Messaggi del 02/09/2011

Spera di sole

Post n°607 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

tizzone e brutta più del peccato mortale. Campavan la vita infornando il pane della gente, e Tizzoncino, come la chiamavano, era attorno da mattina a sera: "Ehi, scaldate l'acqua! Ehi, impastate!" Poi, coll'asse sotto il braccio e la ciambellina sul capo, andava di qua e di là a prender le pagnotte e le stiacciate da infornare; poi, colla cesta sulle spalle, di nuovo di qua e di là per consegnar le pagnotte e le stiacciate bell'e cotte. Insomma non riposava un momento. Tizzoncino era sempre di buon umore. Un mucchio di filiggine; i capelli arruffati, i piedi scalzi e intrisi di mota, in dosso due cenci che gli cascavano a pezzi; ma le sue risate risonavano da un capo all'altro della via. "Tizzoncino fa l'uovo" dicevan le vicine. All'Avemaria le fornaie si chiudevano in casa e non affacciavano più nemmeno la punta del naso. D'inverno, passava... Ma d'estate, quando tutto il vicinato si godeva il fresco e il lume di luna? O che eran matte, mamma e figliuola, a starsene tappate in casa con quel po' di caldo?... Le vicine si stillavano il cervello. "O fornaie, venite fuori al fresco, venite!" "Si sta più fresche in casa." "O fornaie, guardate che bel lume di luna, guardate!" "C'è più bel lume in casa." Eh, la cosa non era liscia! Le vicine si misero a spiare e a origliare dietro l'uscio. Dalle fessure si vedeva uno splendore che abbagliava, e di tanto in tanto si sentiva la mamma: "Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!" E Tizzoncino che faceva l'uovo. Se lo dicevano che erano ammattite! Ogni notte così, fino alla mezzanotte: "Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!"

La cosa giunse all'orecchio del Re. Il Re montò sulle furie e mandò a chiamare le fornaie. "Vecchia strega, se seguiti, ti faccio buttare in fondo a un carcere, te e il tuo Tizzoncino!" "Maestà, non è vero nulla. Le vicine sono bugiarde." Tizzoncino rideva anche al cospetto del Re. "Ah!... Tu ridi?" E le fece mettere in prigione tutte e due, mamma e figliuola. Ma la notte, dalle fessure dell'uscio il custode vedeva in quella stanzaccia un grande splendore, uno splendore che abbagliava, e, di tanto in tanto, sentiva la vecchia: "Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!" E Tizzoncino faceva l'uovo. Le sue risate risonavano per tutta la prigione. Il custode andò dal Re e gli riferì ogni casa. Il Re montò sulle furie peggio di prima. "La intendono in tal modo? Sian messe nel carcere criminale, quello sottoterra." Era una stanzaccia senz'aria, senza luce, coll'umido che si aggrumava in ogni parte; non ci si viveva. Ma la notte, anche nel carcere criminale, ecco uno splendore che abbagliava, e la vecchia: "Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!" Il custode tornò dal Re, e gli riferì ogni cosa. Il Re, questa volta, rimase stupito. Radunò il Consiglio della Corona: e i consiglieri chi voleva che alle fornaie si tagliasse la testa, chi pensava che fosser matte e bisognasse metterle in libertà. Infine, che cosa diceva quella donna?: «Se Dio vuole». O che male c'era? Se Dio avesse voluto, neppure Sua Maestà sarebbe stato buono d'impedirlo. Già! Era proprio così.

Il Re ordinò di scarcerarle. Le fornaie ripresero il loro mestiere. Non avevan le pari nel cuocere il pane appuntino, e le vecchie avventore tornarono subito. Perfin la Regina volle infornare il pane da loro; il Tizzoncino così saliva spesso le scale del palazzo reale, coi piedi scalzi e intrisi di mota. La Regina le domandava: "Tizzoncino, perché non ti lavi la faccia?" "Maestà, ho la pelle fina e l'acqua me la sciuperebbe." "Tizzoncino, perché non ti pettini?" "Maestà, ho i capelli sottili, e il pettine me li strapperebbe." "Tizzoncino, perché non ti compri un paio di scarpe?" "Maestà, ho i piedini delicati; mi farebbero i calli." "Tizzoncino, perché la tua mamma ti chiama Spera di sole?" "Sarò Regina, se Dio vuole!" La Regina ci si divertiva; e Tizzoncino, andando via colla sua asse sulla testa e le pagnotte e le stiacciate di casa reale, rideva, rideva. Le vicine che la sentivan passare: "Tizzoncino fa l'uovo!" Intanto ogni notte quella storia. Le vicine, dalla curiosità, si rodevano il fegato. E appena vedevano quello splendore che abbagliava e sentivano il ritornello della vecchia, via, tutte dietro l'uscio: non sapevano che inventare. "Fornaie, fatemi la gentilezza di prestarmi lo staccio; nel mio c'è uno strappo." Tizzoncino apriva l'uscio e porgeva lo staccio. "Come! Siete allo scuro?" "Mentre picchiavo, c'era lume." "Uh! Vi sarà parso."

La cosa era arrivata anche alle orecchie del Reuccio, che aveva già sedici anni. Il Reuccio era un gran superbo. Quando incontrava per le scale Tizzoncino, coll'asse sulla testa o colla cesta sulle spalle, si voltava in là per non vederla. Gli faceva schifo. E una volta le sputò addosso. Tizzoncino quel giorno tornò a casa piangendo. "Che cosa è stato, figliuola mia?" "Il Reuccio mi ha sputato addosso." "Sia fatta la volontà di Dio! Il Reuccio è padrone." Le vicine gongolavano: "Il Reuccio gli aveva sputato addosso; le stava bene a Spera di sole!"

Un altro giorno il Reuccio la incontrò sul pianerottolo. Gli parve che Tizzoncino lo avesse un pò urtato con l'asse, e lui, stizzito, le tirò un calcio. Tizzoncino ruzzolò le scale. Quelle pagnotte e stiacciate, tutte intrise di polvere, tutte sformate, chi avrebbe avuto il coraggio di riportarle alla Regina? Tizzoncino tornò a casa piangendo e rammaricandosi. "Che cosa è stato, figliuola mia?" "Il Reuccio mi ha tirato un calcio e mi ha rovesciato ogni cosa." "Sia fatta la volontà di Dio: il Reuccio è padrone." Le vicine non capivano nella pelle dall'allegrezza. Il Reuccio gli aveva menato un calcio: le stava bene a Spera di sole!

Il Reuccio pochi anni dopo pensò di prender moglie e mandò a domandare la figliuola del Re di Spagna. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Spagna s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea impiccato l'ambasciatore. Ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio mezza giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandò a domandare la figliuola del Re di Francia. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Francia s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea ad ogni costo impiccato quel traditore che non arrivava mai in tempo: ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio una giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandava dal Gran Turco per la sua figliuola. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Gran Turco s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio non sapea darsi pace; piangeva. Il Re, la Regina, tutti i ministri gli stavano attorno: Mancavano principesse? c'era la figliuola del Re d'Inghilterra: si mandasse per lei. Il povero ambasciatore partì come una saetta, camminando giorno e notte finché non arrivò in Inghilterra. Era una fatalità! Anche la figlia del Re d'Inghilterra s'era maritata il giorno avanti. Figuriamoci il Reuccio! Un giorno, per distrarsi, se n'andò a caccia. Smarritosi in un bosco, lontano dai compagni, errò tutta la giornata senza poter trovare la via. Finalmente, verso sera, scoprì un casolare in mezzo agli alberi. Dall'uscio aperto, vide dentro un vecchione, con una gran barba bianca, che, acceso un bel fuoco, si preparava la cena. "Brav'uomo, sapreste indicarmi la via per uscire dal bosco?" "Ah, finalmente sei arrivato!" A quella voce grossa grossa, il Reuccio sentì accapponarsi la pelle. "Brav'uomo, non vi conosco; io sono il Reuccio." "Reuccio o non Reuccio, prendi quella scure e spaccami un pò di legna." Il Reuccio, per timore di peggio, gli spaccava la legna. "Reuccio o non Reuccio, vai per l'acqua alla fontana." Il Reuccio, per timore di peggio, prendeva l'orcio sulle spalle e andava alla fontana. "Reuccio o non Reuccio, servimi a tavola." E il Reuccio, per timore di peggio, lo servì a tavola. All'ultimo il vecchio gli diè quel che era avanzato. "Buttati lì; è il tuo posto." Il povero Reuccio si accovacciò su quel pò di strame in un canto, ma non poté dormire. Quel vecchio era il Mago, padrone del bosco. Quando andava via, stendeva attorno alla casa una rete incantata, e il Reuccio rimaneva in tal modo suo prigioniero e suo schiavo.

Intanto il Re e la Regina lo piangevano per morto e portavano il lutto. Ma un giorno, non si sa come, arrivò la notizia che il Reuccio era schiavo del Mago. Il Re spedì subito i suoi corrieri: "Tutte le ricchezze del regno, se gli rilasciava il figliuolo!" "Sono più ricco di lui!" A questa risposta del Mago, la costernazione del Re fu grande. Spedì daccapo i corrieri: Che voleva? Parlasse: il Re avrebbe dato anche il sangue delle sue vene. Una pagnotta e una stiacciata, impastate, infornate di mano della Regina, e il Reuccio sarà libero. Oh, questo era nulla! La Regina stacciò la farina, la impastò, fece la pagnotta e la stiacciata, scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica; pagnotta e stiacciata furono abbruciacchiate. Quando il Mago le vide, arricciò il naso: "Buone pei cani." E le buttò al suo mastino. La Regina stacciò di nuovo la farina, la impastò e ne fece un'altra pagnotta e un'altra stiacciata. Poi scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica. La pagnotta e la stiacciata riusciron mal cotte. Quando il Mago le vide, arricciò il naso: "Buone pei cani." E le buttò al mastino. La Regina provò, riprovò; ma il suo pane riusciva sempre o troppo o poco cotto; e intanto il povero Reuccio restava schiavo del Mago.

Il Re adunò Consiglio di Ministri. "Sacra Maestà" disse uno dei Ministri "proviamo se il Mago è indovino. La Regina staccerà la farina, la impasterà, farà la pagnotta e la stiacciata; per scaldare il forno ed infornare chiameremo Tizzoncino!" "Bene! Benissimo!" E così fecero. Ma il Mago arricciò il naso: "Pagnottaccia, stiacciataccia Via, lavatevi la faccia!" E le buttò al cane. Aveva subito capito che ci avea messo le mani Tizzoncino. "Allora" disse il ministro "non c'è che un rimedio." "Quale?" domandò il Re. "Sposare il Reuccio con Tizzoncino. Così il Mago avrà il pane stacciato, impastato, infornato dalle mani della Regina, e il Reuccio sarà liberato." "È proprio la volontà di Dio" disse il Re. "Spera di sole, spera di sole, sarai regina se Dio vuole!" E fece il decreto reale, che dichiarava il Reuccio e Tizzoncino marito e moglie. Il Mago ebbe la pagnotta e la stiacciata, stacciate, impastate e infornate dalle mani della Regina, e il Reuccio fu messo in libertà. Veniamo intanto a lui, che di Tizzoncino non vuol saperne affatto: Quel mucchio di filiggine sua moglie? Quella bruttona di fornaia regina? "Ma c'è un decreto reale..." "Sì? Il Re lo ha fatto, e il Re può disfarlo!" Tizzoncino, diventata Reginotta, era andata ad abitare nel palazzo reale. Ma non s'era voluta lavare, né pettinare, né mutarsi il vestito, né mettersi un paio di scarpe: "Quando verrà il Reuccio, allora mi ripulirò." Era possibile? E aspettava, chiusa nella sua camera, che il Reuccio andasse a trovarla. Ma non c'era verso di persuaderlo. "Quella fornaia mi fa schifo! Meglio morto che sposar lei!" Tizzoncino, quando le riferivano queste parole, si metteva a ridere: "Verrà, non dubitate; verrà." "Verrò? Guarda come verrò!" Il Reuccio, perduto il lume degli occhi e colla sciabola in pugno, correva verso la camera di Tizzoncino: volea tagliarle la testa. L'uscio era chiuso. Il Reuccio guardò dal buco della serratura e la sciabola gli cadde di mano. Lì dentro c'era una bellezza non mai vista, una vera Spera di sole! "Aprite, Reginotta mia! Aprite!" E Tizzoncino, dietro l'uscio, canzonandolo: "Mucchio di filiggine!" "Apri, Reginotta dell'anima mia!" E Tizzoncino ridendo: "Bruttona di fornaia!" "Apri, Tizzoncino mio!" Allora l'uscio s'aperse, e i due sposini s'abbracciarono. Quella sera si fecero gli sponsali, e il Reuccio e Tizzoncino vissero a lungo, felici e contenti...

E a noi ci s'allegano i denti.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Maruf il calzolaio

Post n°606 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un calzolaio di nome Maruf che viveva al Cairo con sua moglie Fatima, una vera arpia. Costei lo trattava così duramente, rendendogli il male per ogni sua buona azione, che Maruf cominciò a considerarla come l'incarnazione stessa dell'inspiegabile spirito di contraddizione universale.
Schiacciato da un sentimento di vera ingiustizia e in preda alla più cupa disperazione, Maruf si rifugiò in un monastero in rovina nei dintorni della città, dove sprofondò nella preghiera e nelle suppliche. "Signore", implorava senza tregua, "ti supplico di indicarmi le vie della mia liberazione, affinché io possa andare il più lontano possibile e trovare speranza e sicurezza".
Stava pregando così da molte ore, quando accadde un fenomeno stupefacente. Un essere molto alto e dall'aspetto strano sembrò attraversare la parete di fronte a lui alla maniera degli Abdal, i 'trasformati', esseri umani che hanno raggiunto poteri che superano di gran lunga quelli dell'uomo ordinario.
"Sono l'Abdel-Makan, il servitore di questo luogo", disse l'apparizione. "Che vuoi da me?". Maruf gli confidò i suoi problemi. Il 'trasformato' si caricò Maruf sulle spalle e insieme volarono nel ciclo per molte ore, a incredibile velocità. Allo spuntar dell'alba Maruf si ritrovò in una lontana e magnifica città ai confini con la Cina.
Qualcuno lo fermò per strada e gli chiese chi era. Maruf glielo disse e mentre tentava di spiegare come fosse arrivato fin lì, fu circondato da una torma di zotici che cominciarono a tirargli bastoni e sassi accusandolo di essere un pazzo o un emerito imbroglione.
Stavano ancora malmenando lo sfortunato calzolaio, quando arrivò un mercante a cavallo che li disperse. "Vergognatevi!", disse. "Uno straniero è un ospite, legato a noi dal sacro vincolo dell'ospitalità e degno della nostra protezione". Quell'uomo si chiamava Ali.
Ali spiegò al suo amico come era passato dalla miseria alla ricchezza in quella strana città di Ikhtiyar. I mercanti del luogo - così sembrava - erano generalmente più inclini di altre persone a prendere un uomo in parola. Se questi era povero, non gli davano molte possibilità di riuscita nella vita, in quanto ritenevano che fosse povero perché così doveva essere. Se, d'altro canto, sentivano dire che era un uomo ricco, gli davano considerazione, credito e onore.
Ali aveva scoperto questo fatto. Di conseguenza, si era recato da parecchi ricchi mercanti della città e aveva chiesto loro un prestito affermando che stava aspettando l'arrivo di una sua carovana. Non appena ottenuto il prestito, Ali aveva moltiplicato il capitale commerciando nei grandi bazar, ed era riuscito sia a restituire il capitale iniziale sia ad arricchirsi. Ali consigliò Maruf di fare altrettanto.
E fu cosi che Maruf, rivestito dal suo amico di tutto punto, si recò da diversi mercanti per farsi concedere un prestito. L'unica differenza era che, a causa della sua natura caritatevole, Maruf donava il denaro ai mendicanti. La sua carovana, dopo mesi di attesa, non dava segni del suo arrivo. Maruf non combinava affari, ma la sua carità aumentava in quanto la gente faceva a gara per prestare denaro a un uomo che lo spendeva subito in opere di carità.
In tal modo la gente pensava di recuperare il denaro prestato quando la carovana sarebbe arrivata e, al tempo stesso, di beneficiare della benedizione connessa agli atti di generosità. Tuttavia, col passar del tempo, i mercanti cominciarono ad avere dei dubbi e a chiedersi se Maruf, dopo tutto, non era un impostore. Andarono quindi a lamentarsi dal re della città, il quale decise di convocare il vecchio calzolaio.
Il re era molto incerto nei confronti di Maruf e alla fine decise di metterlo alla prova. Egli possedeva un gioiello di grande valore; lo avrebbe regalato a Maruf il mercante per vedere se sapeva riconoscerne il valore. Se lo avesse apprezzato, il re - che era un uomo avido - gli avrebbe dato in sposa sua figlia. In caso contrario, lo avrebbe fatto buttare in prigione.
Maruf si presentò a corte e gli fu dato in mano il gioiello. "È per tè, buon Maruf", gli disse il re. "Ma, dimmi, perché non paghi i tuoi debiti?".
"Maestà, la mia carovana, che trasporta beni di inestimabile valore, non è ancora arrivata. Quanto a questo gioiello, credo sia preferibile che Vostra maestà lo tenga perché è senza valore rispetto ai gioielli veramente preziosi che viaggiano con la mia carovana".
Sopraffatto dall'avidità, il re congedò Maruf e fece consegnare un messaggio al rappresentante dei mercanti, ordinando loro di tacere. Poi decise di dare la principessa in moglie al mercante, malgrado l'opposizione del Gran Visir, che non si faceva scrupolo di dire che Maruf era un gran bugiardo. Dato che erano anni che il visir chiedeva la mano della principessa, il re attribuiva i suoi consigli al pregiudizio.
Quando seppe che il rè voleva concedergli la mano di sua figlia, Maruf rispose semplicemente al visir: "Dì a sua maestà che, finché la mia carovana carica di inestimabili gioielli e di altre meraviglie non sarà arrivata, non potrò provvedere ai bisogni di una sposa del rango di principessa. Suggerisco, di conseguenza, che il matrimonio venga rinviato".
Quando gli fu riferita la risposta di Maruf, il re gli offrì senza esitazione di attingere al tesoro reale, in modo da poter scegliere ciò di cui aveva bisogno per adottare un tenore di vita adeguato e offrire doni consoni al rango di un genero del re.
Un matrimonio simile non si era mai visto, ne in quel paese ne altrove. Non solo furono donati ai poveri gioielli a manciate, ma tutti coloro che avevano anche solo sentito parlare del matrimonio, ricevettero un sontuoso regalo. Le celebrazioni, di una magnificenza senza precedenti, durarono quaranta giorni.
Quando furono finalmente soli, Maruf disse alla giovane sposa: "Ho già preso così tanto a tuo padre da sentirmi in qualche modo preoccupato". Aveva bisogno di spiegare il sordo malessere che lo pervadeva. "Non pensarci", disse la principessa, "quando la tua carovana sarà giunta, andrà tutto bene".
Intanto, il visir ricominciò a sollecitare al re un attento esame della situazione di Maruf. Decisero di fare appello alla principessa, la quale accettò di aiutarli a chiarire il tutto al momento opportuno. Quella notte, mentre riposavano tra le braccia l'uno dell'altra, la principessa chiese al suo sposo di spiegarle il mistero del mancato arrivo della carovana. Proprio in quel giorno, Maruf aveva confermato al suo amico Ali di possedere veramente una carovana inestimabile. Tuttavia, ora decise di dire la verità. "Non c'è nessuna carovana", confessò, "e benché il visir abbia ragione, le sue parole sono solo l'espressione della sua avidità. Ed è altrettanto per avidità che tuo padre mi ha concesso la tua mano. E tu, perché hai acconsentito a sposarmi?".
"Sei mio marito", rispose la principessa, "e non potrò mai disonorarti. Prendi queste cinquantamila monete d'oro, lascia il paese, e non appena sarai al sicuro mandami un messaggio; io ti raggiungerò in tempo debito. E ora lascia che mi occupi della situazione a corte". Travestito da schiavo, Maruf fuggì nel cuore della notte.
Il giorno seguente, quando il re e il visir convocarono la principessa Dunia e le chiesero di fare il suo rapporto, la risposta fu: "Padre rispettato e onorato visir, stavo per affrontare l'argomento con Maruf, mio sposo, la notte scorsa, quando è accaduta una cosa strana". "Che cosa?", esclamarono i due uomini all'unisono.
"Dieci mamelucchi, vestiti sontuosamente, si sono presentati alla finestra del palazzo, latori di una lettera del capo carovana di Maruf. La lettera spiegava il motivo del ritardo della carovana: era stata attaccata da una banda di beduini. Su cinquecento guardie, cinquanta erano state uccise e duecento carichi di cammelli erano stati sequestrati".
"E che ha detto Maruf?". "Non ha detto gran che. Per lui, duecento carichi di cammelli e cinquanta vite umane non sono nulla! In ogni caso, è partito immediatamente, e al galoppo, per andare incontro alla carovana e condurla personalmente fino a noi".
In tal modo la principessa guadagnava tempo. Maruf, dal canto suo, galoppò senza tregua e senza sapere dove andava, finché si imbatté in un contadino che stava arando un fazzoletto di terra. Lo salutò e il contadino gli disse, dal profondo del cuore: "Accetta di essere mio ospite, grande schiavo di sua maestà reale. Ti porterò del cibo e mangeremo insieme".
Il contadino si allontanò rapidamente e Maruf, toccato dalla sua gentilezza e desideroso a sua volta di aiutarlo, decise di continuare ad arare il campo. Aveva appena scavato qualche solco, quando l'aratro urtò contro una pietra. Rimossa la pietra, si accorse che nascondeva dei gradini che scendevano sottoterra. Maruf scese la scala e si ritrovò in un'immensa sala piena di innumerevoli tesori.
In una teca di cristallo brillava un anello. Lo prese e se lo strofinò sul vestito: una strana apparizione si materializzò all'istante e si rivolse a lui: "Eccomi, sono tuo servitore, mio signore!".
Maruf scoprì che questo Ginn si chiamava 'il padre della felicità", che era uno dei più potenti capi dei Ginn e che il tesoro era appartenuto al re Shaddad, figlio di Aad. D 'padre della felicità" era ora lo schiavo di Maruf,
Il calzolaio ordinò che il tesoro fosse riportato in superficie. Poi lo fece caricare su cammelli, muli e cavalli che il Ginn aveva materializzato. Grazie al potere di altri Ginn che erano al servizio del 'padre della felicità", vennero alla luce anche molte altre merci preziose, e ben presto la carovana fu pronta a partire. Quando il contadino tomo con un po' d'orzo e di legumi e vide Maruf in mezzo a tutti quei tesori, credette di essere in presenza di un re. Maruf gli diede un po' di oro e gli raccomandò di chiedere in seguito una ricompensa maggiore. Accettando l'ospitalità del contadino, si limitò a mangiare i legumi e l'orzo.
Maruf mandò avanti i Ginn (che avevano assunto le sembianze di uomini e di animali) e quando questi raggiunsero la città del rè, suo suocero, questi si arrabbiò molto col visir per aver insinuato che Maruf era solo un miserabile. Quando le giunse la notizia che una splendida carovana era alle porte del palazzo e che apparteneva al suo sposo, la principessa non seppe che pensare. Sospettò che Maruf le avesse mentito per mettere alla prova la sua lealtà.
Ali, l'amico di Maruf, dal canto suo suppose che quella straordinaria carovana fosse opera della principessa, che aveva sicuramente concepito qualche stratagemma per salvare la reputazione e la vita di suo marito. I mercanti che avevano prestato denaro a Maruf e si erano meravigliati della generosità con la quale lo aveva subito prodigato, furono ancora più stupefatti di fronte alla quantità di oro, gioielli e regali di ogni sorta che ora stava distribuendo ai poveri e ai bisognosi.
Il visir, tuttavia, era ancora sospettoso. Disse al re che non si era mai visto a memoria d'uomo un mercante comportarsi in quel modo, e gli propose di tendergli una trappola. Con uno stratagemma lo attirò in un giardino, dove lo inebriò talmente di vino e di musica che l'ebbrezza sciolse la lingua di Maruf, il quale confessò la verità. Il visir prese quindi l'anello magico, senza che Maruf opponesse la benché minima resistenza. Poi fece apparire il Ginn e gli ordinò di far sparire Maruf nel luogo più remoto del deserto. Mentre lo insultava per aver rivelato il prezioso segreto, il Ginn fu ben felice di afferrare Maruf e di lanciarlo nel deserto di Hadramut. Poi il visir ordinò al Ginn di catturare il re, suo padrone, e di lanciarlo nel deserto insieme a Maruf. Poi s'impadronì del potere e provò anche a sedurre la principessa.
Quest'ultima, tuttavia, quando il visir le si avvicinò, s'impadronì dell'anello che questi portava al dito, lo strofinò e ordinò al Ginn di incatenare il ministro. Nel giro di un'ora, il Ginn riportò il re e Maruf a palazzo. Il visir fu condannato a morte per alto tradimento e Maruf prese il suo posto come primo ministro. Dopodiché vissero tutti felici e contenti. Alla morte del re, Maruf gli succedette sul trono. Ora aveva un figlio. La principessa conservò l'anello. Poi si ammalò e affidò il bambino e l'anello a Maruf. Morì pregandolo di vegliare su entrambi.
Non molto tempo dopo, mentre si trovava a letto, il re Maruf si svegliò di soprassalto. Al suo fianco vide una donna che non era altro che la sua prima sposa, l'orrenda Fatima, che era stata trasportata lì per magia. Costei gli spiegò ciò che le era accaduto.
Dopo che Maruf era sparito, la donna si era pentita e si era messa a mendicare. La sua vita era diventata sempre più dura e ben presto si era ritrovata nella miseria più nera. Una notte, sdraiata a terra cercando di dormire, aveva chiamato aiuto dal più profondo della sua disperazione; un Ginn le era apparso e le aveva raccontato le avventure di Maruf da quando l'aveva lasciata. La donna aveva chiesto di essere condotta a Uditiva e così fu, trasportata alla velocità della luce.
Ora la donna era molto contrita e Maruf accettò di riprenderla come moglie. L'avvertì, tuttavia, che ormai egli era un re e che possedeva un anello magico il cui servitore era il grande Ginn 'padre della felicità". Fatima lo ringraziò umilmente e prese il suo posto come regina. Tuttavia, odiava il piccolo principe.
Ora, ogni sera, Maruf si sfilava l'anello magico dal dito. Fatima se ne accorse e una notte penetrò nella stanza del re per impossessarsene. Il fanciullo, tuttavia, l'aveva seguita e quando la vide rubare l'anello, spaventato all'idea che lei potesse usare questo nuovo potere, sguainò la spada e trafisse la strega.
E fu così che Fatima la falsa trovò la strada della tomba nel luogo stesso della sua maggior gloria. Maruf chiamò quindi accanto a sé l'onesto contadino che era stato lo strumento della sua salvezza e lo nominò primo ministro. Ne sposò la figlia e vissero tutti nella felicità e nella prosperità.

torna su

Valid HTML 4.01 Strict Valid CSS!

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

La grossa eredità

Post n°605 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

'era una volta un commerciante che, dopo una vita trascorsa nel commercio, aveva messo da parte un'enorme ricchezza. L'uomo però sperperò in breve tempo i tanti guadagni vivendo nel più grande sfarzo, spendendo per bere e per il gioco d'azzardo. Quest'uomo aveva due figli.
Quando questi furono cresciuti e iniziarono a guadagnare tanto di che vivere, si adirarono profondamente col padre che aveva scialacquato tutti i suoi beni e risparmi. Nonostante l'uomo fosse ormai anziano e non godesse di buona salute, non riceveva nessun aiuto dai suoi due figli.
Un giorno allora l'uomo, disperato, andò da un suo vecchio caro amico sperando nell' utilità di un suo consiglio. Appena l'uomo spiegò all'amico come i suoi figli non l'amassero e come gli facessero mancare ogni tipo di sostegno, l'amico gli rispose: "Non preoccuparti, caro amico. Ecco cosa devi dire ai tuoi figli: Una volta ho prestato ad un amico una grossa somma di denaro e ora egli me la restituirà".
L'uomo, ampiamente soddisfatto, ringraziò e tornò sereno verso casa.
Qualche giorno dopo, come d'accordo, l'amico venne a trovarlo portando con sé una grossa e pesante cassapanca. Entrando disse: "Che Dio accresca le tue ricchezze! E' passato tanto tempo, ma finalmente eccoti indietro il denaro che mi avevi prestato!" L'uomo allora mostrò davanti ai figli grande entusiasmo e con felicità disse: "Cari figli, il denaro che il mio amico mi sta restituendo sarà vostro, lo lascio in eredità a voi! Un terzo del denaro sarà distribuito ai poveri, tutto il rimanente lo dividerete voi due! Io controllerò solo che nulla vada perduto".
Da allora in poi l'uomo fece costante guardia alla cassapanca. Se si doveva assentare un attimo, chiudeva accuratamente la porta della stanza a chiave. I suoi due figli, finalmente, non gli facevano più mancare nulla ed esaudirono ogni suo desiderio sino alla sua morte. L'uomo gioiva di aver finalmente rieducato i suoi figli al bene.
Quando l'uomo morì i figli poterono finalmente aprire la cassapanca ma ebbero una grossa delusione: la cassapanca era colma solo di sassi! Subito però i figli capirono e riconobbero sereni una cosa basilare: l'educazione al bene e all'amore verso i genitori è meglio di qualsiasi ricchezza esistente al mondo...



Valid HTML 4.01 Strict Valid CSS!

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Le arance d''oro

Post n°604 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Si racconta che c'era una volta un Re, il quale avea dietro il palazzo reale un magnifico giardino. Non vi mancava albero di sorta; ma il più raro e il più pregiato, era quello che produceva le arance d'oro. Quando arrivava la stagione delle arance, il Re vi metteva a guardia una sentinella notte e giorno; e tutte le mattinescendeva lui stesso a osservare coi suoi occhi se mai mancasse una foglia.

Una mattina va in giardino, e trova la sentinella addormentata. Guarda l'albero... Le arance d'oro non c'eran più! "Sentinella sciagurata, pagherai colla tua testa." "Maestà, non ci ho colpa. È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi si aggravavano gli occhi. Loscacciai da quel ramo, ma andò a posarsi sopra un altro. Canta, canta, canta, non mi reggevo dal sonno. Lo scacciai anche di lì, e appena cessava dicantare, il mio sonno svaniva. Ma si posò in cima all'albero, e canta, canta, canta.. ho dormito finora!" Il Re non gli fece nulla. Alla nuova stagione, incaricò della guardia il Reuccio in persona. Una mattina va in giardino e trova il Reuccio addormentato. Guarda l'albero... le arance d'oro non c'eran più! Figuriamoci la sua collera! "Come? Ti sei addormentato anche tu?" "Maestà, non ci ho colpa. È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi s'aggravavano gli occhi. Gli dissi: cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! Ed esso a canzonarmi: il Reuccio dorme! il Reuccio dorme! Cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! Ed esso a canzonarmi: il Reuccio fa la nanna! il Reuccio fa la nanna! E canta, canta, canta, ho dormito finora!" Il Re volle provarsi lui stesso; e arrivata la stagione si mise a far la guardia. Quando le arance furon mature, ecco il cardellino che si posa sopra un ramo, ecomincia a cantare. Il Re avrebbe voluto tirargli, ma faceva buio come in una gola. Intanto aveva una gran voglia di dormire! "Cardellino traditore, questavolta non ti giova!" Ma durava fatica a tener aperti gli occhi. Il cardellino cominciò a canzonarlo: "Pss! Pss! Il Re dorme! Pss! Pss! Il Re dorme!" Ecanta, canta, canta, il Re s'addormentava peggio d'un ghiro anche lui. La mattina apriva gli occhi: le arance d'oro non ci eran più! Allora fece un bando per tutti i suoi Stati: «Chi gli portasse, vivo o morto, quel cardellino, riceverebbe per mancia una mula carica d'oro.»

Passarono sei mesi, e non si vide nessuno. Finalmente un giorno si presenta un contadinotto molto male in arnese: "Maestà, lo volete davvero quel cardellino?" Promettetemi la mano della Reginotta, e in men di tre giorni l'avrete. Il Re lo prese per le spalle, e lo messe fuor dell'uscio. Il giorno appresso quegli tornò: "Maestà, lo volete davvero quel cardellino? Promettetemi la mano della Reginotta, e in men di tre giorni l'avrete." Il Re lo prese per le spalle, gli diè una pedata e lo messe fuor dell'uscio. Ma il giorno appresso, quello, cocciuto, ritornava: "Maestà, lo volete davvero il cardellino? Promettetemi la mano della Reginotta, e in men di tre giorni l'avrete." Il Re, stizzito, chiamò una guardia e lo fece condurre in prigione. Intanto ordinava si facesse attorno all'albero una rete di ferro; con quelle sbarre grosse, non c'era più bisogno di sentinella. Ma quando le arance furon mature, una mattina va in giardino; l'arance d'oro non c'eran più.Figuriamoci la sua collera! Dovette, per forza, mettersi d'accordo con quel contadinotto. "Portami vivo il cardellino e la Reginotta sarà tua." "Maestà, fra tre giorni." E prima che i tre giorni passassero era già di ritorno. "Maestà, eccolo qui. La Reginotta ora è mia." Il Re si fece scuro. Doveva dare la Reginotta aquello zoticone? "Vuoi delle gioie? Vuoi dell'oro? Ne avrai finché vorrai. Ma quanto alla Reginotta, nettati la bocca." "Maestà, il patto fu questo." "Vuoi delle gioie? Vuoi dell'oro?" "Tenetevi ogni cosa. Sarà quel che sarà!" E andò via. Il Re disse al cardellino: "Ora che ti ho tra le mani, ti vo' martoriare." Il cardellino strillava, sentendosi strappare le penne ad una ad una. "Dove son riposte le arance d'oro?" "Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò." "Non ti farò più nulla." "Le arance d'oro sono riposte dentro la Grotta delle sette porte. Ma c'è il mercante, col berrettino rosso, che fa la guardia. Bisogna sapere il motto; e lo sanno due soli: il mercante e quel contadino che mi ha preso." Il Re mandò a chiamare il contadino. "Facciamo un altro patto. Vorrei entrare nella Grotta delle sette porte, e non so il motto. Se me lo sveli, la Reginotta sarà tua." "Parola di Re?" "Parola di Re!" "Maestà, il motto è questo:

«Secca risecca!
Apriti, Cecca.»

"Va bene." Il Re andò, disse il motto, e la Grotta s'aperse. Il contadino rimase fuori ad attenderlo. In quella grotta i diamanti, a mucchi per terra, abbagliavano. Vistosi solo, sua Maestà si chinava e se ne riempiva le tasche. Ma nella stanza appresso, i diamanti, sempre a mucchi, eran più grossi e più belli. Il Re si vuotava le tasche, e tornava a riempirsele di questi. Così fino all'ultima stanza, dove, in un angolo, si vedevano ammonticchiate le arance d'oro del giardino reale. C'era lì una bisaccia, e il Re la colmò. Or che sapeva il motto, vi sarebbe ritornato più volte. Uscito fuor della Grotta, colla bisaccia in collo, trovò il contadino che lo attendeva. "Maestà, la Reginotta ora è mia." Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone? "Domanda qualunque grazia e ti verrà concessa. Ma per la Reginotta nettati la bocca." "Maestà, e la vostra parola?" "Le parole se le porta il vento." "Quando sarete al palazzo ve neaccorgerete." Arrivato al palazzo, il Re mette giù la bisaccia e fa di vuotarla. Ma invece di arance d'oro, trova arance marce. Si mette le mani nelle tasche, i diamanti son diventati tanti gusci di lumache! Ah! quel pezzo di contadinaccio gliel'avea fatta! Ma il cardellino la pagava. E tornò a martoriarlo. "Dove sono le mie arance d'oro?" "Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò." "Non ti farò più nulla." "Son lì dove le avete viste; ma per riaverle bisogna conoscere un altro motto, e lo sanno due soli: il mercante e quel contadino che mi ha preso." Il Re lo mandò a chiamare: "Facciamo un altro patto. Dimmi il motto perriprendere le arance e la Reginotta sarà tua." "Parola di Re?" "Parola di Re!" "Maestà il motto è questo:

«Ti sto addosso:
Dammi l'osso.»

"Va bene." Il Re andava e ritornava più volte colla bisaccia colma, e riportava a palazzo tutte le arance d'oro. Allora si presentò il contadino: "Maestà, la Reginotta ora è mia." Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone? "Quello è il tesoro reale: prendi quello che ti piace. Quanto allaReginotta, nettati la bocca." "Non se ne parli più." E andò via. Da che il cardellino era in gabbia, le arance d'oro restavano attaccate all'albero da un anno all'altro.

Un giorno la Reginotta disse al Re: "Maestà, quel cardellino vorrei tenerlo nella mia camera." "Figliuola mia, prendilo pure; ma bada che non ti scappi." Ilcardellino nella camera della Reginotta non cantava più. "Cardellino, perché non canti più?" "Ho il mio padrone che piange." "E perché piange?" "Perché non ha quel che vorrebbe." "Che cosa vorrebbe?" "Vorrebbe la Reginotta. Dice: «Ho lavorato tanto, E le fatiche mie son sparse al vento.»" "Chi è il tuo padrone? Quello zotico?" "Quello zotico, Reginotta, è più Re di Sua Maestà." "Se fosse vero, lo sposerei. Và a dirglielo, e torna subito." "Lo giurate?" "Lo giuro." E gli aperse la gabbia. Ma il cardellino non tornò.

Una volta il Re domandò alla Reginotta: "O il cardellino non canta più? È un bel pezzo che non lo sento." "Maestà, è un pò malato." E il Re s'acchetò. Intanto la povera Reginotta viveva in ambascia: "Cardellino traditore, te e il tuo padrone!" E come s'avvicinava la stagione delle arance, pel timore del babbo, il cuore le diventava piccino piccino. Intanto venne un ambasciatore del Re di Francia che la chiedeva per moglie. Il padre ne fu lieto oltremodo, e rispose subito di sì. Ma la Reginotta: "Maestà, non voglio: vo' rimanere ragazza." Quello montò sulle furie: "Come? Diceva di no, ora che avea impegnato la sua parola e non potea più ritirarla?" "Maestà, le parole se le porta il vento." Il Re non lo potevan trattenere: schizzava fuoco dagli occhi. Ma quella, ostinata: "Non lo voglio! Non lovoglio! Vo' rimanere ragazza." Il peggio fu quando il Re di Francia mandò a dire che fra otto giorni arrivava. Come rimediare con quella figliolaccia caparbia? Dallo sdegno, le legò le mani e i piedi e la calò in un pozzo: "Dì di sì, o ti faccio affogare!" E la Reginotta zitta. Il Re la calò fino a metà. "Dì di sì, o ti faccioaffogare!" E la Reginotta zitta. Il Re la calava più giù, dentro l'acqua; le restava fuori soltanto la testa: "Dì di sì, o ti faccio affogare!" E la Reginotta zitta. "Dovea affogarla davvero?" E la tirò su; ma la rinchiuse in una stanza, a pane ed acqua. La Reginotta piangeva: "Cardellino traditore, te e il tuo padrone! Per mantenere la parola ora patisco tanti guai!" Il Re di Francia arrivò con un gran seguito, e prese alloggio nel palazzo reale. "E la Reginotta? Non vuol farsivedere?" "Maestà, è un pò indisposta." Il Re non sapeva che rispondere, imbarazzato. "Portatele questo regalo." Era uno scatolino tutto d'oro e di brillanti. Ma la Reginotta lo posò lì, senza neppur curarsi d'aprirlo. E piangeva. "Cardellino traditore, te e il tuo padrone!" "Non siamo traditori, né io, né il mio padrone." Sentendosi rispondere dallo scatolino, la Reginotta lo aperse. "Ah, cardellino mio! Quante lagrime ho sparse." "La tua sorte volea così. Ora il destino ècompito." Sua Maestà, conosciuto chi era quel contadino, le diè in dote l'albero che produceva le arance d'oro, e il giorno appresso la Reginotta sposò il Re di Francia. E noi restiamo a grattarci la pancia.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

La lepre d'argento

Post n°603 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

... Un principe chiamato Aquilino, che aveva vent'anni e voleva condurre in moglie la più bella principessa del mondo. Pubblicò un bando di nozze e giunsero centinaia di ritratti, ch'egli fece esporre nelle gallerie del castello; e là meditava sulle belle sorridenti dalle grandi cornici dorate. La scelta cadde su Nazzarena, principessa di Bikarìa, e per mezzo ad ambasciatori furono concertate le nozze. Nel castello di Aquilino si fecero grandi preparativi per la cerimonia e all'alba del giorno sospirato il principe era già sulla torre più alta, alle vedette. Il corteo doveva giungere tra poco; tra poco avrebbe visto per la prima volta quella bellezza famosa. Ma il corteo non giungeva. Si vide apparire una sola carrozza e ne scese un vecchietto gobbuto e barbuto. "Io sono il Re di Bikarìa. E questa è la mia figliuola Nazzarena che chiedete per moglie." La principessa era nana, pallida, vizza, per nulla rassomigliante al ritratto della scelta. Il vecchietto se n'avvide. "La stanchezza del viaggio e l'emozione l'hanno sfinita. Si rimetterà e la ritroverete bella." Aquilino voleva disdire le nozze, ma la parola era data e bisognava mantenerla. Chiese che la cerimonia fosse rimandata di due giorni e ospitò il vecchio e la figlia nel castello.

Al mattino seguente, per distrarsi dallo sconcerto e dalla delusione, uscì a caccia, solo, con una bella spingarda d'oro, costellata di gemme. Camminò per campi e prati, giunse in una foresta millenaria. Attraverso un sentiero gli apparve una lepre d'argento che brucava l'erba e lo guardava fisso, per nulla spaurita di lui. Il principe puntò l'arma e fece fuoco. Ma il fumo del fuoco si dissipò e la lepre riapparve al medesimo posto, incolume e tranquilla. Il principe s'avanzò. La lepre fuggì, si arrestò dopo un tratto, fissandolo coi suoi calmi occhi umani. Aquilino sparò ancora. Il fumo si dileguò e la lepre riapparve ancora calma ed intatta, seduta sulle sue zampe, un orecchio su e l'altro giù, con gli occhi supplichevoli, col muso palpitante, proteso verso di lui. Ma come il principe gettò l'arme e s'avanzò, essa dié un balzo e disparve fra i tronchi degli abeti. Aquilino restò perplesso. Si trattava di un malefizio. S'appoggiò al tronco d'un albero gigantesco, ripensando lo sguardo dolce della vittima invulnerabile. E gli parve di sentire dietro di sé, dall'interno del tronco, una eco lontana di musiche e di voci; si volse, fece il giro dell'albero: nessuno. Si riappoggiò al tronco. E riudì il suono e le voci. Picchiò la corteccia col pugno impaziente. La corteccia cigolò, s'aprì a due battenti, e al principe sbigottito apparve una scala abbagliante. Egli salì i primi scalini, trasognato, udì il colpo della porta che si chiudeva. Il palazzo era immenso. Le scale, gli atrii, i corridoi, le logge, le sale si succedevano senza fine, ricche di marmi, di porfido, di diaspro, di gemme. Aquilino s'avanzava trasognato.

Si faceva notte e nessuno appariva nel palazzo incantato. Solo due mani lo precedevano: l'una recando una lucerna, l'altra facendogli segno di seguirla. Giunsero così in una sala vastissima da pranzo; Aquilino si sedette a tavola. E le due mani cominciarono a recar cibi e vini prelibati. Egli guardava quelle due mani isolate, volanti, cercava di afferrarle quando le aveva vicine, ma quelle deponevano i piatti e guizzavano via come farfalle. Mangiò, poi si sentì prendere dal sonno, s'alzò per andare a dormire. Le due mani lo precedettero in una camera di damasco vermiglio, gli fecero un gesto d'addio e d'augurio, disparvero. Egli si cacciò fra le lenzuola fini, e si addormentò. Sognava di riveder la principessa Nazzarena, non quella condotta dal gobbo barbuto, ma quale gli era apparsa nel quadro, bellissima e bionda. Quand'ecco uno schiamazzo lo svegliò. Socchiuse gli occhi. La stanza era illuminata e molte paia di mani, eguali a quelle della sera prima, guizzavano, s'intrecciavano, accennando verso di lui. "A che giuoco si gioca?" "Alla palla." "Giochiamo alla palla con quel tale che dorme?" "Chi dorme?" "Là, nel letto, non lo vedete?" E attraverso le ciglia socchiuse, il principe vide le mani avvicinarsi. Afferrarono le lenzuola e, tenendole tese agli orli, cominciarono a farlo sbalzare con risa rauche e sibili acuti. Egli teneva le ciglia chiuse, fingendo di dormire. "Non vuole svegliarsi!" "Lo sveglieremo! Lo sveglieremo!" E raddoppiarono la foga del gioco crudele. Al primo canto del gallo le mani lo sbalzarono nel letto e disparvero.

Aquilino si palpava le ossa indolenzite, quando udì un fruscio e si vide accanto la lepre d'argento. Invece delle quattro zampe aveva due piedi e due mani bianchissime di donna. "Principe Aquilino, io sono la principessa Nazzarena, quella che il vostro cuore scelse per compagna. Quando giunsi col mio corteo nel bosco, un mago mi trasformò, imprigionandomi con la mia gente in questo castello. Sarò salva se passerete qui dentro tre notti simili a questa. Il mago è quegli stesso che si presentò al vostro cospetto tentando di farvi sposare la sua nanerottola." La lepre disparve. Aquilino attese ansioso la seconda sera. Mangiò, servito dalle due mani volanti, andò a letto, s'addormentò. Si svegliò allo schiamazzo: molte mani lo ripresero dal letto, sollevarono le lenzuola, cominciarono il gioco, più furenti della sera innanzi. "Non vuole svegliarsi!" "Se non si sveglia siamo perduti!..." Allora le mani lo sbalzarono un'ultima volta, appiccandolo a un chiodo delle travi. E disparvero sibilando. Aquilino aprì gli occhi, vide la lepre d'argento. Aveva ormai tutto il corpo di donna; solo la testa restava di lepre e lo guardava con dolci occhi umani. "Povero principe! Soffrite per amor mio ancora una notte e saremo salvi." Giunse la terza notte. Riapparvero le mani più furiose che mai. "Si gioca?" "Giochiamo!" "Ma questa notte dobbiamo finirlo!" "Dobbiamo finirlo!" E cominciò il rimbalzello crudele. Aquilino giungeva al soffitto, picchiava, restava aderente come una tartina di pasta, ricadeva nel lenzuolo teso, rimbalzava ancora tra le risa infernali. E non apriva gli occhi per amor di Nazzarena. "Non si sveglia! Siamo perduti!" "Siamo perduti!" "È l'alba! Siamo perduti!" Le mani furibonde s'appressarono alla finestra, tesero le lenzuola, sbalzarono Aquilino ad un'altezza vertiginosa.

Egli salì, salì, cadde per dieci minuti, picchiò sull'erba, si tastò le ossa peste, aprì gli occhi, ancora vivo. Si trovava ai piedi dell'albero incantato. Presso di lui stava la sua vera fidanzata Nazzarena, bella di una bellezza mai più vista. E aveva il suo seguito di carrozze, di dame, di cavalieri liberati con lei dal malefizio del mago. Il principe li condusse al suo castello, adunò tutta la Corte nella sala del Gran Consiglio, fece condurre il gobbo barbuto e la figliuola laida, e rivoltosi ai ministri disse: "Avevo ordinato un cofano d'oro e di gemme; un malandrino me lo tolse strada facendo e lo sostituì con un altro di legno tarlato. Fortuna vuole che io ritrovi il primo. A quale darò la preferenza?" "Al primo!" sentenziò la Corte. "E del ladro e del cofano tarlato che dovrò farne?" "Bruciarli sulla stessa catasta!" Così fu fatto. E la sentenza e le nozze ebbero luogo fra gli applausi di tutto il popolo.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Distrazione (Pirandello)

Post n°602 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nero tra il baglior polverulento d’un sole d’agosto che non dava respiro, un carro funebre di terza classe si fermò davanti al portone accostato d’una casa nuova d’una delle tante vie nuove di Roma, nel quartiere dei Prati di Castello.
Potevano esser le tre del pomeriggio.
Tutte quelle case nuove, per la maggior parte non ancora abitate, pareva guardassero coi vani delle finestre sguarnite quel carro nero.
Fatte da così poco apposta per accogliere la vita, invece della vita - ecco qua - la morte vedevano, che veniva a far preda giusto lì.
Prima della vita, la morte.
E se n’era venuto lentamente, a passo, quel carro. Il cocchiere, che cascava a pezzi dal sonno, con la tuba spelacchiata, buttata a sghembo sul naso, e un piede sul parafango davanti, al primo portone che gli era parso accostato in segno di lutto, aveva dato una stratta alle briglie, l’arresto al manubrio della martinicca, e s’era sdraiato a dormire piú comodamente su la cassetta.
Dalla porta dell’unica bottega della via s’affacciò, scostando la tenda di traliccio, unta e sgualcita, un omaccio spettorato, sudato, sanguigno, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia pelose.

- Ps! – chiamò, rivolto al cocchiere. Ahò! Piú là...

Il cocchiere reclinò il capo per guardar di sotto la falda della tuba posata sul naso; allentò il freno; scosse le briglie sul dorso dei cavalli e passò avanti alla drogheria, senza dir nulla.
Qua o là, per lui, era lo stesso.
E davanti al portone, anch’esso accostato della casa piú in là, si fermò e riprese a dormire.

- Somaro! - borbottò il droghiere, scrollando le spalle. - Non s’accorge che tutti i portoni a quest’ora sono accostati. Deve esser nuovo del mestiere.

Così era veramente. E non gli piaceva per nientissimo affatto, quel mestiere, a Scalabrino. Ma aveva fatto il portinajo, e aveva litigato prima con tutti gl’inquilini e poi col padron di casa; il sagrestano a San Rocco, e aveva litigato col parroco; s’era messo per vetturino di piazza e aveva litigato con tutti i padroni di rimessa, fino a tre giorni fa. Ora, non trovando di meglio in quella stagionaccia morta, s’era allogato in una Impresa di pompe funebri. Avrebbe litigato pure con questa - lo sapeva sicuro - perché le cose storte, lui, non le poteva soffrire. E poi era disgraziato, ecco. Bastava vederlo. Le spalle in capo; gli occhi a sportello; la faccia gialla, come di cera, e il naso rosso. Perché rosso, il naso? Perché tutti lo prendessero per ubriacone; quando lui neppure lo sapeva che sapore avesse il vino.

- Puh!

Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l’altro, l’ultima litigata per bene l’avrebbe fatta con l’acqua del fiume, e buona notte.
Per ora là, mangiato dalle mosche e dalla noia, sotto la vampa cocente del sole, ad aspettar quel primo carico. Il morto.
O non gli sbucò, dopo una buona mezz’ora, da un altro portone in fondo, dall’altro lato della via?

- Te possino... (al morto) - esclamò tra i denti, accorrendo col carro, mentre i becchini, ansimanti sotto il peso d’una misera bara vestita di mussolo nero, filettata agli orli di fettuccia bianca, sacravano e protestavano:

- Te possino... (a lui) – e pij n’accidente – O ch’er nummero der portone non te l’aveveno dato?

Scalabrino fece la voltata senza fiatare: aspettò che quelli aprissero lo sportello e introducessero il carico nel carro.

- Tira via!

E si mosse, lentamente, a passo, com’era venuto: ancora col piede alzato sul parafango davanti e la tuba sul naso.
Il carro, nudo. Non un nastro, non un fiore.
Dietro, una sola accompagnatrice.
Andava costei con un velo nero trapunto, da messa, calato sul volto; indossava una veste scura, di mussolo rasato, a fiorellini gialli, e un ombrellino chiaro aveva, sgargiante sotto il sole, aperto e appoggiato su la spalla.
Accompagnava il morto, ma si riparava dal sole con l’ombrellino. E teneva il capo basso, quasi piú per vergogna che per afflizione.

- Buon passeggio, ah Rosi’! - le gridò dietro il droghiere scamiciato, che s’era fatto di nuovo alla porta della bottega. E accompagnò il saluto con un riso sguaiato, scrollando il capo.

L’accompagnatrice si voltò a guardarlo attraverso il telo; alzò la mano col mezzo guanto di filo per fargli un cenno di saluto, poi l’abbassò per riprendersi di dietro la veste, e mostrò le scarpe scalcagnate. Aveva però i mezzi guanti di filo e l’ombrellino, lei.

- Povero sor Bernardo, come un cane, - disse forte qualcuno dalla finestra d’una casa.

Il droghiere guardò in su, seguitando a scrollare il capo. - Un professore, con la sola servaccia dietro... - gridò un’altra voce, di vecchia, da un’altra finestra.
Nel sole, quelle voci dall’alto sonavano nel silenzio della strada deserta, strane.
Prima di svoltare, Scalabrino pensò di proporre all’accompagnatrice di pigliare a nolo una vettura per far piú presto, già che nessun cane era venuto a far coda a quel mortorio.

- Con questo sole... a quest’ora...

Rosina scosse il capo sotto il velo. Aveva fatto giuramento, lei, che avrebbe accompagnato a piedi il padrone fino all’imboccatura di via San Lorenzo.

- Ma che ti vede il padrone? Niente! Giuramento. La vettura, se mai, l’avrebbe presa, lassú, fino a Campoverano. - E se te la pago io? - insistette Scalabrino.

Niente. Giuramento.

Scalabrino masticò sotto la tuba un’altra imprecazione e seguitò a passo, prima per il ponte Cavour, poi per Via Tomacelli e per Via Condotti e per Piazza di Spagna e Via Due Macelli e Capo le Case e Via Sistina.
Fin qui, tanto o quanto, si tenne su, sveglio, per scansare le altre vetture, i tram elettrici e le automobili considerando che a quel mortorio lì nessuno avrebbe fatto largo e portato rispetto.
Ma quando, attraversata sempre a passo Piazza Barberini, imboccò l’erta via di San Niccolò da Tolentino, rialzò il piede sul parafango, si calò di nuovo la tuba sul naso e si riaccomodò a dormire.
I cavalli, tanto, sapevano la via.
I rari passanti si fermavano e si voltavano a mirare, tra stupiti e indignati. Il sonno del cocchiere su la cassetta e il sonno del morto dentro il carro: freddo e nel buio, quello del morto; caldo e nel sole, quello del cocchiere; e poi quell’unica accompagnatrice con l’ombrellino chiaro e il velo abbassato sul volto: tutto l’insieme di quel mortorio, insomma, così zitto zitto e solo solo, a quell’ora bruciata, faceva proprio cader le braccia.
Non era il modo, quello, d’andarsene all’altro mondo! Scelti male il giorno, l’ora, la stagione. Pareva che quel morto lì avesse sdegnato di dare alla morte una conveniente serietà. Irritava. Quasi quasi aveva ragione il cocchiere che se la dormiva.


E così avesse seguitato a dormire Scalabrino fino al principio di Via San Lorenzo! Ma i cavalli, appena superata l’erta svoltando per Via Volturno, pensarono bene d’avanzare un po’ il passo: e Scalabrino si destò.
Ora, destarsi, veder fermo sul marciapiedi a sinistra un signore allampanato, barbuto, con grossi occhiali neri, stremenzito in un abito grigio sorcigno, e sentirsi arrivare in faccia, su la tuba, un grosso involto, fu tutt’uno!
Prima che Scalabrino avesse tempo di riaversi, quel signore s’era buttato innanzi ai cavalli, li aveva fermati e, avventando gesti minacciosi, quasi volesse scagliar le mani, non avendo piú altro da scagliare, urlava, sbraitava:

- A me? a me? mascalzone! canaglia! manigoldo! a un padre di famiglia? a un padre di otto figliuoli? manigoldo! farabutto!

Tutta la gente che si trovava a passare per via e tutti i bottegai e gli avventori s’affollarono di corsa attorno al carro e tutti gl’inquilini delle case vicine s’affacciarono alle finestre, e altri curiosi accorsero, al clamore, dalle prossime vie, i quali, non riuscendo a sapere che cosa fosse accaduto, smaniavano, accostandosi a questo o a quello, e si drizzavano su la punta dei piedi.

- Ma che è stato?

- Uhm... pare che... dice che... non so!

- Ma c’è il morto?

- Dove?

- Nel carro, c’è?

- Uhm!... Chi è morto?

- Gli pigliano la contravvenzione!

- Al morto?

- Al cocchiere...

- E perché?

- Mah!... pare che... dice che...

Il signore grigio allampanato seguitava intanto a sbraitare presso la vetrata d’un caffè, dove lo avevano trascinato; reclamava l’involto scagliato contro il cocchiere; ma non s’arrivava ancora a comprendere perché glielo avesse scagliato. Sul carro, il cocchiere cadaverico, con gli occhi miopi strizzati, si rimetteva in sesto la tuba e rispondeva alla guardia di città che, tra la calca e lo schiamazzo, prendeva appunti su un taccuino.
Alla fine il carro si mosse tra la folla che gli fece largo vociando; ma, come apparve di nuovo, sotto l’ombrellino chiaro, col velo nero abbassato sul volto, quell’unica accompagnatrice - silenzio. Solo qualche monellaccio fischiò.
Che era insomma accaduto?
Niente. Una piccola distrazione. Vetturino di piazza fino a tre giorni fa, Scalabrino, stordito dal sole, svegliato di soprassalto, si era scordato di trovarsi su un carro funebre: gli era parso d’essere ancora su la cassetta d’una botticella e, avvezzo com’era ormai da tanti anni a invitar la gente per via a servirsi del suo legno, vedendosi guardato da quel signore sorcigno fermo lì sul marciapiedi, gli aveva fatto segno col dito, se voleva montare.
E quel signore, per un piccolo segno, tutto quel baccano...

 

Il contenuto di queste pagine proviene, oltre che da con

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Un prete allo sbaraglio

Post n°601 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Rcorderete,cari lettori,che vi avevo lasciati con la notizia che lo scellerato ireneo era stato sostituito da un giovane prete,Pericle Frollocconi,nipote dell'Ildebrando.
Beh,egli non è più fra noi.
Non è morto,no,ma ne ha dovute sopportare così tante in una sola settimana che ha lasciato il nostro ameno paesino.
Ma è meglio che viracconti,così capirete meglio
LUNEDI'- Alle due del mattino hanno telefonato al Frollocconi dicendo che Melchiorre Scozzagalli stava morendo e voleva un prete,
Quando il Pericle,trafelato,è arrivato a casa del vecchiardo,questi,sano come un pesce,gli ha fatto fare il giro del paese a pedate
MARTEDI'- Ale tre del mattino,una serie di furiose scampanellate ha buttato il Pericle giù dal letto.Quando ha aperto,un tizio mascherato gli ha incastrato la testa fra le sbarre del cancello del vicino cimitero.
Lo ha liberato Geremia due ore dopo.
MERCOLEDI'-Qualcuno ha portato via tutte le ruote alla macchina del Frollocconi,che ha dovuto chiedere in prestito la Vespa all'Evaristo.Per disgrazia sua,si sono rotti i freni e il Frollocconi si è ritrovato col farmacista Fetidoni in braccio.I due sono poi finiti nella fontana,dove Baldovino ha tentato di affogare il pretino.
GIOVEDI'- Qualche bello spirito ha fatto 740 telefonate oscene in canonica.Alla 741ma ilPericle,esaseprato,ha risposto con una serie impressionante di parloacce in italiano,inglese,francese,greco,latino,arabo ,hindi e urdu.
Il vescovo Orapronobis non ha affatto gradito lo sfoggio di cultura del nipote.
VENERDI'- Qualcuno oggi ha chiuso il Frollocconi in cantina con 59 puzzole (non chiedetemi come c'erano finite).
Il poveraccio èstato liberato dopo tre ore,vivo per puro miracolo.
SABATO-Qualcuno ha avvisato Be'erino che il Frollocconi nascondeva l'Amalasunta in canonica.
Il povero pretino si ètrovato un energumeno braico,vociante e armato di doppietta.
Finchè non èarrivato Cuccurullo,il poveraccio si è dovuto barricare nel bagno.
DOMENICA- Stamattina all'alba il Frollocconi ha fatto perdere le sue tracce
Sono passate due settimane.
Il Pericle è stato ritrovato due giorni fa sul Gennargentu.Era nudo bruco,sosteneva di essere il figlio di Giovanni Paolo II e della regina Elisabetta e di aver sposato Sharon Stone a Lercara Friddi con rito buddista.
Adesso si trova ricoverato nel reparto casi senza speranza della clinica Luminaris.
Il vescovo Ildebrando è disperato:non trova uno straccio di prete che acconsenta a venire a S.Tobia,manco se minacciato di scomunica in caso di rifiuto.
Aspettando novità passo e chiudo

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Sospiro (Einstein)

Post n°600 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

L'anima verso la tua fronte, o calma sorella,
dove sogna un autunno sparso di macchie di porpora
e verso il cielo errabondo delle tue iridi
angeliche, sale, come in un malinconico
giardino, fedele un bianco zampillo sospira
verso l'Azzurro!
- Verso l'Azzurro raddolcito d'Ottobre
pallido e puro che specchia il suo languore infinito
ai grandi bacini e lascia, sull'acqua morta
dov'erra col vento la fulva agonia delle foglie
scavando un gelido solco, trascinarsi
il sole giallo con obliquo raggio.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Libri dimenticati:Memorie di Agrippina

Post n°599 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Chi era Agrippina Minore,la madre di Nerone?
In questo romanzo Pierre Grimal tenta di rispondere a questa domanda,fornendoci di questa donna controversa un ritratto il più fedele possibile.
Da leggere

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Frase del giorno

Post n°598 pubblicato il 02 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Due sono le grandi tragedie di questo mondo:non ottenere ciò che si desidera e ottenerlo.La seconda è senza dubbio la peggiore (Wilde)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

Archivio messaggi

 
 << Agosto 2011 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 4
 

Ultime visite al Blog

giovirocSOCRATE85comagiusdott.marino.parodisgnudidavidamoreeva0012lutorrelliDUCEtipregotornacrescenzopinadiamond770cdilas0RosaDiMaggioSpinosamaurinofitnessAppaliumador
 

Ultimi commenti

Ciao, serena serata
Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
 
Ciao per passare le tue vacanze vi consigliamo Lampedusa...
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
 
Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
 
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
 
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963