Messaggi del 30/08/2011

La figlia del giardiniere

Post n°574 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un giardiniere che aveva una figlia cèca e un po' storpia fin dalla nascita. La mamma era morta dandola alla luce, e il povero vedovo aveva dovuto mettersi in casa una vecchia donna, perché badasse alla disgraziata. La balia l'aveva tenuta con sé fino ai dieci anni. Poi, una mattina, gliel'aveva riportata. "Perché?" domandò il padre. "Perché non la posso soffrire più. Da due mesi in qua, non fa altro che cantare certe nenie così lamentose, da far venire la malinconia perfino al sassi. Il vicinato brontolava: «Malannaggio la cèchina e chi l'alleva!». Mio marito..." "Va bene" la interruppe il giardiniere;" mettetela a sedere là, accanto a l'uscio. E appena la balia fu andata via, la bambina cominciò a cantare lamentosamente; pareva che piangesse. "Che cosa canti, figliuola mia?" "Canto la mia mala ventura. Ho gli occhi e non ci vedo; ho le gambe e quasi non posso camminare!." "C'è chi è peggio di te, figliuola mia. Tu hai tuo padre che ti vuol bene, e tanti fiori nel giardino. "Se mio padre m'avesse voluto bene, avrebbe piantato il fiore che rende la vista; se mio padre m'avesse voluto bene avrebbe innestato l'albero il cui frutto raddrizza le gambe. "Chi t'ha detto queste sciocchezze, bambina mia?" "Giacché sono sciocchezze, lasciatemi cantare! E riprese la sua nenia; metteva malinconia anche ai sassi.

Il giardiniere andò a trovare una vecchia che abitava poco lontano. "Volete servire la mia figliola che è cèca e storpia? Vi darà poco da fare." "Mi darete da mangiare, da bere, da dormire, e un bel mazzo di fiori ogni mattina." "Che volete mai farne dei fiori?" "Non deve importarvene." "E sia: da mangiare, da bere, da dormire e un bel mazzo di fiori ogni mattina.

La cèchina si lasciava vestire, lavare, pettinare dalla vecchia senza dire neppure una parola; poi quando questa, nelle belle giornate, la conduceva per mano a sedere in un angolo del giardino, e, nelle giornate cattive, presso la finestra della rustica casetta, quasi potesse godersi dai vetri lo spettacolo della campagna circostante e dei monti lontani, la cèchina le diceva: "Lasciatemi sola." "Ti annoierai, cuore mio!" "Lasciatemi sola; voglio cantare." "Ti racconterò una bella fiaba. "Le belle fiabe non sono per me." E cominciava la sua lamentosa cantilena. Durava così ore e ore, senza riposarsi un solo momento. Alla fine, dalla stanchezza, chinava la testa su una spalla e s'addormentava.

Il giardiniere era contento che sua figlia fosse servita bene; ma si sentiva stringere il cuore udendo sin di fondo al giardino quella nenia lamentosa, della quale non aveva potuto mai capire le parole. "Ascoltate bene voi" si raccomandava alla vecchia, quando essa scendeva giù a prendere il quotidiano mazzo di fiori. "Prima di mettersi a cantare mi manda sempre via. "E di questi fiori che ve ne fate?" "Non deve importarvene." Il giardiniere era incuriosito. Appena avuto il mazzo, la vecchia diceva: "Vado e torno subito." Infatti andava e tornava subito, senza che a lui fosse riuscito di vedere dove andasse, né di dove tornasse, quantunque più volte avesse tentato di spiarla. Appena richiuso dietro a sé il cancello, la vecchia seguiva il muro di cinta del giardino, svoltava il canto e spariva. Da principio il giardiniere non ci aveva badato; ma dopo alcuni mesi era entrato in sospetto di qualche brutto mistero. E il sospetto divenne certezza il giorno che la cèchina non cantò più. "Perché non canti più, figliuola mia?" "Non posso cantare, babbo. Se mi provo, sento qualcosa alla gola, come una mano che mi stringa e mi voglia soffocare." Il giardiniere che non aveva mai posto attenzione all'aspetto della vecchia, quel giorno la guardò bene. "Sembra una Strega!" disse tra sé e sé. Era tutta grinze, con i capelli bianchi tutti arruffati, gli occhi orlati di rosso sotto folte e ispide sopracciglia, il naso adunco, la bocca sdentata e le mani scarne e nodose. Proprio una Strega! Come non se n'era accorto prima? E pensò di licenziarla per vedere se, andata via lei, la cèchina potesse riprendere a cantare. Così muta gli sembrava più triste di quando si sfogava con le nenie che gli stringevano il cuore. "Sentite, comare: non ho più bisogno di voi. Eccovi un bel regalo, tornate a casa vostra; e più amici di prima come suol dirsi. La vecchia non rispose niente; fece un fagotto dei suoi quattro stracci, se lo mise sotto braccio, e uscì senza neppur salutarlo. Appena partita lei, la cèchina chiamò: "Babbo, babbo, vieni a sentirmi cantare!" ' Ho indovinato dunque! ' pensò il giardiniere. E stette ad ascoltare la figlia: questa volta udì bene le parole. La cèchina cantava:

"Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l'uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte...

Il resto non lo ricordo più!" "Chi ti ha insegnato questa canzone?" "Nessuno." "E chi attendi nella buia notte?" "Non lo so." "Come ti son venute in testa cantilena e parole?" "All'improvviso; una mattina... E non potevo frenarmi." Il giardiniere era stupito. "Babbo, perché non pianti il fiore che rende la vista?" "Figliola mia, non c'è giardiniere al mondo che lo conosca." "Babbo, perché non innesti l'albero il cui frutto raddrizza le gambe?" "Albero e fiore te li sei sognati, forse; non ne ho sentito mai parlare." Allora la cèchina riprese sottovoce:

"Attendo,
attendo nella buia notte"

e cantato un bel pezzetto, chinò la testa su una spalla e s'addormentò. Da quel giorno in poi, a mezzanotte, notte per notte, accadeva un fatto strano, si sentiva un gran picchio all'uscio. Il giardiniere balzava da letto, si affacciava alla finestra e domandava: "Chi è? Chi cercate?" C'era il lume di luna e ci si vedeva benissimo; ma non si scorgeva anima viva davanti a l'uscio né nel giardino. "Hai sentito picchiare, figliola mia?" "No, babbo." "Da parecchie notti a mezzanotte in punto?" "Ti sarà parso, babbo." ' Dev'essere quella Stregaccia! ' pensò il giardiniere. E andò a cercarla per dirle: "Volete smettere, Stregaccia?" "Non la trovò: né le vicine seppero dirgli dove si fosse ridotta ad abitare. Risposero: Era pazza! Non parlava con nessuno. Filava tutta la giornata. Soltanto, quando le domandavano: «Che cosa ne fate del filato?» brontolava stizzosa: «Una cordicina per impiccarvi!» Ci metteva paura. È meglio che se ne sia andata di qui. Con le pazze non si sa mai!... Il giardiniere, tornando a casa impensierito, si era rammentato per strada che un giorno sua moglie gli aveva detto: «Ho trovato un bel gomitolo di refe davanti al cancello del giardino. Lo tengo in serbo, se mai chi l'ha smarrito venisse a cercarlo.» Era passato quasi un anno, e allora ella lo aveva adoperato per cucire il corredino della creaturina che portava in seno. «Finita l'ultima gugliata» gli aveva raccontato sua moglie, «Sai, È venuta una vecchia: «Avete trovato un gomitolo di refe?». «Sì, ora è quasi un anno; ma l'ho già adoprato. Se volete, ve lo pago.» «Nemmeno il tesoro del Re basterebbe a pagarlo!» E mi ha voltato le spalle sdegnata.» Marito e moglie quel giorno ne avevano riso. E da quando la povera donna era morta di parto, il giardiniere non si era più rammentato del gomitolo; la risposta di quelle donne gliel'aveva fatto ritornare in mente. Ah! La Stregaccia filava, filava tutta la giornata? Il gomitolo era certo di lei, e conteneva una malìa! Infatti la bambina era nata cèca e storpia perché il suo corredino era stato cucito con quel refe! Nessuno ora avrebbe potuto levarglielo di testa! A casa trovò la figliola che piangeva: "Ah, babbo, babbo! Hanno picchiato a l'uscio e non ho fatto in tempo ad aprire. Scesi, alla meglio, tastoni le scale, ma chi aveva picchiato era già andato via!" "Sarà stato qualcuno che voleva dei fiori; tornerà." "No, babbo!"

Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l'uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte...

"Era venuta, babbo! Forse non tornerà più!" E la poverina si struggeva in lacrime. Il giardiniere non sapeva come consolarla. "Zitta" le disse." Ti dò un bel mazzo di fiori. Li colgo freschi freschi apposta per te." La cèchina, avuto in mano il mazzo, cominciò a tastarlo, a brancicarlo tutto, e poi a strapparlo fiore per fiore. Compiuto lo scempio, lo buttò via. "Perché hai fatto questo, figliola?" "Perché quel fiore non c'è." "Quale?" "Quello che rende la vista." Il giardiniere si mise a riflettere: ' Se lei ne parla, vuol dire che questo fiore esiste davvero! ' E per ciò ogni mattina coglieva i fiori più belli e più rari, e fattone un gran mazzo lo portava alla figliola.

Ma erano ormai passati parecchi mesi, e la cèchina, avuto in mano il mazzo, lo tastava, lo brancicava tutto e poi, strappàtolo fiore per fiore, lo buttava via, dicendo con accento, desolato: "Quel fiore non c'è!" Il giardiniere, intanto, non desisteva dal portargliene ogni mattina uno nuovo. Aveva riflettuto che la Stregaccia, volendo un mazzo di fiori al giorno, doveva sapere quel che faceva. Certamente. Come dubitarne più? Il portentoso fiore capace di ridonare la vista esisteva, ma non lo conosceva nessuno. Bisognava affidarsi al caso. E la Strega, volendo un mazzo di fiori al giorno, aveva tentato d'impedire che la cèchina riacquistasse la vista. Ahimè! Forse quel fiore era stato colto e portato via dalla Strega in uno dei tanti mazzi ricevuti! E se non rifioriva più? E se era di quelli che fioriscono una sola volta all'anno? Non sapeva darsene pace. Se avesse avuto la stregaccia tra le ugne, l'avrebbe ridotta a brani!

Una mattina, trin, trin, trin, si ferma al cancello del giardino una carrozza tirata da quattro cavalli con la sonagliera, e ne scende un bel giovane, vestito di stoffa di seta intramata di oro, con un gran cappello ornato di piume, collare di pizzi, e pizzi alle maniche che gli coprivano le mani. "Siete voi il giardiniere? "Per servirla, mio bel signore." "Cogliete tutti i fiori che avete, e riempitemene la carrozza." "Tutti no, mio bel signore. I più freschi e i più belli devo serbarli per la mia figliola." "Che ne fa la vostra figliuola?" "Li tasta, li brancica, li strappa e li butta via." "È quella lì?" "Sì, mio bel signore." La ragazza che aveva già sedici anni, seduta all'ombra di un albero, cantava tristamente. Il giovane era rimasto incantato a guardarla e ad ascoltarla. Rosea, coi capelli d'oro, con le mani fini, affusolate, con le pupille coperte da un velo bianco, la cèchina intenta a cantare non si era accorta della presenza di quei che si erano fermati a poca distanza. "È cèca?" "Cèca e storpia, mio bel signore!" "Che disgrazia!" E pareva non respirasse dalla commozione e dalla meraviglia di tanta bellezza. "Che cosa canta?" "Dice:"

«Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l'uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte...»

Il resto, la poverina, non lo ricorda più. Ora vo a cogliervi i fiori." Il giovane signore risalì, pensoso, nella carrozza, e quando il giardiniere tornò con una gran bracciata di fiori di ogni sorta, ricevette quattro grosse monete d'oro che gli fecero sgranare gli occhi.

Il giorno dopo, ecco, trin, trin, trin, la carrozza tirata da quattro cavalli con le sonagliere. Ne esce una vecchia signora riccamente vestita che domanda: "Siete voi il giardiniere?" "Per servirla, padrona mia." "Cogliete tutti i fiori che avete, e riempitemene la carrozza." "Tutti no, padrona mia. I più freschi e i più belli devo serbarli per la mia figliola." "Che ne fa la vostra figliola?" "Li tasta, li brancica, li strappa e li butta via." "È quella li?" "Sì, padrona mia." La ragazza, seduta accanto all'uscio, cantava tristamente. Anche la vecchia signora era rimasta incantata a guardarla e ad ascoltarla. Ma non domandò: «Che cosa canta?» Fece cenno al giardiniere di andar a cogliere i fiori, e quando questi gliene portò una gran bracciata che riempì la carrozza, gli diè quattro grosse monete d'oro che gli fecero sgranare gli occhi. "Se continua ogni giorno così, la mia figliola avrà presto una buona dote." Intanto ogni notte, a mezzanotte, si udiva un gran picchio all'uscio. "Hai sentito, figliola mia?" "No, babbo; ti sarà parso." ' È certamente la Stregaccia! ' egli pensava. ' Se la incontro, l'accoppo! ' Ma chi veniva a picchiare, di giorno, giusto quando lui non c'era? Decise di nascondersi e di stare in vedetta. Disse alla figlia: "Vado al mercato. Se picchiano, non aprire." E rimpiattato dietro una siepe da dove poteva veder bene, stiè ad attendere. Passa un'ora, ne passano due, nessuno! Stava per uscire dal nascondiglio, quando, a un tratto, che cosa vede? Vede un giovinotto, vestito da contadino, che si accosta cautamente all'uscio della casetta e picchia tre volte. Il giardiniere sente la voce della cèchina: "Chi è? Chi cercate?" e poi la risposta del giovinotto: "Il più bel paio di occhi del mondo!" "Avete sbagliato uscio!" "Non ho sbagliato!" Al giardiniere gli pareva e non gli pareva di riconoscere quel viso. L'aveva veduto un'altra volta? Sì, sì. Non era il bel signorino venuto in carrozza due giorni addietro, che aveva voluto tanti fiori e gli aveva regalato quattro grosse monete d'oro? poteva mai darsi? E se era, perché travestito da contadino? Intrigato da questo mistero, e vedendo che quegli stava per andar via non ricevendo più risposta dalla cèchina, il giardiniere si fece avanti. "Chi siete? Chi cercate?" "Vorrei allogarmi per garzone; non chiedo salario." "Se è così, ti prendo volentieri. Il tuo mestiere?" "Lo stesso del vostro." E intanto, al giardiniere, più lo guardava e più gli pareva di non ingannarsi. La rassomiglianza era perfetta. ' Stiamo a vedere! ' pensò.

Lo menò in fondo al giardino, gli ordinò quel che doveva fare, e lui andò a trovare la figliola. "Perché piangi, figliola mia?" "È venuto uno a beffarmi. Ha picchiato tre volte all'uscio, e alla mia domanda: «Chi siete? Chi cercate?» ha risposto: «Cerco il più bel paio d'occhi del mondo». Ed io sono cèca!" "Non angustiarti, figliola! "Chi canta nel giardino?" Il garzone che ho preso poco fa. "È allegro, a quel che pare!" "Chi lavora cantando sente meno la fatica. Se ti dà fastidio, lo faccio tacere." "Anzi; ha una bella voce." Ma non appena la cèchina, cessato di piangere, si mise a cantare anche lei la solita nenia, quell'altro tacque. Il giardiniere lo trovò intento ad ascoltare. "Così tu lavori?" "Questo lamento mi stronca le braccia!" "Devi abituarti ad udirlo: è la cèchina, mia figlia, che canta, se tu non lo sai." "Come si fa ad abituarsi? Spezza il cuore." Intanto, al giardiniere, più lo guardava, e più gli pareva di non ingannarsi. La rassomiglianza era perfetta. E, cogliendo i fiori pel mazzo da portare alla figlia, lo interrogava. "Dov'eri allogato prima?" "Dal giardiniere del re." "E perché sei andato via?" "Perché al Reuccio è piaciuto così" "Senza nessuna ragione? "Senza nessuna ragione." "Uhm!

Il giardiniere pensò di andare a informarsi se colui avesse detto la verità. Trovò il palazzo sossopra; gente che andava, gente che veniva, tutti affaccendati, e con certi visi! "Che cosa è accaduto? Qualche disgrazia?" "Il Reuccio è sparito da parecchi giorni, e non si sa dove sia. Il Re e la Regina lo piangono per morto. Doveva sposare la figlia del Re di Francia; ma dal momento in cui una zingara disse ai Re: «Se il Reuccio sposa costei, muore lo stesso giorno delle nozze. Chi dovrà egli sposare glielo dirò in un orecchio, se Vostra Maestà me lo permette» e glielo disse in un orecchio col consenso del Re" sin da quel momento le trattative furono rotte, e il Reuccio divenne così malinconico, che non si riconosceva più. Tutt'a un tratto è sparito, e non si sa dove sia. C'era tanta confusione, che il giardiniere poté entrare nel giardino reale senza che le guardie glielo impedissero. "Dite, compare: avete mandato via un giovane garzone?" "Non ho mandato via nessuno" rispose il giardiniere del Re. "È venuto uno ad allogarsi da me, sono giardiniere anch'io e vuol darmi a intendere che prima stava a garzone da voi e che l'avete licenziato perché così piacque al Reuccio." "Non gli date retta! Sarà un poco di bono." "Quanti bei fiori avete qui" "Voglio regalarvene un mazzo. Vi darò anche dei semi, se li gradite." "Grazie!" Trattandosi di fare un regalo a persona del mestiere, colui aveva scelto i fiori più belli e più rari.

Tornato a casa, il povero padre trovò di nuovo la figliola che piangeva. "Perché piangi, figliola mia?" "È venuto un'altra volta quel tale a beffarmi. Ha dato tre picchi a l'uscio, e alla mia domanda: «Chi siete? Chi cercate?» ha risposto: «Cerco il più bel paio d'occhi del mondo». Ed io sono cèca." Stizzito, il giardiniere non pensò neppure a dare alla figlia il magnifico mazzo di fiori ricevuto in regalo, e corse in fondo al giardino, dove il garzone annaffiava le aiuole cantando. "Ti ho visto e ti ho udito, sai? Perché ti diverti a far piangere mia figlia, canzonandola: Cerco il più bel paio di occhi del mondo?" Questi faceva il grullo, come se il suo padrone non parlasse con lui. E cantava:

"Attendi, attendi nella buia notte,
Ed apri l'uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala, vien la buona sorte,
E viene con colui che non sa l'arte."

Queste ultime parole erano quelle che la cèchina non ricordava più. Il povero giardiniere rimase. Gli pareva di sognare, gli pareva di sentirsi portar via il cervello da un colpo di pazzia. E non sapeva che cosa dovesse fare: se dirgli: «Tu non sei un contadino, sei quel signore venuto qui con la carrozza a quattro cavalli con le sonagliere!» La canzone lo cantava chiaro: «Colui che non sa l'arte!» E con lui era dunque venuta la buona sorte per la cèchina? ' Se parlo, forse guasto ' rifletté. E tornò addietro, dalla figliola che ancora piangeva: "Ecco un bel mazzo di fiori. Sono del giardino del Re." La cèchina lo tastò, lo brancicò e poi strappàtolo fiore per fiore, lo buttò per terra: "Quel fiore non c'è!" Il fiore che dava la vista non lo avevano neppure nel giardino reale! E il giardiniere si era lusingato che potesse trovarsi, per caso, tra quelli del mazzo. Intanto più egli guardava il giovane e più gli pareva di non ingannarsi; la rassomiglianza era perfetta. Quale mistero c'era sotto? Pel bene della sua figliola, rifletté di non esitare ancora ' Se parlo forse guasto! ' e appunto stava per rivolgere al giovane una domanda, quando, trin! trin! trin! ecco la carrozza tirata da quattro cavalli con le sonagliere, e la vecchia signora dell'altra volta, riccamente vestita. "Giardiniere, avete fiori?" "Quanti ne volete, padrona mia." "Coglieteli tutti e riempitemene la carrozza." "Tutti no, padrona mia. I più freschi e i più belli devo serbarli per la mia figliola." E maliziosamente aggiunse: "Là c'è il garzone. Dia i suoi ordini a lui. In questo momento ho da fare." Voleva vedere quel che sarebbe accaduto tra il garzone e lei. Girando dietro la siepe, gli sarebbe stato facile anche ascoltare. Così fece. E quel che vide e udì lo colmò di stupore. "Non ha ancora aperto l'uscio?" "Non l'ha ancora aperto. Come sente lamia risposta: «Cerco i più begli occhi del mondo» si mette a piangere." "Picchiate domani all'alba. Vi aprirà." "E il fiore?" "Sta per spuntare. Spuntare, crescere e sbocciare sarà quasi un solo momento: ma bisogna che non abbia altri fiori attorno. Coglieteli e portateli nella mia carrozza. Intanto appena il giardiniere e la cèchina saranno andati a letto, spargete davanti a l'uscio questa polvere per stornare la malìa della Strega. Essa viene ogni notte, a mezzanotte, e picchia. Se la ragazza le aprisse, rimarrebbe cèca per tutta la vita. Ed ora addio. Non mi rivedrete più. Siate felice, Reuccio! Chi bene fa, bene riceve; tenetelo a mente." Il giardiniere non credeva ai suoi occhi e ai suoi orecchi! La vecchia signora doveva essere una Fata! E quello era il Reuccio che non si sapeva dove fosse!Si allontanò in punta di piedi, trattenendo il respiro, col cuore che, dalla gioia, pareva volesse scoppiargli nel petto. E corse ad abbracciare la povera cèchina che cantava malinconicamente:

"Attendo, attendo nella buia notte."

"Babbo, perché mi abbracci così forte?" "Perché io ti voglio bene, figliola mia!" Non le disse altro. Pensava: ' Se parlo, forse guasto! ' Quella notte, a mezzanotte, il solito forte picchio a l'uscio. "Picchiano, babbo!... È la buona sorte!" "Ti è parso, figliola mia!" "Lasciami andare ad aprire, babbo! Se va via, non torna più!" Si udì un altro picchio, più forte. "Hai sentito, babbo?" "Ti è parso, figliola mia." La cèchina saltò giù dal letto nonostante che le gambe la reggessero a stento; saltò giù anche il padre e la trattenne. "Ah, padre scellerato! Non vuoi che apra alla buona sorte!" Si udì un terzo picchio più insistente. La cèchina voleva andare ad aprire a ogni costo, dibattendosi. Allora scoppiò un grand'urlo: "Ahi! Ahi!" Il giardiniere aperse la finestra e vide la Strega in fiamme, che si arrotolava per terra e bruciava come un tizzo. Dopo pochi minuti, ne rimaneva appena un po' di cenere. "Chi gridava, babbo? Sento puzzo di bruciaticcio." "Non è niente; il garzone ha dato fuoco a un po' di paglia. Riaddormentati, figliola!" Non voleva spaventarla. Ma nessuno dei due prese sonno. E di tanto in tanto la cèchina si lamentava sotto voce, credendo che suo padre dormisse: "Era la buona sorte! E mi ha impedito di aprirle!"

All'alba un picchio fortissimo faceva rintronare la casetta. Questa volta la cèchina saltò giù, zitta zitta, dal letto, indossò alla meglio la veste, si trascinò, tastoni, con le gambe storpie, per le scale, e giunta dietro a l'uscio domandò: "Chi siete? Chi cercate?" "Cerco i più begli occhi del mondo! I più miseri occhi eccoli qui!" E spalancò l'uscio disperatamente. Si sentì passare ripassare, lieve lieve, su le palpebre qualcosa di fresco, di vellutato, e sùbito le parve che un violento chiarore la ferisse. Diè un grido e cadde svenuta tra le braccia del garzone giardiniere, che era proprio il Reuccio. Quando la cèchina, non più cèca, riaprì le palpebre, egli vide splendere davvero i più begli occhi del mondo; sembravano due soli! Al grido era accorso il padre. Figuriamoci la sua gioia, vedendo la figliola che guardava attorno stupita, e non potea dire una sola parola! Ma dovettero metterla a sedere perché si reggeva male su le gambe storte. Si era trovato, finalmente, il fiore che rendeva la vista! Si sarebbe trovato pure l'albero il cui frutto raddrizzava le gambe; non se ne poteva più dubitare. Ora, con tutto quel che era accaduto, al giardiniere non passava per la testa che il Reuccio potesse voler sposare sua figlia. E sentendogli dire: "Questa sarà la mia Reginotta" fu preso da spavento, temendo che il Re e la Regina non lo avrebbero mai permesso, e che ne sarebbe venuto danno a lui e alla sua figliola, se il Reuccio si fosse ostinato. Infatti il Re e la Regina, appreso dalla stessa bocca del Reuccio la decisione di sposare la figlia del giardiniere, montarono in grandissima collera. Invano il Reuccio rivelò quel che gli aveva predetto in segreto la zingara, che poi era fata Ragno, perché il giorno era ragno e la notte bellissima Fata. Invano raccontò che egli, avendo un giorno impedito a un contadino di ammazzare un ragno, la notte dopo si era visto comparire davanti la bellissima Fata venuta a ringraziarlo, perché quel ragno era lei. Gli aveva promesso: "Ti farò sposare i più begli occhi del mondo e..." Re e Regina non lo lasciarono neppure finir di parlare. "O Reuccio, o giardiniere: scegli!" "Giardiniere, Maestà." E per i più begli occhi del mondo rinunciò alla corona.

Fata Ragno però non aveva pensato d'indicargli l'albero il cui frutto raddrizzava le gambe. E gli aveva detto: "Addio, non ci rivedremo più!" "Dove rintracciarla? Coltivando fiori e piante, il Reuccio spesso la invocava: "Ah fata Ragno, fata Ragno! Vi siete scordata di me!" Ma una mattina, il Reuccio guarda in un cantuccio di aiuola e vede prodursi un portento. Da una zolla nuda spuntavano due foglioline e poi un gambo e altre foglie, su, su; e il gambo si rafforzava, diventava tronco; e i rami si distendevano, e tra le fronde tanti bei fiori rossi che cascavano e lasciavano scorgere frutti piccoli come bacche che, sotto gli occhi maravigliati del Reuccio, si ingrossavano, prima verdi, poi gialli di un colore d'oro scuro, e maturavano in pochi istanti... E tra i rami, luccicavano al sole i fili di argento di un largo ragnatelo; e nel centro armeggiava con le gambe un grosso ragno verde, tessendo e ritessendo. Il Reuccio non stiè più alle mosse, colse quanti più frutti poté e corse dalla cèchina che stava ancora a letto, quantunque il giorno fosse inoltrato. Ella aveva voluto che continuassero a chiamarla così: le faceva piacere ricordarsi della sua disgrazia ora che sapeva di avere i più begli occhi del mondo. "Cèchina, su, mangia questo frutto, e vedrai!" "Oh, come è amaro!" La Cèchina, addentatolo, lo buttò via. "Mangiane almeno uno solo; te ne prego! uno solo!" La cèchina fece uno sforzo, per contentare il Reuccio, e non aveva terminato di mangiare uno di quei frutti color di oro scuro, che sentì un delizioso formicolìo alle gambe, e poi lunghi stiramenti... e poi più niente. Era guarita; aveva le più belle gambe diritte del mondo!

La notizia di questo secondo portento giunse fino agii orecchi del Re e della Regina. "Ma dunque quella cèchina era davvero una gran bellezza?" "Ma dunque quella cèchina era davvero protetta da una Fata?" "Andiamo a vedere." "Andiamo; ma senza farci conoscere." E si travestirono da mendicanti. "Fate la carità a due poveri vecchi! Sono due giorni che non mangiamo!" Al lamento accorse la cèchina e aperse il cancello. "Entrate ed attendete un istante." Tornò di lì a poco con pane ed altro: "Tenete, ristoratevi. Queste monete vi serviranno pei vostri bisogni." E così dicendo, metteva in mano del Re e della Regina due monete d'oro per ciascuno. "Siete voi la Reginotta?" "Se fossi Reginotta, non starei qui, ma a palazzo reale. Mio marito non è più Reuccio; è giardiniere." "Sono stati cattivi il Re e la Regina." "Che ne sapete voialtri? Potevano far peggio e non lo hanno fatto." Il Re e la Regina si guardarono negli occhi. Non era soltanto bellissima, ma anche buona. E si sentirono intenerire. Intanto si era accostato il Reuccio umilmente vestito da giardiniere. A quella vista, dovettero fare un grandissimo sforzo per contenersi. "Grazie, figlioli! Il cielo ve ne renda merito." Esi affrettarono ad andar via. "Poverini!" esclamò la cèchina. "Non mangiavano da due giorni. Non ti dispiacerà che gli ho dato quattro monete d'oro, quelle tue." "Hai fatto bene. Vieni a vedere che fiorita, questa mattina! Sembra che tutte le aiuole siano in festa per noi." La vera festa fu più tardi, quando «trin! trin! trin!» si fermarono al cancello due carrozze tirate da otto robusti cavalli con le sonagliere. Erano le carrozze reali. Al vedere discendere il Re e la Regina, il Reuccio si turbò. "Siete voi il giardiniere?" "Sì, Maestà." "Datemi il più bel fiore del vostro giardino." Il Reuccio, gongolante di gioia, prese per mano la cèchina: "Eccolo qui, Maestà." Fu così che la cèchina diventò Reginotta. "Ed io? Rimarrò qui solo?" disse il giardiniere. "C'è posto anche per voi nel palazzo reale." La sposa ebbe tanti doni, ma il più ricco fu quello del Re: un bel ragno di pietre preziose per ricordo di fata Ragno.

Stretta la foglia, larga la via,
Dite la vostra, che ho detto la mia.

 
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La cena del prete

Post n°573 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Persone che dovrebbero intendersene di queste cose affermano che il buon popolo, o i folletti, sono angeli cacciati dal paradiso e approdati su questa terra, mentre gli altri angeli loro compagni, che una colpa più grave trascinava verso il basso, sono precipitati più giù, verso un luogo peggiore. Vero o falso che sia, c'era una allegra combriccola di folletti che danzava e si abbandonava agli scherzi più pazzi in una chiara sera di luna, verso la fine di settembre. Il luogo di questi svaghi non era molto distante da Inchegeela, nella parte occidentale della contea di Cork - un villaggio povero, anche se vi si trovava una caserma per i soldati; ma alte montagne e rocce aride, come quelle che lo circondano bastano a portare la miseria dovunque: ad ogni modo, siccome i folletti possono avere tutto quello che vogliono, solo che ne esprimano il desiderio, la miseria non li spaventa molto, e la loro unica preoccupazione sta nello scovare angoli poco frequentati e posti dove sia difficile che qualcuno possa arrivare a guastare il loro divertimento. Questi piccoli esserini stavano su un bel tappeto d'erba verde presso la riva del fiume e danzavano in cerchio più vispi che mai: ad ogni balzo i loro berretti rossi si agitavano al chiarore della luna e i loro salti erano così leggeri che le gocce di rugiada, pur tremando sotto i loro piedi, non erano disturbate da tutte quelle capriole. Erano dunque intenti ai loro giochi e giravano su se stessi, facevano piroette e inchini, si dileguavano e provavano ad assumere ogni forma possibile, finché uno di essi cinguettò:

Basta, basta tamburellare
Non possiamo più giocare
Dall'odore
Posso dire
Un prete sta per arrivare!

E tutti i folletti sgattaiolarono via più in fretta che poterono, nascondendosi sotto le verdi foglie della digitale, dove, se per caso i piccoli cappucci rossi fossero spuntati, sarebbero solo sembrate le campanelle cremisi della pianta; e altri si nascosero dietro il lato ombroso delle pietre e dei rovi e altri sotto la sponda del fiume, e in nicchie e fessure d'ogni genere.

Il folletto che aveva dato l'allarme non si era sbagliato; infatti, lungo la via che si scorgeva dal fiume, veniva, sul suo pony, Padre Horrigan, e fra sé pensava che, essendo così tardi, avrebbe posto fine al suo viaggio alla prima capanna cui fosse arrivato. Seguendo questo proposito, si fermò all'abitazione di Dermod Leary, sollevò il chiavistello, ed entrò con un: "La mia benedizione a tutti." Non sia il caso di dire che Padre Horrigan era dovunque un ospite gradito, poiché nessun uomo era più pio e più amato in tutto il paese. Dermod era perciò molto dispiaciuto di non avere nulla di saporito da offrire per cena al reverendo assieme alle patate, che la vecchia (così Dermod chiamava la moglie, anche se questa non aveva di molto superato i vent'anni) aveva messo in una pentola a bollire sul fuoco. Gli venne in mente la rete che aveva teso nel fiume, ma l'aveva gettata solo da poco e non c'erano molte probabilità che un pesce vi si fosse impigliato. ' Non fa niente, ' pensò Dermod, ' fare un salto giù a vedere non può certo far male; e, dato che desidero il pesce per la cena del prete, forse quello sarà lì ancor prima di me '.

Dermod andò giù alla riva del fiume e nella rete trovò il più bel salmone che mai avesse guizzato nelle luccicanti acque del frondoso Lee; ma, mentre stava per tirarlo fuori, la rete gli fu strappata di mano, non seppe dire come o da chi, e il salmone se ne scappò via, nuotando felice nella corrente come se niente fosse accaduto. Dermod rimase a fissare pieno di tristezza la scia che il pesce aveva lasciato sull'acqua, splendente come un filo d'argento al chiaro di luna, quindi, con un moto rabbioso della mano destra, pestando un piede, diede sfogo ai suoi sentimenti borbottando: "Che la cattiva sorte ti possa seguire notte e giorno, dovunque tu vada, maledetto furfante di un salmone! Dovresti vergognarti di te, se sei capace di provar vergogna, scivolarmi via in questo modo! E sono ben convinto che farai una brutta fine, perché è stata qualche forza cattiva ad aiutarti. Non ho forse sentito tirare la rete dall'altra parte con tanta violenza che pareva il diavolo in persona?" "È falso quello che dici," disse uno dei piccoli folletti che erano fuggiti all'avvicinarsi del prete, dirigendosi verso Dermod Leary con un'intera schiera di compagni alle calcagna; "Eravamo soltanto noi, una dozzina e mezzo, a tirare dall'altra parte." Dermod fissò con sorpresa il minuscolo interlocutore, il quale proseguì: "Non darti alcun pensiero per la cena del prete; se tornerai da lui a chiedergli una cosa da parte nostra, in men che non si dica si troverà apparecchiata davanti la più bella cena mai messa in tavola." "Non voglio aver niente a che fare con voi," rispose Dermod con tono deciso; e dopo una pausa aggiunse: "Vi sono molto obbligato per la vostra offerta, signore, ma mi guardo bene dal vendermi a voi, o ad altri della vostra specie, per una cena; e inoltre, so che Padre Horrigan tiene tanto in considerazione la mia anima da non volere che io la impegni per sempre, qualunque cosa possiate mettergli davanti; e con questo la faccenda sia chiusa."

Il piccolo folletto, con una ostinazione che i modi di Dermod non riuscivano a vincere, continuò: "Vuoi fare una cortese domanda al prete per noi?" Dermod stette un pò a pensare, e aveva ben ragione a farlo, ma decise che a nessuno poteva venire del male per aver posto una cortese domanda. "Non ho niente in contrario a eseguire quanto mi chiedete, signori," disse Dermod, "ma non voglio avere nulla a che fare con la vostra cena finché vivrò; badate bene." "Allora," disse il piccolo folletto che parlava, mentre gli altri si affollavano dietro di lui da tutte le parti, "vai e chiedi a Padre Horrigan di dirci se le nostre anime saranno salvate il giorno del giudizio, come le anime dei buoni cristiani; e, se ci sei amico, torna a riferirci quanto ti dirà, senza indugiare."

Dermod se ne andò alla capanna dove trovò che le patate erano state versate sul tavolo e la sua buona moglie porgeva a Padre Horrigan la più grossa, un bel pomo rosso ridente, fumante come un cavallo sotto sforzo in una notte di gelo. "Scusate, Reverendo," disse Dermod, dopo qualche esitazione, "posso avere l'ardire di farvi una domanda?" "Cosa mai può essere?" chiese Padre Horrigan. "Ecco, allora, scusandomi con voi, Reverendo padre, per la libertà che mi prendo, la domanda: le anime del buon popolo saranno salvate il giorno del giudizio?" "Chi ti ha detto di farmi questa domanda, Leary?" disse il prete fissandolo molto severamente. Dermod, che non sapeva resistere al suo sguardo, rispose: "Non dire bugie su questa storia e nient'altro che la verità in vita mia. Sono stati i folletti che mi hanno mandato a farvi questa domanda, e ce ne sono a migliaia giù alla riva del fiume, ad aspettare che ritorni con la risposta." "Ritorna senz'altro," disse il prete, "e dì che vengano loro stessi qui da me, se lo vogliono sapere, e io risponderò a questa e a qualsiasi altra domanda desiderino rivolgermi col più grande piacere al mondo."

Dermod ritornò dunque dai folletti che si radunarono a frotte attorno a lui per sentire la risposta che il prete aveva dato; e Dermod, da quell'uomo coraggioso che era, parlò chiaro davanti a loro: ma quando sentirono che avrebbero dovuto andare dal prete fuggirono via, chi di qua, chi di là, chi da una parte, chi dall'altra, guizzando accanto al povero Dermod così velocemente e in tal numero, che egli ne fu del tutto disorientato. Quando si riprese, e ce ne volle un bel pò, fece ritorno alla capanna e mangiò le sue patate asciutte assieme a Padre Horrigan, il quale non dava alcuna importanza alla cosa; ma Dermod non poteva fare a meno di pensare che era una faccenda assai strana che il Reverendo padre, le cui parole avevano il potere di scacciare i folletti tanto in fretta, non avesse niente di saporito per cena, e che il bel salmone che aveva nelle rete gli fosse stato strappato via in quel modo.

 
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Cinque in un baccello

Post n°572 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'erano cinque piselli in un baccello, erano verdi e anche il baccello era verde, così loro credevano che tutto il mondo fosse verde, e avevano pienamente ragione! Il baccello cresceva, e anche i piselli crescevano, così si assestarono secondo la conformazione della casa, mettendosi tutti in fila. Fuori il sole splendeva e riscaldava il baccello; la pioggia lo schiariva, c'era bel caldo e si stava bene, era chiaro di giorno e buio di notte proprio come doveva essere, e i piselli diventavano sempre più grossi e pensavano sempre di più: se ne stavano sempre lì seduti, qualcosa dovevano pur farla! «Dobbiamo restare qui per sempre?» si chiedevano «purché non diventiamo duri a star seduti così a lungo! Mi sembra quasi che ci sia qualcosa fuori di qui; ne ho la sensazione!» E passarono diverse settimane; i piselli ingiallirono e anche il baccello si fece giallo. «Tutto il mondo sta diventando giallo!» dissero, e ne avevano il motivo. Poi sentirono una scossa al baccello; era stato strappato dalla pianta preso in mano e messo nella tasca di una giacca insieme a molti altri baccelli ancora pieni. «Tra poco ci apriranno!» esclamarono, e si misero a aspettare. Mi piacerebbe sapere chi di noi andrà più lontano!» disse il pisello più piccolo. «Tra breve si vedrà!» «Succeda quel che deve succedere!» replicò il più grande. Crac! il baccello fu aperto e i cinque piselli rotolarono fuori sotto il sole; si trovarono in una mano di bambino: un ragazzetto li teneva stretti e diceva che andavano proprio bene per la sua cerbottana. Subito un pisello tu messo nella canna e sparato lontano. «Ora volo nel vasto mondo! mi segua chi può!» e era già partito. «Io invece» esclamò il secondo «volerò fino al sole; è un vero e proprio baccello e mi andrà a meraviglia!» e fu lanciato anche lui. «Noi dormiremo dove capiterà!» dissero gli altri due «ma avanzeremo anche noi!» e subito rotolarono sul pavimento prima di finire nella canna, ma poi venne anche il loro turno. «Andremo più lontano di tutti!» «Succeda quel che deve succedere!» esclamò l'ultimo che venne sparato verso l'alto, volò contro una vecchia assicella che si trovava sotto la finestra di una mansarda, e s'infilò proprio in una fessura dove c'erano muschio e terra umida. Il muschio gli si richiuse sopra; era nascosto ma non era stato dimenticato dal Signore. «Succeda quel che deve succedere!» disse di nuovo.

In quella piccola mansarda abitava una povera donna che di giorno andava a pulire le stufe, a tagliare la legna e a fare i lavori pesanti, perché era forte e piena di volontà, ma ciò nonostante rimaneva povera.  In casa, nella cameretta, c'era anche la sua unica figlia, una adolescente delicata e gracile; da un anno intero era a letto e non voleva né vivere né morire. «Andrà dalla sorellina!» diceva la donna. «Avevo due figlie, era troppo faticoso mantenerle entrambe, e così il Signore le ha divise con me e se ne è presa una; ora io vorrei tenere quest'unica che mi è rimasta, ma lui non vuole tenerle separate e così lei andrà a raggiungere la sorellina.» La ragazzina malata però viveva ancora. Se ne stava a letto immobile e paziente per tutto il giorno, mentre la madre era fuori per guadagnare qualcosa. Era primavera, e una mattina presto, mentre la madre stava andando al lavoro e il sole splendeva chiaro attraverso la finestrella e si posava sul pavimento, la fanciulla malata guardò attraverso il vetro più basso. «Che cos'è quel verde che spunta dietro il vetro? Si muove col vento!» la madre andò alla finestra, e la aprì. «Oh!» esclamò «è un piccolo pisello che ha messo fuori delle foglioline verdi. Come ha fatto a arrivare in quella fessura? Adesso hai un giardinetto da guardare!» Il letto della malata venne avvicinato alla finestra, perché lei potesse vedere il pisello che germogliava; intanto la madre andò al lavoro.

«Mamma, credo che guarirò!» raccontò la bambina alla sera «Il sole oggi era così caldo su di me. Il pisello cresce proprio bene, e anch'io voglio crescere e uscire al sole.» «Se solo accadesse davvero!» esclamò la madre, ma non lo credeva possibile; intanto però a quel verde germoglio che aveva donato alla bambina la voglia di vivere mise un bastoncino, perché non si piegasse al vento. Legò un filo dall'assicella alla finestra così che il gambo del pisello avesse qualcosa a cui appoggiarsi e arrampicarsi, crescendo; e così infatti fece, e di giorno in giorno cresceva a vista d'occhio. «Oh, mette anche i fiori!» disse un mattino la donna, e cominciò a sperare e a credere che la piccola malata sarebbe guarita. Le tornò in mente che nell'ultimo periodo la sua figliola parlava con più vivacità, le ultime mattine si era tirata su da sola nel letto e era rimasta lì seduta a guardare con occhi splendenti quel giardinetto costituito da una sola pianta di piselli. La settimana successiva per la prima volta la malata restò alzata per più di un'ora. Felice si sedette al sole, con la finestra aperta, e fuori c'era un fiore bianco e rosso di pisello completamente sbocciato. La fanciulla piegò la testa e baciò con delicatezza quei petali lievi. Era proprio un giorno di festa, quel giorno! «Il Signore in persona lo ha piantato e lo ha fatto crescere, per dare a te gioia e speranza, cara figliola, e anche a me» disse la madre felice, e sorrise al fiore come se fosse un angelo del Signore.

E che ne è stato degli altri piselli? Quello che volò nel vasto mondo: «Mi segua chi può!» cadde in una grondaia e finì nel gozzo di un piccione, e lì rimase come Giona nella balena. I due pigroni fecero la stessa strada e furono anch'essi mangiati dai piccioni, e ciò vuol dire essere utili in modo concreto. Il quarto, che voleva raggiungere il sole, cadde nella fogna e restò per molti giorni e settimane nell'acqua stagnante, gonfiandosi tutto. «Divento bello grosso!» esclamò. «Sto per scoppiare e non credo che nessun pisello abbia mai fatto altrettanto. Sono sicuramente il più notevole dei cinque che erano nel baccello!» e la fogna lo approvava. Alla finestra della mansarda stava la fanciulla con gli occhi scintillanti e con il colore della salute sulle guance; congiunse le manine delicate sul fiore del pisello e ringraziò il Signore per averglielo dato. «Per me» esclamò la fogna «il mio è il migliore!»

 
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Haken Barbadi rame

Post n°571 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una principessa così altezzosa e impertinente che nessun pretendente andava bene per lei. Si prendeva gioco di tutti, respingendoli, uno dopo l'altro; ma ciò nonostante ogni giorno nuovi corteggiatori affluivano al palazzo del re, attirati dalla fama della sua bellezza.

Un giorno giunse un principe a chiedere la sua mano; il suo nome era Haken Barbadirame. Accadde, però, che durante la prima notte in cui egli fu ospitato a palazzo, la principessa diede ordine di tagliare le orecchie a uno dei cavalli del principe, e di incidere le mascelle dell'altro fino alle orecchie. Quando, il giorno dopo, il principe fu pronto per ripartire, ella era presso il portico ad aspettarlo e lo guardò: "Bene, non ho mai visto niente del genere in tutta la mia vita; il pungente vento del nord che soffia da queste parti ha soffiato così forte da aver strappato via le orecchie a uno dei vostri cavalli, e l'altro è rimasto talmente a bocca aperta dallo stupore che la mascella gli è arrivata alle orecchie!" disse beffeggiandolo, scoppiando in una grossa risata; poi rientrò, sbattendo la porta e lasciò che lui se ne andasse. E fu ciò che il principe fece, pensando tra sé che un giorno gliel'avrebbe fatta pagare.

Passato un pò di tempo, si fece crescere una lunga barba di muschio, indossò un'ampia giacca di pelliccia, e si acconciò da mendicante. Andò da un orafo e comprò una rocca d'oro e partì alla volta del palazzo della principessa; si piazzò sotto la sua finestra e cominciò a limare e ad accomodare la rocca che necessitava di un sostegno. Quando la principessa si alzò dal letto, guardò fuori dalla finestra, e alla vista di quella bella rocca d'oro, chiese al mendicante di vendergliela. "Non è in vendita" rispose quello, "ma se mi lasciate dormire fuori della porta della vostra camera da letto stanotte, ve la darò." La principessa ritenne questo un buon affare, pensando che non c'era alcun pericolo per lei nel lasciarlo dormire fuori della porta, ed acconsentì. Haken Barbadirame si coricò fuori della porta della sua stanza, e in questo modo ella ottenne la rocca d'oro; ma durante la notte il poveretto si sentì congelare dal freddo. "Accidenti, si gela qui fuori. Per favore, fatemi entrare" pregò. "Siete fuori di senno." rispose la principessa. "Non potete immaginare che freddo insopportabile fa qui fuori, vi prego, fatemi entrare" chiese ancora il mendicante. "Zitto, zitto! Se mio padre sapesse che ho ospitato un uomo in casa, avrei un sacco di guai!"disse ella. "Vi prego, morirò congelato. Fatemi entrare, dormirò per terra" disse Haken Barbadirame. Insomma, non ci fu niente da fare: dovette proprio farlo entrare; il mendicante si accovacciò sul pavimento e si addormentò.

Passò altro tempo, e Haken Barbadirame tornò sotto le finestre della principessa, e si mise a limare i sostegni della rocca, poiché neanche quelli erano finiti. Quando ella si accorse della sua presenza, aprì la finestra e gli chiese che cosa mai avesse per le mani. "Oh, soltanto i sostegni per quella rocca d'oro di Vostra Altezza. Ho pensato che ne aveste bisogno e li ho portati." "Quanto vuoi per quelli?" chiese la principessa. Il mendicante rispose che non erano in vendita, ma che glieli avrebbe ceduti in cambio di una notte sul pavimento della sua camera. Acconsentì, ma lo pregò di starsene però tranquillo senza lamentarsi e senza dire «Accidenti». Haken Barbadirame promise che non avrebbe disturbato nessuno, ma durante la notte ricominciò a rabbrividire e ad agitarsi, chiedendo di potersi avvicinare un pochino al letto, perché presso la porta faceva troppo freddo. Anche questa volta la principessa dovette accontentarlo per non avere noie con suo padre, che avrebbe potuto sentire i lamenti del mendicante. Così, Haken Barbadirame dormì accanto al letto della principessa e dormì come un ghiro.

Dopo questi eventi non si fece vedere per un bel pò di tempo, ma quando tornò, aveva con sé un bellissimo arcolaio d'oro; e come le altre volte, si sedette sotto le finestre della principessa e cominciò a limarlo e ad accomodarlo. Tutto si svolse come le altre volte: quando la principessa vide l'arcolaio d'oro, volle sapere per quanto egli fosse disposto a vederglielo. "Non lo vendo per denaro, ma se mi lasciate dormire una notte nella vostra stanza, con la testa appoggiata al letto, ve lo regalerò" rispose Haken Barbadirame. La principessa acconsentì anche questa volta, ma si raccomandò che per nessuna ragione egli avrebbe dovuto lamentarsi e fare rumore; egli promise che avrebbe fatto del suo meglio per non disturbare, ma durante la notte ricominciò a gelarsi e a battere i denti. "Oddio, che freddo! Vi prego, lasciatemi coricare nel vostro letto per scaldarmi un pò" pregò Haken Barbadirame. "Ma siete diventato matto?" rispose la principessa. "Per favore, per favore, fatemi coprire!" disse egli. "Tacete, per l'amor del cielo!" disse la principessa. "Se mio padre scopre che siete qui, mi farà tagliare la testa!" "Signore, fa così freddo! Vi prego, lasciatemi venire nel vostro letto!" disse ancora Haken Barbadirame, battendo i denti così forte da far tremare tutta la stanza. Non ci fu niente da fare, ella dovette proprio farlo entrare nel suo letto, e lì si addormentò.

Ma dopo qualche tempo, la principessa ebbe un figlio, e la cosa naturalmente mandò in bestia il re, che fu sul punto di ucciderli entrambi. Dopo poco tempo giunse Haken Barbadirame, quasi per caso, e si sedette in cucina, come qualsiasi altro mendicante. Quando la principessa lo vide, corse da lui a pregarlo: "Oh, grazie a Dio siete tornato! Avete visto che disgrazia mi avete procurato? Mio padre è quasi scoppiato dalla rabbia, vi prego, portatemi via con voi!" "Ma voi siete abituata troppo bene per la vita che conduco io" disse Haken, "io non ho nemmeno una casa, e mi dite come farò a mantenervi, se a malapena riesco a procurarmi da vivere me stesso?" "Il mio destino è segnato, morirò comunque, se resto qui, perché mio padre mi ucciderà." E così alla fine partì con il mendicante, come lo chiamava lei, e camminarono a lungo, molto a lungo, e non se la passò molto bene. Quando lasciò le terre di suo padre per entrare in altre terre, ogni volta chiedeva di chi fossero, e il mendicante rispondeva: "Oh, sai, sono di  Haken Barbadirame." "Ecco, se l'avessi sposato ora non starei a vagare in compagnia di un mendicante.." diceva tristemente la principessa. E così, davanti a un nuovo castello, a una foresta, o a un parco, ripeteva sempre la stessa domanda, e il mendicante le forniva puntualmente la stessa risposta: "Il proprietario qui è Haken Barbadirame." E ogni volta cresceva il rimpianto di non averlo accettato per marito. Alla fine del viaggio giunsero a un palazzo presso il quale il mendicante spiegò di essere conosciuto, dove sperava di poter ottenere un pò di lavoro, così avrebbero potuto tirare avanti. Costruì una capanna per entrambi ai bordi del bosco, e ogni giorno si recava alla reggia a spaccar legna e a trasportare l'acqua alle cucine, e al ritorno portava con sé gli avanzi di carne, che però duravano ben poco.

Un giorno, di ritorno dal palazzo, disse alla moglie: "Domani resterò io a casa con il bambino, e in cambio dovrai andarci tu, perché il principe ha detto che devi dare una mano a preparare il pane." "Il pane?" disse la principessa. "E chi l'ha mai fatto? Non ho mai infornato in vita mia." "Dovrai andarci lo stesso" disse Haken, "il principe vuole così. Se non sai infornare, vorrà dire che imparerai osservando gli altri, e non dimenticarti, prima di andar via, di rubare un pò di pane anche per me." "Rubare? Di rubare non sono capace" replicò la principessa. "Imparerai anche questo" disse il mendicante, "vedi bene in che condizioni siamo costretti a vivere; ma fai molta attenzione a non farti scoprire dal principe, perché ha occhi dappertutto."

Così, mentre ella si diresse al palazzo, Haken sgusciò via dalla capanna e raggiunse la reggia prima di lei, si spogliò degli stracci che indossava, e rimise i suoi abiti regali. La principessa fece come Haken le aveva detto, e andò in cucina; rubò abbastanza pane da riempirsene le tasche, ma proprio mentre stava per andarsene, ecco che fu sorpresa dal principe, che disse: "Non sappiamo niente sul conto della moglie di Haken Barbadirame; sarà bene controllare che non abbia rubato niente." Frugò egli stesso nelle sue tasche, con grande imbarazzo di lei, e quando trovò il furto del pane, si arrabbiò moltissimo. Ella cominciò a piangere e a lamentarsi, giustificandosi: "È stato il mendicante a costringermi a farlo, non ho potuto farne a meno." "Ebbene," proferì alla fine il principe, "meriteresti una severa punizione, ma per pietà del mendicante, ti sarà condonato tutto." Come lei si avviò verso casa, il principe si tolse gli abiti regali, indossò di nuovo il giaccone e la finta barba, e fece in modo da arrivare alla capanna prima di lei. Quando ella entrò, lo trovò intento a badare al bambino. "Mi hai fatto fare una cosa che non fa parte della mia indole e che non volevo proprio fare, ma è stata la prima e l'ultima volta." E così dicendo gli raccontò tutti i fatti accaduti con il principe.

Qualche giorno dopo, Haken Barbadirame disse ancora: "Oggi resterò io a badare al bambino; tu devi andare a palazzo, perché ammazzeranno un maiale, e ci vuole il tuo aiuto per fare le salsicce. "Io, a fare salsicce?" proferì la principessa, "sono buone, le ho mangiate diverse volte, ma non le ho mai fatte in vita mia!" Il mendicante replicò che ad ogni modo doveva andare perché era volere del principe, e che se non sapeva farle, bastava che seguisse il lavoro degli altri; e detto questo, le comandò di rubarne un pò e di portargliene a casa. "Neanche per sogno," replicò ella, "non ti ricordi più cosa mi è successo l'ultima volta?" "Eh bhè, imparerai. E poi chi lo sa che questa volta tu la faccia franca?" disse Haken. Poi, come l'altra volta, quando lei fu fuori della capanna, lui fece una corsa, e raggiunse la reggia prima di lei; si rivestì dei suoi bei abiti regali, e l'aspettò in cucina. La principessa fece le salsicce insieme agli altri, poi fece come le aveva imposto il marito: si riempì le tasche di salami e salsicce. E quando fu sul punto di andarsene, riecco il principe, dire: "La moglie del mendicante è stata di mano lunga, l'ultima volta. Sarà meglio controllare che non si sia data da fare anche questa volta." Così cominciò a frugarle nelle tasche, e alla vista del maltolto andò nuovamente su tutte le furie, gridando e minacciando di chiamare le autorità e farla sbattere dentro. "Vi prego, Maestà, abbiate pietà di me e lasciatemi andare!"supplicò ella, piangendo amaramente, "ho fatto solo ciò che mi ha imposto mio marito." E il principe: "Meriteresti di essere castigata a dovere, ma per pietà del mendicante, ti condonerò il furto anche questa volta." E la lasciò andare; poi corse a cambiarsi, e in un battibaleno rientrò alla capanna prima del suo arrivo. Ella raccontò la nuova disavventura al marito, giurando e spergiurando che questa volta sarebbe stata veramente l'ultima, e che per nessun motivo avrebbe rubato ancora.

Ma poco tempo dopo, Haken disse alla moglie: "Il principe sta per sposarsi, ma la sposa è malata, e quindi il sarto non può prenderle le misure per l'abito nuziale. Così, il principe ha deciso che siccome fisicamente sei alta esattamente come la sposa, andrai tu al posto suo a farti prendere le misure. E così, già che ci sei, se stai attenta a non farti scorgere dal sarto mentre taglia, puoi metterti in tasca qualche scarto grosso di stoffa, con cui mi potrò fare un giaccone nuovo." "Assolutamente no, non se ne parla di rubare; ricordati com'è andata l'ultima volta" replicò la principessa. "Bhè, è ora che ti fai furba e impari come si fa, e poi forse stavolta ti andrà bene" disse Haken. Ella non voleva, ma dovette a tutti i costi ubbidirgli. Si fece prendere le misure dal sarto, e mentre quello era intento a cucire, afferrò i tagli più grossi e se li mise in tasca; e quando stette per andarsene, il principe disse: "Dobbiamo controllare che la ragazza non si sia intascata qualcosa anche questa volta." Così, controllò lui stesso nelle sue tasche, e quando ci trovò la stoffa, andò nuovamente in collera, e furibondo, ricominciò a minacciarla; ma ella, disperata, lo supplicò di perdonarla, perché anche questa volta aveva dovuto ubbidire agli ordini del marito. Il principe disse che si sarebbe meritata una severa frustata, ma che anche questa volta l'avrebbe lasciata andare per pietà nei confronti del povero mendicante. Tutto andò come le volte precedenti; quando ella rientrò, lo trovò già lì ad aspettarla con il bambino. "Che il cielo mi aiuti!" invocò la principessa; "tu sarai la mia rovina, se continuerò a darti retta e a commettere cattive azioni. Per poco il principe non mi mandava in galera anche questa volta!"

Qualche tempo dopo, Haken disse: "Il principe vuole che tu vada in chiesa al posto della sposa, perché è ancora malata, ma non vuole rimandare le nozze. Perciò andrai al matrimonio al suo posto, così è il suo volere; ha detto che tanto, nessuno potrà accorgersi della tua identità, poiché tu e la vera sposa siete identiche. Quindi domani farai come ti ho detto e andrai alla reggia." "Secondo me vi siete bevuti il cervello, tutti e due" rispose la principessa; "ma ti pare che, conciata come sono, posso passare per una sposa? Guardami! Hai mai visto una stracciona più mal ridotta di me?" "Fosse anche così, il principe così vuole, e così farai" rispose tagliando corto Haken. Volente o nolente, dovette proprio andare, e quando fu al palazzo, fu vestita di tutto punto, e alla fine era così splendidamente bella, come nessuna principessa si era mai vista. Fu preparato il cocchio della sposa, e quando fu condotta in chiesa, ella presenziò alle nozze al posto della sposa, e al ritorno ci furono balli e grandi festeggiamenti. Ma proprio mentre stava per danzare col principe, un bagliore di luce venire da fuori l'allertò: era la capanna nel bosco che andava a fuoco. "Oh mio Dio! La capanna sta bruciando, con dentro il mendicante e il mio bambino!" gridò dal terrore, e per poco non svenne. "Non preoccuparti, guarda: eccoti il mendicante, ed ecco qui il tuo bimbo, e lascia pure che la capanna bruci" disse Haken Barbardirame. Ciò detto, la principessa riconobbe nel principe il mendicante, e allora ci fu finalmente la vera gioia e tanta allegria per tutti. Ma da quel momento, non ho saputo più niente di loro.

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Haina

Post n°570 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Una bellissima fanciulla di nome Haina, fidanzata con un bel giovane del suo paese, un giorno andò raccogliere legna nel bosco con le sue amiche. Mentre raccoglieva i rami secchi, vide a terra un mortaio d'oro. Subito pensò di prenderlo perché era molto bello e prezioso e lo mise da parte per portarlo a casa: aveva in mente di venderlo e di ricavarne tanti soldi. Quando fu l'ora di fare ritorno a casa, lo prese e si accorse che era molto pesante. Decisa nel suo intento, s'incamminò con le amiche ma faticava molto a tenere il passo. Le ragazze cercarono di dissuaderla dal suo intento , ma lei a tutti costi volle portarlo con sé. Rimase sempre più indietro e, ad un certo punto, non vide più nessuno e si trovò da sola. A questo punto dal mortaio uscì un diavolo che le disse di volerla sposare e le ordinò di seguirlo nella sua casa tra le montagne. Quando il fidanzato si accorse che non Haina non era tornata, partì alla sua ricerca, ma nel bosco non c'era alcuna traccia di lei. Camminò in tutte le direzioni finché arrivò alle montagne dei sette colori e chiese alla prima montagna se avesse per caso visto la sua ragazza, ma questa gli rispose di no. Poi chiese alla seconda e poi alla terza e così via, ma né la montagna gialla, né quella arancione, né quella rossa, né quelle di altri colori avevano notizie da dargli. Fu la montagna marrone ad informarlo che la sua ragazza era stata portata a casa del diavolo, nella montagna nera. Aggiunse però di fare molta attenzione perché se il diavolo l'avesse riconosciuto, se lo sarebbe mangiato. Allora il giovane prese una pelle di mucca, si travestì per non farsi riconoscere e salì sulla montagna nera. Vide la ragazza stava che pettinando i capelli del diavolo. Di nuovo fece ritorno alla montagna marrone. Questa gli consigliò di prendere molto sale e un ago; infatti il diavolo non sopportava il sale e con l'ago avrebbe potuto ucciderlo. Il giovane tornò alla montagna nera e vide il diavolo che si era addormentato, allora gli buttò il sale negli occhi, prese Haina e fuggì. Quando il diavolo si svegliò, sentì i suoi occhi bruciare urlò dal dolore, poi si rese conto che la ragazza non c'era più e corse come un pazzo fuori dalla montagna. Vide i due fuggiaschi all'orizzonte e cercò di raggiungerli; quando fu vicino a loro, il giovane buttò dell'altro sale che mise ancora una volta il diavolo in difficoltà. Quando ebbe finito il sale, gettò l'ago e il diavolo morì.
I due giovani tornarono finalmente al loro paese, si sposarono e vissero felici e contenti.

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Il treno ha fischiato (Pirandello)

Post n°569 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:

- Frenesia, frenesia.

- Encefalite.

- Infiammazione della membrana.

- Febbre cerebrale.

E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.

- Morrà? Impazzirà?

- Mah!

- Morire, pare di no...

- Ma che dice? che dice?

- Sempre la stessa cosa. Farnetica...

- Povero Belluca!

E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale.
Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e - cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna - era venuto con più di mezz'ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:

- E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani.

- Che significa? - aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. - Ohé, Belluca!

- Niente, - aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere.

- Il treno? Che treno?

- Ha fischiato.

- Ma che diavolo dici?

- Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare...

- Il treno?

- Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo-ufficio - che quella sera doveva essere di malumore - urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.
Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.

Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:

- Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?

E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia.
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:

- Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.

Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:

«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, l'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima.»

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.
Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.
Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.
Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.

- Magari! - diceva. - Magari!

Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.
Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno.
S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte.
C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui!. E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c'erano gli oceani... le foreste...
E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo.
Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:

- Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

 

 
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Il disordinato di S.Tobia

Post n°568 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Alzi la mano chi non ha un disordinato in famiglia,lettori miei!
Sono certo però che nessuno di voi per sua fortuna ha avuto a che fare con Perseo Scozzagalli,che del disordine ha fatto una vera e propria religione ed ha fatto passare ai parenti una settimana di passione,che passo a raccontarvi
LUNEDI- Perseo non trovava più il suo paio di calzini preferiti ed ha accusato il gemelo Teseo di averglieli rubati.
I due stavano per venire alle mani quando l'Elvira ha frugato per un po' in quell'ammasso informe che il figlio chiama letto e da una federa ha estratto i calzini mancanti.
Teseo non ha commesso fratricidio perchè Perseo si è barricato in soffitta.
MARTEDI'- Perseo non trovava le chiavi dell'auto.
Convinto che fossero finite nella lavatrice,si èarmato di cacciavite per smontarla.
E' arrivata la solita Elvira,che le chiavi gliele ha sbattute in testa.
Le aveva ritrovate nel cassetto delle sue mutande (non chiedetemi come ci sono finite)
MERCOLEDI'- L'altra settimana Teseo ha prestato una camicia al fratello e oggi è andato in camera sua per riprenderla. Non ha trovato la camicia,però è rientrato in possesso di un maglione (sparito un anno fa),di un paio di scarpe da ginnastica (mancavano all'appello da sei mesi) e del suo impermeabile (sparito tre anni fa)
GIOVEDI'- L'Elvira ha fatto pulizia sotto il letto del figlio .
La Michelina ha ritrovato 4 libri gialli che considerava persi,l'Andromaca ha ricuperato 3 Cd e 5 vidoecassette,il Virgilio due rasoi elettrici svaniti nel nulla temporibus illis e il cane si è ripreso 7 palline,5 ossi di gomma,8 guinzagli e 3 collari antipulci
VENERDI'- La stradale ha fermato Perseo e gli ha chiesto la patente,ritrovata due ore dopo sotto il sedile.
In compenso dalla macchina sono saltati fuori.
159 gommine risecchite
74 lattine vuote di bibite varie
4 teli da mare
27 borse di palstica
La dentiera di Melchiorre
I poliziotti alla vista di quel macello si sono messi a piangere.
SABATO-Ireneo doveva benedire la casa,e Perseo ha messo in ordine.
Risultato: il pretone è stato travolto dalla porta dello sgabuzzino e da una montagna di ciarpame vario.
Lo ha salvato il cane dopo due ore,ormai più di là che di qua
DOMENICA-Perseo è stato cacciato di casa in perpetuo.
Sono passati tre giorni.
Ireneo per sdebitarsi ha regalato al cane degli Scozzagalli una bistecca da Guinness.
Perseo almeno per adesso è sparito ed io,temendo la prossima cronaca,passo e chiudo

 
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I nostri giorni incantati

Post n°567 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Vorrei
che si affollassero
disperatamente
sopra di me
per farci vivere
l'ultima volta
in un solo momento.

 
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Libri dimenticati:L'ultima zarina

Post n°566 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

E' la biografia di Alessandra,ultima zarina e moglie di Nicola II.
E' un libro gradevole,per nulla pesante,che racconta nei dettagli la vita di questa donna controversa,odiata dal popolo ed amatissima dal marito.
Da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°565 pubblicato il 30 Agosto 2011 da odette.teresa1958

Quando hai paura ricordati che gli altri hanno più paura di te

 
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