Messaggi del 26/08/2011

L'uovo nero

Post n°535 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una vecchia che campava di elemosina, e tutto quello che buscava, lo divideva esattamente: metà lei, metà la sua gallina. Ogni giorno, all'alba, la gallina si metteva a schiamazzare; avea fatto l'uovo. La vecchia lo vendeva un soldo, e si comprava un soldo di pane. La crosta la sminuzzava a quella, la midolla se la mangiava lei: poi andava attorno per l'elemosina. Ma venne una mal'annata. Un giorno la vecchina tornò a casa senza nulla. "Ah, gallettina mia! Oggi resteremo a gozzo vuoto." "Pazienza ci vuole! Mangeremo domani." Il giorno appresso, sul far dell'alba, la gallina si mise a schiamazzare. Invece d'un uovo, ne aveva fatti due, uno bianco e l'altro nero. La vecchia andò fuori per venderli. Quello bianco lo vendé subito; quello nero, nessuno voleva credere che fosse uovo di gallina. La vecchina comprò il solito soldo di pane, e tornò a casa: "Ah, gallinetta mia! L'uovo nero non lo vuol nessuno." "Portatelo al Re." La vecchia lo portò al Re. "Che uovo è questo?" "Maestà, di gallina." "Quanto lo fai?" "Maestà, quello che il cuore v'ispira." "Datele cento lire." La vecchina, con quelle cento lire, si credette più ricca di Sua Maestà.

Giusto in quei giorni la Regina avea posta una gallina, e alle uova messe a covare aggiunse anche quello. Ma la chioccia non lo covò. Il Re fece chiamare la vecchia: "Quell'uovo era barlaccio." "Maestà, non può essere; la gallina l'avea fatto lo stesso giorno." "Eppure non è nato." "Bisognava lo covasse la Regina." La cosa parve strana. Ma la Regina, curiosa, disse: "Lo coverò io." E se lo mise in seno. Dopo ventidue giorni, sentì rompersi il guscio. Venne fuori un pulcino bianco ch'era una bellezza. "Maestà, Maestà! Fatemi la zuppa col vino." E pigolava. "Sei galletto o pollastra?" "Maestà, son galletto." "Canta." "Chicchirichì!" Era proprio galletto. E diventò il divertimento di tutta la corte. Ma più cresceva e più si faceva impertinente. A tavola beccava nei piatti del Re e della Regina; razzolava, come se nulla fosse, nei piatti dei Ministri, che non osavano dirgli sciò per rispetto del Re; girava di qua e di là per tutte le stanze del palazzo reale, s'appollaiava dovunque, e insudiciava e riempiva ogni cosa di pollìna. E poi tutto il giorno: "Chicchirichì! Chicchirichì!" Rintronava le orecchie. La gente del palazzo reale non ne poteva più.

Un giorno la Regina s'era fatta un vestito nuovo ch'era una meraviglia, ed era costato un sacco di quattrini. Prima che lo indossasse, va il galletto e glielo insudicia. La Regina montò sulle furie: "Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere io!" E ordinò alla sarta un altro vestito più ricco di quello. La sarta ci si messe con impegno; figuriamoci che vestito!... Ma prima che la Regina lo indossasse, va il galletto e glielo insudicia. La Regina perdé il lume degli occhi: "Sporco galletto! Ora ti concio io. Chiamatemi il cuoco." Il cuoco si presentò. "Mi si faccia con cotesto galletto una buona tazza di brodo." In cucina gli tirarono il collo e lo messero a lessare. Appena la pentola diè il primo bollore: "Chicchirichì!" Il galletto era scappato fuori, come se non gli avessero mai tirato il collo e non lo avessero mai pelato e abbrustolito. Il cuoco corse dalla Regina: "Maestà, il galletto è risuscitato!" La cosa era troppo strana, e il galletto diventò prezioso. Tutti lo guardavano con rispetto; qualcuno anche con un po' di paura. Ed esso se n'abusava. A tavola beccava peggio di prima, nei piatti del Re e della Regina; razzolava, come se nulla fosse, nei piatti dei Ministri che non osavano dirgli sciò per rispetto del Re; s'appollaiava dovunque, insudiciava perfino il soglio reale e lo riempiva di pollìna. E poi, notte e giorno: chicchirichì! chicchirichì! Rintronava gli orecchi. E il popolo imprecava a denti stretti: "Accidempoli al galletto e a chi lo fa allevare!"

Un giorno Sua Maestà dovea scrivere a un altro Re. Prese carta, penna e calamaio, fece la lettera e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto e gliela insudicia, proprio dov'era la firma. "Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere io!" Il Re scrisse di bel nuovo la lettera, e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto, e gliela insudicia, proprio dov'era la firma. Il Re perdé il lume degli occhi: "Sporco galletto! Ora ti concio io! Chiamatemi il cuoco." Il cuoco si presentò. "Mi si faccia arrosto pel pranzo." In cucina gli tirarono il collo e lo infilzarono nello spiedo. Quando fu l'ora del pranzo, il cuoco lo servì in tavola. Sua Maestà cominciò a dividerlo, a chi un'ala, a chi una coscia, a chi un po' di petto, a chi il codione: serbò per sé il collo e la testa colla cresta e coi bargigli. Avea terminato appena di mangiare, che dal fondo del suo stomaco sente scoppiare: "Chicchirichì!" Fu una costernazione generale. Chiamarono tosto i medici di corte. Bisognerebbe spaccar la pancia del Re; ma chi ci si mette? E il galletto, di tanto in tanto, dal fondo dello stomaco di Sua Maestà, dava la voce: "Chicchirichì!" "Chiamatemi la vecchia" disse il Re. Appunto essa veniva a domandar l'elemosina al palazzo reale, e la condussero su. "Strega del diavolo! Che malìa hai tu fatta a quell'uovo? Ho mangiato la testa del galletto, ed esso mi canta dentro lo stomaco. Se non me ne liberi, tienti per morta!" "Maestà, datemi un giorno di tempo." E tornò subito a casa: "Ah, gallettina mia! Sono stata chiamata dal Re: «Ho mangiato la testa del galletto, ed esso mi canta dentro lo stomaco». Se non lo libero, sarò morta! "Vecchia mia, questo è nulla. Domani prenderai un po' di becchime, tornerai dal Re e farai: «Billi! billi!» Sentendo la tua voce, il galletto verrà fuori." E così fu. La cosa era troppo strana. Il galletto diventò famoso, e tornò a fare peggio di prima.

Una mattina, avanti l'alba: "Chicchirichì! Maestà, vo' una gallina." "E diamogli una gallina!" Il giorno appresso, avanti l'alba: "Chicchirichì! Maestà, vo' un'altra gallina." "E diamogli un'altra gallina!" Insomma, ne volle due dozzine. Un'altra mattina, avanti l'alba: "Chicchirichì! Maestà, vo' gli sproni d'oro." E sproni d'oro siano! Il galletto, ch'era diventato un bel gallo, con quegli sproni d'oro si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello. Un'altra volta, avanti l'alba: "Chicchirichì! Maestà, vo' la cresta doppia d'oro." "E cresta doppia d'oro sia!" Il Re cominciava a stufarsi; ma il gallo, con quegli sproni d'oro e quella cresta doppia d'oro, si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello. Finalmente un'altra mattina, avanti l'alba: "Chicchirichì! Maestà, vo' mezzo regno; ho corona al par di voi!" Al Re scappò la pazienza: "Levatemelo di torno, questo gallaccio impertinente!" Ma come fare? Ammazzarlo era inutile; risuscitava sempre. Portarlo lontano non concludeva nulla: sarebbe tornato. Prenderlo colle buone era peggio; rispondeva canzonando: "Chicchirichì!" Il Re, disperato, mandò a chiamare la vecchia: "Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa!" "Maestà, datemi un giorno di tempo." E tornò subito a casa: "Ah, gallinetta mia!" Sono stata chiamata dal Re: «Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa». Che debbo rispondere? "Rispondi: «Maestà, voi non avete figliuoli; adottatelo per figliuolo, si cheterà»." Il Re, messo colle spalle al muro, risolvette di adottarlo. Ma giovò poco. Con tutte quelle galline, il palazzo reale era diventato un pollaio. Il Re, la Regina, i Ministri, le dame di corte, i servitori, tutti si sentivan pieni di pollìna dalla testa ai piedi, e non potevano reggere. E poi, schiamazzate di qua, chicchiriate di là; aveano il capo come un cestone. Il popolo imprecava a denti stretti: "Accidempoli al gallo, alle galline e a che li fa allevare!" "Senti, strega" disse il Re. "Se fra un giorno non mi spazzi gallo e galline, pagherai con la tua testa." "Maestà, qui ci vuole la fata Morgana; mandatela a chiamare." Il Re mandò a chiamare la fata Morgana. La Fata rispose: "Chi vuole vada, chi non vuole mandi." E il Re dovette andarci egli stesso in persona. "Maestà, finché quel gallo non sarà diventato un uomo al pari di voi, non avrete mai pace." "Ma che cosa ci vuole, perché diventi un uomo al pari di me?" "Ci vuol tre sorta di becchime. Fate tre solchi colle vostre mani, e spargete queste tre sementi. Mietete, trebbiate, senza mescolare il grano, e poi dite: «Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli!» E spargerete per terra questo grano qui. Quando non ne rimarrà più un chicco: «Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli!» E spargerete per terra quest'altro grano. Quando non ne rimarrà più un chicco: «Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli!» E spargerete per terra l'ultimo grano."

Il Re s'ingegnò di far tutto a puntino. Quando fu il momento: "Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli!" E una metà delle galline morì. "Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli!" E il resto delle galline morì. "Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli!" Il gallo si mise a beccare lui solo, e appena beccato l'ultimo grano, si ritirò, s'allungò, chicchirichì! Si scosse le penne d'addosso e diventò un giovane alto e bello. Di gallo gli eran rimasti soltanto la cresta e gli sproni. Ma non importava. Il Re disse al popolo: "Non ho figliuoli, e questo qui sarà il Reuccio. Rispettatelo per tale." "Viva il Reuccio! Viva il Reuccio!" Ma, sottovoce, dicevano: "Staremo a vedere. Chi gallo nasce dee chicchiriare."

Il Reuccio, dopo parecchi mesi, diventò malinconico. Voleva star solo, non parlava con nessuno. "Che cosa avete, figliuolo mio?" "Maestà, nulla." Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia di far chicchirichì! Chiamarono i medici di corte; chiamarono anche quelli fuori del regno, i più valenti. Non ci capivano niente. Forse il Reuccio voleva moglie? Non voleva moglie. Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse voluto, gli sarebbe stata concessa. "Vorrei... fare chicchirichì!" Bisognò permetterglielo: e si sfogò tutta la giornata. Allora gli tagliarono la cresta, e quella voglia non la ebbe più. E il popolo: "Staremo a vedere! Chi da gallina nasce convien che razzoli."

Dopo parecchi mesi il Reuccio tornò ad essere malinconico. Voleva star solo, non parlava con nessuno. "Che cosa avete, figliuolo mio?" "Maestà, nulla." Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia d'uscir fuori a razzolare. Tornarono a chiamare i dottori, ma non ci capivano niente. Forse il Reuccio voleva moglie? Non voleva moglie. Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse chiesta, gli sarebbe stata concessa. "Vorrei... uscir fuori a razzolare!" E bisognò permetterglielo. Allora gli strapparono gli sproni, e quella voglia non la ebbe più. Venne il tempo di dargli moglie: "Vi piacerebbe, figliuolo mio, la Reginotta di Spagna?" "Maestà, dovendo sposare,... vorrei sposare una pollastra!" Si era dunque sempre daccapo? Il Re quel giorno avea le paturne. Tira fuori la sciabola e gli taglia la testa. Ma, invece di sangue d'uomo, gli uscì fuori sangue di pollo. Si presentò allora la vecchina: "Maestà, ecco, è finita." Gli riappiccicò il capo collo sputo, e il Reuccio tornò vivo. Ora ch'era un uomo davvero stette tranquillo, e di lì a poco si sposò colla Reginotta di Spagna. Poi diventarono Re e Regina, e fecero un po' di bene.

E la fiaba finisce.

 
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Il baule volante

Post n°534 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un commerciante, così ricco che avrebbe potuto ricoprire tutta la strada principale e anche un vicolino laterale di monete d'argento, ma naturalmente non lo fece: sapeva come usare il suo denaro; se dava uno scellino, otteneva un tallero; era proprio un commerciante e come tale morì. Il figlio ereditò tutti i suoi soldi e visse spensierato, andava alle feste ogni notte, costruiva aquiloni con le banconote e lanciava monete d'oro sul lago per farle rimbalzare invece di usare le pietre, perché naturalmente i soldi saltavano meglio; alla fine non gli restarono che quattro scellini, non aveva vestiti al di fuori di un paio di pantofole e una vecchia vestaglia. Ai suoi amici non importò più nulla di lui, dato che non potevano più uscire insieme per le strade; solo uno di loro, che era buono, gli mandò un vecchio baule e gli disse: "Fai i bagagli!". Facile a dirsi! ma egli non aveva nulla con cui fare i bagagli, così si mise lui stesso nel baule. Era un baule strano. Non appena si premeva la serratura, il baule si sollevava e volava; e infatti si mise a volare attraverso il camino in alto sopra le nuvole, sempre più lontano. Il fondo scricchiolava, e lui temeva che si rompesse, in quel caso avrebbe proprio fatto un bel volo! Il Signore ci protegga! e così arrivò nella terra dei turchi. Nascose il baule nel bosco sotto le foglie secche e se ne andò in città; lì lo poteva fare, perché in Turchia andavano in giro tutti, come lui, con la vestaglia e le pantofole. Così incontrò una balia con un bambinetto. "Ascolta, balia turca!" disse "che cos'è quel grande castello vicino alla città, che ha le finestre così alte?" "Ci vive la figlia del re!" fu la risposta "è stato predetto che diventerà molto infelice a causa di un fidanzato, e per questo nessuno può andare da lei, se non ci sono anche il re e la regina." "Grazie!" rispose il figlio del commerciante, e così se ne tornò nel bosco, si mise nel baule, volò sul tetto e poi entrò dalla finestra fino alla principessa. La principessa era sdraiata sul divano e dormiva, era così graziosa che il figlio del commerciante dovette baciarla; ;lei si svegliò e si spaventò molto, ma lui raccontò di essere il dio dei turchi e di essere sceso dall'aria fino a lei, e lei ne fu molto contenta. Così sedettero uno vicino all'altra, lui le narrò fiabe sui suoi occhi: erano laghi bellissimi e scuri, e i pensieri vi nuotavano come sirene; e poi raccontò della fronte, che era una montagna di neve con meravigliose sale e quadri, e poi le narrò della cicogna che porta i cari bambini. Erano delle storie bellissime! Allora le chiese di sposarlo e lei subito accettò. "Ma dovete tornare qui sabato" aggiunse "quando ci saranno da me il re e la regina a prendere il tè. Saranno molto orgogliosi all'idea che io sposerò il dio dei turchi, ma dovete raccontare una bellissima storia, perché a loro piacciono tanto mia mamma vuole che siano classiche e morali, mio padre invece le preferisce divertenti, che facciano ridere." "Sì, non porterò altro in dono alla sposa che una storia!" rispose il ragazzo, e poi si separarono, ma prima la principessa gli donò una sciabola intarsiata di monete d'oro, che gli fecero proprio comodo. Volò via, acquistò una nuova vestaglia e sedette nel bosco, pensando a una storia; doveva essere pronta per sabato, e non era facile. Alla fine la storia fu pronta, e era proprio sabato. Il re e la regina e tutta la corte lo aspettavano bevendo il tè presso la principessa. Come venne ricevuto bene! "Volete raccontarci una storia?" chiese la regina "ma che sia significativa e istruttiva!" "Ma che faccia anche ridere!" aggiunse il re. "Certamente" rispose lui, e cominciò a raccontare. Ascoltiamola anche noi adesso. "C'era una volta un mazzetto di fiammiferi, che erano molto fieri di appartenere a una nobile famiglia, il loro albero di origine, il grande pino, di cui erano solo un piccolissimo rametto, era stato un antico e maestoso albero del bosco. Ora i fiammiferi si trovavano su una mensola tra un acciarino e una vecchia pentola di ferro, e per loro si misero a raccontare della loro infanzia.

"Al tempo dei nostri anni più verdi" dicevano "ci trovavamo proprio su un albero verde! Ogni mattina e ogni sera avevamo del tè di diamanti, che era la rugiada, e durante il giorno avevamo i raggi del sole, quando il sole splendeva, e tutti gli uccellini ci raccontavano delle storie. Sapevamo di essere anche ricchi, perché gli altri alberi erano vestiti solo d'estate, mentre la nostra famiglia poteva permettersi vestiti verdi sia d'estate che d'inverno. Poi giunsero dei boscaioli che fecero una gran rivoluzione, e la nostra famiglia venne dispersa. Il tronco principale diventò un albero maestoso in una nave bellissima che poteva navigare intorno al mondo, se lo voleva, gli altri rami andarono in luoghi diversi, e noi abbiamo avuto l'incarico di accendere la luce per la gente vile; per questo noi, che siamo gente aristocratica, siamo arrivati fin qui in cucina." "A me invece è capitato in un altro modo" disse la pentola di ferro vicino alla quale si trovavano i fiammiferi. "Da quando sono nata sono stata bollita e raschiata moltissime volte! Devo occuparmi di cose concrete e, a dire il vero, sono io la più importante della casa. La mia unica gioia è, dopo il pranzo, stare qui sulla mensola ben pulita a chiacchierare con i compagni; ma noi viviamo sempre in casa, a parte il secchio dell'acqua che ogni tanto è portato nel cortile. Il nostro unico informatore è la borsa della spesa, ma quella si agita sempre nel parlare del governo e del popolo; addirittura l'altro giorno c'era una vecchia pentola che per lo spavento è caduta e s'è rotta! Quella è una liberale, ve lo dico io!" "Tu parli troppo" esclamò l'acciarino e batté sulla pietra focaia per far scintille. "Perché non ci divertiamo questa sera?" "Sì, vediamo chi di noi è più distinto!" suggerirono i fiammiferi. "No, a me non piace parlare di me stessa!" disse la pentola di coccio. "Organizziamo invece una vera serata! Comincio io: vi racconto una storia che noi tutti abbiamo vissuto; così è facile immedesimarvisi, e poi è divertente. Presso i faggi danesi che si trovano lungo il Mar Baltico..." "È un inizio bellissimo!" esclamarono tutti i piatti, "sarà sicuramente una bella storia". "Sì. Là trascorsi la mia giovinezza, presso una famiglia tranquilla. I mobili venivano lucidati, il pavimento veniva lavato e cambiavano le tendine ogni quindici giorni." "Com'è interessante quello che raccontate!” disse il piumino per spolverare." Si sente subito che è una signora quella che racconta! c'è un'aria così pulita nelle sue parole!" "Sì, è vero!" disse il secchio dell'acqua, e saltellò di gioia così che l'acqua schizzò sul pavimento. "E la pentola continuò a raccontare e la fine fu bella come l'inizio. "Tutti i piatti tintinnavano per la gioia, il piumino prese del prezzemolo dal secchio di sabbia e incoronò la pentola, perché sapeva che avrebbe fatto rabbia agli altri, e «se io la incorono oggi» pensava, «domani mi incoronerà lei». "Adesso vogliamo ballare!" esclamarono le molle del camino e ballarono. Dio mio! come sollevavano le gambe! La vecchia fodera della sedia nell'angolo rideva a crepapelle nel vederle! "Possiamo essere incoronate anche noi?" chiesero le molle e lo furono. «Non è altro che popolino!» pensavano i fiammiferi. Adesso doveva cantare la teiera, ma era raffreddata, o almeno così disse, non poteva cantare se non bolliva, ma non era che mania di grandezza: voleva cantare solo quando si trovava a tavola con gli invitati. "Vicino alla finestra c'era una vecchia penna d'oca, con cui la domestica scriveva; non aveva nulla di strano, eccetto che era stata immersa troppo nel calamaio, ma di questo era orgogliosa. "La teiera non vuole cantare?" esclamò "non fa niente, qui fuori c'è una gabbia con un usignolo, che sa cantare; lei invece non ha mai imparato, ma non parliamo male di lei questa sera!" "Io penso che sia molto sconveniente" disse il bollitore, che era il cantante della cucina e il fratellastro della teiera "dover sentire un uccello estraneo. Vi pare patriottico? Lasciamo giudicare dalla borsa della spesa." "Sono proprio arrabbiata!" disse la borsa "così arrabbiata che non potete immaginare! è forse un bel modo di trascorrere la serata? non è meglio mettere un pò in ordine la casa? Ognuno dovrebbe tornare al suo posto e io dirigerei il tutto sarebbe diverso!" "Sì, facciamo un pò di ordine!" dissero tutti. In quel mentre si aprì la porta. Era la domestica, e tutti rimasero quieti, nessuno fiatò; ma non c'era una sola pentola che non fosse conscia di quello che avrebbe potuto fare e non se ne sentisse orgogliosa. «Sì, se avessi voluto» pensavano «sarebbe stata una serata divertente!» La domestica prese i fiammiferi e accese il fuoco. Dio mio! come crepitavano e che fiamma! «Adesso ognuno può vedere che noi siamo i più importanti!» pensavano i fiammiferi, «e che splendore, che luce abbiamo!» e già erano tutti consumati." "Che bella storia" esclamò la regina "mi sono proprio sentita in cucina con i fiammiferi. Sì, tu avrai nostra figlia." "Certo!" aggiunse il re. "Sposerai nostra figlia lunedì." Ormai gli dava del tu, dato che doveva far parte della famiglia.

Il matrimonio era stato fissato e la sera prima la città venne tutta illuminata: volavano in aria ciambelline e maritozzi; i monelli di strada si alzavano in punta di piedi per prenderle e urlavano Urrà! e fischiavano con le dita; era semplicemente meraviglioso! «Anch'io devo fare qualcosa!» pensò il figlio del commerciante, e comprò dei razzi illuminanti, dei petardi e tutti i fuochi artificiali che si potessero immaginare, li mise nel baule e volò in alto. Rutsch! come funzionavano bene! e che scoppi! Tutti i turchi saltavano in aria a ogni scoppio e le pantofole gli arrivavano fino alle orecchie: un tale spettacolo non l'avevano mai visto prima. Adesso capivano che era proprio il dio dei turchi che doveva sposare la principessa. Quando il figlio del commerciante ridiscese col suo baule nel bosco pensò: «Voglio andare in città a sentire che cosa dicono di me!», ed era naturale che avesse voglia di farlo. Quali cose raccontava la gente! ognuno di quelli a cui domandava l'aveva visto in modo differente, ma a tutti era parso straordinario. "Io ho visto il dio dei turchi in persona!" raccontò uno. "Aveva occhi che splendevano come stelle e una barba come l'acqua spumeggiante!" "Volava avvolto in un mantello di fuoco" diceva un altro. "Bellissimi angioletti spuntavano dalle pieghe." Sì, sentì dire delle cose bellissime e il giorno dopo doveva esserci il matrimonio. Tornò nel bosco per infilarsi nel baule, ma dov'era finito? Il baule era tutto bruciato. Una scintilla dei fuochi artificiali vi era caduta sopra, aveva appiccato il fuoco, e ora il baule era diventato cenere. Lui non era più in grado di volare, non poteva più raggiungere la sua sposa. Lei rimase tutto il giorno sul tetto ad aspettare; sta aspettando ancora mentre lui gira per il mondo e racconta storie, che però non sono divertenti come quella che aveva raccontato sui fiammiferi.

 
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Koscei l'immortale

Post n°533 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

'era una volta, in un lontano reame, un re, che viveva con la sua regina. Nacque loro un figlio, Ivan zarevic. Le bambinaie vogliono cullarlo, ma non ci riescono. Chiamano il ladre: "Sire, grande sovrano! Vieni tu, e prova a cullare tuo figlio". Il re cominciò a cullarlo: "Dormi, figlio mio! Dormi, mio amato! Crescerai grande e forte, ti fidanzo già da adesso con la Inenarrabile Bellezza, figlia di tre mamme, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli". Lo zarevic si addormentò, e dormì tre giorni interi, settantadue ore. Quando si svegliò pianse più di prima. Le bambinaie cercano di cullarlo, ma non ci riescono; chiamano il padre: "Sire, grande sovrano! Vieni tu, e prova a cullare tuo figlio". Il re zar, lo culla, e intanto gli dice: "Dormi, figlio mio, dormi, mio amato! Crescerai grande e forte, ti fidanzo già da adesso con la Inenarrabile Bellezza, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli". Lo zarevic si addormentò e dormì ancora tre giorni interi. Quando si svegliò, pianse ancora, più di prima. Le bambinaie cercano di cullarlo, ma non ci riescono. "Vieni, grande sovrano, culla tuo figlio." Lo zar lo culla, e gli dice: "Dormi, figlio mio, dormi, mio amato! Crescerai grande e forte, ti fidanzo già da adesso con la Inenarrabile Bellezza, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli". Lo zarevic si addormentò, e dormì ancora altri tre giorni. Poi si svegliò, e dice: "Dammi, padre, la tua benedizione; vado a sposarmi". "Ma come, figlio mio? Dove vuoi andare? In tutto hai nove giorni!" "Dammi la tua benedizione, e io vado. E se non me la dai, vado lo stesso!" "Beh, và pure. E che Dio sia con te!"

Ivan zarevic si preparò e andò a procurarsi un cavallo. Si allontanò non poco da casa, e incontrò un vecchio: "Dove vai, giovane? Di tua volontà o no?". "Io non voglio parlare con te!" rispose lo zarevic, si allontanò un poco e poi ci pensò su: "Perché non ho detto nulla a quel vecchio? I vecchi sanno molte cose". Subito raggiunse il vecchio: "Fermati, nonno! Perché mi hai fatto quella domanda?". "Perché ti ho chiesto se andavi o no di tua volontà?" "Io vado tanto di mia volontà, quanto non di mia volontà. Ero piccolissimo, e mie padre mi cullava nella culla, e mi ha destinato a fidanzami con l'Inenarrabile Bellezza, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli." "Bravo ragazzo, parli a modo! Però a piedi non ci potrai arrivare: l'Inenarrabile Bellezza vive lontano." "Quanto lontano?" "Nel reame d'oro, al termine del bianco mondo, dove sorge il solicello." "Come devo fare? Non ho un cavallo che vada così veloce, né una frusta di seta che lo faccia correre più rapidamente." "Come no? Il tuo batjuska ha trenta cavalli, tutti uguali l'uno all'altro. Torna a casa, e ordina agli scudieri di abbeverarli sulla riva del mare, il cavallo che arriverà per primo, che entrerà nell'acqua fino al collo, e si metterà subito a bere, allora le onde del mare cominceranno a sollevarsi, a ondeggiare da riva a riva. E tu prendi quel cavallo!" "Grazie per il tuo buon consiglio, nonno!"

Come gli aveva insegnato il vecchio, così lo zarevic fece; scelse un cavallo eroe, trascorse la notte, e al mattino presto, si alzò, aprì i portoni, e si avviò. Con voce umana il cavallo gli parlò: "Ivan zarevic! Sdraiati a terra! Io ti darò tre toccatine". Gli diede un colpetto una volta, poi un'altra volta, ma la terza volta no. "Se l'avessi fatto una terza volta, la terra non ci avrebbe portati, noi due!" Ivan zarevic: tolse il cavallo dalla catena, lo sellò, e vi montò sopra: solo allora lo zar vide suo figlio! Vanno lontano lontano, dove il giorno si raccorcia, e la notte si fa vicina. C'è un palazzo, che pare una città, un'izba che pare un palazzo. Il principe entra nel cortile, va al pianerottolo, lega il cavallo a un anello di rame, poi entra nell'anticamera dell'izba, prega Dio, chiede di passare la notte. "Passa la notte, bravo giovane" gli dice una vecchietta. "Dove stai andando?" "Ah tu, vecchia cagna, non parli proprio a modo. Prima dammi da bere e da mangiare, preparami il letto e poi fammi le domande." Lei gli diede da bere e da mangiare, lo mise a letto, e cominciò a fargli domande. "Nonnina, io ero molto piccolo, il batjuska mi cullava nella culla, e mi ha destinato in sposa la Bellezza Inenarrabile, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli." "Bravo ragazzo! Parli bene! Vivo da sette decenni, e di questa bellezza non ho mai sentito parlare. Più in là vive la mia sorella maggiore, forse lei lo sa. Và domani da lei, e adesso dormi. Il mattino è più saggio della sera." Ivan zarevic passò dunque la notte, e al mattino si alzò presto, si lavò proprio per bene, tirò fuori il cavallo, lo sellò, dette di staffa, e la nonnetta riuscì appena a vederlo.

Egli va dunque lontano lontano, in alto in alto, il giorno si accorcia, e la notte si fa vicina. C'è un palazzo che sembra una città, un'izba che sembra un palazzo. Il principe va al pianerottolo, lega il cavallo a un anello d'argento, poi va nell'andito, entra nell'izba, prega Dio, chiede di passare la notte. Dice una vecchia: "Fu, fu! Fino ad oggi non mi era mai stato dato di vedere con gli occhi ossa russe, né di sentirle con gli orecchi, ma ora le ossa russe sono venute da sole da me, nel mio cortile. Da dove vieni, Ivan zarevic?". "Perché, vecchia cagna, continui a dire fu fu, e mi fai domande sgarbate? Prima dovresti darmi da mangiare e da bere, mettermi a letto, e solo allora farmi le domande." Lei lo fece sedere a tavola, gli diede da mangiare e da bere, lo mise a letto, sedette presso il suo capezzale, e gli chiede: "Dove stai andando?". "Nonna, ero piccolo, mio padre, il batjuska, mi cullava nella culla, e mi ha fidanzato con la Inenarrabile Bellezza, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli." "Bravo ragazzo, parli a modo. Ma io, che vivo da ottant'anni, non ho mai sentito parlare di una tale bellezza. Se prosegui per questa strada, più avanti, vive la mia sorella maggiore; forse lei la conosce; lei ha tre esseri che le danno le risposte: il primo è la fiera dei boschi; il secondo è l'uccello dell'aria; il terzo il pesce serpente dell'acqua. Tutto quello che esiste a questo bianco mondo, tutto, le è sottomesso. Và domani da lei, e ora dormi; il mattino è più saggio della sera!" Ivan zarevic passò la notte, si alzò molto presto, si lavò ben bene, montò a cavallo, e via! Va lontano lontano, in alto in alto, il giorno si raccorcia, la notte si fa vicina; c'è un cortile, che sembra una città, un' izba che sembra un palazzo. Ivan va al pianerottolo, lega il cavallo a un anello d'oro, entra nell'andito e poi nell'izba, prega Dio, chiede di passare la notte. Una vecchia gli gridò contro: "Ah, tu, l'anello di ferro non ti andava bene, hai legato il cavallo all'anello d'oro". "Bene, nonnetta, non gridare; il cavallo lo si può slegare e legarlo a un altro anello." "Che, bravo ragazzo, ti ho fatto paura? Ma tu non spaventarti e siediti sulla panca e io comincerò a farti delle domande. Qual è la tua famiglia, da quale città vieni?" "Eh, nonna, tu prima dovresti darmi da mangiare e da bere, e poi farmi le domande. Vedi, vengo dopo una lunga strada, è tutto il giorno che non mangio!" Subito la vecchia preparò la tavola e diede da mangiare e da bere a Ivan zarevic. Egli mangiò e bevve a sazietà, si buttò sul letto, la vecchia non chiede niente, è lui stesso che racconta: "Ero piccolo, il batjuska mi cullava nella culla, e mi volle fidanzare con la Inenarrabile Bellezza, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli. Fammi il favore, nonnina, dimmi: dove vive l'Inenarrabile Bellezza e come si fa per arrivare da lei?". "Io stessa, zarevic, non lo so. Ho già passato i novant'anni e di questa bellezza non ho mai sentito parlare. Ma tu dormi in pace; domani mattina radunerò i miei informatori; forse qualcuno lo saprà."

Il giorno dopo la vecchia si alzò presto, si lavò ben bene, uscì con Ivan zarevic sul pianerottolo, e gridò con voce possente, fischiò con fischio giovanile. Gridò al mare: "Pesci e mostri marini, venite qua!". Subito l'azzurro mare si agitò, si radunarono pesci grandi e piccoli, si radunò ogni specie di serpente e mostro, vanno a riva, la ricoprono tutta. La vecchia chiede: "Dove vive l'Inenarrabile Bellezza, figlia di tre madri, nipote di tre nonne, sorella di nove fratelli?". Rispondono tutti i pesci e i serpentoni ad una voce: "Di vista non l'abbiamo vista, di orecchie non l'abbiamo udita!". Gridò la vecchia alla terra: "Radunatevi, belve dei boschi!". Le belve dei boschi corrono, ricoprono la terra, e rispondono ad una voce: "Di vista non l'abbiamo vista, di orecchie non l'abbiamo udita!". Gridò la vecchia alle regioni celesti: "Radunatevi, uccelli dell'aria!". Gli uccelli volano, ricoprono la luce del giorno, rispondono ad una voce: "Di vista non l'abbiamo vista, di orecchie non l'abbiamo udita!". E adesso non c'è più nessuno a cui chiederlo!" dice la vecchia, così prese Ivan zarevic per la mano, lo portò nell'izba. Appena arrivati, volò dentro l'uccello Mogol, cadde in terra, e alle finestre fu buio. "Ah, tu, uccello Mogol! Dov'eri, dove volavi, perché sei venuto in ritardo?" "Ho preparato la Bellezza Inenarrabile per la messa." "Anche questo! Tu mi devi fare un servizio fedele: portare là Ivan zarevic." "Lo farei volentieri, ma devi rifornirmi di molto cibo." "Quanto?" "Tre botti di carne di manzo e una bigoncia d'acqua." Ivan zarevic riempì una bigoncia d'acqua, comprò dei buoi, li uccise e riempì tre intere botti, mise le botti sull'uccello Mogol, e poi andò all'officina, dove si fabbricò una lunga lancia di ferro. Tornò indietro e salutò la vecchia. "Addio nonnina! Dà da mangiare a sazietà al mio valoroso cavallo. Ti ripagherò." Sedette sull'uccello Mogol, che subito si alzò e volò via. Vola, e continua a voltarsi indietro. Quando si volta, Ivan zarevic gli dà, con la lancia, un pezzo di carne di bue. E così vola e vola, a lungo vola, lo zarevic ha già finito due botti e dice: "Ehi, uccello Mogol! Stai per cadere sulla umida terra, è rimasto poco cibo". "Che dici, Ivan zarevic! Qui ci sono boschi profondi, fanghi avvinghianti, io e te non ci riusciremo ad arrivare alla meta." Ivan zarevic gli aveva dato ormai la carne di tutte e tre le botti, e l'uccello Mogol vola e poi si volta. ' Che fare? ' pensa lo zarevic, così si taglia i polpacci delle gambe e li dà all'uccello; l'uccello Mogol li inghiotte, vola su prati verdi, su erbe di seta, su fiori azzurrini, e poi cade a terra. Ivan zarevic si alza, cammina per il prato, cerca di sciogliere le membra, ma zoppica da tutte e due le gambe. "Che ti succede, zarevic, zoppichi forse?" "Zoppico, uccello Mogol! Da tempo mi sono tagliato i polpacci per nutrirti." L'uccello Mogol allora vomitò i polpacci, li applicò alle gambe di Ivan zarevic, soffiò e sputò, i polpacci si attaccarono, e lo zarevic poté camminare in modo baldo e forte.

Arrivò a una grande città, e si fermò per riposare da una nonnina che stava nel retro di una casa destinato alla servitù. La nonnina gli dice: "Dormi, Ivan zarevic! Domani quando suonano le campane ti sveglierò". Lo zarevic si coricò e si addormentò subito; dorme un giorno, dorme una notte... Suonarono a mattutino, la nonnina accorse, cercò di svegliarlo; per quanto lo scuota, lo batta, no, non riesce a svegliarlo. Il mattutino finì, suonarono per la messa. La Bellezza Inenarrabile andò in chiesa; la nonnina della servitù accorse, cercò ancora di svegliare il principe, lo scuote e batte in ogni modo, riesce finalmente a svegliarlo. Ivan zarevic saltò subito su, si lavò per bene, al bianco pulito, si vestì e adornò, e andò a messa. Entrò in chiesa, pregò rivolto alle icone, si inchinò da tutte le parti, in particolare verso l'Inenarrabile Bellezza; stavano vicini l'uno all'altra, a pregare Dio. Alla fine della messa, lei per prima va sotto la croce, lui la segue. Salì su una cassapanca, guardò l'azzurro mare. Stanno arrivando dei vascelli; erano i vascelli di sei eroi che venivano per chiedere di fidanzarsi. Gli eroi videro Ivan zarevic, e si misero a ridere: "Ehi tu, zoticone di paese! Magari vuoi fidanzarti con una tale bellezza? Tu non vali nemmeno il dito mignolo di lei!". Uno lo dice, e poi un altro, e poi un terzo, fatto sta che egli si sente offeso; così agitò una mano, si forma una strada, agitò l'altra, tutto è vuoto! (cioè: li ha atterrati tutti). Poi Ivan va dalla nonnetta del cortile: "Allora, Ivan zarevic, hai visto l'Inenarrabile Bellezza?". "L'ho vista e non la dimenticherò mai più per i secoli dei secoli." "Beh, và a dormire. Domani andrà di nuovo a messa; quando suona la campana, io ti sveglierò." Lo zarevic andò a letto, dorme un giorno, dorme una notte; suonano a mattutino, la vecchietta accorre, cerca di svegliare lo zarevic, ma non ci riesce, per quanti sforzi faccia; suonano per la messa, e, dài e dài, riesce a svegliarlo. Ivan zarevic saltò su, si lavò per bene, bianco pulito, si rivestì e adornò e andò in chiesa. Entrò, pregò le icone, si inchinò ai quattro cantoni, e in particolare, distintamente dagli altri, si inchinò alla Inenarrabile Bellezza. Lei gli diede uno sguardo, e arrossì. Stanno ancora vicini, pregano Dio. Alla fine della messa, lei passa sotto la croce, e lui la segue.

Lo zarevic salì sulla cassapanca, e guardò l'azzurro mare. Stanno arrivando dei vascelli: dodici eroi, che venivano per chiedere come fidanzata l'Inenarrabile Bellezza; si misero a deridere Ivan zarevic: "Ehi, tu, zoticone di paese! Vorresti l'Inenarrabile Bellezza? Tu non vali neanche il suo dito mignolo!". Per queste parole egli si offese; agitò una mano, e ci fu una via, agitò l'altra, e fu tutto vuoto! Egli andò poi dalla vecchia del cortile. "Hai visto l'Inenarrabile Bellezza?" gli chiede la nonnetta. "L'ho vista, e non la dimenticherò mai più." "Beh, và a dormire, domani mattina ti sveglierò di nuovo." Ivan zarevic va a dormire. Dorme un giorno, dorme una notte. Suonarono le campane a mattutino, la vecchietta corse a svegliare Ivan zarevic, ma non ci fu nulla da fare. Suonarono poi le campane per la messa, e la vecchietta cercò di nuovo di svegliarlo. A gran fatica ci riuscì! Ivan zarevic saltò su in fretta, si lavò per bene, bianco pulito, si rivestì e adornò, e andò in chiesa. Entrò, pregò le icone, si inchinò ai quattro cantoni, e in particolare si inchinò, distintamente dagli altri, alla Inenarrabile Bellezza. Ella lo salutò, lo fece mettere alla sua destra, e lei si mise alla sua sinistra. Stanno lì in piedi a pregare il Signore, alla fine della messa lui passa per primo sotto la croce, lei per seconda.

Lo zarevic salì sulla cassapanca, guardò l'azzurro mare. Sono in arrivo molti vascelli: ventiquattro eroi, ventiquattro bogatyri, vengono per chiedere la mano della Inenarrabile Bellezza. Gli eroi vedono Ivan zarevic, e lo deridono. "Ehi, tu, zoticone di paese! Magari vorresti l'Inenarrabile bellezza? Tu non vali nemmeno il suo dito mignolo!" Si misero tutti intorno a lui e ad allontanarlo dalla Inenarrabile Bellezza; Ivan zarevic non lo sopportò: agitò una mano, e fu una via, agitò l'altra, e fu una piazza, tutto vuoto, atterrò tutti fino all'ultimo. L'Inenarrabile Bellezza lo prese per mano, lo portò nel suo terem, lo fece accomodare davanti a un tavolo di legno di quercia, con eleganti tovaglie, gli offrì da mangiare, da bere, lo ospitò, lo dichiarò suo fidanzato.

Dopo un poco essi si prepararono e si misero in cammino, per andare nel reame di Ivan zarevic. Cammina, cammina, si fermarono in un campo aperto per riposare. L'Inenarrabile Bellezza si coricò per dormire, e Ivan zarevic fa la guardia al suo sonno. Ed ecco che lei dormì a sazietà, si svegliò, e le dice Ivan zarevic: "Inenarrabile Bellezza, fa la guardia, mentre io dormo". "Dormirai a lungo?" "Nove giorni interi, senza voltarmi da un fianco all'altro. Fammi la guardia, e non svegliarmi: quando sarà il momento mi sveglierò da solo." "Un pò troppo lungo il tuo sonno, Ivan zarevic. Io mi annoierò." Noia o non noia, non c'è niente da fare! Ivan zarevic si coricò e dormì proprio nove giorni interi. Ma durante quel tempo arrivò Koscej l'Immortale e si portò via l'Inenarrabile Bellezza, se la portò nel suo reame.

Ivan zarevic si sveglia dal suo sonno, guarda, e l'Inenarrabile Bellezza non c'è più. Si mise a piangere, e s'incamminò, per una strada, per un cammino, chi sa. Cammina a lungo, cammina poco, fatto sta che arriva nel paese di Koscej l'Immortale, e chiede ospitalità a una vecchia. "Perché, Ivan zarevic, te ne vai così triste?" "E come non potrei, nonna? Avevo tutto, sono rimasto con nulla." "Brutto affare, il tuo. Koscej l'Immortale non ti risparmierà certo." "Desidero almeno rivedere la mia fidanzata!" "Beh, và a letto, dormi fino al mattino; domani Koscej va alla guerra." Si coricò Koscej, ma il sonno non gli entra nella testa. Il mattino Koscej esce dalla sua corte, e Ivan zarevic vi entra: davanti al portone, bussa. L'Inenarrabile Bellezza apre, lo guarda, e scoppia a piangere. Andarono in una stanza, si sedettero, e cominciarono a parlare. Ivan zarevic le consiglia: "Chiedi a Koscej l'Immortale dove si trova la sua morte". "Bene, glielo chiederò." Ivan aveva fatto appena in tempo a uscire dalla corte, che vi entrò Koscej: "Ah" dice, "sento odore di ossa russe; vuol dire che Ivan zarevic è stato da te". "Ma che cosa dici mai, Koscej Immortale! Dove potrei vedere Ivan? Le belve se lo saranno già divorato!" Si misero a cenare; dopo la cena, l'Inenarrabile Bellezza chiede: "Dimmi, Koscej Immortale, dove si trova la tua morte?". "Ma che t'importa, stupida donna? La mia morte è legata in una coroncina."

Il mattino successivo Koscej va alla guerra. Ivan zarevic andò dalla Inenarrabile Bellezza, prese quella coroncina, e la ricoprì tutta d'oro sfavillante. Ivan fece appena in tempo a uscire, che Koscej entra nella corte: "Ah" dice, "sento odore di ossa russe! Vuol dire che Koscej è stato qui!". "Ma che dici mai, Koscej Immortale. Tu stesso sei volato sulla Russia, e quindi hai assorbito lo spirito russo e quindi l'odore russo: l'odore russo viene da te. Come potrei io vedere Ivan zarevic? È rimasto nei boschi profondi, nei fanghi avvinghianti, le belve se lo sono mangiato!" Venne il tempo di cenare. L'Inenarrabile Bellezza sedette sulla seggiola, e lui lo mise sulla panca; egli guarda sotto la soglia, e scorge in terra la corona indorata. "Questo che cos'è?" "Ah, Koscej Immortale, tu stesso puoi vedere come ti rispetto; se tu mi sei caro, anche la tua morte mi è cara." "Stupida donna! Io ho scherzato! La mia morte si trova rinchiusa in quella palizzata di legno di quercia."

Il giorno dopo Koscej va alla guerra, e arriva Ivan zarevic, il quale ricopre d'oro tutta la palizzata. La sera torna a casa Koscej l'Immortale. "Ah" dice, "sento odore di ossa russe. Vuol dire che Ivan zarevic è stato da te." "Ma che dici mai, Koscej Immortale? Te l'ho già ripetuto: come potrei vedere Ivan zarevic? È rimasto nei boschi profondi, nei fanghi avvinghianti; ormai le fiere l'hanno divorato." Venne il tempo di cenare: l'Inenarrabile Bellezza si sedette sulla panca, e fece sedere sulla sedia Koscej. Koscej guardò dalla finestra e vide la palizzata tutta indorata, splende come il fuoco. "Che cos'è questo?" "Vedi tu stesso, Koscej Immortale, come ti rispetto. Come mi sei caro tu, così mi è cara la tua morte." Piacque a Koscej Immortale questo discorso ma dice alla Inenarrabile Bellezza: "Ho scherzato ancora! La mia morte si trova in un uovo, l'uovo si trova in un'anitra, e l'anitra sta su un ceppo che fluttua nel mare". Non appena Koscej l'Immortale fu andato alla guerra, l'Inenarrabile Bellezza fece cuocere per Ivan zarevic dei pasticcini, e gli disse come cercare la morte di Koscej.

Ivan zarevic andò per una strada, per un cammino, chi lo sa, arrivò al grande mare oceano, e non sa come proseguire. I pasticcini erano finiti, e non c'è niente da mangiare. A un tratto vola uno sparviero. Ivan zarevic prende la mira: "Su, sparviero! Io ti colpirò e ti mangerò crudo." "Non mangiarmi, Ivan zarevic! Quando sarà il momento ti sarò d'aiuto." Viene un orso. "Ah, Mia dalle goffe zampe, io ti ucciderò e ti mangerò crudo." "Non mangiarmi, Ivan zarevic! Quando sarà il momento ti sarò d'aiuto." Ivan guarda. sulla riva c'è un luccio che si dibatte: "Ah, luccio dentuto! Sei capitato a tiro. Ti mangerò crudo". "Non mangiarmi, Ivan zarevic! È meglio se mi butti in mare. Quando verrà il momento ti sarò d'aiuto." Lo zarevic sta lì e pensa: un tempo mi sarà d'aiuto, però io ho fame adesso! All'improvviso l'azzurro mare si gonfiò, si agitò, inondò la riva: Ivan zarevic corse in alto. Corre con tutte le sue forze, e l'acqua gli corre dietro, alle sue calcagna. Ivan arrivò al posto più elevato e salì su un albero. Dopo un pò l'acqua cominciò a diminuire; il mare si calmò, si acquietò, e sulla spiaggia si vide un grande ceppo. Accorse l'orso, prese il ceppo e lo sbatté a terra, e il ceppo si spaccò, ne uscì fuori un'anitra, che s'involò subito, e fu subito in alto. A un tratto, chissà da dove, apparve lo sparviero, prese l'anitra e in un momento la spaccò in due. Dall'anitra uscì un uovo, che andò a finire proprio in mare, qui il luccio lo afferrò, nuotò a riva e lo dette a Ivan zarevic.

Lo zarevic si mise nel petto l'uovo e andò da Koscej Immortale. Entra nel suo cortile, lo accoglie l'Inenarrabile Bellezza, che lo bacia sulle labbra, che cade tra le sue braccia. Koscej Immortale sta seduto alla finestra, e impreca: "Ah, Ivan zarevic! Vuoi portarmi via l'Inenarrabile Bellezza? E allora non resterai vivo". "Proprio tu l'hai rapita a me!" rispose Ivan zarevic, e tirò fuori l'uovo, e lo mostrò a Koscej: "E questo che cos'è?". A Koscej si oscurò la vista, subito divenne mite e sottomesso. Ivan zarevic si fece passare l'uovo da una mano all'altra: e Koscej Immortale veniva gettato da un angolo all'altro della stanza. Quando lo zarevic capì questo, si mise ancor più spesso a lanciarsi l'uovo da una mano all'altra, lancia, lancia, finché l'uovo si schiacciò, e Koscej cadde a terra e morì. Ivan zarevic attaccò i cavalli a una carrozza d'oro, prese interi sacchi d'argento e d'oro, e partì con la fidanzata per casa sua, dal batjuska.

Viaggiarono molto, viaggiarono poco, chi lo sa; egli arriva da quella vecchietta che aveva interrogato tutte le creature: pesci, uccelli, belve, vide il suo cavallo. "Grazie a Dio" disse "Voronko è vivo!" e ricompensò con oro la vecchia, perché aveva nutrito il cavallo, aveva passato i novanta, poteva anche non vivere ancora. Subito lo zarevic disse a un messaggero veloce di andare dal padre, e di portargli una lettera, dove era scritto: "Batjuska, accogli fra poco tuo figlio. Sto arrivando con l'Inenarrabile Bellezza". Il padre riceve la lettera e non ci crede: "Come può essere? Ivan zarevic quando partì aveva solo nove giorni!". Subito dopo il messaggero arrivò lo zarevic. Lo zar vide che il figlio aveva detto la verità, corse alla porta per accoglierlo. Ordinò ai tamburi di rullare, alla musica di suonare: "Batjuska! Dacci la benedizione per il nostro matrimonio". Gli zar non hanno certo bisogno di preparare birra o vino: di tutto ne hanno molto. In quello stesso giorno fu organizzata una bella festa, celebrate le nozze. Ivan zarevic e la Bellezza Inenarrabile si sposarono; in tutte le vie furono messe enormi bigonce piene di bevande diverse. e ciascuno poteva attingervi come desiderava la sua anima! C'ero anch'io, ho bevuto idromele e vino, però mi colava sui baffi e non entrava in bocca.

 
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Vassilissa la bella

Post n°532 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un mercante. In dodici anni di matrimonio aveva avuto solo una figlia, Vassilissa, che era bellissima. Sua moglie morì quando la piccola aveva otto anni. Sentendo la fine avvicinarsi, la madre chiamò a sé la bambina,

la madre morente

e da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassillissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato e le disse: “Ascolta le mie ultime parole, e ubbidisci alle mie ultime volontà. Prendi questa bambola, è il mio dono per te con la mia benedizione materna; conservala con cura, non mostrarla a nessuno, e nutrila quando ha fame. Se ti troverai in difficoltà, chiedile aiuto, essa ti dirà che cosa fare.” La donna strinse forte a sé la figlia e morì. La bambina e suo padre a lungo piansero e si disperarono. Il vedovo era un bell’uomo, che piaceva a molte donne, ma quando decise di risposarsi, egli si scelse in moglie una donna molto più giovane di lui, che era anch’essa vedova con due figlie della stessa età della sua bambina. La sua nuova moglie era una donna di classe, dai modi educati, insomma, appariva come un’ottima padrona di casa, eppure scelse la matrigna sbagliata per Vassilissa, poiché non era buona e affettuosa nei confronti della bambina. La matrigna e le sorellastre erano invidiose della bellezza di Vassilissa. La tormentavano di continuo impartendo ordini su ordini, e la caricavano di lavoro per farsi servire da lei tutto il tempo, e la mandavano anche a tagliare la legna, per far sì che il vento e il sole le rovinassero la pelle, e che il lavoro duro la facesse deperire. Ma Vassilissa sopportava tutto senza mai lagnarsi né commiserarsi, e diventava ogni giorno più bella, aveva sempre un aspetto più candido e grazioso, mentre la matrigna e le sue figlie, le quali non uscivano mai e non muovevano mai un dito, al contrario diventavano sempre più brutte e si logoravano sempre più dall’invidia. Esse non sapevano che Vassilissa aveva la bambolina che l’aiutava nelle incombenze, infatti, senza di essa la bambina non avrebbe mai potuto fare tutto da sola. La sera, quando tutti dormivano, la giovinetta si chiudeva nel suo angolino, a dar da mangiare alla fedele bambola e, infelice si sfogava con lei delle sue disgrazie: “Bambolina mia, mangia ed ascolta le mie pene! Triste è la casa di mio padre, la matrigna cattiva vuole la mia morte. Dimmi, cos’è che devo fare?” La bambola mangiò, poi consolò Vassilissa, la consigliò e al mattino faceva tutto il lavoro al suo posto. Vassilissa si riposò all’aria fresca, colse dei fiori, si occupò dell’orto, pulì e preparò le verdure e le mise sul fuoco che aveva acceso. La bambola le indicò inoltre una preziosa erba contro gli arrossamenti della pelle.

Vassilissa crebbe e divenne una donna in età da marito. Tutti i ragazzi domandavano la sua mano, e nessuno sembrava interessato invece alle sue sorellastre. Allora la matrigna si mise a maltrattare ancora di più la figliastra e rispondeva ai pretendenti: “Non farò mai sposare la mia figlia minore prima delle mie primogenite!” E quando i giovani uomini se andarono, ella picchiò la figliastra per vendicarsi.

Un giorno il mercante dovette partire per un lungo viaggio, e la matrigna se ne andò ad abitare in una casa ai margini della foresta in cui viveva Baba-Jaga, la vecchia strega. Questa non lasciava nessuno avvicinarsi alla sua casa e aveva fama di essere mangiatrice di uomini. Sperando prima o poi di sbarazzarsi di Vassilissa, la matrigna la mandava tutto il tempo nella foresta, in cerca di questo o quello, o a far legna, confidando che qualcosa di male potesse accaderle. Ma la ragazza tornava invece a casa ogni volta, grazie alla guida della bambola, che la teneva lontana dalla casa della strega. Venne l’autunno. Le ragazze trascorrevano le lunghe serate l’una lavorando al merletto, l’altra a fare la maglia, e Vassilissa a filare il lino. La matrigna dava loro dei compiti per la notte e poi se ne andava a letto, lasciando solo una candela accesa a loro che lavoravano. Poi una delle sue figlie spense la candela con una pinza come la madre le aveva ordinato. “Che disgrazia! Non abbiamo ancora finito il lavoro e non c’è più fuoco in casa e ora siamo al buio. Bisogna andare a chiederlo a Baba-Yaga! Chi ci va?” “Io no” disse quella che stava lavorando al merletto “per me non ce n’è bisogno, coi miei spilli ci vedo bene!” “Nemmeno io” disse l’altra “I miei aghi luccicano, quindi ci vedo bene lo stesso”. E tutte e due si rivolsero a Vassilissa: “Tu hai più bisogno di noi di luce, quindi tocca a te andare a cercare il fuoco da Baba-Yaga!” E così dicendo la spinsero via dalla stanza. Vassilissa corse nel suo angolino per dare da mangiare alla bambola, e le disse in lacrime: “Bambolina mia, mangia e ascolta la mia pena! Vogliono che vada da Baba-Yaga. Mi divorerà!” “Non piangere” le rispose la bambola. Prendimi con te e portami tranquillamente là dove devi andare. Mentre io sono con te non può succederti niente.” Vassilissa si mise in tasca la bambola e si rassegnò ad addentrarsi nella foresta oscura.

Nel bosco l'oscurità si faceva sempre più fitta, e i ramoscelli che le scricchiolavano sotto i piedi la riempivano di paura. Infilò la mano nella tasca del grembiule, dove nascondeva la bambola che la mamma le aveva dato, e subito si sentì meglio. E a ogni biforcazione Vassillissa infilava la mano nella tasca e consultava la bambola, e la bambola le indicava da che parte andare. Improvvisamente un uomo vestito di bianco su un cavallo bianco passò al galoppo, e il cielo si fece più chiaro. Poi proseguì il cammino e vide un altro cavaliere: questo era tutto rosso, vestito di rosso su un cavallo rosso. E allora si alzò il sole. Solo verso sera Vassilissa giunse alla capanna di Baba-Yaga. La casa era fatta di ossa, di teschi e di occhi, ed era sorretta da colonne fatte di gambe umane. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita di mani e piedi umani, e il chiavistello era un grugno di denti appuntiti. La povera ragazza tremò come una foglia vedendo tutto questo orrore, e in quel mentre giunse un terzo cavaliere tutto nero a bordo di un cavallo nero. A quel punto era notte, e gli occhi dei teschi si accesero, cosicché tutto intorno era luce come se fosse giorno. Vassilissa avrebbe voluto scappare e salvarsi, ma per la paura non riuscì a muovere un passo. Di colpo si fece buio pesto nella foresta, mentre le foglie degli alberi frusciavano in modo sinistro, la spaventosa strega apparse. Veramente orrenda, viaggiava su un mortaio che si spostava da solo.Guidava questo veicolo con un remo a forma di pestello, e intanto cancellava le tracce alle sue spalle con una scopa fatta con  capelli di persone morte da gran tempo. E il mortaio volava nel cielo con i capelli grassi di Baba-Yaga che svolazzavano dietro. Il lungo mento era ricurvo verso l'alto e il lungo naso verso il basso, così si incontravano al centro. Aveva una barbetta a punta tutta bianca e verruche sulla pelle. Le unghie nere erano spesse e ricurve e tanto lunghe che non poteva chiudere la mano a pugno. Gridò a Vassilissa: “Sento odor di carne umana. Chi c’è qui?!” Tutta tremante di paura, la povera ragazza ’avvicinò timidamente: “Sono io, signora nonna, sono venuta perché le mie sorellastre mi hanno mandata a cercare legna per riaccendere il fuoco” “Si, va bene, le conosco” rispose Baba-Yaga. Resterai qui per servirmi. Se farai un buon lavoro ti darò quel che cerchi, altrimenti ti mangerò!” “Servimi a tavola tutto quello che c’è nel forno, e sbrigati, perché ho fame!” Nel forno c'era cibo per dieci persone e  Baba-Yaga lo mangiò tutto, lasciando una piccola crosta e un cucchiaio di minestra per Vassilissa. "Lavami i vestiti, scopa il cortile e la casa,e separa il grano buono da quello cattivo e vedi che tutto sia in ordine. Se quando torno non avrai finito sarai tu il mio banchetto". E  Baba-Yaga volò via sul suo mortaio. E cadde di nuovo la notte. “Domani, dopo che sarò andata via, spazzerai per bene in casa, pulirai dappertutto, mi preparerai la cena e farai il bucato. Poi macinerai il frumento. E bada bene che tutto sia ben fatto, altrimenti ti mangerò!” Quindi andò a letto e russò fragorosamente. Vassilissa nutrì la bambola con i pochi resti della cena della strega e le disse piangendo: “Piccola bambola, mangia bene e ascolta le mie pene! Se non faccio tutti questi lavori, Baba-Yaga mi mangia!” “Non piangere, bambina,” le rispose la bambola. “Dormi tranquilla, che il mattino ha l’oro in bocca!” Vassilissa si alzò prima dell’alba, ma la strega se ne era già andata. Presto gli occhi dei teschi si spensero e venne il cavaliere bianco e si fece giorno, e poi arrivò anche il cavaliere rosso. Rimasta sola, fece il giro della casa, aspettando di trovare una mole di lavoro da fare e chiedendosi da dove avrebbe cominciato, quando vide che tutto era già stato messo a posto e tutto era fatto, mentre la bambola stava finendo di macinare gli ultimi chicchi di grano. Allora Vassilissa la baciò e: “Come posso ringraziarti, mia adorata bambola! Tu mi hai salvato la vita!” La bambola si arrampicò sulla tasca e disse: «Tu devi solo preparare il pranzo, poi potrai riposarti.” La sera la tavola era pronta, presto il cavaliere nero venne e fu notte. Gli occhi dei teschi si erano nuovamente illuminati, le foglie sibilavano sinistramente, ed ecco che Baba-Yaga tornò. Vassilissa le corse incontro. La strega le domandò se aveva fatto tutto. “Vedi tu stessa, signora” rispose la giovane. La strega ispezionò la casa, guardò dappertutto e non trovò niente da ridire, e grugnì: “Va bene, può andare..” Chiamò poi i suoi fedeli servitori perché macinassero il frumento, e tre paia di mani comparvero a mezz'aria e cominciarono a raschiare e a pestare il frumento. La pula volava per la casa come una neve dorata. Quando fu tutto finito Baba-Yaga si sedette a mangiare. Mangiò per ore e ordinò a Vassillissa di pulire di nuovo tutta la casa, di scopare il cortile e lavarle i vestiti. “Domani, oltre a quello che hai fatto oggi, dovrai setacciare, in quel mucchio di sporcizia, molti semi di papavero. Voglio una pila di semi di papavero e una pila di sporcizia, ben separati, altrimenti ti mangio!". Si mise a letto e russò subito. Vassilissa mise da mangiare alla bambola e questa le disse come la sera prima: “Vai pure a dormire tranquilla, tutto sarà fatto per quando tornerà domani sera, Vassilissa cara. Abbi fede, che il mattino ha l’oro in bocca!”

L’indomani, la strega partì, e Vassilissa e la bambola si diedero da fare in casa. Al suo ritorno, la strega esaminò il lavoro, guardando minuziosamente in tutti gli angoli della casa, e non trovò niente da dire, e chiamò i fedeli servitori come la sera prima affinché spremessero per bene i semi di papavero, e tre paia di braccia apparvero per obbedire alla strega. Quindi si mise a tavola, Vassilissa la servì in silenzio e la strega borbottò: “Perché te ne stai senza proferir parola, tutta muta?” “E’ che non oso, signora! Ma se me lo permetti, vorrei domandarti una cosa.” “Domanda pure, ma ricordati che troppo saprai, presto invecchierai.” Vassillissa chiese dell'uomo bianco sul cavallo bianco. “Quello è il mio giorno” rispose la strega. “E quell’altro tutto vestito di rosso, chi è?” “Quello è il mio sole ardente” rispose ancora. “E poi ho visto anche un cavaliere nero” aggiunse Vassilissa. “Quello è la mia notte fonda” rispose Baba-Yaga “Sono tutti e tre miei servitori fedeli!” Vassilissa pensò ora agli altri tre, e tacque. Baba-Yaga disse: “Bhè? Non mi fai più domande?” “No nonna. Come tu stessa hai detto, troppo saprai, presto invecchierai. Ora io so abbastanza” “E brava” disse approvando la strega “hai voluto sapere di ciò che hai visto fuori, non su quel che succede dentro. Io sono abituata a lavarmi i panni in casa, quindi quelli che sono troppo curiosi io me li mangio! E adesso è il mio turno di farti una domanda: come fai a fare tutti i lavori che ti assegno?” “Con la benedizione della mia mamma che mi viene sempre in aiuto, signora.” “Ah, è così, allora? Ebbene, ragazza benedetta, vattene, vattene subito di qui! Non ne voglio, di benedetti, in casa mia!” E Baba-Yaga cacciò via Vassilissa, ma prima di chiudere la porta prese un teschio con gli occhi ardenti, e li mise su un bastone che le mise in mano a Vassilissa. “Ecco il fuoco per le figlie della tua matrigna, prendilo!Dopo tutto, è per questo motivo che ti hanno mandata qui.”

Vassilissa se andò correndo nella foresta. Gli occhi del cranio le rischiaravano il cammino e si spensero solo all’alba. Camminò tutta la giornata, e verso sera, come giunse a casa, si disse: “Forse dopo tutto questo tempo si saranno procurate sicuramente altro modo di accendere il fuoco..” e pensò di gettare via il teschio, ma una voce le disse: “Non buttarmi via, portami dalla tua matrigna!” Vassilissa obbedì. Quando arrivò, si sorprese non poco di trovare la casa al buio, e più ancora il suo sbigottimento crebbe nel vedere la matrigna e le sorellastre accoglierla a braccia aperte. Da quando era andata nella foresta, le dissero, non avevano più avuto modo di accendere il fuoco. “Forse il tuo durerà di più” disse la matrigna. Vassilissa portò dentro il cranio, e gli occhi ardenti si fissarono sulla matrigna e sulle sue figlie, seguendole dappertutto. Invano esse tentarono di fuggire o di nascondersi, gli occhi le perseguitarono ovunque e prima dell’alba di loro rimasero solo le ceneri. Solo a Vassilissa non avevano fatto alcun male. Al mattino Vassilissa sotterrò il cranio, sbarrò la porta e se ne andò in città, dove una vecchia signora l’ospitò nell’attesa che ritornasse il padre.

Un giorno, Vassilissa domandò all’anziana signora: “Mi annoio a non far niente tutto il giorno, signora nonna! Se mi comprate del lino, io lo filo tutto!” La vecchia le portò il lino e la ragazza si mise al lavoro, e il filo scorreva veloce tra le sue dita. Finito che ebbe di filarlo, volle mettersi a tesserlo, ma c’era ancora la sua bambola che l’aiutava e le creò un bel lavoro. Vassilissa si rimise all’opera e alla fine dell’inverno la tela era tessuta, così graziosa e sottile che avrebbe potuto farla passare per la cruna di un ago! A primavera fece sbiancare la tela, e Vassilissa disse alla vecchia signora: “Và al mercato, nonna, vendi questa tela e tieniti i soldi che ne ricaverai.” Ma la vecchia esclamò: “Ma tu scherzi, mia cara! Un tessuto di tale pregio, merita di essere portato allo Zar.” Ella si piazzò davanti al palazzo, e cominciò a passeggiare davanti alle finestre. Lo Zar la notò e la chiamò: “Che fai lì, buona signora? Che cosa vuoi?” “Ti porto una merce rara, come Vostra Maestà può vedere.” Lo Zar fece entrare la vecchia e si meravigliò della tela: “Quanto chiedi per questo tessuto, buona signora?” “Una così preziosa stola non ha prezzo! Nessuno ha abbastanza denaro per comprarla, e solo lo Zar può averla. Te la regalo!” Lo Zar ringraziò la vecchia che se ne andò carica di doni. Lo Zar donò la stola ai suoi sarti, affinché ne facessero delle camicie. Essi fecero i modelli, ma riguardo al cucito, non ci fu nulla da fare! Nessun sarto osò toccare una tela di tal pregio. Lo Zar, impaziente, andò a cercare la vecchia e le disse: “Poiché tu hai tessuto la tela, tu sarai in grado di cucirmi le camicie!” “Questa tela non è frutto delle mie mani, la mia figliola adottiva l’ha filata e tessuta.” “Sta bene, sarà lei a cucire le mie camicie!”

Quando la vecchia raccontò la faccenda, Vassilissa sorrise: “Lo sapevo che non poteva passare per lavoro fatto dalle mie mani!” e si mise a cucire. La dozzina di camicie fu pronta in un battibaleno. La vecchia le portò allo Zar, e Vassilissa  ebbe un idea: si lavò, si pettinò, si vestì elegantemente e si piazzò davanti alla finestra. Poco dopo vide arrivare un messo dello Zar che disse alla vecchia: “Dov’è quest’abile tessitrice? Sua Maestà lo Zar vuole ricompensarla di persona!” Vassilissa si recò al palazzo e quando entrò lo Zar vedendola se ne innamorò a prima vista: “Non ti lascerò più partire mia dolce creatura! Diventa mia moglie!” Lo Zar prese per mano Vassilissa la bella, la fece sedere al suo fianco e celebrarono subito le nozze. Ben presto il padre di Vassilissa tornò dal suo viaggio e fu molto felice della fortuna capitata a sua figlia ed andò a vivere con lei assieme alla vecchia signora. E per tutta la vita Vassilissa portò con se, nella sua tasca, la sua fedele bambola.

Vassilissa e la Baba Yaga

 

 
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Serpentina

Post n°531 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

'era una volta un Re e una Regina. La Regina era incinta. Un giorno passò una di quelle zingare che van dicendo la buona ventura, e il Re la fece chiamare: "Che partorirà la Regina?" "Maestà, un serpente." Quelli trasecolarono. E che dovevano farne? Ammazzarlo appena nato? Allevarlo? Dovevano allevarlo. La povera Regina dette in un pianto dirotto: "Chi avrebbe allattato una bestia così schifosa? Lei sarebbe morta dal terrore! E poi, se le mordeva il seno? "Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d'oro." Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena nato, sguizzò di mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare. Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un dente soltanto, un dente d'oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse, fece dire che la Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina.

Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente d'oro straluccicava. Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare: "Dimmi la ventura di Serpentina." "Buona o cattiva, Maestà?" La zingara prese in mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla attentamente. Scrollava la testa. "Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa?" "Maestà, veggo guai!" "E non c'è rimedio?" "Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba." "O dove trovare questa Fata gobba?" "Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto, badiamo! Senza voltarvi indietro. All'ottavo giorno vi troverete avanti a una grotta: la Fata gobba abita lì." "Va bene," disse il Re "partirò domani." Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza strada: "Maestà! Maestà!" Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto. Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana: "Ahi! M'ammazzano! Ahi!" Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l'anima!... E stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione, e tirò diritto. Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo. "Bada! Bada!" Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto. Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare: "Fata gobba! Fata gobba!" "Gobbo sarai te!" rispose una voce. E il povero Re, sentitosi un po' di peso sulle spalle, si tastò. Gli era proprio spuntata la gobba. "Ed ora che fare? Come tornare indietro con quella mostruosità?" Risolse di tornar di notte, perché nessuno lo vedesse. La Regina, accortasi di quel gonfiore sulle spalle, gli domandò: "Maestà, che portate addosso?" "Porto la mia disgrazia!" E raccontò com'era andata. La Regina risolse di tentar lei: Fra loro donne si sarebbero intese meglio. Fece le sue provviste di pane e vino per otto giorni, e partì. A metà strada: "Maestà! Maestà!" Lei, sbadatamente, si volta, e si trova tornata al punto d'onde era partita. "Pazienza! Ricomincerò." La seconda volta, più in là di mezza strada, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo: "Bada! Bada!" Presa dallo spavento, si volta, e si trova di nuovo al punto d'onde era partita. Allora, da scaltra, disse al Re: "Maestà, turatemi le orecchie col cotone e versatevi su della cera. Così non sentirò nulla, e potrò arrivare dalla Fata gobba: altrimenti non ci sarà verso." Il Re le turò le orecchie a quel modo, e lei partì. Giunta davanti la grotta, si sturò le orecchie, e picchiò. Picchia, ripicchia, non rispondeva nessuno. Lei non voleva chiamare, e dava all'uscio col bastone, a due mani. "Chi è?" urlò finalmente una voce "Chi cercate?" "Son io: cerco la Fata."
"Quale Fata? Delle Fate ce n'è tante!" "La Fata gobba." Le scappò di bocca. "Gobba sarai tu!" La Regina si tastò subito le spalle. Le era proprio spuntata la gobba. Tornò di notte, per non esser veduta; e il Re, prima di ogni cosa, le guardò dietro. "Maestà, che portate addosso?" "Porto la mia disgrazia!" E raccontò com'era andata. "E tutto questo per Serpentina! Schiacciamogli la testa! La mala fortuna ci vien per lei." Il Re non sapea risolversi: "Non era sangue loro?" "Farò di mio capo" disse fra sé la Regina. E, di nascosto al Re, chiamò una guardia di palazzo: "Prendi questa cassettina e vattene in un bosco. Quando sarai lì, farai una catasta di legna, ve la metterai su e darai fuoco. Finché non sia consumata, non dovrai tornare indietro." "Maestà, sarà fatto." Intanto il Re ordinava gli si chiamasse la zingara: "Dimmi la ventura di Serpentina." "Buona o cattiva, Maestà?" "Buona o cattiva." "Maestà, Serpentina corre pericolo di morte: E se muore Serpentina, Tutto il regno va in rovina." "Che pericolo può correre nelle stanze reali?" "Maestà, non è più lì." Quando il Re apprese quello che sua moglie avea fatto, cominciò a strapparsi i capelli: La loro rovina era compiuta. "Ah! Povera Serpentina, dove tu sei?" E una voce lontana, lontana: "Maestà, sono nel bosco." "E che tu fai?" "Sento strani rumori." Il Re ordinò: "Mi si selli il miglior cavallo della mia scuderia!" Montò a cavallo e via, come un fulmine, per la strada del bosco. Di tanto in tanto si fermava: "Serpentina, dove tu sei?" "Maestà, in mezzo al bosco." Ora la voce era più vicina. "E che tu fai?" "Maestà, ho troppo caldo." Il Re conficcava gli sproni nei fianchi del cavallo: avrebbe voluto che volasse. Ma quando fu in mezzo al bosco, vide una gran fiamma: "Serpentina, dove tu sei?" "Maestà, in mezzo al bosco." La voce era vicinissima. "E che tu fai?" "Pelle nuova, Maestà!" Il Re corse alla catasta in fiamme, e senza curar di scottarsi, tirò la cassettina fuori della brace. L'aperse in fretta e furia, e vide scappar fuori una ragazza di belle forme; se non che avea la pelle tutta squamosa, come quella d'un serpente. "Troppa fretta, Maestà! Ora non potrò più maritarmi! Serpentina non avea avuto il tempo di far pelle nuova. E dava in un dirotto pianto; era inconsolabile: "Lasciatemi qui sola. Anderò dalla Fata gobba." Non potendola persuadere altrimenti, il Re l'abbandonò in mezzo al bosco e tornò al palazzo reale. Ma Serpentina, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscita. Vide uno scarafaggio: "Scarafaggio, bel scarafaggio! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo." "Non la conosco." E tirò via. Più in là, vide un topolino: "Topolino, bel topolino! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo." "Non la conosco." E tirò via. Più in là ancora, vide un usignuolo in cima a un albero: "Usignuolo, bell'usignuolo! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo." "Mi dispiace, ma non posso. Aspetto la bella dal dente d'oro che deve passare di qui." "Usignuolo, bell'usignuolo! Sono io la bella dal dente d'oro." E mostrò il dente. "O Reginotta mia! Son tant'anni che t'aspetto." L'usignuolo divenne, tutt'a un tratto, il più bel giovane che si fosse mai visto, la prese per mano e la condusse fuor del bosco. Giunti davanti alla grotta, il bel giovane picchiò. "Chi siete?" "Son io e Serpentina." "Chi volete?" "La Fata regina." La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma bisognava dirle Fata regina; se no, se l'avea a male. "Ben venuta, figliuola mia! T'aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio d'un regnante. Una Maga gli aveva fatto l'incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal dente d'oro. Ora dovrete sposarvi."

La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba cominciò a strusciarla da capo a piedi, e in poco d'ora la mondò, in guisa che non pareva più lei. Era così bella, che abbagliava. La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie: "Se vien lei, partirò io! È la nostra cattiva sorte!" Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti.

E noi citrulli ci nettiamo i denti.

 
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Un matrimonio ideale (Pirandello)

Post n°530 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Prima che andasse in Romania, non so per quale impresa, Poldo Carega, ingegnere appaltatore, o – come si qualificava nei biglietti da visita – «intraprenditore di lavori pubblici», ponendosi le due manacce pelose sul petto erculeo soleva dire:

– Io sono il Continente!

E, passando le braccia al collo della moglie e della figliuola:

– E queste le mie isole!

Perché la moglie era nata in Sicilia, e la figliuola in Sardegna.
Non s’aspettava, ritornando in Italia dopo circa quattro anni, di ritrovare una delle due isole, la Sardegna (cioè la figliuola Margherita) divenuta... che Russia e Russia, cari miei! diciamo l’Europa; ma è poco! diciamo addirittura il mappamondo.
Povero Poldo Carega, gli parve un tradimento! Restò dapprima sbalordito, a mirarla da sotto in su:

– Oh Dio, Margherita, e che hai fatto?

Poi si voltò contro la moglie, come se per colpa di lei la figliuola fosse tanto cresciuta; e diede in tali escandescenze, che parve volesse impazzire.
La moglie, afflittissima, gemeva:

– Ma se te l’ho scritto e riscritto, Poldo mio, tante volte! Quasi in ogni lettera te l’ho scritto!

Glielo aveva scritto e riscritto, difatti, sì; ma come avrebbe potuto Poldo Carega creder tanto? Da lontano, quella crescenza prodigiosa della figliuola gli era sembrata una delle solite esagerazioni della moglie.

– Esagerazioni, eh già! Perché io, per te, sono stata sempre esagerata!

Era una spina, questa, per la signora Rossana: il concetto, cioè, che tutti, non il marito soltanto, s’erano formato di lei, ch’ella fosse esagerata.
Questo concetto dipendeva, a suo credere, dalla disgrazia comune a tutta la famiglia, la soverchia altezza.
Della sua, la signora Rossana aveva un dispetto acerbo e smanioso, perché le impediva di essere, come avrebbe voluto e come dentro di sé si sentiva, una gattina sentimentale. Così lunga, gracile e languida, soffriva, soffriva tanto; ma nessuno voleva credere ai suoi languori, alle sue sofferenze; e tutti, sorridendo, le rispondevano:

– Via via, signora Rossana, esagerazioni!

– Ebbene, eccotela qua; guardala, ora, la mia esagerazione!

E la signora Rossana, indignata, indicava al marito la figliuola, ch’era un’esagerazione per davvero.
Margherita intanto piangeva, guardando il padre, il quale le si era fatto accosto, anzi sotto, per mirare di quanto ella lo avesse superato.
Per lo meno, d’un palmo e mezzo. Ma pareva del doppio. Perché non era soltanto l’altezza; o piuttosto, l’altezza per se stessa forse non avrebbe tanto avventato, se non l’avesse resa spettacolosa la corpulenza immane, il volume delle guance e dei due menti e del seno e dei fianchi poderosi.
Nell’esuberanza soffocante di tanta carne si aprivano però, come smarriti, due occhi limpidi e chiari, da bambina, che facevano pena a un tempo e paura. Quella pena stessa, quella stessa paura, che forse doveva provare l’anima di lei per il proprio corpo così enormemente cresciuto. A mano a mano che questo era cresciuto fino ad assumere quelle proporzioni mostruose, l’anima atterrita si doveva certo esser fatta dentro di lei piccina piccina, con certe voglie timide e angosciose di toccare le piccole cose gentili e delicate, ma pur non osando toccarle per non vederle quasi sparire al contatto delle schiaccianti mani.
Mangiava come un uccellino; si poteva dire che quasi non mangiava più. Ma non giovava a nulla! Da più di due anni non usciva di casa, perché tutti per via si voltavano e si fermavano stupiti a mirarla. In casa, stava quanto più poteva seduta, per non dare a se stessa spettacolo della sua grandezza, vedendo piccoli e bassi tutti gli oggetti delle stanze. Naturalmente, questa mancanza di moto le aveva appesantito sempre più la grassezza; ma ormai ella s’era rassegnata alla sua disgrazia; non voleva più darsi pensiero di nulla; certi giorni nemmeno si pettinava, e rimaneva sdrajata, inerte, a leggere o a guardarsi le unghie. Così...
Poldo Carega, giovialone, urlone, tutto fuoco prima della partenza per la Romania, diventò, subito dopo il ritorno, un funerale. Andai a trovarlo, pochi giorni dopo, per parlargli d’affari; non volle neanche darmi ascolto.

– Che vuoi che m’importi più ormai degli affari! – esclamò, scrollandosi tutto. – Non m’importa più di niente, caro mio!

Aveva lavorato con accanimento tanti e tanti anni per quell’unica figliuola, per l’avvenire di lei; e d’anno in anno il suo amore paterno era cresciuto. Ma ecco che la figliuola, come per una tacita scommessa, approfittando della lunga assenza di lui, d’intesa con la madre (nessuno poteva levare dal capo a Poldo Carega che la moglie non c’entrasse per qualche cosa):

– Ah, – dice, – cresce il tuo amore per me d’anno in anno? Aspetta, che ti faccio vedere come cresco anch’io in pochi anni! Diventerò così grande, che il tuo amore non potrà più abbracciarmi.

E, difatti, gli erano cascate le braccia, nel rivederla, povero Poldo Carega! Ma non solo le braccia; l’anima e il fiato gli erano cascati, e tutti i sogni che aveva fatti per lei, tutte le speranze!
Dico la verità, non ebbi il coraggio di confortarlo. Sapevo che egli, quattr’anni addietro, prima di partire per la Romania, non avrebbe veduto male al suo ritorno, cioè quando la figliuola sarebbe stata in età, un matrimonio di lei con me. Me ne andai ranco ranco, con la coda tra le gambe, appena questo ricordo mi sorse; e, come fui ben lontano, presi a riflettere amaramente:

«È proprio una sciagura senza rimedio, povero Carega! Egli lo capirà: un uomo della mia statura, e anche un po’ più alto di me, non va a sposare certamente quella colonna, quell’obelisco! Siamo giusti: a parer piccoli, quando non si è, si ribella l’amor proprio mascolino. Dei bassi non ne parliamo. Degli altissimi come lei, già a trovarne uno: si contano su le dita, ma anche a trovarne uno, si sa che gli uomini altissimi hanno un debole per le donne piccoline. Superbi della loro statura, guardano con dispetto, anzi quasi con rancore, quei pochi che possono rivaleggiare con essi, e scoprono subito in loro certi difetti che essi, è ovvio dirlo, non hanno: le gambe troppo lunghe, la testa troppo piccola, ecc. ecc. Insomma, non soffrono rivali; vogliono esser soli. Figuriamoci se sposerebbero una donna della loro statura. E poi, perché? per parere scappati da un baraccone da fiera?»

Queste riflessioni, come le feci io allora, da un pezzo senza dubbio aveva dovuto farle anche lei, la povera Margherita, per trarne la conseguenza che, nelle supreme regioni a cui per sua disgrazia era ascesa, non avrebbe trovato mai un marito. Un pioppo, sì, un acero, un cerro. Ma ogni giovanotto, guardandola, le avrebbe detto:

– Cala prima, bella mia, cala! cala!

E come poteva calare, povera Margherita?
Non passarono neanche tre mesi dal suo ritorno a Cesena, che Poldo Carega, non reggendogli l’animo di rimanere nella città dove la sua sciagura s’era compiuta così a tradimento, se ne partì con tutta la famiglia, fosco come un temporale; e per più di dieci anni non si ebbero più notizie di lui.
Finalmente, un bel giorno, giunse a mio padre una lettera da un paesello su la costa meridionale della Sicilia, di fronte all’Africa, dove Poldo Carega s’era recato per la costruzione del porto. Voleva che mio padre gli mandasse laggiù uno dei figliuoli per ajutarlo nell’impresa.
Andai io, per curiosità di rivedere dopo tanto tempo Margherita.
M’aspettavo di ritrovarla cupa, gelida, nelle sue superne alture, funebre e ravvolta di nebbie perpetue, poiché già doveva aver presso a trenta anni – e dunque ormai zitellona.

«Figuriamoci, a dir poco, come la Jungfrau», pensavo, durante il viaggio.

Ma che! Allegrona la ritrovai, e quasi non sapevo credere ai miei occhi, allegrona, come non l’avevo mai veduta! Più grassa di prima, e allegrona! Non tardai però a scoprire la ragione di tanta allegria.
Come ingegnere governativo, addetto alla sorveglianza dei lavori del porto, c’era laggiù un certo omino alto poco più d’un metro, calvo, miope, panciutello, ma pieno d’ingegno e di spirito, che rideva lui per primo della sua piccolezza, come Margherita, adesso, della sua altezza: l’ingegnere Cosimo Todi. E quest’ingegnere Cosimo Todi veniva quasi ogni sera con altri amici a cenare su la terrazza a mare di Poldo Carega.
Serate africane! Il mare, quand’era scirocco, veniva a frangersi impetuoso sotto quella terrazza bianca, che pareva allora, con le sue tende svolazzanti, una tolda di nave. S’intravedevano i fanali del vecchio molo, la lanterna verde del faro: i lumi tra l’alberatura dei bastimenti ormeggiati, e dalla spiaggia esalava quel tanfo denso, caldo, acre di sale e di muffa, delle alghe morte, appacciamate, misto all’odor della pece e del catrame.
E si chiacchierava, ridendo e bevendo, fino a tardi, su quella terrazza bianca, che dava la sera un delizioso compenso della soffocante calura della giornata. Più di tutti Margherita e l’ingegner Cosimo Todi ridevano, capite? della loro disgrazia, ch’era opposta e comune.
L’ingegner Todi non aveva potuto trovar moglie per la stessa ragione per cui Margherita non aveva potuto trovar marito.
Veramente lui, l’ingegner Todi, non l’aveva mai cercata, una moglie, sicurissimo che non una ma cento ne avrebbe trovate subito, che se lo sarebbero preso per la lucrosa professione. Ma grazie tante! E poi?

No no: ingegno, garbo, giovialità (doti tutte, che non aveva nessunissima difficoltà a riconoscersi) non sarebbero bastate (come tante gentili amiche gli volevano far credere) a compensare quei tre palmi di statura che gli mancavano.
No no: quelle doti in lui potevano aver pregio solo perché egli guadagnava da quaranta a cinquanta mila lire l’anno. E senza dubbio, se si fosse lasciato prendere all’amo, tre mesi dopo, si sarebbe sentito dire dalla moglie che l’ingegno, Dio mio, doveva servirgli per comprendere ch’ella, con un marito come lui, non poteva fare a meno d’un amante, e fingere di non accorgersene, e seguitare ad amarla nonostante il tradimento o i tradimenti. E il garbo e la giovialità, servirgli per aprire la porta e accogliere graziosamente il signore o i signori che gli facevano l’onore di venire a corteggiare la sua signora.
Queste cose diceva e rappresentava con molta comicità di frasi e di gesti l’ingegner Cosimo Todi, facendo ridere tutti e più di tutti Margherita Carega, che si buttava indietro per far liberamente sobbalzare alle risate l’enorme seno e il ventre.
Finché una di quelle sere il Todi, per il piacere di vederla ridere così burlescamente non uscì a dire che la moglie ideale per lui sarebbe stata lei, Margherita Carega.

– Lei! lei, sì! Proprio lei!

Per miracolo la tavola si tenne su le quattro zampe. La vidi sussultare come per un terremoto, e cader bicchieri e bottiglie.

– Seriamente, seriamente... – badava a ripetere il Todi coi braccini levati in atto di parare, tra il fragore della risata interminabile. – Vi dico seriamente! Riflettete bene, signori miei. Sarebbe il matrimonio ideale! Una vendetta meravigliosa contro la natura sarebbe! sì! sì! contro la natura che ha fatto lei tanto grande, e me così piccolo! Pensate un po’, pensate un po’: senza far ridere o sbalordire, né io potrei sposare una nana, né lei un gigante! Ma noi due sì; noi due possiamo sposarci benissimo! E saremmo una coppia, se ci ponete mente, perfetta, di perfetta equiparazione; perché lei ha d’avanzo quel tanto che manca a me; e ci compenseremmo a vicenda!

Non ne potevamo più: avevamo tutti le lacrime agli occhi e ci dolevano i fianchi.

– Ma avrebbe lei questo coraggio? – gridò il Todi, balzando sulla seggiola e appuntando in atto di sfida l’indice contro Margherita.

Questa allora sorse in piedi, col faccione congestionato dalle risa. Vi assicuro che era di tutta la testa più alta di lui pur così montato sulla seggiola.

– Io, il coraggio? – gli disse. – Ma dovrebbe averlo lei, scusi, il coraggio di sposar me!

Applaudimmo tutti, a lungo, strepitosamente, a questa bella risposta.

– Io ce l’ho! – gridò allora il Todi. – Non ce l’avrà lei! Scommettiamo?

– Accetti, accetti la scommessa, signorina Margherita! – le gridammo tutti, incitando. – Lo pigli in parola!

– Ebbene, sì, accetto! – rispose lei. – Vediamo un po’ chi se ne pente!

– Io? Ah, io no, di certo! – esclamò il Todi; e, saltando dalla seggiola, seriissimamente, si fece innanzi a Poldo Carega, s’inchinò e gli disse:

– Ho l’onore, ingegner Carega, di chiederle la mano della signorina Margherita, sua figlia.

Quel che successe, rinunzio a descriverlo. Parevamo tutti impazziti. Era una burla? Era sul serio? Chi sa! Si faceva per burla, come se fosse una cosa seria. Si ordinò lo Champagne: l’ingegner Todi fu portato in trionfo a sedere accanto alla gigantesca sposina, e i brindisi alle faustissime nozze non finirono più.
Così, proposto dapprima per burla, si concluse sul serio quel matrimonio ideale d’un nano con una gigantessa.
Il coraggio l’una e l’altro non dovevano averlo tanto per sé, cioè per tollerar lei un marito come lui e lui una moglie come lei, quanto per gli altri, voglio dire per resistere alle beffe della gente, che domani li avrebbe visti insieme marito e moglie. Ma l’ingegner Todi e Margherita Carega ebbero tanto spirito da tener fronte a queste beffe e da goderci per giunta, come se veramente fosse un matrimonio per chiasso, di carnevale.
Vi assicuro però che tutto il paese – naturalmente – da principio ruppe in un’omerica risata, ma poi vide bene e sto per dire che stimò anch’esso ragionevolissima la loro unione, la quale stabiliva tra i due spropositi della natura una specie di equilibrio e come un’equa, per quanto comica, riparazione.
Sei mesi dopo, il matrimonio fu celebrato. Quell’omino coraggioso, già abbastanza maturo e pur così panciutello com’era, si fece alpinista, voglio dire fece sua, davanti agli uomini e a Dio, quella montagna e... – voi ridete? Ma sappiate, cari miei, che Margherita Todi–Carega ha adesso due figliuoli, nati a un parto... Parturiunt montes... – Due topi, – voi credete?
Che topi! A dodici anni, sono già alti quanto la mamma. Ed è raggiante Margherita Todi–Carega: trionfa tra quei due piccoli colossi degni di lei; mentre lui, invece, l’omettino ormai vecchierello – che volete? – soffre, sì, ma non per causa di lei, badiamo! Lei lo ama, lo stima, gli è grata e lo cura, ha proprio tutti i riguardi per lui. Soffre, il povero ingegner Todi, perché naturalmente, con gli anni, gli cominciano a seccare e a pesare un po’ troppo le beffe della gente; teme che lo facciano scapitare di fronte ai figliuoli, da cui vuol essere rispettato, come un padre sul serio.
I figliuoli lo rispettano; ma via, se vogliamo dire, non è neanche bella la loro condizione con un padre così minuscolo che par fatto e messo su quasi per ischerzo.
Questa afflizione c’è, innegabilmente. Perché la vita non sa esser tutta e sempre una farsa. Un marito e una moglie possono far ridere finché vogliono; ma la paternità non può non essere una cosa seria.

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Una peste in gonnella

Post n°529 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Chi parla di sesso debole e gentil sesso non conosce la secondogenita del becchino Geremia e della bella Fidalma.Che l'Ermione sia femmina è fuori discussione,ma che sia debole e gentile proprio non direi. E certo concorderete con me quando avrete letto questa mia cronaca
LUNEDI'- La Giuditta da mesi viene tormentata da un compagno di scuola,tal Mardocheo Puzzettoni,nipote di Odoacre.
L'Ermione ha deciso di risolvere la questione una volta per tutte.armatasi di cesoie,si è arrampicata sul fico di fronte a casa Puzzettoni e quando Mardocheo,tornando da scuola,ci è passato sotto,gli è saltata addosso,rapandolo a zero e riducendogli i vestiti a brandelli.
I genitori sono stati colti da malore.
MARTEDI'- L'Ermione ha fregato lo scooter al postino e si è fatta un giro ina autostrada (contromano,sennò che gusto c'è?)
Non vidico la multa che devono pagare Geremia e la Fidalma.
MERCOLEDI'- In occasione della gita scolastica al parco di Cavriglia,l'Ermione ha pensato bene di regolare i conti con quella antipatica della sua maestra,Pasqualina Sconocchia.La poveretta è stata inseguita da tre lama inferociti.
GIOVEDI'- L'Ermione ha spennato tutti i tacchini del nonno:voleva farsi un copricapo di penne e giocare agli indiani-
VENERDI'- Leopoldo Pollacchioni è in classe con l'Ermione e lei lo detesta.
Oggi ha preso un secchio,ci ha versato mastice,detersivo per lavatrici e cera per pavimenti,poi lo ha versato in testa al malcapitato,facendolo diventare un ammasso maleodorante e appiccicaticcio.
Per disincollarlo dalla sedia ci sono voluti i pompieri.
SABATO- Ermione ha nascosto nel confessionale di ireneo una trappola per topi.
Il pretone si è seduto ed ha cacciato un urlo che ha provocato una crepa nel duomo di Prato
DOMENICA- Igenitori hanno spedito la peste presso una zia monaca di clausura nell'isola di Ventotene.
Sono passate due settimane.
Mardocheo si è barricato nella cuccia del cane e non esce più.
La Sconocchia e i lama sono introvabili.
I tacchini sono in stato catatonico.
Leopoldo puzza in modo abominevole e se tocca qualcosa gli resta appiccicata addosso.
Ireneo ha scomunicato l'Ermione e sta revisionando il kalashinikov.
La diabolica Ermione tace,almeno per ora.
Sarà un bene o un male?

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La luce di Dio (Rumi)

Post n°528 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Hanno detto: "Da ogni parte c'è la luce di Dio".
Ma gridano gli uomini tutti: "Dov'è quella luce?"
L'ignaro guarda a ogni parte, a destra, a sinistra;ma dice una Voce:
Guarda soltanto, senza destra e sinistra!".

 
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Libri dimenticati:Il Re Buono

Post n°527 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Ottima biografia di Umberto I,sia uomo che re,da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°526 pubblicato il 26 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Dove non ce n'è non ci se ne mette (Mia nonna)

 
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