Messaggi del 04/09/2011

Il caro Orlando

Post n°623 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una donna che era una strega e aveva due figlie: una, brutta e cattiva, era la sua figlia; l'altra, buona e bella, era la figliastra. Ed ella tanto amava la prima, quanto odiava la seconda. Un giorno la figliastra aveva un bel grembiule che piaceva all'altra, tanto che quest'ultima,invidiosa, andò dalla madre e disse: “Quel grembiule deve essere mio”. “Stà  tranquilla, bimba mia, lo avrai” disse la vecchia. “La tua sorellastra ha meritato la morte da un pezzo, e questa notte, mentre dorme, verrò a tagliarle la testa. Bada solo di coricarti dietro e spingila ben bene sul davanti.”

La povera fanciulla sarebbe stata perduta se, per caso, non si fosse trovata in un angolo da cui poté sentire tutto. Quando fu l'ora di andare a dormire, lasciò che si coricasse prima la sorella cattiva, e che si mettesse dietro, come desiderava; ma non appena questa fu addormentata, la sollevò e la mise sul davanti vicino al bordo del letto, prendendo il suo posto dall'altra parte. Durante la notte entrò quatta quatta la vecchia: nella mano destra aveva una scure, mentre con la sinistra tastava se c'era qualcuno sul davanti; poi afferrò la scure con ambo le mani e spiccò la testa alla propria figlia. Quando se ne fu andata, la figliastra si alzò, corse dal suo innamorato, che si chiamava Orlando, e bussò alla sua porta. Quand'egli uscì, gli disse: “Ascolta, mio diletto, dobbiamo fuggire più in fretta possibile: la matrigna voleva uccidermi, ma ha colpito sua figlia. Quando si fa giorno e vede ciò che ha fatto, siamo perduti”. Orlando disse: “Però dobbiamo portarle via la bacchetta magica, altrimenti, se c'insegue, non possiamo salvarci”. La fanciulla prese la bacchetta magica, poi afferrò la testa della morta e lasciò cadere a terra tre gocce di sangue, una davanti al letto, una in cucina, una sulla scala. E fuggì con l'innamorato.

Al mattino, quando la strega si alzò, chiamò sua figlia per darle il grembiule, ma quella non venne. Allora gridò: “Dove sei?” “Qui sulla scala che spazzo!” rispose una goccia di sangue. La vecchia uscì ma non vide nessuno sulla scala e gridò di nuovo: “Dove sei?” “Qui in cucina che mi scaldo!” rispose la seconda goccia di sangue. La vecchia andò in cucina, ma non trovò nessuno; allora gridò per la terza volta: “Dove sei?” “Ah, sono qui nel letto che dormo!” disse la terza goccia di sangue. Ella entrò nella camera e si accostò al letto. E cosa vide? Sua figlia era immersa in una pozza di sangue e lei stessa le aveva tagliato la testa. La strega andò su tutte le furie, si precipitò alla finestra e, poiché‚ vedeva assai lontano, scorse la fanciulla che fuggiva con il suo diletto. “Avete già fatto un bel pezzo di strada” gridò “ma non servirà a nulla: vi raggiungerò lo stesso!” Infilò i suoi stivali delle sette leghe e, dopo aver fatto un paio di passi, li aveva già raggiunti. Ma la fanciulla, ben sapendo che li avrebbe inseguiti, con la bacchetta magica trasformò il suo diletto Orlando in un lago e se stessa in un'anitra che nuotava in mezzo al lago. La strega si fermò sulla riva e cercò di attirare l'anitra gettandole briciole di pane; ma essa non si lasciò sedurre e, alla sera, la vecchia dovette tornarsene a casa senza avere concluso nulla. La fanciulla e il suo innamorato ripresero il loro aspetto umano e camminarono tutta la notte, fino allo spuntar del giorno. Allora ella si trasformò in un bel fiore in mezzo a una siepe di spine, e il diletto Orlando in un violinista.

Dopo poco tempo giunse la strega a grandi passi e disse al violinista: “Caro violinista, posso cogliere quel bel fiore?” “Certamente” egli rispose “intanto io suonerò.” E mentre la vecchia si introduceva di furia fra le spine cercando di raggiungere il fiore, che ben conosceva, il violinista si mise a suonare ed ella, volente o nolente, dovette ballare, poiché‚ era una danza incantata. Egli continuò a suonare, e la strega fu costretta a ballare senza posa; le spine le strapparono le vesti di dosso, la punsero e la scorticarono, finché‚ alla fine ella giacque a terra morta. Liberatisi della strega, Orlando disse: “Ora andrò da mio padre a preparare le nozze” “Intanto io resterò qui ad aspettarti” rispose la fanciulla “e perché‚ nessuno mi riconosca, mi voglio tramutare in una pietra rossa.” Così Orlando se ne andò, e la fanciulla rimase nel campo ad aspettarlo, trasformata in pietra rossa. Ma quando Orlando arrivò a casa, fu ammaliato da un'altra e scordò la sua vera fidanzata. La poverina attese a lungo, ma vedendo che non tornava, divenne triste e si tramutò in un fiore pensando che qualcuno l'avrebbe calpestata. Ma avvenne che un pastore pascolasse con le sue pecore in quel campo; scorse il fiore e, poiché‚ era tanto bello, lo colse, lo portò con sé e lo mise nel suo armadio dicendo: “Non ho mai trovato un fiore così bello”. Ma da quel giorno ne capitarono delle belle in casa del pastore! Quando si alzava al mattino, tutte le faccende di casa erano già sbrigate: la stanza era spazzata e spolverata, il fuoco acceso, il secchio riempito al suo posto; e a mezzogiorno, quando rincasava, in tavola era già servito un bel pranzetto. Egli non capiva come fosse possibile, poiché‚ non vedeva mai anima viva; e anche se gli piaceva essere servito così bene, finì con l'impaurirsi e andò a chiedere consiglio a un'indovina.

Ella disse: “C'è sotto una magia: domani mattina, all'alba, guarda bene se non si muove nulla nella stanza; se vedi qualcosa, buttaci sopra in fretta un panno bianco: l'incanto si romperà”.

Il pastore fece come gli era stato detto, e il mattino seguente vide aprirsi l'armadio e uscirne il fiore. D'un balzo egli vi gettò sopra un panno bianco. Subito cessò la magia: davanti a lui c'era una bella fanciulla, colei che si era presa cura della sua casa. Ed era tanto bella che il pastore le domandò se voleva diventare la sua sposa, ma ella rifiutò perché‚ voleva rimanere fedele al diletto Orlando; tuttavia promise di non andar via e di continuare a occuparsi della casa.

Intanto si avvicinava il giorno in cui Orlando doveva maritarsi e, secondo un'antica usanza, furono avvertite tutte le ragazze del paese, perché‚ si presentassero a cantare in onore degli sposi. La fedele fanciulla, quando udì che il suo diletto Orlando stava per sposare un'altra, si rattristò tanto che credette le si spezzasse il cuore, e non voleva andarci; ma alla fine vi fu costretta. Quando toccò a lei cantare, si tirò indietro, finché‚ si trovò a essere l'ultima; allora non poté più sottrarsi e cantò. Ma all'udirla Orlando saltò in piedi e gridò: “Questa è la vera sposa e non ne voglio altra!” Egli l'aveva riconosciuta dalla voce, e tutto ciò che aveva dimenticato gli era ritornato in cuore. Così la fanciulla fedele sposò il suo diletto Orlando, e il dolore si mutò in gioia.

 
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Il raccontafiabe

Post n°622 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un povero diavolo, che aveva fatto tutti i mestieri e non era riuscito in nessuno. Un giorno gli venne l'idea di andare attorno, a raccontare fiabe ai bambini. Gli pareva un mestiere facile, da divertircisi anche lui. Perciò si mise in viaggio, e la prima città che incontrò, cominciò a gridare per le vie: "Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentir le fiabe?" I bambini accorsero da tutte le parti, e gli fecero ressa attorno. Lui cominciò: "C'era una volta un Re e una Regina, che non avevano figliuoli, e facevano voti e pellegrinaggi..." "To'! Questa la sappiamo a mente," dissero i bambini "è la fiaba della Bella addormentata nel bosco. Un'altra! Un'altra!" "Ve ne dirò un'altra." E cominciò: "C'era una volta una bambina, che aveva la mamma matta e la nonna più matta di lei. La nonna le fece un cappuccetto rosso..." "To'! Questa la sappiamo a mente: è la fiaba di Cappuccetto rosso." "Un'altra! Un'altra!" Quel povero diavolo, un po' seccato, cominciò da capo: "C'era una volta un signore che aveva una figliuola. Gli era morta la moglie e ne aveva presa un'altra, vedova con due figlie..." "To'! È la fiaba di Cenerentola. Sappiamo a mente anche questa." E visto che era buono a raccontare soltanto fiabe vecchie, i bambini gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo. Partì e andò in un'altra città. E, appena arrivato, si messe a gridare per le vie: "Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe?" I bambini accorsero da tutte le parti e gli fecero ressa attorno. Ma non cominciava una fiaba, che quelli non urlassero tosto: "La sappiamo! La sappiamo!" E visto che era buono a raccontare soltanto fiabe vecchie, gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo. Quando ebbe provato più volte e sempre con lo stesso cattivo successo, quel povero diavolo si perdette d'animo, e non sapeva più dove dare di capo. Angustiato, si mise a camminare senza sapere dove lo portassero i piedi, e si trovò in mezzo a un bosco. Sopravvenuta la notte, si stese sull'erba, sotto un albero, per dormire; ma non poté chiuder occhio: aveva una gran paura. Gli pareva che le piante, collo stormire delle fronde, parlassero sotto voce fra loro; gli pareva che le bestie e gli uccelli notturni, con quei loro strani gridi e canti, tramassero qualche cosa contro di lui. Il cuore gli batteva forte nel petto, e non vedeva l'ora che fosse giorno. Alla mezzanotte in punto, che vede? Vede una gran luce pel bosco, e da ogni pianta sbucava gente che rideva, che cantava, che ballava; e intanto da tutte le parti venivano rizzate prestamente tante bellissime tende e tavole piene di cose non mai viste, che luccicavano più dell'oro. S'accòrse di essere capitato in mezzo alla fiera delle Fate; si fece coraggio e si levò. Avea pensato: ' Le Fate debbono vendere anche delle belle fiabe, nuove di zecca: vo' veder di comprarle. ' E accostatosi a una che vendeva roba sotto una ricca tenda là vicino, le disse: "Ci avete fiabe nuove?" "Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme." Poco persuaso di questa risposta, andò da un'altra Fata che teneva in mostra sulla tavola e nei barattoli tante bellissime cose, che la prima non aveva: "Ci avete fiabe nuove?" "Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme." E due! Girò attorno un altro pezzo, osservando qua e là; e come vide una tenda, che gli parve la più ricca di tutte, si accostò alla Fata venditrice e le domandò timidamente: "Ci avete fiabe nuove?" "Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme." E tre! Vedendolo rimasto male, quella Fata gli disse: "Sapete, quell'uomo, che dovreste voi fare? Dovreste andare dal mago Tre-Pi che n'ha pieni i magazzini." "E dove si trova cotesto mago Tre-Pi?" "Lontan lontano, fra' suoi boschi di aranci." Prima dell'alba, la fiera finì. Le Fate, le tende, ogni cosa disparve; e quel povero diavolo si trovò solo in mezzo al bosco, e non sapeva se fosse stato sveglio o pure avesse sognato.

Cammina, cammina, incontrò un viandante: "Compare, sapreste dirmi dove sono i boschi di aranci del mago Tre-Pi?" "Andate avanti, sempre avanti." Cammina, cammina, incontrò una vecchia: "Comare, sapreste dirmi dove sono i boschi di aranci del mago Tre Pi?" "Andate avanti, sempre avanti." Non si arrivava mai! Finalmente, ecco i boschi di aranci. Ma c'erano i muri attorno, e si doveva entrare da un piccolo cancello guardato da un mastino. "Chi cerchi da questa parte?" gli domandò il mastino. "Cerco il mago Tre-Pi." "È fuori: aspetta." Ed ecco, sul tardi, il mago Tre-Pi, nero come il pepe, con una barbona nera e certi occhi neri che schizzavano fuoco. "Ah, buon mago Tre-Pi, dovreste farmi un favore!" "Parla, che cosa vuoi?" "Vorrei delle fiabe nuove. Voi, che ne avete dei magazzini, dovreste darmene qualcuna." "Fiabe nuove non ce n'è più: se n'è perduto il seme. Di quelle che ho io tu non sapresti che fartene. E poi, servono a me, per conservarle imbalsamate. Vuoi vederle?" E lo condusse dentro, nei magazzini. C'erano tutte le fiabe del mondo, situate nei cassetti fatti a posta, classate e numerate; e il mago Tre-Pi gli guardava sempre le mani, per paura che quello non gliene portasse via qualcuna. "Ma non c'è proprio verso di poterne trovare delle nuove?" "Le nuove," rispose il mago "forse le sa una vecchia Fata, fata Fantasia: ma non vuol dirle a nessuno. Vive sola in una grotta, e bisognerebbe andarci in compagnia della Bella addormentata nel bosco, di Cappuccetto rosso, di Cenerentola, di Pelosina, di Pulcettino e simil gente. Prova; però ti dico che è fatica sprecata." "Non importa; proverò."

Tornò addietro e andò dalla Bella addormentata nel bosco: "O Bella addormentata, vi prego, venite con me." "Volentieri." "O Cappuccetto rosso, ti prego, vieni con me." "Volentieri." "O buona Cenerentola, ti prego, vieni con me." "Volentieri." Insomma li radunò tutti, e si misero in via. Quelli sapevano il posto della grotta dove la vecchia Fata viveva rinchiusa, e ve lo condussero facilmente. Picchiarono all'uscio. "Chi siete?" "Siamo noi." Fata Fantasia li riconobbe alla voce, e venne ad aprire. "Che cosa volete? E chi è costui? Temerario, come osi di venire da me!" E voleva scacciarlo via. Quelli la rabbonirono e le esposero il motivo della loro venuta: "Questo povero disgraziato ha tentato tutti i mestieri e non è riuscito in nessuno. Si era anche messo a fare il racconta-fiabe; ma i bambini, che già sanno a mente le nostre storie, ora vorrebbero delle fiabe nuove, e non gli prestano attenzione. Bella fata Fantasia, aiutatelo voi!" "Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme." "Bella fata Fantasia, aiutatemi voi!" Sentendosi pregare colle lagrime agli occhi, fata Fantasia s'intenerì: "Vado e vengo." Rientrò nella grotta, e dopo un pezzetto, ricomparve col grembiule ricolmo: "Tieni; con questa roba forse ti riescirà." E gli diede una stiacciata, un'arancia d'oro, un ranocchino, una serpicina, un uovo nero, tre anelli, insomma tante cose strane. "Che debbo farne?" "Portali teco e vedrai."

Ringraziò, tutto contento, accompagnò quegli altri alle case loro e, la prima città che incontrò, si messe a gridare per la via: "Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe?" I bambini accorsero da tutte le parti e gli fecero ressa attorno. Lui prese la stiacciata in mano e cominciò: "C'era una volta..." Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma, aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l'avesse saputa a mente da gran tempo. E fu la fiaba di Spera di sole. La fiaba piacque ai bambini: "Un'altra! Un'altra!" E quello, preso a caso uno dei regali della Fata, che portava seco in una borsa, cominciò: "C'era una volta..." Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma, aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l'avesse saputa a mente da gran tempo. E raccontò la fiaba di Ranocchino, porgi il ditino. La fiaba piacque ai bambini: "Un'altra! Un'altra!" E così di seguito; ne raccontò più di una dozzina, e lui ci si divertiva più dei bambini. Poi andò in un'altra città: "Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe?" E ricominciò da capo. I bambini contentissimi. Ma, infine, erano sempre quelle: Spera di sole, Ranocchino, Cecina, Il cavallo di bronzo, Serpentina, Testa-di-rospo ... Sicché, all'ultimo, i bambini si seccarono, e appena cominciava: «C'era una volta...» lo interrompevano: "La sappiamo, la sappiamo a mente!" Che cosa farne di quelle fiabe, ora che i bambini non volevano più sentirle, perché le sapevano tutte a mente? Pensò di regalarle al mago Tre-Pi, per metterle nei cassetti, colle altre fiabe imbalsamate. E andò a trovarlo. Al cancello c'era il solito mastino: "Chi cerchi da queste parti?" "Cerco il mago Tre-Pi." "È fuori: aspetta." Sul tardi, ecco il mago Tre-Pi, nero come il pepe, col suo barbone nero e quei suoi occhi neri che schizzavano fuoco: "Sei tornato di nuovo? Che vuoi da me?" "Nulla, buon Mago; vengo anzi a farvi un regalo. Queste son fiabe nuove e nei vostri cassetti non ce le avete. Ora che tutti i bambini le sanno a mente, ho pensato di regalarvele per metterle insieme colle altre imbalsamate." "Ah, sciocco! Sciocco!" rispose il Mago. "Non vedi che cosa hai in mano?" Il racconta-fiabe guardò: aveva in mano un pugno di mosche! E tornò addietro scornato, e di fiabe non ne volle più sapere. Perciò si conchiude:

Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme! Come e perché, cari bambini, lo saprete facilmente quando sarete più grandi.

 
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La leggenda di Colapesce

Post n°621 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nicola fu l'ultimo dei numerosi fratelli: viveva con la sua famiglia a Messina, in una capanna vicino al mare e fin da fanciullo prese dimestichezza con le onde. Quando crebbe e divenne un ragazzo svelto e muscoloso, la sua gioia era d'immergersi profondamente nell'acqua e, quando vi si trovava dentro, si meravigliava anche lui come non sentisse il bisogno di ritornare alla superficie se non dopo molto tempo. Poteva rimanere sott'acqua per ore e ore, e quando tornava su, raccontava alla madre quello che aveva visto: dimore sottomarine di città antichissime inghiottite dai flutti, grotte piene di meravigliose fosforescenze, lotte feroci di pesci giganti, foreste sconfinate di coralli e cosi via. La famiglia, a sentire queste meraviglie, lo prendeva per esaltato; ma, insistendo egli a restar fuori di casa, senza aiutare i suoi fratelli nella dura lotta per il pane, e vedendo che egli passava veramente il suo tempo dentro le onde e sotto il mare, come un altro se ne sarebbe andato a passeggiare per i campi, si preoccupò e cercava di scacciare quei pensieri strani dalla testa del figliuolo. Cola amava tanto il mare e per conseguenza voleva bene anche ai pesci: si disperava a vederne le ceste piene che portavano a casa i suoi fratelli, ed una volta che vi trovò dentro una murena ancora viva, corse a gettarla nel mare. Essendosi la madre accorta della cosa, lo rimbrottò acerbamente: "Bel mestiere che sai fare tu! Tuo padre e i tuoi fratelli faticano per prendere il pesce e tu lo ributti nel mare! Peccato mortale è questo, buttare via la roba del Signore. Se tu non ti ravvedi, possa anche tu diventare pesce." Quando i genitori rivolgono una grave parola ai figli, Iddio ascolta ed esaudisce. Così doveva succedere per Nicola. Sua madre tentò di tutto per distoglierlo dal mare, e credendolo stregato, si rivolse a santi uomini di religione. Ma i loro saggi consigli a nulla valsero. Cola seguitò a frequentare il mare e spesso restava lontano giorni e giorni, perché aveva trovato un modo assai comodo per fare lunghi viaggi senza fatica: si faceva ingoiare da certi grossi pesci ch'egli trovava nel mare profondo e, quando voleva, spaccava loro il ventre con un coltello e cosi si ritrovava fuori, pronto a seguitare le sue esplorazioni. Una volta egli tornò dal fondo recando alcune monete d'oro e cosi continuò per parecchio tempo, finché ebbe ricuperato il tesoro di un'antica nave affondata in quel luogo.

La sua fama crebbe tanto, che quando venne a Messina l'imperatore Federico, questi volle conoscere immediatamente lo strano essere mezzo uomo e mezzo pesce. Egli si trovava su di una nave al largo, quando Cola fu ammesso alla sua presenza. "Voglio esperimentare" gli disse l'Imperatore, "quello che sai fare. Getto questa coppa d'oro nel mare; tu riportamela." "Una cosa da niente, maestà" fece Cola, e si gettò elegantemente nelle onde. Di lì a poco egli tornò a galla con la coppa d'oro nella destra. Il sovrano fu cosi contento che regalò a Cola il prezioso oggetto e lo invitò a restare con lui.

Un giorno gli disse: "Voglio sapere com'è fatto il fondo del mare e come vi poggia sopra l'isola di Sicilia." Cola s'immerse, stette via parecchio tempo; e quando tornò, informò l'Imperatore. "Maestà,"disse, "tre sono le colonne su cui poggia la nostra isola: due sono intatte e forti, l'altra è vacillante, perché il fuoco la consuma, tra Catania e Messina." Il sovrano volle sapere com'era fatto questo fuoco e ne pretese un poco per poterlo vedere. Cola rispose che non poteva portar il fuoco nelle mani; ma il sovrano si sdegnò e minacciò oscuri castighi. "Confessalo, Cola, tu hai paura." "Io paura?" ribatté il giovane, "anche il fuoco vi porterò. Tanto, una volta o l'altra, bisogna ben morire. Se vedrete salire alla superficie delle acque una macchia di sangue, vuol dire che non tornerò più su." Si gettò a capofitto nel mare, e la gente stava, ad attendere col cuore diviso tra la speranza e la paura. Dopo una lunga inutile attesa, si vide apparire una macchia di sangue. Cola era disceso fino al fondo, dove l'acqua prende i riflessi del fuoco, e poi più avanti dove ribolle, ricacciando via tutti i pesci: che cosa successe laggiù? Non si sa: Cola non riapparve mai più. Qualcuno sostiene ch'egli non è morto e che è restato in fondo al mare, perché si era accorto che la terza colonna su cui poggia la Sicilia stava per crollare e la volle sostenere, cosi come la sostiene tuttora.

Ci sono anche di quelli che dicono che Cola tornerà in terra quando fra gli uomini non vi sarà, nessuno che soffra per dolore o per castigo.

 
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Con altri occhi (Pirandello)

Post n°620 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Dall'ampia finestra, aperta sul giardinetto pensile della casa, si vedeva come posato sull'azzurro vivo della fresca mattina un ramo di mandorlo fiorito, e si udiva, misto al reco quatto chioccolio della vaschetta in mezzo al giardino, lo scampanio festivo delle chiese lontane e il garrire delle rondini ebbre d'aria e di sole.
Nel ritrarsi dalla finestra sospirando, Anna s'accorse che il marito quella mattina s'era dimenticato di guastare il letto, come soleva ogni volta, perché i servi non s'avvedessero che non s'era coricato in camera sua. Poggiò allora i gomiti sul letto non toccato, poi vi si stese con tutto il busto, piegando il bel capo biondo sui guanciali e socchiudendo gli occhi, come per assaporare nella freschezza del lino i sonni che egli soleva dormirvi. Uno stormo di rondini sbalestrate guizzarono strillando davanti alla finestra. ,

– Meglio se ti fossi coricato qui, – mormorò tra sé, e si rialzò stanca.

Il marito doveva partire quella sera stessa, ed ella era entrata nella camera di lui per preparargli l'occorrente per il viaggio.
Nell'aprire l'armadio, sentì come uno squittio nel cassetto interno e subito si ritrasse, impaurita. Tolse da un angolo della camera un bastone dal manico ricurvo e, tenendosi stretta alle gambe la veste, prese il bastone per la punta e si provò ad aprire con esso, così discosta, il cassetto. Ma, nel tirare, invece del cassetto, venne fuori agevolmente dal bastone una lucida lama insidiosa. Non se l'aspettava; n'ebbe ribrezzo e si lasciò cadere di mano il fodero dello stocco.
In quel punto, un altro squittio la fece voltare di scatto, in dubbio se anche il primo fosse partito da qualche rondine guizzante davanti alla finestra.
Scostò con un piede l'arma sguainata e trasse in fuori tra i due sportelli aperti il cassetto pieno d'antichi abiti smessi del marito. Per improvvisa curiosità si mise allora a rovistare in esso e, nel riporre una giacca logora e stinta, le avvenne di tastare negli orli sotto il soppanno come un cartoncino, scivolato lì dalla tasca in petto sfondata; volle vedere che cosa fosse quella carta caduta lì chi sa da quanti anni e dimenticata; e così per caso Anna scoprì il ritratto della prima moglie del marito.
Impallidendo, con la vista intorbidata e il cuore sospeso, corse alla finestra, e vi rimase a lungo, attonita, a mirare l'immagine sconosciuta, quasi con un senso di sgomento.
La voluminosa acconciatura del capo e la veste d'antica foggia non le fecero notare in prima la bellezza di quel volto; ma appena poté coglierne le fattezze, astraendole dall'abbigliamento che ora, dopo tanti anni, appariva goffo, e fissarne specialmente gli occhi, se ne sentì quasi offesa e un impeto d'odio le balzò dal cuore al cervello: odio di postuma gelosia; l'odio misto di sprezzo che aveva provato per colei nell'innamorarsi dell'uomo ch'era adesso suo marito, dopo undici anni dalla tragedia coniugale che aveva distrutto d'un colpo la prima casa di lui.
Anna aveva odiato quella donna non sapendo intendere come avesse potuto tradire l'uomo ora da lei adorato e, in secondo luogo, perché i suoi parenti s'erano opposti al matrimonio suo col Brivio, come se questi fosse stato responsabile dell'infamia e della morte violenta della moglie infedele.
Era lei, sì, era lei, senza dubbio! la prima moglie di Vittore: colei che s'era uccisa!

Ne ebbe la conferma dalla dedica scritta sul dorso del ritratto: Al mio Vittore, Almira sua – 11 Novembre 1873.
Anna aveva notizie molto vaghe della morta: sapeva soltanto che il marito, scoperto il tradimento, l'aveva costretta, con l'impassibilità di un giudice, a togliersi la vita.
Ora ella si richiamò con soddisfazione alla mente questa condanna del marito, irritata da quel «mio» e da quel «sua» della dedica, come se colei avesse voluto ostentare così la strettezza del legame che reciprocamente aveva unito lei e Vittore, unicamente per farle dispetto.
A quel primo lampo d'odio, guizzato dalla rivalità per lei sola ormai sussistente, seguì nell'anima di Anna la curiosità femminile di esaminare i lineamenti di quel volto, ma quasi trattenuta dalla strana costernazione che si prova alla vista di un oggetto appartenuto a qualcuno tragicamente morto; costernazione ora piú viva, ma a lei non ignota, poiché n'era compenetrato tutto il suo amore per il marito appartenuto già a quell'altra donna.
Esaminandone il volto, Anna notò subito quanto dissomigliasse dal suo; e le sorse a un tempo dal cuore la domanda, come mai il marito che aveva amato quella donna, quella giovinetta certo bella per lui, si fosse poi potuto innamorare di lei così diversa.
Sembrava bello, molto piú bello del suo anche a lei quel volto che, dal ritratto, appariva bruno. Ecco: e quelle labbra si erano congiunte nel bacio alle labbra di lui; ma perché mai agli angoli della bocca quella piega dolorosa? e perché così mesto lo sguardo di quegli occhi intensi? Tutto il volto spirava un profondo cordoglio; e Anna ebbe quasi dispetto della bontà umile e vera che quei lineamenti esprimevano, e quindi un moto di repulsione e di ribrezzo, sembrandole a un tratto di scorgere nello sguardo di quegli occhi la medesima espressione degli occhi suoi allorché, pensando al marito, ella si guardava nello specchio, la mattina, dopo essersi acconciata.
Ebbe appena il tempo di cacciarsi in tasca il ritratto: il marito si presentò, sbuffando, sulla soglia della camera.

– Che hai fatto? Al solito? Hai rassettato? Oh povero me! Ora non trovo piú nulla!

Vedendo poi lo stocco sguainato per terra:

– Ah! Hai anche tirato di scherma con gli abiti dell'armadio?

E rise di quel riso che partiva soltanto dalla gola, quasi qualcuno gliel'avesse vellicata; e, ridendo così, guardò la moglie, come se domandasse a lei il perché del suo proprio riso. Guardando, batteva di continuo le palpebre celerissimamente su gli occhietti cauti, neri, irrequieti.
Vittore Brivio trattava la moglie come una bambina non d'altro capace che di quell'amore ingenuo e quasi puerile di cui si sentiva circondato, spesso con fastidio, e al quale si era proposto di prestar solo attenzione di tempo in tempo, mostrando anche allora una condiscendenza quasi soffusa di lieve ironia, come se volesse dire: « Ebbene, via! per un po' diventerò anch'io bambino con te: bisogna fare anche questo, ma non perdiamo troppo tempo! ».
Anna s'era lasciata cadere ai piedi la vecchia giacca in cui aveva trovato il ritratto. Egli la raccattò infilzandola con la punta dello stocco, poi chiamò dalla finestra nel giardino il servotto che fungeva anche da cocchiere e che in quel momento attaccava al biroccio il cavallo. Appena il ragazzo si presentò in maniche di camicia nel giardino davanti alla finestra, il Brivio gli buttò in faccia sgarbatamente la giacca infilzata, accompagnando l'elemosina con un: « Tieni, è per te ».

– Così avrai meno da spazzolare – aggiunse, rivolto alla moglie, – e da rassettare, speriamo!

E di nuovo emise quel suo riso stentato battendo piú e piú volte le pàlpebre.
Altre volte il marito s'era allontanato dalla città e non per pochi giorni soltanto, partendo anche di notte come quella volta; ma Anna, ancora sotto l'impressione della scoperta di quel ritratto, provò una strana paura di restar sola, e lo disse, piangendo, al marito.
Vittore Brivio, frettoloso nel timore di non fare a tempo e tutto assorto nel pensiero dei suoi affari, accolse con mal garbo quel pianto insolito della moglie.

– Come! Perché? Via, via, bambinate!

E andò via di furia, senza neppur salutarla.
Anna sussultò al rumore della porta ch'egli si chiuse dietro con impeto; rimase col lume in mano nella saletta e sentì raggelarsi le lagrime negli occhi. Poi si scosse e si ritirò in fretta nella sua camera, per andar subito a letto.
Nella camera già in ordine ardeva il lampadino da notte.

– Va' pure a dormire – disse Anna alla cameriera che la attendeva. – Fo da me. Buona notte.

Spense il lume, ma invece di posarlo, come soleva, su la mensola, lo posò sul tavolino da notte, presentendo – pur contro la propria volontà – che forse ne avrebbe avuto bisogno piú tardi. Cominciò a svestirsi in fretta, tenendo gli occhi fissi a terra, innanzi a sè. Quando la veste le cadde attorno ai piedi, pensò che il ritratto era là e con viva stizza si sentì guardata e commiserata da quegli occhi dolenti, che tanta impressione le avevano fatto. Si chinò risolutamente a raccogliere dal tappeto la veste e la posò senza ripiegarla, su la poltrona a piè del letto, come se la tasca che nascondeva il ritratto e il viluppo della stoffa dovessero e potessero impedirle di ricostruirsi l'immagine di quella morta.
Appena coricata, chiuse gli occhi e s'impose di seguire col pensiero il marito per la via che conduceva alla stazione ferroviaria. Se l'impose per astiosa ribellione al sentimento che tutto quel giorno l'aveva tenuta vigile a osservare, a studiare il marito. Sapeva donde quel sentimento le era venuto e voleva scacciarlo da sé.
Nello sforzo della volontà, che le produceva una viva sovreccitazione nervosa, si rappresentò con straordinaria evidenza la via lunga, deserta nella notte, rischiarata dai fanali verberanti il lume tremulo sul lastrico che pareva ne palpitasse: a piè d'ogni fanale, un cerchio d'ombra; le botteghe, tutte chiuse; ed ecco la vettura che conduceva Vittore. Come se l'avesse aspettata al varco, si mise a seguirla fino alla stazione: vide il treno lugubre, sotto la tettoja a vetri; una gran confusione di gente in quell'interno vasto, fumido, mal rischiarato, cupamente sonoro: ecco, il treno partiva; e, come se veramente lo vedesse allontanare e sparire nelle tenebre, rientrò d'un subito in sè, aprì gli occhi nella camera silenziosa e provò un senso angoscioso di vuoto, come se qualcosa le mancasse dentro.
Sentì allora confusamente, smarrendosi, che da tre anni forse, dal momento in cui era partita dalla casa paterna, ella era in quel vuoto, di cui ora soltanto cominciava ad assumere coscienza. Non se n'era accorta prima, perché lo aveva riempito solo di sè, del suo amore, quel vuoto; se ne accorgeva ora, perché in tutto quel giorno aveva tenuto quasi sospeso il suo amore, per vedere, per osservare, per giudicare.

«Non mi ha neppure salutata!» pensò; e si mise a piangere di nuovo, quasi che questo pensiero fosse determinatamente la cagione del pianto.
Sorse a sedere sul letto: ma subito arrestò la mano tesa, nel levarsi, per prendere dalla veste il fazzoletto. Via, era ormai inutile vietarsi di rivedere, di riosservare quel ritratto! Lo prese. Riaccese il lume.
Come se la era raffigurata diversamente quella donna! Contemplandone ora la vera effigie, provava rimorso dei sentimenti che la immaginaria le aveva suggeriti. Si era raffigurata una donna, piuttosto grassa e rubiconda, con gli occhi lampeggianti e ridenti, inclinata al riso, agli spassi volgari. E invece, ora, eccola: una giovinetta che dalle pure fattezze spirava un'anima profonda e addolorata; diversa sì, da lei, ma non nel senso sguajato di prima: al contrario, anzi quella bocca pareva non avesse dovuto mai sorridere, mentre la sua tante volte e lietamente aveva riso; e certo, se bruno quel volto (come dal ritratto appariva), di un'aria men ridente del suo, biondo e roseo.
Perché, perché così triste?
Un pensiero odioso le balenò in mente, e subito staccò gli occhi dall'immagine di quella donna, scorgendovi d'improvviso un'insidia non solo alla sua pace, al suo amore che pure in quel giorno aveva ricevuto piú d'una ferita, ma anche alla sua orgogliosa dignità di donna onesta che non s'era mai permesso neppure il piú lontano pensiero contro il marito. Colei aveva avuto un amante! E per lui forse era così triste, per quell'amore adultero, e non per il marito!
Buttò il ritratto sul comodino e spense di nuovo il lume, sperando di addormentarsi, questa volta, senza pensare piú a quella donna, con la quale non poteva aver nulla di comune. Ma, chiudendo le palpebre, rivide subito, suo malgrado, gli occhi della morta, e invano cercò di scacciare quella vista.

– Non per lui, non per lui! – mormorò allora con smaniosa ostinazione, come se, ingiuriandola, sperasse di liberarsene.

E si sforzò di richiamare alla memoria quanto sapeva intorno a quell'altro, all'amante, costringendo quasi lo sguardo e la tristezza di (negli occhi a rivolgersi non piú a lei, ma all'antico amante, di cui ella conosceva soltanto il nome: Arturo Valli. Sapeva che costui aveva sposato qualche anno dopo, quasi a provare ch'era innocente della colpa che gli voleva addebitare il Brivio di cui aveva respinto energicamente la sfida, protestando che non si sarebbe mai battuto con un pazzo assassino. Dopo questo rifiuto, Vittore aveva minacciato di ucciderlo ovunque lo avesse incontrato, foss'anche in chiesa; e allora egli era andato via con la moglie dal paese, nel quale era poi ritornato, appena Vittore, riammogliatosi, se n'era partito.
Ma dalla tristezza di questi avvenimenti da lei rievocati, dalla viltà del Valli e, dopo tanti anni, dalla dimenticanza del marito, il quale, come se nulla fosse stato, s'era potuto rimettere nella vita e riammogliare, dalla gioja che ella stessa aveva provato nel divenir moglie di lui, da quei tre anni trascorsi da lei senza mai un pensiero per quell'altra, inaspettatamente un motivo di compassione per costei s'impose ad Anna spontaneo; ne rivide viva l'immagine, ma come da lontano lontano, e le parve che con quegli occhi, intensi di tanta pena, colei le dicesse, tentennando lievemente il capo:

– Io sola però ne son morta! Voi tutti vivete!

Si vide, si sentì sola nella casa: ebbe paura. Viveva, sì, lei; ma da tre anni, dal giorno delle nozze, non aveva piú riveduto, neanche una volta, i suoi genitori, la sorella. Lei che li adorava, e ch'era stata sempre con loro docile e confidente, aveva potuto ribellarsi alla loro volontà, ai loro consigli per amore di quell'uomo; per amore di quell'uomo s'era mortalmente ammalata e sarebbe morta, se i medici non avessero indotto il padre a condiscendere alle nozze. Il padre aveva ceduto, non consentendo, però, anzi giurando che ella per lui, per la casa, dopo quelle nozze, non sarebbe piú esistita. Oltre alla differenza di età, ai diciotto anni che il marito aveva piú di lei, ostacolo piú grave per il padre era stata la posizione finanziaria di lui soggetta a rapidi cambiamenti per le imprese rischiose a cui soleva gettarsi con temeraria fiducia in se stesso e nella fortuna.
In tre anni di matrimonio Anna, circondata da agi, aveva potuto ritenere ingiuste o dettate da prevenzione contraria le considerazioni della prudenza paterna, quanto alle sostanze del marito, nel quale del resto ella, ignara, riponeva la medesima fiducia che egli in se stesso; quanto poi alla differenza d'età, finora nessun argomento manifesto di delusione per lei o di meraviglia per gli altri, poiché dagli anni il Brivio non risentiva il minimo danno né nel corpo vivacissimo e nervoso, né tanto meno poi nell'animo dotato d'infaticabile energia, d'irrequieta alacrità.
Di ben altro Anna, ora per la prima volta, guardando (senza neppur sospettarlo) nella sua vita con gli occhi di quella morta, trovava da lagnarsi del marito. Sì, era vero: della noncuranza quasi sdegnosa di lui ella si era altre volte sentita ferire; ma non mai come quel giorno; e ora per la prima volta si sentiva così angosciosamente sola, divisa dai suoi parenti, i quali le pareva in quel momento la avessero abbandonata lì, quasi che, sposando il Brivio, avesse già qualcosa di comune con quella morta e non fosse piú degna d'altra compagnia. E il marito che avrebbe dovuto consolarla, il marito stesso pareva non volesse darle alcun merito del sacrifizio ch'ella gli aveva fatto del suo amore filiale e fraterno, come se a lei non fosse costato nulla, come se a quel sacrifizio egli avesse avuto diritto, e per ciò nessun dovere avesse ora di compensarnela. Diritto, sì, ma perché lei se ne era così perdutamente innamorata allora; dunque il dovere per lui adesso di compensarla. E invece...

Sempre così! – parve ad Anna di sentirsi sospirare dalle labbra dolenti della morta.

Riaccese il lume e di nuovo, contemplando l'immagine. fu attratta dall'espressione di quegli occhi. Anche lei dunque, davvero, aveva sofferto per lui? anche lei, anche lei, accorgendosi di non essere amata, aveva sentito quel vuoto angoscioso?
– Si? sì? – domandò Anna, soffocata dal pianto, all'immagine. E le parve allora che quegli occhi buoni, intensi di passione, la commiserassero a lor volta, la compiangessero di quell'abbandono, del sacrifizio non rimeritato dell'amore che le restava chiuso in seno quasi tesoro in uno scrigno, di cui egli avesse le chiavi, ma per non servirsene mai, come l'avaro.

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Il volo (Teasdale)

Post n°619 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Guarda indietro con occhi desiderosi e sappi che
seguirò,
Sollevami nel tuo amore come un vento leggero
solleva una rondine,
Fa che il nostro volo sia lontano nel sole o nella
pioggia ventosa—
Ma cosa se udissi il mio primo amore chiamarmi di
nuovo?
Tienimi sul tuo cuore come il mare coraggioso
trattiene la schiuma,
Portami lontano sulle colline che nascondono la
tua casa;
La pace coprirà di frasche il tetto e l'amore
chiuderà col chiavistello la porta—
Ma cosa se udissi il mio primo amore chiamarmi una
volta ancora?

 
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Il compagno Trogoloff

Post n°618 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

E ci risiamo,cari lettori!E' destino che a S.Tobia non si possa proprio star tranquilli.Ci eravamo appena ripresi dallo scompiglio provocato dal Pelapolli e speravamo di tirare un po' il fiato quando è arrivato Eufemio Trogoloni.
Questo losco figuro è il fratello minore dell'Astorre che i casi della vita hanno portato a stabilirsi a Mosca,dove lo conoscono come compagno Trogoloff.
Un bel giorno ha pensato bene di provare nostalgia di casa e, fra il lusco e il brusco,è poimbato a S.Tobia,con conseguenze catastrofiche che passo a raccontarvi.
LUNEDI'- Il Trogoloff ha deciso di far conoscere ai suoi compaesani la musica russa.Approfittando dell'assenza dei parenti,ha deliziato per ore i timpani dei paesani con i CD della cantante folk Galina Maldipanciaskaja,suonati a tutto volume.
i vetri di tutto il paese sono andati in pezzi; la Clementina,convinta che a casa Trogoloni stessero ammazzando qualcuno,ha chiamato la polizia:Cesarone ha chiesto asilo politico dai Martellacci.
MARTEDI'- Oggi secondo il Trogoloff era una giornata splendida:c'erano solo - 20 gradi!
Eufemio ha pensato di uscire a fare jogging.Alla sua vista la Clementina è svenuta,la Taide gli ha buttato addosso un secchio d'acqua gelida dandogli dell sporcaccione pervertito (non vi dico com'è rimasto quando lui l'ha calorosamente ringraziata)e Berengario è finito dentro la fontana.
Non vi dico com'è rimasto quando Cuccurullo lo ha arrestato per atti osceni in luogo pubblico.
Ho dimenticato di dirvi che ilTrogoloff era nudo bruco.
MERCOLEDI- Il Trogoloff ha preparato ai parenti una cena alla russa.
L'Astorre è stato colto da atroci dolori,il Caino ha una dissenteria da Guinness,la Bradamante è svenuta,Ladislao ha vomitato non una ma 74 anime...
Solo Bernabò ha gradito ed ha mangiato come un porco,senza neanche un bruciorino di stomaco
GIOVEDI'- Oggi ilTrogoloff ha fatto un bagno di vapore.In breve su casa Trogoloni è calata una nebbia che nemmeno in Val Padana.
Il postino,non vedendo nulla,è finito nella stalla di Cesarone ed ora detiene il record di salto sul campanile.
VENERDI'- Il Trogoloff,per far contento Bernabò, si è procurato un cavallo,è andato a Firenze,ha fatto irruzione in casa Porchettoni e si è portato via la Nerina.Intendeva sistemare le cose alla maniera cosacca.
La nerina,impugnato uno schioppo,si èdata da fare per levare dal mondo zio e nipote.
Solo l'intervento di Cuccurullo ha salvato i due scellerati.
SABATO- Il Trogoloff ha invitato i suoi più cari amici d'infanzia ad un megaparty a base di vodka.In due ore se ne sono scolate due botti,con i seguenti risultati:
Teobaldo,in preda a sbornza malinconica, ha passato la notte a piangere sulle corna di Cesarone (il toro,impietosito,l'ha lasciato fare,e ognitanto gli leccava la testa in modo consolatorio)
L'Anarchico,volendo imitare Di Caprio in "Titanic", urlando "Sono il re del mondooooooo!" ha scalato un altissimo cedro del Libano (arrivato in cima si è ricordato di soffrire di vertigini.Per tirarlo giù sono dovuti venire i pompieri)
Geppo e i 15 cani hanno deliziato fino all'alba i paesani con urlacci,latrati e ululati.
Virgilio Scozzagalli,impadronitosi di un trattore,gridando "Avanti Savoia!" ha demolito il pollaio,uccidendo 17 galline sul colpo.
DOMENICA-Astorre,Ladislao e Caino,coadiuvati dal Cuccurullo,hanno schiaffato il Trogoloff sul primo aereo per Mosca.
Al loro ritorno i paesani li hanno portati in trionfo.
Sono passate tre settimane.
La Clementina e berengario sono in partenza per Mosca,armati fino ai denti
Il postino ha perso la memoria.
La Cesira,la Sargenta,la Marianna e l'Elvira hanno cacciato i mariti di casa.
La Nerina è partita per l'Alaska,ben decisa a non tornare.
Il Trogoloff è a Mosca,dove è stato raggiunto da Bernabò (simili con simili..)
Detto quel che avevo da dirvi vi saluto fino alla prossima
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Goli Otok

Post n°617 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Goli Otok (Isola Calva o nuda letteralmente) era un nome che incuteva terrore, un nome che veniva pronunciato a voce bassa – per spaventare o distogliere qualcuno dai pensieri "proibiti". Un campo di prigionia da dove sono passati circa 30.000 appartenenti al Partito Comunista Jugoslavo dal 1949 al 1956 – ovvero dalla rottura con Stalin e le conseguenti minacce di invasione fino alla "distensione" sotto Kruscev. Un lagher simile ai gulag sovietici o ai campi di rieducazione cinesi. Il 10% dei detenuti è morto sull’isola, maggior parte uccisi per mano dei propri compagni. Nella sua struttura Goli Otok si distingueva dai gulag perchè funzionava sul principio di perpetuum mobile, ogni tipo di solidarietà tra i prigionieri era spezzata fin dall’ingresso, mentre la funzione del lagher era quella di formare spie, prima costringendoli a tradire i compagni e poi usandoli come informatori in cambio di una libertà vigilata. Il tutto ovviamente aveva come obiettivo quello di "far aprire gli occhi ai compagni che sbagliano" e aiutarli ad essere riportati sulla rette via. Non mi soffermerò sui dettagli abberranti, sul terrorismo psicologico, le torture, i capò "ustascia", eroi della resistenza torturati…Sembra che non ci sia neanche uno stato al mondo che non abbia avuto un campo di concentramento per i prigionieri politici nel corso del novecento, compreso il Bel Paese con i suoi carceri speciali (dove, seppure in proporzioni minori, non sono mancate torture, utilizzo di aguzzini mafiosi ed altri sistemi totalitari), occultati dalla storia ufficiale, e riportati alla luce solo in alcuni ambiti ben precisi. Quella che segue è la traduzione di uno dei scritti introduttivi al romanzo "Le Hawaii di Tito" di Rade Panic, ad opera dell’autore stesso, un medico jugoslavo reo di aver dubitato del modello socialista che si stava instaurando. Potete leggere gli articoli e la biografia sul suo sito "Tito’s Hawaii".

Tradotto dal sito di Rade Panic*, medico e scrittore jugoslavo reduce del campo di concentramento per i prigionieri politici Goli Otok, su cui scrisse il libro intitolato Hawaii di Tito (Titovi Havaji).

Goli Otok è un’isola non abitata dalla superficie di circa cinque
chilometri quadrati che si trova nel Mar Adriatico vicino all’arcipelago
Kvarner. Il villaggio più vicino sulla costa è Lukovo a circa tre miglia
marittime. Malgrado le correnti forti, un buon nuotatore potrebbe attraverse quel pezzo di mare fino alla costa.
In alcuni casi di fughe, i prigionieri usavano le assi di legno, ma che io
sappia, nessuno è mai riuscito a fuggire, probabilmente perchè i contadini e i
pescatori vivevano nel terrore e non osavano aiutare i fuggiaschi stremati.
Nelle mappe nautiche la zona che circondava l’isola era severamente proibita.
Addentrandosi con la nave (probabilmente durante le esercitazioni .ndt), un
generale dell’esercito jugoslavo ha dovuto sorbirsi una lunga predica da parte
del capitano dell’UDBA. Ha dovuto ascoltare in silenzio e a testa china.
Molto spesso soffia una forte bora. Alcune erano così forti che i
prigionieri dovevano tenersi per mani mentre si spostavano sul campo di lavoro.
La bora e il terreno poverissimo hanno impedito la crescita della
vegetazione. Piantavamo pinetti e acacie, cercando di migliorare l’aspetto di Goli. Fino ad allora non è stato rilevato nulla che possa essere sfruttato economicamente. Sembrava fosse fatto apposta per un campo di concentramento. Secondo alcuni gli austro-ungarici deportavano i prigionieri in quel luogo, ma noi non vedevamo alcuna traccia dei lavori, a parte una voragine, che dopo i nostri lavori fu usata per la struttura 101, lagher dentro lagher, l’ultimo cerchio.

Il lagher fu aperto nel 1949 e l’ultimo stalinista fu rilasciato nel 1956. Quella data era la fine della gestione speciale dell’isola. Dopo era andata sotto controllo dell’autorità della repubblica Croazia che lo userà come carcere speciale per i nazionalisti. Quando me ne stavo andando dall’isola nel 1951, ho fatto il giuramento che non sarei mai più tornato. Come molti altri giuramenti, anche questo l’ho tradito nel 1990. Il romanzo fu già finito da un pezzo (Hawaii di Tito, Rade Panic,1997), ma io non ero del tutto soddisfatto. Volevo controllare alcune cose a tutti i costi, volevo sentire di nuovo il caldo di quei sassi, di toccare i pini che piantavamo. Così decisi di visitarlo nell’agosto del 1990. A quei tempi stavano cercando di farlo diventare un luogo turistsico. Gli adetti ai lavori sorridenti si scusavano per la situazione provvisoria, promettendo che l’anno prossimo sarà meglio. Mi ero aggregato ad un gruppo che aveva anche la guida, quest’ultimo un ex detenuto nazionalista. Racconta di com’era l’isola durante la sua prigionia. Crudele, spietata ma con una divisione chiara, polizia da un lato i detenuti dall’altro, senza infiltrazioni e capò. Chi c’era prima di voi sull’isola, chiesi. Le spie russe, mi disse, e fece un cenno evasivo con la mano.
Mi staccai dal gruppo e gironzolai nei dintorni, andando verso il campo da tennis sulla costa. Lì nel 1950 c’era un cipresso spaccato da un fulmine, spelacchiato ma molto profumato. Questo profumo mi faceva diventare triste tutte le volte che lo sentivo. In quel punto ogni mattina i prigionieroi dovevano bagnare e lavorare laterite, che assumeva un colore nutriente di cioccolato. In quel luogo ex calciatore Bozovic, prigionieri pure lui, dava le lezioni di tennis ai "caporali" del lagher. Mi ricordo Bozovic. Consumato, tornava in sè appena-pena grazie agli avanzi della loro mensa, prendeva con facilità i loro tiri e li restituiva morbidamente, presente in tutti gli angoli, senza sforzo e senza correre troppo. 1990 il cipresso non c’è più, mentre il campetto è scomparso come coperto dalla sabbia e detriti di pietra. L’isola torna ad essere quello che è. I pini che piantavamo, o sono scomparsi o sono rimasti nani. Acacie hanno preso un po’ di più.

Corro verso l’altro lato, per vedere la struttura 101, alla cui costruzione ho contribuito scavando, un luogo pensato per i casi irreparabili. Non riesco a trovarlo. I nostri aguzzini hanno tentato di nascondere qualcosa – hanno nel sangue questa cosa. Di tutto rimane solo un breve tunnel con le catene cimentate nel muro. Una turista tedesca dai capelli rossi si fa fare le foto con le mani infilate tra i grossi annelli di metallo. Inoltre quella parte dell’isola era attraversata da un canale di scolo dalla forma del tetto rovesciato. Mi sposto dall’altra parte del canale cercando di orientarmi. Stavo su un parapetto di pietra alto circa un metro e c’era qualcosa che non mi tornava. Voglio saltare, dimenticandomi dei miei sei decenni, e con la massa che del corpo radoppiata dai tempi di prigionia, casco giù. Inciampando ero caduto sui sassi appuntiti. L’isola rivendicava il proprio diritto su di me.
Per fortuna si era trovata della brava gente. In qualche modo abbiamo fermato l’emorargia – o si era fermata da sola – e rimango con le gambe sbucciate. Era arrivato il momento di andare, scendiamo verso il porticiolo. Volevo vedere quanto tempo sono rimasto svenuto. Era passata un’ora. In quel momento mi era diventato chiaro che non dovevo cercarlo. Era un’ora significativa, e credo che sia rimasta lì a scorrere all’infinito sotto qualche sasso.

A chi era venuti in mente di portarci lì? Vladimir Dedijer, uno storico e patriota scrisse: "Nella discussione che ho avuto con lui (Con Stevan Krajacic, ministro degli interni croato ai tempi di Goli Otok) il 21 marzo 1982, mi disse: Ero in viaggio con Augustincic (noto scultore jugoslavo) in tutte le cave per estrazione di marmi cercando di trovare la qualità giusta e simile a quello di Carrara. Così siamo arrivati a Goli Otok a sud di Senj. Di lui ho parlato a Kardelj e a lui balenò l’idea di piazzare un campo di concentramento proprio lì." (V. Dedijer: nuove fonti per la biografia di J.B. Tito, Rad, Beograd, 1984 pag. 465).
Era interessante notare i tentennamenti nella coscenza dei vertici jugoslavi. Ancora Dedijer: …"il nostro rappresentante diplomatico presso le Nazioni Unite mi rivelò: all’interno dell’UN stavamo lavorando da alcuni anni alla Carta dei Diritti Umani. Un giorno è arrivato a New York pubblico ministero Brana Jevremovic come rapprsentante della Jugoslavia per la Commissione dei diritti umani. Lui ha portato la direttiva di Kardelj che dobbiamo dare l’emendamento per un nuovo articolo della Carta dei Diritti Umani, quello secondo il quale ogni stato ha diritto di legalizzare i campi di concentramento. Questo emendamento diceva grosso modo: Ogni stato ha il diritto, nel caso di necessità, e nell’interesse della tutela dell’ordine e delle istituzioni, di imprigionare a tempo indeterminato con un procedimento abbreviato, i cittadini che minacciano l’integrita dello stato manipolati e asserviti ad una potenza straniera. Io – diceva il dimplomatico citato prima – mi sono opposto fortamente di codificare una proposta del genere, che in quel momento (dietro la minaccia dell’invasione sovietica ndt.) era un problema specificatamente jugoslavo; quindi ho informato il capo della nostra delegazione Dr. Alesa Bebler. Lui ha concordato con il mio punto di vista, e quindi ha fatto pressioni su Kardelj purchè si rinunci da una proposta tanto inopportuna. Kardelj ha accettato le obiezioni di Bebler e così ci siamo salvati dalla vergogna di essere il paese che propone l’apertura dei campi di concentramento nella lCarta dei Diritti Umani." Quello di cui non si sà – non esiste. Questo è il credo dei nostri dirigenti ed è quello che gli ha permesso di dare le lezioni di etica al mondo per quarant’anni. La grande necessità di cui parlava il diplomatico è terminata, naturalmente, con un grande tanfo.**

*"Nuzda" tradotto necessità significa anche "bisogno" nel senso fisiologico di espellere escrementi.

 
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Libri dimenticati:Prigionieri del silenzio

Post n°616 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Bellissimo libro di Pansa, che racconta l'emblematica vicenda di Andrea Scano,sardo militante comunista,reduce dalla guerra di Spagna,che suo malgrado si è ritrovato rinchiuso nel peggiore dei lager di Tito:Goli Otok,l'Isola Calva.
E' un libro duro,un pugno nello stomaco, da leggere perchè racconta verità che per anni il vecchio PCI ha tenuto nascoste.

 
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Frase del giorno

Post n°615 pubblicato il 04 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Quel che non vuoi ti nasce nell'orto !(Mia nonna)

 
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