la poveretta lì dentro ebbe il permesso di starci; ella poteva ringraziare l'uccello egiziano per questo (oppure fu un ringraziamento perché ella una volta pregò per il nido del suo nero fratello selvatico nel bosco di Borreby?) Ella, allora, poveretta, era una giovane bambina, un giacinto fine e pallido nel nobile orto. Ella si ricordava tutto: Anna Dorothea." "Oh! oh! -, sì, gli uomini sono capaci di sospirare come il vento in mezzo ai giunchi e alle canne. Oh! Nessuna campana suonò sulla tua tomba, Valdemar Daae! Gli scolari poveri non cantarono quando il signore di Borreby dei giorni passati fu messo sotto terra! -Oh, tutto finisce, anche la miseria! La sorella Ide divenne la moglie di un contadino, e fu per nostro padre la prova più dura! Il marito della figlia, un misero servo, cui il proprietario del maniero poteva per punizione far montare il duro cavallo di legno! Ora sarà sotto terra? e anche tu? Ide! - Ebbene sì! ebbene sì! e ancora non è finita, povera me, tutta vecchia! Povera me, tutta misera! Libera me, potente Cristo!"

Questa fu la preghiera di Anna Dorothea nella misera casa dove aveva il permesso di rimanere a causa della cicogna. "Io mi occupai della più sana delle sorelle!" disse il vento, "le si tagliarono vestiti, secondo il suo animo alla nascita! venne come misero garzone per arruolarsi dal capitano; era di poche parole, dall'aria ingrugnata, ma disposta a fare il suo lavoro; però non era capace di arrampicarsi; così io la gettai col soffio in mare, prima che qualcuno avesse capito che fosse femmina, e questo è stato senz'altro ben fatto da parte mia!" disse il Vento. "Fu una mattina di Pasqua come quella quando Valdemar Daae pensava di aver trovato l'oro rosso, quando sentii da sotto il nido della cicogna tra le pareti fragili, un canto di salmi, l'ultimo canto di Anna Dorothea. Non c'erano finestre di vetro, c'era soltanto un buco nella parete; il sole entrò come una zolla d'oro e si pose lì dentro; fu un vero splendore! I suoi occhi si spezzarono, il suo cuore si spezzò! L'avrebbero fatto lo stesso, anche se il sole quella mattina non l'avesse illuminata.

La cicogna le diede un tetto per la morte, e io cantai sulla sua tomba!" disse il vento, "cantai sulla tomba di suo padre, io so dove sta e dove sta la tomba di lei, altrimenti proprio nessuno lo saprebbe. Tempi nuovi, altri tempi! la vecchia via pubblica finisce in un campo chiuso, tombe protette diventano strade maestre trafficate, e ben presto arriva il vapore con la sua fila di carrozze a rugliare sopra le tombe, dimenticate come lo sono i nomi.

Questa è la storia di Valdemar Daae e delle sue figlie. Raccontatela meglio, voialtri, se potete!" disse il Vento rigirandosi. E così dicendo era sparito.

 
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Benedizione irlandese

Post n°511 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Io non ti auguro un sentiero che sia privo di nuvole,
E neppure una vita su un letto di rose
E neppure che non possa mai aver bisogno di scusarti
E neanche che tu non debba mai sentire il dolore.
No, questo non è il mio desiderio per te.
Il mio desiderio per te è:
Che tu possa essere coraggioso nei momenti delle prove,
Quando gli altri porranno croci sulle tue spalle,
Quando si dovranno scalare le montagne e si dovranno attaversare le voragini
Quando la speranza scarsamente può risplendere
Che ogni dono che Dio ti ha dato possa crescere insieme a te.
E che ti faccia dare il dono della gioia a tutti quelli che si curano di te
Che tu possa avere un amico che valga tale nome
Di cui tu ti possa fidare
E che ti possa aiutare nei momenti di tristezza.
Che possa sfidare le tempeste della vita quotidiana insieme a te.
Ancora un altro desiderio ho per te:
Che in ogni ora di gioia o di dolore
Tu possa sentire Dio vicino a te.
Questo è il mio desiderio per te e per tutti quelli che si curano di te.
Questa è la mia speranza per te ora e per sempre



Tornare in alto

 
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Il librone degli incantesimi

Post n°510 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un mago che era molto abile nel fare gli incantesimi. Da molti anni ormai abitava in una capanna in mezzo al bosco ed era molto infelice perché, sentendosi ormai vecchio e vicino a morire, non sapeva a chi strasmettere l'arte della sua magia.

Un giorno vide, per caso, due bambini che giocavano in un prato: erano un fratellino e una sorellina, piccoli, vispi e belli. ' Ecco i bambini che fanno al caso mio! Li prenderò e insegnerò loro l'arte della stregoneria ', pensò subito il mago. E, fabbricata una rete di capelli, li catturò e li portò nella sua capanna. I piccoli, spaventatissimi, avrebbero voluto fuggire, ma il mago li sorvegliava molto attentamente e non si allontanava quasi mai da casa; soltanto qualche volta si divertiva ad andare a pescare.

Un giorno che il mago era andato al fiume a pescare, la sorellina buttò le braccia al collo del fratello e piangendo disse: "Il mago se ne andato a pescare; fuggiamo prima che torni!" Ma il fratellino, che era più saggio, le rispose: "Non hai sentito che terribili minacce ci ha fatto l'altro giorno prima di uscire? Eppoi quel mago è così sapiente che, con le sue magie, ci ritroverebbe subito! No, no! Aspettiamo un pò: per ora non possiamo proprio far nulla!"

Passò qualche giorno e il mago di nuovo a pescare e i bambini rimasero soli nella capanna. A un tratto il fratellino guardò in alto e vide sullo scaffale un grosso librone nero. "È certo il Librone degli incantesimi" disse il fratellino. E, appena lo ebbe preso in mano, continuò: "Guarda qui! Ci sono scritti tutti gli incantesimi che servono al mago per le sue stregonerie. Ho deciso" disse dopo un pò alla sorellina che lo guardava meravigliata "ogni volta che il mago andrà a pescare, io mi metterò in un angolo e cercherò di imparare qualche formula magica. Così, quando ne avrò imparate molte, forse troveremo il modo di scappare." Il bambino per una settimana intera, studiò il Librone degli incantesimi e, poiché aveva buona memoria, imparò molti segreti della magia.

Al mattino del settimo giorno, quando, come al solito, il mago se ne andò a pescare, il fratellino disse: "È arrivato il momento giusto! Grazie al cielo ho imparato alcuni incantesimi che potranno esserci utili in caso di pericolo." E presisi per mano, uscirono dalla capanna e scapparono lungo il sentiero del bosco. Il mago intanto, seduto sulla sponda del fiume, si affaticava per nulla: i pesciolini si avvicinavano all'esca, la mangiavano con delicatezza, ma quando il mago dava uno strappo alla lenza, scappavano da tutte le parti e nessuno rimaneva attaccato all'amo! Arrivò la sera e il mago tornò a casa tutto infreddolito e di cattivo umore. Appena entrato nella capanna, si guardò attorno, ma non vide i bambini. Scrutò in tutti gli angoli, cercò sotto la tavola e sotto il letto, ma erano proprio spariti! "Me la pagheranno cara!" urlò più che mai infuriato. "Olà venga a me la mazza magica!" Subito la mazza magica gli saltò fra le mani e gli indicò la direzione che i bambini avevano preso. Il mago si mise a correre; oramai stava per raggiungerli i piccoli, quando il fratellino disperato provò a ripetere una formula magica:

"Libro, Librone, per il sangue del drago, per la barba del mago,
trasformami all'istante in un bel lago."

Immediatamente il fratellino fu trasformato in un lago azzurro, e la sorellina in un pesciolino che guizzava allegramente nell'acqua. Giunto sulla riva del lago, il mago lo guardò con sospetto. Non era mago per nulla, e subito immaginò che cosa era successo. "Voi volete sfuggirmi" brontolò "ma vi acchiappo lo stesso." E in tutta fretta ritornò a casa per provvedersi di canne e reti e pescare così il pesciolino. Non appena si fu allontanato, i bambini ripresero le loro sembianze. Cercarono un cespuglio folto, vi si nascosero sotto e dormirono fino all'alba. Al mattino ripresero il viaggio camminando per tutta la giornata. Intanto il mago, munito di reti e di lenze, era giunto nel posto dove aveva veduto il lago, ma, con sua grande sorpresa, non lo trovò più. C'era soltanto un prato acquitrinoso dove saltellavano numerosi ranocchi. Tutto infuriato gettò via reti e canne, poi, interrogata la mazza magica e avuta da lei la direzione, riprese l'inseguimento. Verso sera i ragazzi udirono il rimbombo dei suoi passi. "Siamo perduti!" singhiozzò la sorellina terrorizzata voltandosi indietro. Ma il fratellino la rincuorò di nuovo: "Non piangere. Conosco un'altra formula magica e spero che funzioni anche questa volta." Tracciò un segno nell'aria e disse:

"Libro, Librone, a scorno dello stregone che viene in tutta fretta,
mutami in una linda cappelletta."

Subito diventò una cappelletta bianca, di quelle che si vedono spesso lungo le strade di campagna, e la bambina divenne un bellissimo angelo dipinto nella nicchia. Quando il mago arrivò, incominciò a imprecare schiumando di rabbia. Ma come catturare un angelo dipinto? E come distruggere la cappelletta, visto che da sempre gli stregoni hanno paura delle immagini sacre? Inoltre l'angelo teneva una mano alzata in un atteggiamento dolcissimo, ma che a lui sembrava soltanto minaccioso. Egli fece tre o quattro volte il giro della cappelletta e concluse che non gli restava altro da fare che incendiarla. "Non posso ridurvi in un mucchio di calcinacci" imprecò "ma vi ridurrò in un mucchio di cenere!" Detto fatto incominciò a raccogliere nei dintorni rami ed erba secca e con quelli circondò la cappelletta; ma quando fu per appiccarvi il fuoco si accorse che non aveva fiammiferi. Non gli restava che tornare a casa a prenderli, e subiti si incamminò sbuffando e borbottando. Non appena fu lontano, il fratellino e la sorellina ripresero il loro solito aspetto e, poiché erano molto stanchi, cercarono un angolo ben riparato e dormirono saporitamente fino all'alba. Quando il mago, portando i fiammiferi e una grossa fascina, giunse sul luogo dove c'era la cappelletta, trovò soltanto un grosso macigno. Lo stregone furibondo consultò la mazza magica e riprese l'inseguimento finché, verso sera, fu di nuovo alle spalle dei ragazzi. Il fratellino, appena udì i passi pesanti del mago, tracciò un segno e disse:

"Libro, Librone, per il nido che sta sulla grondaia,
mi piacerebbe diventare un'aia tutta piena di grano.
E lo stregone, tienilo lontano!"

Subito divenne una grande aia su cui troneggiava un grosso mucchio di grano e la bambina divenne un piccolo chicco mescolato a tutti gli altri. Quando lo stregone arrivò urlò di rabbia. Era stato giocato un'altra volta! Poi a poco a poco si calmò e incominciò a riflettere. ' Questa volta, invece di arrabbiarmi tanto, farei bene a cercare un rimedio infallibile ', pensò. Infine i suoi occhi mandarono un lampo di trionfo: "Ho trovato!" esclamò. Pronunciò alcune parole magiche, e subito si trasformò in un gallo nero, che veniva avanti di gran corsa protendendo il becco in cerca del chicco di frumento. Grazie ai suoi poteri magici l'aveva già avvistato e stava per beccarselo quando pronunciò mentalmente l'ultima formula magica di cui si ricordava:

"Gallo nero, gallo nero, non avere troppa fretta!
Lo sai già quel che ti aspetta, con la volta e il levriero!"

Subito a una estremità dell'aia apparve un grosso un grosso levriero che, mettendo in mostra due file di denti aguzzi, incominciò a correre verso il gallo. Non appena lo vide, il gallo, tutto spaventato, si diede alla fuga nella direzione opposta, ma dall'altra parte ecco apparire una volte dal pelo rosso che, con gli occhi infiammati e la bocca aperta, si avventò su lui. Il gallo non sapeva più da che parte scappare; svolazzava di qua e di là perdendo le penne, e non aveva più in mente né il chicco di grano, né, cosa peggiore, le formule magiche che avrebbero potuto salvarlo. Fu la volpe ad avere la meglio balzata sul gallo ne fece un sol boccone, leccandosi poi le labbra con molto gusto. I due bambini ripresero il loro aspetto consueto e da capo si incamminarono verso casa, questa volta allegramente, perché non avevano da temere più nulla. I genitori, che li avevano pianti per morti, li accolsero con gioia e grandi feste. Da quel giorno tutti insieme vissero felici e contenti e del cattivo stregone nessuno udì più parlare.

 
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Il passero e i suoi 4 figli

Post n°509 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Un passero aveva quattro piccoli in un nido di rondine. Quando misero le penne, dei ragazzi cattivi sfasciarono il nido, ma tutti e quattro riuscirono fortunatamente a fuggire nel turbinio del vento. Ora il padre si duole che i suoi figli se ne vadano per il mondo prima che egli abbia potuto metterli in guardia contro tutti i pericoli, o dato loro buoni consigli. D'autunno molti passeri si radunano in un campo di grano, e il padre trova i suoi quattro figli e, pieno di gioia, li porta a casa con s‚. -Ah, miei cari figlioli, quante preoccupazioni mi avete dato quest'estate, quando ve ne siete andati nel vento senza i miei consigli! Ascoltate le mie parole, ubbidite a vostro padre e fate bene attenzione: gli uccellini piccoli corrono gravi rischi!- Poi domandò al maggiore dove fosse stato durante l'estate e come si fosse nutrito. -Mi sono fermato nei giardini a cercare bruchi e vermiciattoli, fin che sono maturate le ciliegie-. -Ah, figlio mio!- disse il padre -l'abbondanza va bene, ma è anche pericolosa; perciò d'ora in poi fa' bene attenzione soprattutto se nei giardini gira della gente con delle lunghe pertiche verdi, che sono vuote all'interno, ma con un forellino in cima.- -Sì, babbo; ma se sul forellino vi fosse attaccata con la cera una foglietta verde?- disse il figlio. -Dove l'hai visto?- -Nel giardino di un mercante- rispose l'uccellino. -Oh, figlio mio!- disse il padre -i mercanti: tutti lestofanti! Sei stato con uomini di mondo e hai imparato a essere avveduto: bada di fare buon uso, e non fidarti troppo di te stesso.- Poi domandò al secondo: -E tu dove sei stato?-. -A corte- rispose il figlio. -I passeri e gli uccellini sciocchi non stanno bene a corte, dove c'è tanto oro, velluto, sete, armi e corazze, sparvieri, civette e falchi; resta nella stalla dove si vaglia l'avena o dove si trebbia, e ti toccheranno in santa pace i tuoi granelli quotidiani.- -Sì, babbo- disse il figlio -ma se gli stallieri fanno delle trappole, nascondendo nella paglia reti e lacci, molti ci restano presi.- -Dove l'hai visto?- chiese il vecchio. -A corte, dal palafreniere.- -Oh, figlio mio, i cortigiani: falsi e ruffiani! Sei stato a corte, con i signori, e non ci hai lasciato neanche una penna, hai imparato a sufficienza e saprai cavartela al mondo. Tuttavia, guardati attorno e sta' attento: spesso i lupi mangiano anche i cagnolini giudiziosi.- Il padre chiamò anche il terzo a s‚: -Dove hai tentato la tua fortuna?-. -Ho messo l'argano sulle strade maestre e sulle carrozzabili, e a volte ho trovato un granello o un bruco.- -E' davvero un cibo fine- disse il padre -ma sta' bene attento e guardati spesso attorno, soprattutto se qualcuno si china a prendere un sasso, non ti conviene stare ad aspettarlo.- -E' vero- rispose il figlio -ma se uno avesse già una pietra in tasca o in seno?- -Dove l'hai visto?- -Dai minatori, caro babbo, quando escono con il carro, di solito portano delle pietre con s‚.- -Artigiani e minatori hanno menti superiori! Se sei stato con i minatori, hai visto e imparato qualcosa. Va' pure, ma bene in guardia devi stare: i minatori, passeri e coboldi sanno ammazzare!-Infine il padre arrivò al fratello minore: -Tu, mio caro diavoletto, sei sempre stato il più sciocco e il più debole; resta con me, il mondo ha troppi uccellacci cattivi, che hanno becchi adunchi e artigli affilati, e non fanno che insidiare i poveri uccellini per divorarli; rimani con i tuoi pari, e prendi i ragnetti e i bruchi degli alberi e delle casette, e sarai felice a lungo-. -Oh, caro babbo, chi vive senza procurare danno agli altri va lontano, e non c'è sparviero, avvoltoio, aquila o nibbio che possa nuocergli, soprattutto se ogni sera e ogni mattina raccomanda con devozione se stesso e il proprio onesto nutrimento al buon Dio, che è il creatore e sostenta tutti gli uccellini del bosco e del villaggio, e che ascolta anche le grida e le preghiere dei piccoli corvi; poiché‚, senza il suo volere, non cade n‚ un passero n‚ uno scricciolo.- -Dove l'hai imparato?- Il figlio rispose: -Quando quel gran vento mi strappò da te, giunsi in una chiesa; là, per tutta l'estate, levai mosche e ragni dalle finestre e sentii predicare quel detto; e il padre di tutti i passeri mi ha nutrito per tutta l'estate e protetto da ogni sventura e dagli uccelli malvagi-. -In fede mia! Mio caro figliolo, se voli nelle chiese e aiuti a fare piazza pulita dei ragni e delle mosche che ronzano, e pigoli a Dio come i piccoli corvi, e ti raccomandi all'eterno Creatore, ti troverai bene anche se il mondo fosse pieno di perfidi uccelli crudeli. Chi al buon Dio si vuol raccomandare sa tacere, soffrire, attendere, pregare, aver fede e la coscienza pulita conservare, e il Buon Dio lo vorrà aiutare!-.

FINE



 
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Il fidanzato brigante

Post n°508 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un mugnaio che aveva una bella figlia; e quando fu in età da marito pensò: "Se si presenta un pretendente come si deve e me la chiede in moglie, gliela darò, in modo da sistemarla". Ora avvenne che arrivò un pretendente che sembrava molto ricco; e il mugnaio, non trovando nulla da ridire, gli promise sua figlia. Ma la fanciulla non lo amava come si deve amare un fidanzato, e provava orrore in cuor suo ogni volta che lo guardava o che pensava a lui. Un giorno egli le disse: -Sei la mia fidanzata e non vieni mai a trovarmi-. La fanciulla rispose: -Non so dov'è la vostra casa-. -La mia casa è la fuori, nel folto del bosco- rispose il fidanzato. Allora ella cercò delle scuse e disse: -Non riuscirò a trovare la strada-. Ma egli replicò: -Devi venire da me domenica prossima, ho già fatto degli inviti e perché‚ tu possa trovare la strada la cospargerò di cenere-. La domenica, quando la fanciulla stava per mettersi in cammino, le venne una gran paura. Si riempi le tasche di ceci e lenticchie: all'ingresso del bosco era sparsa la cenere, ella la seguì ma a ogni passo gettava qualche cece in terra a destra e a sinistra. Camminò quasi tutto il giorno fino a quando giunse a una casa isolata nel più folto del bosco. Dentro non c'era nessuno; regnava il più profondo silenzio. D'un tratto una voce gridò:-Scappa, sposina, qui abitano tanti feroci e temibili briganti!-. La fanciulla alzò gli occhi e vide che a gridare era stato un uccello rinchiuso in una gabbia. Di nuovo quello gridò:-Scappa, sposina, qui abitano tanti feroci e temibili briganti!-La bella sposa andò da una stanza all'altra e girò per la casa, ma era tutta vuota e non trovò anima viva. Finalmente giunse in cantina; là sedeva una vecchia decrepita. -Potete dirmi se il mio fidanzato abita qui?- domandò la ragazza. -Ah, povera bimba- rispose la vecchia -sei finita in un covo di assassini; le tue nozze saranno anche la tua morte: il brigante ti ucciderà. Vedi, ho dovuto mettere sul fuoco un gran paiolo pieno d'acqua. Se cadi nelle loro mani, ti fanno a pezzi, poi ti fanno bollire e ti mangiano. Se non ti salvo sei perduta!- La vecchia la nascose così dietro una grossa botte e disse: -Sta' cheta e non muoverti o sei spacciata! Fuggiremo quando i briganti dormiranno: da un pezzo ne aspettavo l'occasione-. Aveva appena pronunciato queste parole che i malviventi giunsero a casa trascinando con s‚ un'altra fanciulla; erano ubriachi e non badavano al suo pianto e alle sue grida. Le fecero bere tre bicchieri di vino, uno bianco, uno rosso e uno giallo; e il cuore le si schiantò. Poi le strapparono di dosso le belle vesti, la misero su di una tavola, fecero a pezzi il bel corpo e lo cosparsero di sale. La povera sposa dietro la botte era terrorizzata, temendo di dover subire la stessa sorte. Uno dei malviventi notò che l'uccisa portava un anello d'oro al dito e, non riuscendo subito a sfilarlo, prese una scure e mozzò il dito. Ma questo schizzò in aria e cadde dietro alla botte, proprio in grembo alla sposa. Il brigante prese un lume e si mise a cercarlo, ma non lo pot‚ trovare. Allora un altro disse: -Hai cercato anche dietro la grossa botte?-. Ma la vecchia gridò: -Venite a mangiare, cercherete domani; il dito mica vi scappa!-. I briganti smisero di cercare e si apprestarono a mangiare e a bere; ma la vecchia aveva versato loro un sonnifero nel vino, cosicché‚ si coricarono bell'e in cantina, si addormentarono e si misero a russare. Udendoli, la sposa uscì da dietro la botte, ma dovette scavalcare tutti i dormienti che giacevano in fila per terra e aveva una gran paura di svegliarne qualcuno. Ma con l'aiuto di Dio riuscì a passare, salì con la vecchia, e insieme fuggirono dalla casa degli assassini. Il vento aveva soffiato via la cenere, ma ceci e lenticchie erano germogliati e al chiaro di luna indicavano loro la via. Camminarono tutta la notte e giunsero al mulino la mattina dopo. La fanciulla raccontò al padre tutto quel che era accaduto. Quando venne il giorno delle nozze, comparve lo sposo; e il mugnaio aveva invitato tutti i suoi parenti e amici. A tavola ognuno dovette raccontare una storia. Allora lo sposo le disse: -Non hai niente da raccontare, cuor mio? Narra qualcosa anche tu-. Ella rispose: -Racconterò un sogno. Me ne andavo per un bosco e giunsi a una casa. Non c'era anima viva, ma soltanto un uccello, in una gabbia, che gridò per due volte:"Scappa, sposina, qui abitano tanti feroci e temibili briganti!"--Amor mio, non è che un sogno.- -Attraversai tutte le stanze ma erano vuote. Finalmente giunsi in cantina dove trovai una vecchia decrepita. "Abita qui il mio sposo?" le domandai. Ma lei rispose: "Ah, povera bimba, sei finita in un covo di assassini! Il fidanzato ti ucciderà, ti farà a pezzi e poi ti farà bollire per mangiarti!".- -Amor mio, non è che un sogno.- -Ma la vecchia mi nascose dietro una grossa botte, e non appena fui nascosta tornarono i briganti trascinando con s‚ una fanciulla. Le fecero bere tre qualità di vino: bianco, rosso e giallo; e il cuore le si schiantò.- -Amor mio, non è che un sogno.- -Poi le strapparono di dosso le belle vesti e, sulla tavola, fecero a pezzi il bel corpo e lo cosparsero di sale.- -Amor mio, non è che un sogno.- -Uno dei briganti vide che ella portava al dito un anello d'oro e, siccome non gli riusciva di sfilarlo, prese una scure e tagliò il dito. Ma questo schizzò in aria e cadde dietro la grossa botte, proprio nel mio grembo. Ed eccolo qui.- Così dicendo, lo tirò fuori e lo mostrò ai presenti. Il brigante, che all'udire il racconto era diventato bianco come gesso dallo spavento, vedendo il dito volle fuggire, ma gli ospiti lo fermarono e lo consegnarono al tribunale, dove fu giustiziato con tutta la banda per le sue infamie.

FINE


 

 
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Male di luna (Pirandello)

Post n°507 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Batà sedeva tutto aggruppato su un fascio di paglia, in mezzo all’aja.
Sidora, sua moglie, di tratto in tratto si voltava a guardarlo, in pensiero, dalla soglia su cui stava a sedere, col capo appoggiato allo stipite della porta, e gli occhi socchiusi. Poi, oppressa dalla gran calura, tornava ad allungare lo sguardo alla striscia azzurra di mare lontano, come in attesa che un soffio d’aria, essendo ormai prossimo il tramonto, si levasse di là e trascorresse lieve fino a lei, a traverso le terre nude, irte di stoppie bruciate.
Tanta era la calura, che su la paglia rimasta su l’aja dopo la trebbiatura, l’aria si vedeva tremolare com’alito di bragia.
Batà aveva tratto un filo dal fascio su cui stava seduto, e tentava di batterlo con mano svogliata su gli scarponi ferrati. Il gesto era vano. Il filo di paglia, appena mosso, si piegava. E Batà restava cupo e assorto, a guardare in terra.
Era nel fulgore tetro e immoto dell’aria torrida un’oppressione così soffocante che quel gesto vano del marito, ostinatamente ripetuto, dava a Sidora una smania insopportabile. In verità, ogni atto di quell’uomo, e anche la sola vista le davano quella smania, ogni volta a stento repressa.
Sposata a lui da appena venti giorni, Sidora si sentiva già disfatta, distrutta. Avvertiva dentro e intorno a sé una vacuità strana, pesante e atroce. E quasi non le pareva vero, che da sì poco tempo era stata condotta lì, in quella vecchia roba isolata, stalla e casa insieme, in mezzo al deserto di quelle stoppie, senz’un albero intorno, senza un filo d’ombra.
Lì, soffocando a stento il pianto e il ribrezzo, da venti giorni appena aveva fatto abbandono del proprio corpo a quell’uomo taciturno, che aveva circa vent’anni di più di lei e su cui pareva gravasse ora una tristezza più disperata della sua.
Ricordava ciò che le donne del vicinato avevano detto alla madre, quando questa aveva loro annunziato la richiesta di matrimonio.

– Batà! Oh Dio, io per me non lo darei a una mia figliuola.

La madre aveva creduto lo dicessero per invidia, perché Batà per la sua condizione era agiato. E tanto più s’era ostinata a darglielo, quanto più quelle con aria afflitta s’erano mostrate restìe a partecipare alla sua soddisfazione per la buona ventura che toccava alla figlia. No, in coscienza non si diceva nulla di male di Batà, ma neanche nulla di bene. Buttato sempre là, in quel suo pezzo di terra lontano, non si sapeva come vivesse; stava sempre solo, come una bestia in compagnia delle sue bestie, due mule, un’asina e il cane di guardia; e certo aveva un’aria strana, truce e a volte da insensato.
C’era stata veramente un’altra ragione e forse più forte, per cui la madre s’era ostinata a darle quell’uomo. Sidora ricordava anche quest’altra ragione che in quel momento le appariva lontana lontana, come d’un’altra vita, ma pure spiccata, precisa. Vedeva due fresche labbra argute e vermiglie come due foglie di garofano aprirsi a un sorriso che le faceva fremere e frizzare tutto il sangue nelle vene. Erano le labbra di Saro, suo cugino, che nell’amore di lei non aveva saputo trovar la forza di rinsavire, di liberarsi dalla compagnia dei tristi amici, per togliere alla madre ogni pretesto d’opporsi alle loro nozze.
Ah, certo, Saro sarebbe stato un pessimo marito; ma che marito era questo, adesso? Gli affanni, che senza dubbio le avrebbe dati quell’altro, non eran forse da preferire all’angoscia, al ribrezzo, alla paura, che le incuteva questo?
Batà, alla fine, si sgruppò; ma appena levato in piedi, quasi colto da vertigine, fece un mezzo giro su se stesso; le gambe, come impastojate, gli si piegarono; si sostenne a stento, con le braccia per aria. Un mùgolo quasi di rabbia gli partì dalla gola.
Sidora accorse atterrita; ma egli l’arrestò con un cenno delle braccia. Un fiotto gli saliva, inesauribile, gl’impediva di parlare. Arrangolando, se lo ricacciava dentro; lottava contro i singulti, con un gorgoglio orribile nella strozza. E aveva la faccia sbiancata, torbida, terrea; gli occhi foschi e velati, in cui dietro la follia si scorgeva una paura quasi infantile, ancora cosciente, infinita. Con le mani seguitava a farle cenno di attendere e di non spaventarsi e di tenersi discosta. Alla fine, con voce che non era più la sua, disse:

– Dentro... chiuditi dentro... bene... Non ti spaventare... Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido... non ti spaventare... non aprire... Niente... va’! va’!

– Ma che avete? – gli gridò Sidora, raccapricciata.

Batà mugolò di nuovo, si scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le membra; poi, col guizzo d’un braccio indicò il cielo, e urlò:

– La luna!

Sidora, nel voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocca.
Asserragliata dentro, tenendosi stretta come a impedire che le membra le si staccassero dal tremore continuo, crescente, invincibile, mugolando anche lei, forsennata dal terrore, udì poco dopo gli ùluli lunghi, ferini, del marito che si scontorceva fuori, là davanti la porta, in preda al male orrendo che gli veniva dalla luna, e contro la porta batteva il capo, i piedi, i ginocchi, le mani, e la graffiava, come se le unghie gli fossero diventate artigli, e sbuffava, quasi nell’esasperazione d’una bestiale fatica rabbiosa, quasi volesse sconficcarla, schiantarla, quella porta, e ora latrava, latrava, come se avesse un cane in corpo, e daccapo tornava a graffiare, sbruffando, ululando, e a battervi il capo, i ginocchi.

– Ajuto! ajuto! – gridava lei, pur sapendo che nessuno in quel deserto avrebbe udito le sue grida – Ajuto! ajuto! – e reggeva la porta con le braccia, per paura che da un momento all’altro, non ostante i molti puntelli, cedesse alla violenza iterata, feroce, accanita, di quella cieca furia urlante.

Ah, se avesse potuto ucciderlo! Perduta, si voltò, quasi a cercare un’arma nella stanza Ma a traverso la grata d’una finestra, in alto, nella parete di faccia, di nuovo scorse la luna, ora limpida, che saliva nel cielo, tutto inondato di placido albore. A quella vista, come assalita d’improvviso dal contagio del male, cacciò un gran grido e cadde riversa, priva di sensi.
Quando si riebbe, in prima, nello stordimento, non comprese perché fosse così buttata a terra. I puntelli alla porta le richiamarono la memoria e subito s’atterrì del silenzio che ora regnava là fuori. Sorse in piedi; s’accostò vacillante alla porta, e tese l’orecchio.
Nulla, più nulla.
Stette a lungo in ascolto, oppressa ora di sgomento per quell’enorme silenzio misterioso, di tutto il mondo. E alla fine le parve d’udire da presso un sospiro, un gran sospiro, come esalato da un’angoscia mortale.
Subito corse alla cassa sotto il letto; la trasse avanti; l’aprì; ne cavò la mantellina di panno; ritornò alla porta; tese di nuovo a lungo l’orecchio, poi levò a uno a uno in fretta, silenziosamente, i puntelli, silenziosamente levò il paletto, la stanga; schiuse appena un battente, guatò attraverso lo spiraglio per terra.
Batà era lì. Giaceva come una bestia morta, bocconi, tra la bava, nero, tumefatto, le braccia aperte. Il suo cane, acculato lì presso, gli faceva la guardia, sotto la luna.
Sidora venne fuori rattenendo il fiato; riaccostò pian piano la porta, fece al cane un cenno rabbioso di non muoversi di lì, e cauta, a passi di lupo, con la mantellina sotto il braccio, prese la fuga per la campagna, verso il paese, nella notte ancora alta, tutta soffusa dal chiarore della luna.


Arrivò al paese, in casa della madre, poco prima dell’alba. La madre s’era alzata da poco. La catapecchia, buja come un antro, in fondo a un vicolo angusto, era stenebrata appena da una lumierina a olio. Sidora parve la ingombrasse tutta, precipitandosi dentro, scompigliata, affannosa.
Nel veder la figliuola a quell’ora, in quello stato, la madre levò le grida e fece accorrere con le lumierine a olio in mano tutte le donne del vicinato.
Sidora si mise a piangere forte e, piangendo, si strappava i capelli, fingeva di non poter parlare per far meglio comprendere e misurare alla madre, alle vicine, l’enormità del caso che le era occorso, della paura che s’era presa.

– Il male di luna! il male di luna!

Il terrore superstizioso di quel male oscuro invase tutte le donne, al racconto di Sidora.
Ah, povera figliuola! Lo avevano detto esse alla madre, che quell’uomo non era naturale, che quell’uomo doveva nascondere in sé qualche grossa magagna; che nessuna di loro lo avrebbe dato alla propria figliuola. Latrava eh? ululava come un lupo? graffiava la porta? Gesù, che spavento! E come non era morta, povera figliuola?
La madre, accasciata su la seggiola, finita, con le braccia e il capo ciondoloni, nicchiava in un canto:

– Ah figlia mia! ah figlia mia! ah povera figliuccia mia rovinata!

Sul tramonto, si presentò nel vicolo, tirandosi dietro per la cavezza le due mule bardate, Batà, ancora gonfio e livido, avvilito, abbattuto, imbalordito.
Allo scalpiccìo delle mule sui ciottoli di quel vicolo che il sole d’agosto infocava come un forno, e che accecava per gli sbarbagli della calce, tutte le donne, con gesti e gridi soffocati di spavento, si ritrassero con le seggiole in fretta nelle loro casupole, e sporsero il capo dall’uscio a spiare e ad ammiccarsi tra loro.
La madre di Sidora sulla soglia si parò, fiera e tutta tremante di rabbia, e cominciò a gridare:

– Andate via, malo cristiano! Avete il coraggio di ricomparirmi davanti? Via di qua! via di qua! Assassino traditore, via di qua! Mi avete rovinato una figlia! Via di qua!

E seguitò per un pezzo a sbraitare così, mentre Sidora, rincantucciata dentro, piangeva, scongiurava la madre di difenderla, di non dargli passo.
Batà ascoltò a capo chino minacce e vituperii. Gli toccavano: era in colpa; aveva nascosto il suo male. Lo aveva nascosto, perché nessuna donna se lo sarebbe preso, se egli lo avesse confessato avanti. Era giusto che ora della sua colpa pagasse la pena.
Teneva gli occhi chiusi e scrollava amaramente il capo, senza muoversi d’un passo. Allora la suocera gli batté la porta in faccia e ci mise dietro la stanga. Batà rimase ancora un pezzo, a capo chino, davanti a quella porta chiusa, poi si voltò e scorse su gli usci delle altre casupole tanti occhi smarriti e sgomenti, che lo spiavano.
Videro quegli occhi le lagrime sul volto dell’uomo avvilito, e allora lo sgomento si cangiò in pietà.
Una prima comare più coraggiosa gli porse una sedia; le altre, a due, a tre, vennero fuori, e gli si fecero attorno. E Batà, dopo aver ringraziato con muti cenni del capo, prese adagio adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva «incantato». L’incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta. Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa; ma, poiché non era, si poteva far così, che, o lei, a ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla madre; o questa andasse giù alla roba, a tenerle compagnia.

– Chi? mia madre? – saltò a gridare a questo punto, avvampata d’ira, con occhi feroci, Sidora, spalancando la porta, dietro alla quale se ne era stata a origliare. Voi siete pazzo! Volete far morire di paura anche mia madre?

Questa allora venne fuori anche lei, scostando con un gomito la figlia e imponendole di star zitta e quieta in casa. Si accostò al crocchio delle donne, ora divenute tutte pietose, e si mise a confabular con esse, poi con Batà da sola a solo.

Sidora dalla soglia, stizzita e costernata, seguiva i gesti della madre e del marito; e. come le parve che questi facesse con molto calore qualche promessa che la madre accoglieva con evidente piacere, si mise a strillare:

– Gnornò! Scordatevelo! State ad accordarvi tra voi? inutile! è inutile! Debbo dirlo io!

Le donne del vicinato le fecero cenni pressanti di star zitta, d’aspettare che il colloquio terminasse. Alla fine Batà salutò la suocera, le lasciò in consegna una delle due mule, e, ringraziate le buone vicine, tirandosi dietro l’altra mula per la cavezza, se ne andò.

– Sta’ zitta, sciocca! – disse subito, piano, la madre a Sidora, rincasando. – Quando farà la luna, verrò giù io, con Saro...

– Con Saro? L’ha detto lui?

– Gliel’ho detto io, sta’ zitta! Con Saro.

E, abbassando gli occhi per nascondere il sorriso, finse d’asciugarsi la bocca sdentata con una cocca del fazzoletto che teneva in capo, annodato sotto il mento, e aggiunse:

– Abbiamo forse, di uomini, altri che lui nel nostro parentado? È l’unico che ci possa dare ajuto e conforto. Sta’ zitta!

Così la mattina appresso, all’alba, Sidora ripartì per
la campagna su quell’altra mula lasciata dal marito.
Non pensò ad altro più, per tutti i ventinove giorni che corsero fino alla nuova quintadecima. Vide quella luna d’agosto a mano a mano scemare e sorgere sempre più tardi, e col desiderio avrebbe voluto affrettarne le fasi declinanti; poi per alcune sere non la vide più; la rivide infine tenera, esile nel cielo ancora crepuscolare, e a mano a mano, di nuovo crescere sempre più.

– Non temere, – le diceva, triste, Batà, vedendola con gli occhi sempre fissi alla luna. – C’è tempo ancora, c’è tempo! Il guajo sarà, quando non avrà più le corna...

Sidora, a quelle parole accompagnate da un ambiguo sorriso, si sentiva gelare e lo guardava sbigottita.
Giunse alla fine la sera tanto sospirata e insieme tanto temuta. La madre arrivò a cavallo col nipote Saro due ore prima che sorgesse la luna.
Batà se ne stava come l’altra volta aggruppato tutto sull’aja, e non levò neppure il capo a salutare.
Sidora, che fremeva tutta, fece segno al cugino e alla madre di non dirgli nulla e li condusse dentro la roba. La madre andò subito a ficcare il naso in un bugigattolino bujo, ov’erano ammucchiati vecchi arnesi da lavoro, zappe, falci, bardelle, ceste, bisacce, accanto alla stanza grande che dava ricetto anche alle bestie.

– Tu sei uomo, – disse a Saro, – e tu sai già com’è, – disse alla figlia; – io sono vecchia, ho paura più di tutti, e me ne starò rintanata qua, zitta zitta e sola sola. Mi chiudo bene, e lui faccia pure il lupo fuori.

Riuscirono tutti e tre all’aperto, e si trattennero un lungo pezzo a conversare davanti alla roba. Sidora, a mano a mano che l’ombra inchinava su la campagna, lanciava sguardi vieppiù ardenti e aizzosi. Ma Saro, pur così vivace di solito, brioso e buontempone, si sentiva all’incontro a mano a mano smorire, rassegare il riso su le labbra, inaridir la lingua. Come se sul murello, su cui stava seduto, ci fossero spine, si dimenava di continuo e inghiottiva con stento. E di tratto in tratto allungava di traverso uno sguardo a quell’uomo lì in attesa dell’assalto del male; allungava anche il collo per vedere se dietro le alture della Crocca non spuntasse la faccia spaventosa della luna.

– Ancora niente, – diceva alle due donne.

Sidora gli rispondeva con un gesto vivace di noncuranza e seguitava, ridendo, ad aizzarlo con gli occhi.
Di quegli occhi, ormai quasi impudenti, Saro cominciò a provare orrore e terrore, più che di quell’uomo là aggruppato, in attesa.
E fu il primo a spiccare un salto da montone dentro la roba, appena Batà cacciò il mùgolo annunziatore e con la mano accennò ai tre di chiudersi subito dentro. Ah con qual furia si diede a metter puntelli e puntelli e puntelli, mentre la vecchia si rintanava mogia mogia nello sgabuzzino, e Sidora, irritata, delusa, gli ripeteva, con tono ironico:

– Ma piano, piano... non ti far male... Vedrai che non è niente.

Non era niente? Ah, non era niente? Coi capelli drizzati su la fronte, ai primi ululi del marito, alle prime testate, alle prime pedate alla porta, ai primi sbruffi e graffii, Saro, tutto bagnato di sudor freddo, con la schiena aperta dai brividi, gli occhi sbarrati, tremava a verga a verga. Non era niente? Signore Iddio! Signore Iddio! Ma come? Era pazza quella donna là? Mentre il marito, fuori, faceva alla porta quella tempesta, eccola qua, rideva, seduta sul letto, dimenava le gambe, gli tendeva le braccia, lo chiamava:

– Saro! Saro!

Ah si? Irato, sdegnato, Saro d’un balzo saltò nel bugigattolo della vecchia, la ghermí per un braccio, la trasse fuori, la buttò a sedere sul letto accanto alla figlia.

– Qua, – urlò. – Quest’è matta!

E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch’egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie.

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Isaia Investigations

Post n°506 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Come dice il proverbio,lettori miei?Le disgrazie non vengono mai sole.Dopo BernabòTrogoloni un altro sinistro si è ripresentato alla ribalta della cronaca.E di chi posso parlare,se non di Isaia Martellacci?Stavolta il nefando,comseguita la licenza di investigatore privato in Burundi, ha pensato bene di aprire un ufficio a S.Tobia.
Passo a illustrarvi i risultati che è meglio
LUNEDI'-Da un po' di tempo Alfredino si era accorto di incursioni ladresche nella sua cantina.Deciso a scoprire l'autore dei furti ha interpellato Isaia che nottetempo si è sistemato in cantina con tanto di apparecchio fotografico a raggi infrarossi.Il ladro altri non era che lo stesso Alfredino,colto da attacchi di sonnambulismo.
Il Trombettoni gli ha sfasciato in testa la macchina fotografica.
MARTEDI'- Ireneo ha ingaggiato Isaia per scoprire chi da anni scrive sui muri della chiesa frasi che ledono la sua dignità .
Isaia ha socperto Evaristo proprio mentre scriveva sul muro della canonica:"Pretone,pretone,sei proprio un gran coglione"Ireneo ha preso il fratello a schioppettate ed Evaristo ha giurato tremenda vendetta.
MERCOLEDI'- Insospettita dalle frequenti uscite serali del marito,Bradamante Trogoloni si è rivolta a isaia.
Il nostro occhio di lince ha scoperto che l'Astorre si recava al locale di striptease "Pappagallo scemo" di Pistoia,in compagnia di Teobaldo e Geremia.
Ha quindi informato non solo la Bradamante,ma anche madre e sorella.
I tre tapini hanno passato la notte sull'unico lampione di S.Tobia
GIOVEDI'- Berengario ha ingaggiato Isaia per scoprire l'amante della Carolina.
L'uomo in questione era il veterinario Brodolotti.
La Carolina ha sopportato di buon grado le urla del marito,convinta che il caldo gli avesse dato alla testa, poi,quando ha capito che diceva sul serio,gli ha rivelato l'orrenda verità:frequenta l'Egisto per chè gli dà lezioni di cucina!
Conclusa la spiegazione,ha dato di piglio allo schioppo ed èandata in cerca di Isaia.
Per fortuna sua non lo ha trovato.
VENERDI'- La Clementina,esasperata da continue telefonate oscene,ha ingaggiato Isaia.
Il nostro in un'ora ha scoperto il colpevole:Melchiorre Scozzagalli!
L'arzillo vecchiardo,convinto di parlare con la Candida,oggetto sel suo desiderio senile,era arrivato a fare 589 telefonate in un giorno.
La quarta moglie ha chiesto la separazione;Abramo,l'Anarchico e Leone hanno sfidato a duello Melchiorre.
SABATO-Be'erino ha supplicato Isaia di ritrovare la Strombazzoni-Bon che da mesi lo ha mollato.
La baronessa si trovava nella casa di campagna della nipote,la giallista Pandora Strombazzoni-Bon.
La Pandora gli ha sguinzagliato contro i suo itre ferocissimi mastini napoletani.
DOMENICA-Isaia ha chiuso l'agenzia ed è tornato nel Burundi,dichiarando che il suo talento era misconosciuto e S.Tobia non lo meritava.
Sono passati dieci giorni.
Il Trombettoni si sta sottoponendo a ll'ipnosi per curarsi dal sonnambulismo.
Evaristo si è rifugiato dall'Orapronobis in attesa che Ireneo si calmi.Mi sa che ci metterà radici.
Astorre,Teobaldo e Geremia vivono nella stalla dei Trogoloni,per gentile concessione del toro Cesarone.
La carolina è tornata dalla Taide.
Il Brodolotti ha vinto il concorso "Veterinari ai fornelli"
Lo Scozzagalli è stato ricoverato dai parenti nella clinica Luminaris.
L'Amalasunta è sparita ancora.
E Isaia?
Non se ne sa nulla,ma ciò non vuol dire che abbia rinunciato a far parlare ancora di sè




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Prima del principio (Paz)

Post n°505 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Rumori confusi, incerto chiarore.
Inizia un nuovo giono,
è una stanza in penombra
e due corpi distesi.
Nella fronte mi perdo
in un pianoro vuoto.
Già le ore affilano rasoi.
Ma al mio fianco tu respiri;
intimamente mia eppur remota
fluisci e non ti muovi.
Inaccessibile se ti penso,
con gli occhi ti tocco,
ti guardo con le mani.
I sogni ci separano
ed il sangue ci unisce:
siamo un fiume di palpiti.
Sotto le tue palpebre matura
il seme del sole.
Il mondo
non è ancora reale,
il tempo è dubbio:
solo il calore della tua pelle è vero.
Nel tuo respiro ascolto
la marea dell'essere,
la sillaba scordata del Pricipipio

 
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Libri dimenticati:Gli ultimi giorni di Marco Pantani

Post n°504 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Questo libro,scritto con grande accuratezza dal giornalista francese Philippe Brunel,,ripercorre le tappe che portano alla caduta di Marco Pantani prima come sportivo,poi come uomo.
E' un libro-inchiesta,ma del libro-inchiesta non ha la freddezza e l'asetticità.
Da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°503 pubblicato il 24 Agosto 2011 da odette.teresa1958

La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli (Aristotele)

 
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