Messaggi del 06/09/2011

Il gobbo Tabagnino

Post n°644 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Il gobbo Tabagnino era un povero ciabattino che non sapeva come fare a tirare avanti, perché nessuno gli dava mai neanche da rattoppare una scarpa.
Si mise a girare il mondo in cerca di fortuna. Quando fu sera e non sapeva dove andare a dormire, vide un lumino in lontananza, e tenendo dietro al lumino, arrivò a una casa e bussò. Aperse una donna e lui domandò alloggio.
-Ma questa, - disse la donna, - è la casa dell'Uomo Selvatico, che mangia tutti quelli che trova. Se vi faccio entrare, mio marito mangerà anche voi.
Il gobbo Tabagnino la pregò e la supplicò, e la donna si mosse a compassione e gli disse:
- Entrate pure, e se vi accontentate, vi seppellirò sotto la cenere.
Cosí fece e quando arrivò l'Uomo Selvatico e cominciò a girare per la casa tirando su dal naso e dicendo:

Ucci ucci
Qui c'è puzza di cristianucci
0 ce n'è o ce n'è stati
0 ce n'è di rimpiattati,


sua moglie gli disse: - Vieni a mangiare, cosa vai a pensare ora? -
E gli servi una gran caldaia di maccheroni.
Si misero a mangiare maccheroni marito e moglie, e l'Uomo Selvatico fece una tale scorpacciata che a un certo punto disse:
- Basta, io sono pieno e non ne mangio piú. Questi che sono avanzati, se c'è qualcuno in casa, dàlli a lui.
-C'è un povero omino che mi ha domandato alloggio per stanotte, - disse la moglie. - Se mi prometti di non mangiarlo, lo faccio uscire.
-Fallo uscire pure -. E la donna tirò fuori dalla cenere il gobbo Tabagnino e lo fece sedere a tavola. Davanti all'Uomo Selvatico, il povero gobbino tutto coperto di cenere tremava come una foglia, ma si fece coraggio e mangiò i maccheroni.
- Per stasera non ho piú fame, - disse l'Uomo Selvatico al gobbo, - ma domattina, v'avverto, se non farete presto a scappare, vi mangerò in un boccone.
Cosí attaccarono a discorrere da buoni amici, e il gobbo, che era furbo come il diavolo, cominciò a dirgli:
- Che bella coperta che avete sul letto!
E l'Uomo Selvatico: - È tutta ricamata d'oro e d'argento, e con la frangia tutta d'oro.
- E quel comò?
- Ci sono dentro due sacchi di quattrini.
- E quella bacchetta dietro il letto?
- È, per far venire il bel tempo.
- E questa voce che si sente?
-È un pappagallo che tengo nel pollaio, e che discorre come noialtri.
- Ne avete di belle cose!
-Eh, non sono mica tutte qui! Nella stalla ho una cavalla di una bellezza mai vista, che corre come il vento.
Dopo cena, la moglie riportò Tabagnino nel suo buco sotto la cenere, e poi andò a dormire col marito. Appena fu giorno, la donna andò a chiamare Tabagnino.
- Su, presto, scappate, prima che s'alzi mio marito! - Il gobbo ringraziò la donna e andò via.
Girò e girò finché arrivò al palazzo del Re di Portogallo e chiese ospitalità. Il Re lo volle vedere e gli fece raccontare la sua storia. A sentire tutte le belle cose che aveva in casa l'Uomo Selvatico, il Re fu preso da una gran voglia, e disse a Tabagnino:
- Sentimi bene, tu potrai restare qui nel palazzo e fare tutto quello che ti piacerà, ma io voglio una cosa da te.
- Dica pure, Maestà.
-Hai detto che l'Uomo Selvatico ha una bella coperta ricamata d'oro e d'argento e con la frangia tutta d'oro. Ebbene devi andare a prenderla e portarmela, se no ne andrà della tua testa.
-Ma come vuole che faccia? - disse il gobbo. - L'Uomo Selvatico mangia tutti. È lo stesso che dire che mi manda alla morte.
- Questo non m'interessa. pensaci tu e arrangiati.
Il povero gobbo ci pensò su e quand'ebbe ben pensato, andò dal Re e gli disse: - Sacra Corona, mi dia un cartoccio pieno di calabroni vivi, che siano digiuni da sette od otto giorni, e io le porterò la coperta -.
Il Re mandò l'esercito ad acchiappare i calabroni e li diede a Tabagnino.
- Eccoti questa bacchetta, - gli disse. - È fatata e ti potrà venire buona. Quando avrai da passare dell'acqua, battila per terra e non aver paura. Anzi, intanto che tu vai là, io andrò ad aspettare in quel palazzo di là dal mare.
Il gobbo andò alla casa dell'Uomo Selvatico, stette a origliare, e capì che erano a cena. S'arrampicò alla finestra della camera da letto, entrò e si nascose sotto il letto. Quando l'Uomo Selvatico e sua moglie andarono a letto e s'addormentarono, il gobbo cacciò il cartoccio pieno di calabroni sotto le coperte e le lenzuola, e l'aperse. I calabroni, sentendo quel bel calduccio, vennero fuori e si misero a ronzare e a punzecchiare.
L'Uomo Selvatico cominciò ad agitarsi, buttò giú la coperta e il gobbo l'arrotolò sotto il letto. I calabroni s'arrabbiarono e si misero a pungere a tutt'andare; l'Uomo Selvatico e sua moglie scapparono gridando; e Tabagnino quando fu solo scappò anche lui, con la coperta sotto il braccio.
Dopo un po', l'Uomo Selvatico s'affacciò alla finestra e chiese al pappagallo che era nel pollaio:
- Pappagallo, che ora è?
E il pappagallo: - È l'ora che il gobbo Tabagnino porta via la tua bella coperta!
L'Uomo Selvatico corse nella stanza e vide che la coperta non c'era piú. Allora prese la cavalla, e via al galoppo, finché non avvistò il gobbo di lontano. Ma Tabagnino era già arrivato alla riva del mare, batteva per terra la bacchetta che gli aveva dato il Re, l'acqua s'apriva e lo faceva passare; e appena fu passato si tornò a rinchiudere. L'Uomo Selvatico, fermo sulla riva, si mise a gridare:

0 Tabagnino di tredici mesi,
Quand'è che torni in questi paesi?
Ti voglio mangiare un dì di quest'anno,
E se non ti mangerò, sarà mio danno.


Al vedere la coperta, il Re cominciò a saltare dall'allegria. Ringraziò il gobbo, ma poi gli disse:
- Tabagnino, come sei stato bravo di portargli via la coperta, sarai buono a portargli via anche la bacchetta che fa venire il bel tempo.
- Ma come volete che faccia, Sacra Corona?
- Pensaci bene, se no la pagherai con la testa.
Il gobbo ci pensò, poi chiese al Re un sacchetto di noci.
Arrivò alla casa dell'Uomo Selvatico, stette ad ascoltare, e senti che andavano a letto. S'arrampicò in cima al tetto, e cominciò a buttare manciate di noci sulle tegole. L'Uomo Selvatico, a questo picchiettio sulle tegole, si svegliò e disse alla moglie:
- Senti che grandínata! Va' subito a mettere sul tetto la bacchetta, se no la grandine mi rovina il frumento.
La donna s'alzò, aperse la finestra, e mise la bacchetta sul tetto dove c'era Tabagnino pronto a prenderla e a scappar via.
Di lí a poco, l'Uomo Selvatico si alzò. Contento che avesse smesso di grandinare, e andò alla finestra.
- Pappagallo, che ora è?
E il pappagallo: - È l'ora che il gobbo Tabagnino ti porta via la bacchetta del bel tempo.
L'Uomo Selvatico prese la cavalla e via al galoppo dietro al gobbo. Lo stava già per raggiungere sulla spiaggia, ma Tabagnino batté la bacchetta, il mare s'aperse, lo fece passare e si rinchiuse. L'Uomo Selvatico gridò:

0 Tabagnino di tredici mesi,
Quand'è che torni in questi paesi?
Ti voglio mangiare un dí di quest'anno,
E se non ti mangerò, sarà mio danno.


Al vedere la bacchetta, il Re non stava piú nella pelle dall'allegria. Ma disse: - Adesso devi andarmi a prendere le due borse di quattrini.
Il gobbo ci pensò su; poi si fece preparare degli arnesi da taglialegna, si cambiò d'abiti, si mise una barba finta e andò dall'Uomo Selvatico, con un'accetta, dei cunei, e una mazza. L'Uomo Selvatico non aveva mai visto Tabagnino di giorno, e poi lui, dopo un po' di tempo di buoni pasti al palazzo del Re, era anche un po' meno gobbo; quindi non lo riconobbe.
Si salutarono. - Dove andate?
- Per legna!
- Oh, qui nel bosco di legna ce n'è quanta ne volete!
Allora Tabagnino prese i suoi arnesi e si mise a lavorare attorno a una quercia grossissima. Ci piantò un cuneo, poi un altro, poi un altro ancora e prese a dargli colpi di mazza. Poi cominciò a impazientirsi, facendo finta che gli si fosse incastrato un cuneo.
- Non v'arrabbíate, - disse l'Uomo Selvatico, - ora vi do una mano -.
E ficcò le mani nella apertura del tronco per vedere se tenendola larga si poteva spostare quel cuneo. Allora Tabagnino, con un colpo di mazza fece saltare via tutti i cunei e lo spacco del tronco si richiuse sulle mani dell'Uomo Selvatico.
- Per carità, aiutatemi! Cominciò a urlare. - Correte a casa mia, fatevi dare da mia moglie quei due grossi cunei che abbiamo, e liberatemi.
Tabagnino corse in casa della donna, e le disse:
- Presto, vostro marito vuole che mi diate quei due sacchi di quattrini che sono nel comò.
-Come faccio a darveli? - disse la donna. - Abbiamo da comprare la roba! Fosse uno, ma tutti e due!
Allora Tabagnino aperse la finestra e gridò: - Me ne deve dare uno o tutti e due?
- Tutti e due! Presto! - urlò l'Uomo Selvatico.
-Avete sentito? È- anche arrabbiato, - disse Tabagnino. Prese i sacchi e scappò via.
L'Uomo Selvatico dopo molti sforzi riuscí a cavar fuori le mani dal tronco, lasciandoci un bel po' di pelle e tornò a casa gemendo.
E la moglie: - Ma perché m'hai fatto dare via i due sacchi di quattrini?
Il marito avrebbe voluto sprofondare. Andò dal pappagallo e: - Che ora è?
-L'ora che il gobbo Tabagnino vi sta portando via i due sacchi di quattrini!
Ma stavolta l'Uomo Selvatico era troppo pieno di dolori per corrergli dietro e si contentò di mandargli una maledizione.
Il Re volle che Tabagnino andasse a portar via anche la cavalla che correva come il vento.
- Come faccio? La stalla è chiusa a chiave e la cavalla ha tanti sonagli appesi ai finimenti! -
Ma poi ci pensò su e si fece dare una lesina e un sacchetto di bambagia. Con la lesina fece un buco nella parete di legno della stalla e riuscí a ficcarsi dentro; poi cominciò a dare delle punzecchíature di lesina alla pancia della cavalla. La cavalla scalciava e l'Uomo Selvatico, dal letto, sentiva rumore e diceva:
- Povera bestia, ha male, stasera! Non vuol star quieta!
E Tabagnino dopo un po': un'altra punzecchiatura con la lesina! L'Uomo Selvatico si stancò di sentire scalciare la cavalla; andò in stalla, la fece uscire e la legò fuori all'aperto. Poi tornò a dormire. Il gobbo che era nascosto là al buio nella stalla, tornò fuori dal buco di prima, e con la bambagia riempí i sonagli della cavalla e le fasciò gli zoccoli. Poi la slegò, montò in sella e galoppò via in silenzio. Di lí a un poco, l'Uomo Selvatico come al solito si svegliò e andò alla finestra.
- Pappagallo che ora è?
-È l'ora che il gobbo Tabagnino ti porta via la cavalla!
L'Uomo Selvatico avrebbe voluto inseguirlo, ma la cavalla l'aveva Tabagnino e chi la pigliava píú?
Il Re tutto contento, disse: - Adesso voglio il pappagallo.
- Ma il pappagallo parla e grida!
- Pensaci tu.
Il gobbo si fece dare due zuppe inglesi, una piú buona dell'altra, poi confetti, biscotti e tutti i generi di dolci. Mise tutto in una sporta e andò.
- Guarda, pappagallo, - gli disse piano, - guarda cos'ho per te. Sempre di questa avrai se vieni con me.
Il pappagallo mangiò la zuppa inglese e disse: - Buona!
Cosí a furia di zuppa inglese, biscottini, confetti e caramelle, Tabagnino se lo portò via con sé, e quando l'Uomo Selvatico andò alla finestra, domandò:
- Pappagallo, che ora è? Dico: che ora è? Eh, mi senti? Che ora è? - Corse nel pollaio e lo trovò vuoto.
Al palazzo dei Re, quando Tabagnino arrivò col pappagallo ci fu gran festa.
- Adesso che hai fatto tutto questo, - disse il Re, - non ti resta che di fare l'ultima.
- Ma non c'è piú niente da prendere! - disse il gobbo.
-E come? - fece il Re, - c'è il pezzo piú grosso. Devi portarmi l'Uomo Selvatico in persona.
-Proverò, Sacra Corona. Basta che mi faccia un abito che non si veda la gobba, e che mi faccia cambiare i connotati.
Il Re chiamò i piú bravi sarti e parrucchieri e gli fece fare dei vestiti che non si riconosceva piú, e poi una parrucca bionda e due bei baffi.
Cosí truccato, il gobbo andò dall'Uomo Selvatico e lo trovò in un campo che lavorava. Lo salutò cavandosi il cappello.
- Cosa cercate?
-Sono il fabbricante di casse da morto, - disse Tabagnino, - e cerco delle assi per la cassa del gobbo Tabagníno, che è morto.
-Oh! È crepato, finalmente! - disse l'Uomo Selvatico. - Son tanto contento che le assi ve le darò io e potete fermarvi qui a fare la cassa.
-Volentieri, - disse il gobbo. - L'unico inconveniente è che qui non posso prendere le misure del morto.
-Se non è che per questo, - disse l'Uomo Selvatico, - quel birbone era pressapoco della mia statura. Potete prendere la mia misura.
Tabagnino si mise a segare le assi e a inchiodarle. Quando la cassa fu pronta, disse:
- Ecco, adesso proviamo se è della grandezza giusta.
L'Uomo Selvatico ci si sdraiò dentro.
- Proviamo col coperchio.
Ci mise sopra il coperchio e lo inchiodò. Poi prese la cassa e la portò dal Re.
Vennero tutti i signori dei dintorni, misero la cassa in mezzo a un prato e le diedero fuoco. Poi ci fu una gran festa, perché il Regno era stato liberato da quel mostro.
Il Re nominò Tabagnino suo segretario e sempre lo tenne in grande onore.

 

 
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Come andò che Pipì perse la coda

Post n°643 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Bisogna dunque sapere che, appena usciti fuori di quella foresta, dove stavano di casa Pipì e la sua famigliola, si trovava subito un gran lago abitato da un vecchio coccodrillo, che contava oramai duemil'anni di vita.
Arabà-Babbà (così chiamavasi il vecchio coccodrillo), divenuto cieco degli occhi a cagione dell'età decrepita, e non potendo più guadagnarsi un boccon di pane col sudore della sua fronte, era condannato a starsene dalla mattina alla sera rasente alla riva del lago, con la testa fuori dell'acqua e con la bocca sempre spalancata, aspettando che tutti quelli che passavano di là, uomini o bestie che fossero, mossi a compassione di lui, gli gettassero in bocca qualche cosa di masticabile, tanto da non morir di fame e da tirarsi avanti almeno per un altro migliaio d'anni.
E tutti i passanti, uomini o bestie che fossero, bisogna dir la verità, non mancavano mai di fare un po' di elemosina al povero vecchio.
E anche Pipì lo soccorreva frequentemente: ma quella birba, spesso e volentieri, invece di dargli o una frutta o un pesciolino morto, si divertiva a mettergli in bocca ora una manciata di sassolini, ora un fastello di stecchi e di ortica, ora un chiodo o un arpione arrugginito, trovati per caso lungo la strada.
Ma il vecchio coccodrillo non si arrabbiava per questi scherzi sguaiati. Tutt'altro.
Risputava tranquillamente i sassolini, gli stecchi, le ortiche e i chiodi, e soltanto scoteva leggermente il capo, come per dire:
«Bada, monello! O prima o poi, una le paga tutte!...». Un giorno Pipì, quasi impermalito di vedere che i suoi scherzi non facevano né caldo né freddo, domandò al coccodrillo, atteggiandosi a ingenuo e a innocentino:
«Dite, Arabà: dacché siete al mondo, ne avete trovati mai degl'impertinenti, che vi abbiano fatto qualche dispetto o qualche burla sgarbata?»
«Se ne ho trovati, scimmiottino mio! Nel mondo, per tua regola, c'è più impertinenti che mosche.»
«Dite, Arabà: e quando i monelli vi fanno qualche dispetto, voi non vi risentite mai?»
«Caro mio! In tanti anni di vita ho imparato che la più gran virtù dei vecchi è quella di saper sopportare i giovani con pazienza e rassegnazione.»
«Dunque, dacché siete al mondo, non vi siete arrabbiato mai, mai, mai?»
Il coccodrillo, prima di rispondere, ci pensò un poco, e poi disse:
«Una volta sola. E sai chi fu che mi fece andare su tutte le furie? Fu uno scimmiottino, su per giù, della tua età....»
«E che cosa vi fece questo scimmiottino?» domandò Pipì, con una curiosità vivissima.
«Questo monellaccio, non saprei dirti come, era venuto a sapere che io curavo moltissimo il solletico sulla punta del naso. Allora che cosa inventò per darmi noia? Salì sopra uno di questi alberi, che circondano il lago, e, calandosi di ramo in ramo, arrivò con la punta della sua coda a farmi il pizzicorino sul naso. Figurati io! Mi trovai attaccato da una tal convulsione di riso, che durai a ridere e a ballare nell'acqua per una settimana intera! Credevo quasi di morire!»
«Davvero?... Oh povero Arabà!...», disse Pipì con falsa compassione.
E dopo se ne andò di corsa: e a quante scimmie e scimmiottini incontrava per la strada, ripeteva a tutti ridendo queste parole:
«Volete divertirvi? volete veder ballare il vecchio Arabà? Venite domattina sul lago e io vi farò assistere a questo bellissimo spettacolo».
La mattina dopo, come potete immaginarvelo, c'era sulla riva del lago una folla immensa.
Tutti aspettavano che Arabà ballasse il trescone.
Quand'ecco Pipì che salito sopra un albero sporgente sull'acqua, cominciò a calarsi giù di ramo in ramo, e tenendosi penzoloni per aria, si allungò e si distese tanto, da poter toccare con la punta della sua coda il naso del coccodrillo. Ma il coccodrillo, appena sentì la coda di Pipì, chiuse la bocca e zaff... con un semplice morso dato a tempo, gliela staccò di netto fin dal primo nodello.
Lo scimmiottino cacciò un grido acutissimo di dolore: e buttandosi di sotto all'albero, si dette a scappare verso la foresta.
Arrivato vicino a casa, vi lascio pensare come rimase, quando, portandosi una mano di dietro, si accorse che la sua coda non c'era più.
La coda era rimasta in bocca al coccodrillo, che a quell'ora l'aveva bell'e digerita.
Preso dalla disperazione e vergognandosi a farsi vedere dalla sua famiglia in quello stato compassionevole di scimmiottino scodato, Pipì infilò per una viottola solitaria, camminando all'impazzata fino a notte chiusa, senza sapere neanche lui dove andasse a battere il capo. Finalmente, non potendone più dalla stanchezza e dal sonno, si sdraiò sopra un monticello di frasche secche per riposarsi un poco.
E in quel mentre che era lì lì per appisolarsi, sentì negli orecchi una voce minacciosa, che gli gridò imperiosamente:
«Rendimi la mia pipa!...». Lo scimmiottino, svegliandosi tutto spaventato, voleva fuggire; ma non poté: perché in men che non si dice, si trovò preso, rinchiuso in un sacco e caricato sulla groppa di una bestia con quattro zampe, che cominciò a correre di gran carriera. "Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?", pensava lo scimmiottino tremando dalla paura. "Se per caso è un leone, sono bell'e perduto!... Se per disgrazia è una tigre, peggio che mai!... Se è una iena o un leopardo, non c'è più scampo per me!... Oh me disgraziato! Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?..."
Per buona fortuna, la bestia ragliò... e allora Pipì sentì allargarsi il cuore dalla contentezza.
Quel raglio fu l'unica consolazione che avesse il povero Pipì durante il suo misterioso viaggio, rinchiuso in un sacco!

 
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Pipì scimmiottino rosa

Post n°642 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nel famosissimo bosco di Vattel'a pesca, c'era una volta una piccola famigliola composta di sette scimmie: il babbo, la mamma e cinque scimmiottini alti quanto un soldo di cacio.
Questa famigliola abitava fra i rami di un albero gigantesco, in mezzo a una foresta, e pagava quindici susine l'anno di pigione a un vecchio gorilla prepotente, che si era messo in capo di essere il padrone di casa.
Dei cinque scimmiottini, quattro avevano il pelame di un colore scuro come la cioccolata; ma il quinto, invece, ossia il più piccolo di loro, fosse scherzo di natura o altro, fatto sta che era tutto ricoperto, salvo il musino, da una finissima lanugine di color vermiglio carnicino, come le foglie della rosa maggese. Ed è per questa ragione che in casa e fuori di casa lo chiamavano tutti in canzonatura col soprannome di Pipì, parola che nella lingua parlata delle scimmie, vuol dire precisamente color di rosa.
Pipì non somigliava punto né a' suoi fratelli, ne agli altri scimmiottini del vicinato.
Aveva un musino vispo e intelligente; un par di occhietti furbi, che non stavano fermi un minuto: una bocchina che rideva sempre, e un personalino asciutto e flessibile, come un gambo di giunco. Era, insomma, come suol dirsi, uno scimmiottino fatto proprio col pennello.
Vedendolo così di prim'acchito, si poteva quasi scambiarlo per un ragazzino di otto o nove anni, per la gran ragione che Pipì faceva il chiasso e i balocchi, come un ragazzo: correva dietro alle farfalle e andava in cerca di nidi, come i ragazzi: era ghiottissimo delle frutta acerbe, come i ragazzi: mangiava ogni cosa e mangiava sempre, come i ragazzi: e dopo aver mangiato ben bene, si ripuliva la bocca con le mani, come fanno i ragazzi e segnatamente i ragazzi poco puliti.
Ma la più gran passione di Pipì volete sapere qual era?
Era quella di scimmiottare tutto quello che vedeva fare agli uomini.
Un giorno, fra gli altri, mentre andava per la foresta a caccia di cicale e di grilli, vide a poca distanza un giovanetto seduto a piè d'un albero, che se ne stava tranquillamente fumando la sua pipa.
A quella vista, Pipì spalancò tanto d'occhi e rimase come incantato.
"Oh!" diceva dentro di sé "se potessi avere una pipa anch'io!... Oh se potessi anch'io farmi uscire que' bei nuvoli di fumo dalla bocca!... Oh se potessi tornarmene a casa, fumando come un camminetto acceso! Chi lo sa con che occhi d'invidia mi guarderebbero i miei quattro fratelli!"
Mentre allo scimmiottino frullavano per il capo queste bellissime cose, ecco che il giovinetto, un po' per la stanchezza e un po' per il gran bollore della giornata, lasciò andare due sonori sbadigli, e posata la sua pipa sull'erba, si addormentò.
Che cosa fece allora quel birichino di Pipì?
Si avvicinò pian pianino, in punta di piedi, al giovinetto che dormiva: e rattenendo perfino il fiato... allungò adagino adagino una zampa... prese con una velocità incredibile la pipa che era posata sull'erba... e poi, via a gambe come il vento.
Appena arrivato a casa, chiamò subito, tutt'allegro, il babbo, la mamma e i fratelli; e in presenza a loro, infilatosi quel pipone fra i labbri, cominciò a fumare con lo stesso garbo e con la stessa disinvoltura, come avrebbe fatto un vecchio marinaio.
La mamma e i fratelli, a vedergli uscir di bocca quelle nuvole di fumo, ridevano come matti: ma il suo babbo che era uno scimmione pieno di giudizio e di esperienza di mondo, gli disse in tono di avvertimento salutare:
«Bada, Pipì! A furia di scimmiottare gli uomini, un giorno o l'altro diventerai un uomo anche tu... e allora! Allora te ne pentirai amaramente, ma sarà troppo tardi!»
Impensierito da queste parole, Pipì gettò via la pipa di bocca e non fumò più.
Eppure bisogna convenire che quella pipa rubata gli portò disgrazia.
Difatti, pochi giorni dopo, Pipì venne colpito da un orribile infortunio! Lo sciagurato perdé per sempre la sua bellissima coda: una coda così bella, che bastava averla vista una volta, per non potersela mai più dimenticare.
Come andò che Pipì perdé la sua magnifica coda?
È una storia crudele e dolorosa, che fa venire le lacrime agli occhi soltanto a pensarvi; e io ve la racconterò in quest'altro capitolo.



 
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La sposa che viveva di vento

Post n°641 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era a Messina un Principe ricco quanto avaro, che faceva apparecchiare due volte al giorno con una fetta di pane, una fetta di sopressata sottile come un'ostia e un bicchiere d'acqua. Teneva un solo cameriere, e gli dava due tarí al giorno, un uovo e tanto pane quanto bastava per inzupparlo nell'uovo. Cosí succedeva che nessun cameriere resisteva con lui piú di una settimana; dopo pochi giorni si licenziavano tutti.
Gli capitò una volta un cameriere che era una birba matricolata, che se il padrone le sapeva tutte, lui era capace anche di cavargli le scarpe e le calze mentre correva.
Questo cameriere, a nome Sor Giuseppe, quando vide come si mettevano le cose, andò da una carbonaia che aveva bottega vicino al palazzo, donna danarosa e madre d'una bella ragazza, e le disse:
- Comare, la volete sposare vostra figlia?
-Volesse Dío che trovasse un bravo giovane, Sor Giuseppe, - rispose la donna.
- E il Principe come vi sembra?
-Il Principe? E non lo sapete com'è pidocchioso? Quello per non spendere un soldo, si farebbe cavare un occhio.
-Comare, se date retta a me, vi combino il matrimonio. Solo dovete dire che vostra figlia campa di vento.
Sor Giuseppe andò dal Principe: - Signor padrone, ma vossignoria perché non si sposa? Ormai ha già i suoi annetti e il tempo passa e non torna piú...
-Ah! Tu mi vuoi morto! - fece il Principe. - Non lo sai che per mantenere una moglie ti corron via i quattrini come acqua? Cappelli, vesti di seta, piume, scialli, carrozze, teatri... No, Giuseppe, niente da fare!
-Ma non lo sa vossignoria che c'è la figlia della carbonaia, quella bella ragazza, che campa di vento? E danari ne ha già, lei di per sé, e non ama né lusso né feste né teatri.
- Ma va'! Come fa a vivere di vento?
- Tre volte al giorno prende un ventaglio, si fa vento, e cosí si toglie l'appetito. E ha una faccia paffuta che si direbbe mangi bistecche.
- Be', fammela un po' vedere.
Sor Giuseppe combinò tutto e dopo otto giorni si fece il matrimonio, e la carbonaia diventò Principessa.
Ogni giorno andava a tavola, si sventolava col ventaglio e il marito la guardava tutto compiaciuto. Poi sua madre di nascosto le mandava polli arrosto e cotolette e la Principessa e il cameriere si facevano delle belle scorpacciate.
Passò un mese, e alla carbonaia dover spendere sempre di tasca sua cominciò a pesare e cominciò a lamentarsi col cameriere:
- Be', compare, per quanto ancora dovrò pagare tutto io? Ci mettesse qualcosa anche questa pigna del tuo Principe!
Il Sor Giuseppe disse alla Principessa: - Lo sai cosa devi fare? - (perché lui davanti agli altri le diceva: Principessa, vossignoria qua, vossignoria là; ma faccia a faccia le dava del tu). - Di' al Principe che ti piacerebbe vedere le sue ricchezze, cosí solo per toglierti la curiosità. Se lui dice che ha paura che ti rimanga qualche moneta appiccicata alle scarpe, di' che sei disposta ad andarci scalza.
La Principessa cominciò a dirlo al Principe, ma lui torceva la bocca, e non c'era verso di convincerlo. E lei a insistere, che era pronta ad andare anche scalza, e alla fine gli strappò il consenso.
Allora il Sor Giuseppe le disse: - Presto, ungiti di colla tutto l'orlo della sottana!
E la Principessa cosí fece.
Il Principe sollevò una tavola dell'impiantito, aperse una botola e la fece scendere. La giovane rimase a bocca aperta, c'erano i dobloni da dodici onze' gettati a catasta, che nemmeno i primi Re del mondo ne avevano la metà.
E mentre guardava con grandi - Oh! - di meraviglia, facendo finta di niente sventolava intorno la gonna e l'orlo si riempiva di monete appiccicate. Quando si ritirò in camera sua, se le spiccícò e ne fece un bel mucchietto, che il Sor Giuseppe portò alla carbonaia.
Cosí continuarono le loro scorpacciate, mentre il Principe la vedeva agitare il ventaglio ed era sempre piú felice d'avere una moglie che viveva di vento.
Una volta che il Principe era a passeggio con la Principessa, incontrò un suo nipote che non vedeva mai.
- Pippinu, - gli disse, - la conosci questa signora? -E' la Principessa -
-Zio, non sapevo che vi foste sposato!
-Non lo sapevi? Ora lo sai. E resti invitato da noi tra otto giorni.
Dopo avergli fatto quest'invito, il Principe ci ripensò e si pentí. " Adesso chissà quanto dovremo spendere! Che razza d'idea ho avuto! " Ma ormai non c'era niente da fare: bisognava pensare a preparargli un pranzo.
Al Principe venne un'idea: - Sai cosa ti dico, Principessa? La carne va cara e comprarla è una rovina. Ma invece di comprarla, posso prenderla andando a caccia. Piglio il fucile, sto fuori cinque o sei giorni, e ti porto tanta di quella selvaggina senza spendere un quattrino.
- Sí, sí, Principe, ma fate presto, - lei gli rispose.
Appena il Principe fu partito per la caccia, la Principessa mandò Giuseppe a cercare un fabbroferraio.
- Maestro, - disse al fabbroferraio, - fatemi subito la chiave di questa botola, che l'avevo e ora l'ho persa e non riesco ad aprire.
In men che non si dica ebbe una chiave che apriva a perfezione, scese nel sotterraneo e portò su un po' di sacchi di dobloni. Con quel mucchio di quattrini fece tappezzare tutte le stanze, fece mettere mobili, lampadari, portali, specchiere, tappeti, tutte le cose che usano nei palazzi dei principi: perfino il guardaportone con la livrea fino ai piedi e il bastone con la palla in cima.
Torna il Principe: - E com'è? Non era questa la mia casa? Si strofina gli occhi, si volta, torna indietro.
- Ma dov'è andata a finire? - E continua a girare avanti e indietro.
-Eccellenza, - gli dice il guardaportone, - cosa cerca vostra Eccellenza? Perché non entra?
- E sarebbe questa, casa mia?
- E di chi, se no? S'accomodi, Eccellenza.
-Ih! - fece il Principe dandosi una manata sulla fronte, Gesú! Tutti se li è spesi i miei quattrini, mia moglie!
Entrò di corsa: vide le scale di marmo bianco, la tappezzeria ai muri:
- Ih! Tutti, tutti, mia moglie!
Vide specchi e sottospecchi, sofà, divani, poltrone.
- Ih! Tutti, mia moglie! Arrivò in camera sua e si buttò a letto lungo disteso.
- Che avete, Principe? - gli disse la moglie.
-Ih... - faceva lui con un fil di voce, - tutti, mia moglie...
La moglie, lesta, andò a chiamare un notaío e quattro testimoni. Venne il notaio:- Principe, che avete? Volete far testamento? Dite...
-Tutti... mia moglie...
- Come? Come dite?
- Tutti... Mia Moglie...
- Volete lasciar tutto a Vostra moglie? Sí, ho capito. Va bene cosí?
- Tutti... Mia mOglie...
E mentre il notaio Scriveva, il Principe boccheggiò ancora un paio di volte, e poi morí.
La Principessa restò Padrona assoluta, e uscita dal lutto sposò il Sor Giuseppe, e cosí andò a finire che i danari dell'avaro se li mangiò lo scroccone. (Palermo).

 
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Bertoldo

Post n°640 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

e sottilissime astuzie di Bertoldo.

Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell'ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l'acutezza dell'ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive.

Fattezze di Bertoldo.

Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l'orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all'insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.

Audacia di Bertoldo.

Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch'erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s'immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo:

Ragionamento fra il Re e Bertoldo.

Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?
Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo.
Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi?
Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta.
Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle?
Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti.
Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti?
Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte.
Re. Qual è la più veloce cosa che sia?
Bertoldo. Il pensiero.
Re. Qual è il miglior vino che sia?
Bertoldo. Quello che si beve a casa d'altri.
Re. Qual è quel mare che non s'empie mai?
Bertoldo. L'ingordigia dell'uomo avaro.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane?
Bertoldo. La disubbidienza.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio?
Bertoldo. La lascivia.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante?
Bertoldo. La bugia.
Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa?
Bertoldo. La puttana.
Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa?
Bertoldo. La mala lingua del servitore.
Re. Qual è il più gran pazzo che sia?
Bertoldo. Colui che si tiene il più savio.
Re. Quali sono le infermità incurabili?
Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti.
Re. Qual è quel figlio ch'abbrugia la lingua a sua madre?
Bertoldo. Lo stuppino della lucerna.
Re. Come faresti a portarmi dell'acqua in un crivello e non la spandere?
Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei.
Re. Quali sono quelle cose che l'uomo le cerca e non le vorria trovare?
Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto.
Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane?
Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei.
Re. Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse.
Bertoldo. E tu saresti un bell'umore, se non rangiasti.
Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch'io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai.
Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri.
Re. Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami?
Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l'hai; e però non puoi darla a me.
Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio?
Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi.
Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi.
Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza.
Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle.
Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall'adulazione.
Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte?
Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà.
Re. Chi t'ha mosso dunque a venir qua?
Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re.
Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t'induce a fare questi ragionamenti?
Bertoldo. L'asino del tuo fattore.
Re. Che cosa ha da fare l'asino del mio fattore con la grandezza della mia corte?
Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l'asino aveva raggiato quattro mill'anni innanzi.
Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere.
Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi.
Re. Tu sei un malizioso villano.
Bertoldo. La mia natura dà così.
Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna.
Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti.
Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.

Astuzia di Bertoldo.

Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch'egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse:
Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te.
Re. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto?
Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne?
Re. Sì, vanno.
Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l'hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi.
Re. Tu sei un grand'uomo. Or va, ch'io ti perdono, e voi menatelo a mangiare.
Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l'opera.
Re. Perché, hai tu forse altro da dire?
Bertoldo. Io non ho ancora incominciato.
Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme.
Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta.

Favola del gambaro e della granzella narrata da Bertoldo.

Bertoldo. Tu dei sapere che il mio padre aveva fin a dieci figliuoli ed era povero come ancora son io, e perché spesse volte non vi era pane da cena, egli, in iscambio di cibarci e mandarci pasciuti a letto, ci soleva contare qualche favola a buon conto per farci addormentare, e così la solevamo passare fino alla mattina; onde fra l'altre ch'io gli udì raccontare, questa mi restò nella mente, e se tu hai pazienza di darmi un poco di udienza, udirai cosa che non ti spiacerà e torna a punto al proposito nostro.
Re. Di' pur su, che ciò mi sarà di sommo piacere.
Bertoldo. Diceva il mio padre che quando le bestie parlavano e che le civette cacavano mantelli, che il gambaro e la granzella, amici carissimi, si disposero d'andare un poco per lo mondo a vedere come si viveva negli altri paesi (e il gambaro allora caminava all'innanzi come fa l'altro bestiame, e similmente la Granzella non andava per traverso, come fanno al presente). Ora costoro partironsi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo e furono nel regno delle cavallette; poi passarono su quello delle lucerte, che confina con quello del Re de' parpaglioni, e così circondarono gran parte della terra e videro vari riti e vari costumi fra quelle bestiole; alla fine capitarono nel paese de' schiratoli ed era sera; e perché fra gli schiratoli e le donnole era grandissima guerra per esser confinanti insieme e per una nuova sospizione di tradimento si stava in arme dall'una e dall'altra parte, arrivati questi due compagni in simil luoco, furono dalle guardie scoperti e tolti per due spioni; e subito presi e legati furono condotti innanzi al loro capitano, il quale, fattogli essaminare minutamente non trovò in essi altro se non che, desiderosi di veder del mondo, erano giunti in quelle parti e che come forastieri non erano informati di cosa alcuna, e che bramavano di esser posti in libertà e tornarsene alle patrie loro; o pure, se volevano trattenergli per soldati, gli dessero il soldo come agli altri, ch'essi gli averiano serviti in quella guerra fidelissimamente. Inteso ciò dal capitano, subito gli fece slegare, e parendogli essere bestie da fazzione, per avere tanti piedi e tante braccia, gli accettò e subito gli fece passar la panca. Ora avvenne che, essendo mandato il gambaro a spiare quello che si faceva nel campo de' nemici, come quello ch'era nuovo personaggio in quel paese e che caminava con grandissimo silenzio e spesso si copriva tutto sotto la coda, non sarebbe conosciuto così facilmente; esso andò animosamente nel campo nemico e, trovando le guardie che dormivano, passò avanti e andò fino al padiglione del Donnolotto, pensando ch'ivi ancora si dormisse; ma il meschino ebbe la mala fortuna perché ivi si stava svegliato e giocavano a massa e topa, onde nel porre ch'ei fece il capo dentro, subito fu visto da uno di quei soldati, il quale cheto cheto si levò da giocare, che il povero gambaro non se n'avidde, e preso uno stanghetto gli tirò così fatto colpo sul capo, che lo stordì di maniera ch'ei parea morto, e se egli non si fusse trovato indosso le sue solite arme, il cervello gli andava a spasso.
Colui che lo percosse, non sapendo ch'ei fosse una spia, ma credendosi che quivi fosse capitato a caso, non avendo mostaccio a proposito da spia e credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senza altro sospetto tornò a giocare.
Ora, ritornato il misero in se stesso e non potendo appena levare il capo per la gran percossa ricevuta, giurò di mai più non voler entrare con il capo inanti in luoco alcuno, ma caminare con la coda, acciò se più gli veniva dato delle busse, che più tosto gli fusse dato sulla schiena che sulla testa. Così, tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era intravenuto, e come le guardie dormivano ma che nel padiglione si veghiava; onde il capitano fece armare chetamente le sue schiere, e andò ad assaltare il nemico e prese il padiglione e uccise tutti quelli che vi erano dentro, e fecero le vendette del bastonato gambaro. Il quale, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella:
"Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi".
"Ma come fuggiremo - disse la granzella - che non siano vedute le nostre pedate?"
"Tu caminerai per traverso - disse il gambaro - e io all'indietro, e così ci torremo di sotto".
Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone e con tanta destrezza che il gambaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potero coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli ne' quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l'avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gambaro camina all'indietro e la granzella per fianco. E perché il gambaro ebbe quella bacchettata sul capo nel cacciarsi nel padiglione, io me lo son sempre tenuto a mente, e per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato alla roversa, perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo.
Or che ne dici? Non è bella questa favola?
Re. Sì, certo, e sei stato un grand'uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa' ch'io ti vegga e non ti vegga, e portami l'orto, la stalla e il molino.
Bertoldo. Indovinala tu, Grillo. Orsù, io vado, e m'ingegnarò di fare quel ch'io saprò.


di Giulio Cesare Croce

illustrazione di Mariarita Brunazzi degli amici del forum di pinu

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Il paese dove non si muore mai

Post n°639 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un giovane che, salutati i genitori e gli amici, partì per cercare il paese dove non si muore mai. A tutti quelli che incontrava chiedeva:
"Sapete dove si trova il paese in cui non si muore mai?".
Ma nessuno sapeva rispondergli.
Un giorno, incontrò un vecchio che spingeva una carriola piena di pietre.
"Non vuoi morire? - chiese il vecchio - Resta con me! Non morirai finché io non avrò trasportato tutta questa montagna con la mia carriola, pietra dopo pietra".
"Quanto tempo occorrerà?".
"Almeno 100 anni".
"E dopo morirò?".
"Naturalmente".
"Allora non è ciò che desidero". Il giovane proseguì e giunse in una vasta foresta; un vecchio stava tagliando i rami con un falcetto.
"Se non vuoi morire, rimani con me; non potrai morire prima che io abbia finito di tagliare tutta questa foresta con il mio falcetto".
"E quanto occorrerà?".
"Almeno 200 anni".
"E dopo morirò? Non è quello che voglio". Il giovane ripartì e arrivò in riva al mare; trovò un vecchio che stava osservando un'anatra che beveva l'acqua del mare.
"Non morirai finché l'anatra non avrà bevuto tutta l'acqua del mare" disse il vecchio.
"E quanto ci vorrà?".
"Almeno 300 anni".
"E dopo dovrò morire?".
"Ovvio". "Allora non è ciò che desidero". Una sera, giunse presso un magnifico palazzo. Bussò e comparve un vecchio.
"Sapete dirmi dove si trova il paese in cui non si muore mai?".
"È questo! Finché abiterai qui non morirai!". Il giovane rimase con il vecchio per lunghi anni senza rendersi conto del tempo passato. Un giorno disse:
"Mi piacerebbe andare a vedere cosa è successo ai miei genitori.".
"Sono morti, ormai" disse il vecchio.
"Vorrei rivedere il mio paese".
"Allora prendi il cavallo bianco che corre veloce come il vento e fai attenzione: non mettere i piedi per terra per nessun motivo, altrimenti morirai!".
Il giovane montò sul cavallo e partì.
Al posto del mare, c'era una grande prateria. "Ho fatto bene a non rimanere qui!" si disse il giovane.
Dove si trovava la foresta c'era un terreno spoglio, senza neppure un albero. E nel luogo in cui si ergeva la montagna, ora c'era una pianura.
Giunse nel suo paese: tutto era cambiato. Cercò la sua casa ma non trovò neppure la strada. Chiese notizie della sua famiglia e dei suoi amici, ma nessuno se ne ricordava.
"Non mi resta che tornare da dove son venuto" pensò.
Sulla strada del ritorno, vide, fermo su un lato della strada, un carretto colmo di vecchie scarpe, trainato da un bue.
Il carrettiere gli disse: "Signore, per favore, aiutatemi. La ruota è rimasta incastrata".
"Ho fretta - disse il giovane - e poi, non posso mettere i piedi per terra".
"Vi prego; il giorno sta per finire e non posso procedere".
Il giovane ebbe pietà e scese da cavallo, ma appena ebbe posto un piede per terra il carrettiere lo afferrò per il braccio:
"Finalmente ti ho preso! Sono la Morte e tutte le scarpe che vedi nel carretto le ho consumate per inseguirti; ma è inevitabile che voi tutti cadiate prima o poi tra le mie mani, tu come gli altri: non c'è modo di sfuggirmi!".
E il giovane fu costretto a morire come tutti gli altri uomini.


Da Fiabe italiane di Italo Calvino


 
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La verità (Pirandello)

Post n°638 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Saru Argentu, inteso Tararà, appena introdotto nella gabbia della squallida Corte d'Assise, per prima cosa cavò di tasca un ampio fazzoletto rosso di cotone a fiorami gialli, e lo stese accuratamente su uno dei gradini della panca, per non sporcarsi, sedendo, l'abito delle feste, di greve panno turchino. Nuovo l'abito, e nuovo il fazzoletto.
Seduto, volse la faccia e sorrise a tutti i contadini che gremivano, dalla ringhiera in giù, la parte dell'aula riservata al pubblico. L'irto grugno raschioso, raso di fresco, gli dava l'aspetto d'uno scimmione. Gli pendevano dagli orecchi due catenaccetti d'oro.
Dalla folla di tutti quei contadini si levava denso, ammorbante, un sito di stalla e di sudore, un lezzo caprino, un tanfo di bestie inzafardate, che accorava.
Qualche donna, vestita di nero, con la mantellina di panno tirata fin sopra gli orecchi, si mise a piangere perdutamente alla vista dell'imputato, il quale invece, guardando dalla gabbia, seguitava a sorridere e ora alzava una scabra manaccia terrosa, ora piegava il collo di qua e di là, non propriamente a salutare, ma a fare a questo e a quello degli amici e compagni di lavoro un cenno di riconoscimento, con una certa compiacenza.
Perché per lui era quasi una festa, quella, dopo tanti e tanti mesi di carcere preventivo. E s'era parato come di domenica, per far buona comparsa. Povero era, tanto che non aveva potuto neanche pagarsi un avvocato, e ne aveva uno d'ufficio; ma per quello che dipendeva da lui, ecco, pulito almeno, sbarbato, pettinato e con l'abito delle feste.
Dopo le prime formalità, costituita la giuria, il presidente invitò l'imputato ad alzarsi.

- Come vi chiamate?

- Tararà.

- Questo è un nomignolo. Il vostro nome?

- Ah, sissignore. Argentu, Saru Argentu, Eccellenza. Ma tutti mi conoscono per Tararà.

- Va bene. Quant'anni avete?

- Eccellenza, non lo so.

- Come non lo sapete?

Tararà si strinse nelle spalle e significò chiaramente con l'atteggiamento del volto, che gli sembrava quasi una vanità, ma proprio superflua, il computo degli anni. Rispose:

- Abito in campagna, Eccellenza. Chi ci pensa?

Risero tutti, e il presidente chinò il capo a cercare nelle carte che gli stavano aperte davanti:

- Siete nato nel 1873. Avete dunque trentanove anni.

Tararà aprì le braccia e si rimise:

- Come comanda Vostra Eccellenza.

Per non provocare nuove risate, il presidente fece le altre interrogazioni, rispondendo da sé a ognuna: - È vero? - è vero? - Infine disse:

- Sedete. Ora sentirete dal signor cancelliere di che cosa siete accusato.

Il cancelliere si mise a leggere l'atto d'accusa; ma a un certo punto dovette interrompere la lettura, perché il capo dei giurati stava per venir meno a causa del gran lezzo ferino che aveva empito tutta l'aula. Bisognò dar ordine agli uscieri che fossero spalancate porte e finestre.
Apparve allora lampante e incontestabile la superiorità dell'imputato di fronte a coloro che dovevano giudicarlo.
Seduto su quel suo fazzolettone rosso fiammante, Tararà non avvertiva affatto quel lezzo, abituale al suo naso, e poteva sorridere; Tararà non sentiva caldo, pur vestito com'era di quel greve abito di panno turchino; Tararà infine non aveva alcun fastidio dalle mosche, che facevano scattare in gesti irosi i signori giurati, il procuratore del re, il presidente, il cancelliere, gli avvocati, gli uscieri, e finanche i carabinieri. Le mosche gli si posavano su le mani, gli svolavano ronzanti sonnacchiose attorno alla faccia, gli s'attaccavano voraci su la fronte, agli angoli della bocca e perfino a quelli degli occhi: non le sentiva, non le cacciava, e poteva seguitare a sorridere.
Il giovane avvocato difensore, incaricato d'ufficio, gli aveva detto che poteva essere sicuro dell'assoluzione, perché aveva ucciso la moglie, di cui era provato l'adulterio.
Nella beata incoscienza delle bestie, non aveva neppur l'ombra del rimorso. Perché dovesse rispondere di ciò che aveva fatto, di una cosa, cioè, che non riguardava altri che lui, non capiva. Accettava l'azione della giustizia, come una fatalità inovviabile.
Nella vita c'era la giustizia, come per la campagna le cattive annate.
E la giustizia, con tutto quell'apparato solenne di scanni maestosi, di tocchi, di toghe e di pennacchi, era per Tararà come quel nuovo grande molino a vapore, che s'era inaugurato con gran festa l'anno avanti. Visitandone con tanti altri curiosi il macchinario, tutto quell'ingranaggio di ruote, quel congegno indiavolato di stantuffi e di pulegge, Tararà, l'anno avanti, s'era sentita sorgere dentro e a mano a mano ingrandire, con lo stupore, la diffidenza. Ciascuno avrebbe portato il suo grano a quel molino; ma chi avrebbe poi assicurato agli avventori che la farina sarebbe stata quella stessa del grano versato? Bisognava che ciascuno chiudesse gli occhi e accettasse con rassegnazione la farina che gli davano.

Così ora, con la stessa diffidenza, ma pur con la stessa rassegnazione, Tararà recava il suo caso nell'ingranaggio della giustizia.
Per conto suo, sapeva che aveva spaccato la testa alla moglie con un colpo d'accetta, perché, ritornato a casa fradicio e inzaccherato, una sera di sabato, dalla campagna sotto il borgo di Montaperto nella quale lavorava tutta la settimana da garzone, aveva trovato uno scandalo grosso nel vicolo dell'Arco di Spoto, ove abitava, su le alture di San Gerlando.
Poche ore avanti, sua moglie era stata sorpresa in flagrante adulterio insieme col cavaliere don Agatino Fiorìca.
La signora donna Graziella Fiorìca, moglie del cavaliere, con le dita piene d'anelli, le gote tinte di uva turca, e tutta infiocchettata come una di quelle mule che recano a suon di tamburo un carico di frumento alla chiesa, aveva guidato lei stessa in persona il delegato di pubblica sicurezza Spanò e due guardie di questura, là nel vicolo dell'Arco di Spoto, per la constatazione dell'adulterio.
Il vicinato non aveva potuto nascondere a Tararà la sua disgrazia, perché la moglie era stata trattenuta in arresto, col cavaliere, tutta la notte. La mattina seguente Tararà, appena se la era vista ricomparire zitta zitta davanti all'uscio di strada, prima che le vicine avessero tempo d'accorrere, le era saltato addosso con l'accetta in pugno e le aveva spaccato la testa.
Chi sa che cosa stava a leggere adesso il signor cancelliere...
Terminata la lettura, il presidente fece alzare di nuovo l'imputato per l'interrogatorio.

- Imputato Argentu, avete sentito di che siete accusato?

Tararà fece un atto appena appena con la mano e, col suo solito sorriso, rispose:

- Eccellenza, per dire la verità, non ci ho fatto caso.

Il presidente allora lo redarguì con molta severità:

- Siete accusato d'aver assassinato con un colpo d'accetta, la mattina del 10 dicembre 1911, Rosaria Femminella, vostra moglie. Che avete a dire in vostra discolpa? Rivolgetevi ai signori giurati e parlate chiaramente e col dovuto rispetto alla giustizia.

Tararà si recò una mano al petto, per significare che non aveva la minima intenzione di mancare di rispetto alla giustizia. Ma tutti, ormai, nell'aula, avevano disposto l'animo all'ilarità e lo guardavano col sorriso preparato in attesa d'una sua risposta. Tararà lo avvertì e rimase un pezzo sospeso e smarrito.

- Su, dite, insomma, - lo esortò il presidente. - Dite ai signori giurati quel che avete da dire.

Tararà si strinse nelle spalle e disse:

- Ecco, Eccellenza. Loro signori sono alletterati, e quello che sta scritto in codeste carte, lo avranno capito. Io abito in campagna, Eccellenza. Ma se in codeste carte sta scritto, che ho ammazzato mia moglie, è la verità. E non se ne parla più.

Questa volta scoppiò a ridere, senza volerlo, anche il presidente.

- Non se ne parla più? Aspettate e sentirete, caro, se se ne parlerà...

- Intendo dire, Eccellenza, - spiegò Tararà, riponendosi la mano sul petto, - intendo dire, che l'ho fatto, ecco; e basta. L'ho fatto... sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati, l'ho fatto propriamente, signori giurati, perché non ne ho potuto far di meno, ecco; e basta.

- Serietà! serietà, signori! serietà! - si mise a gridare il presidente, scrollando furiosamente il campanello. - Dove siamo? Qua siamo in una Corte di giustizia! E si tratta di giudicare un uomo che ha ucciso! Se qualcuno si attenta un'altra volta a ridere, farò sgombrare l'aula! E mi duole di dover richiamare anche i signori giurati a considerare la gravità del loro compito!

Poi, rivolgendosi con fiero cipiglio all'imputato:

- Che intendete dire, voi, che non ne avete potuto far di meno?

Tararà, sbigottito in mezzo al violento silenzio sopravvenuto, rispose:

- Intendo dire, Eccellenza, che la colpa non è stata mia.

- Ma come non è stata vostra?

Il giovane avvocato, incaricato d'ufficio, credette a questo punto suo dovere ribellarsi contro il tono aggressivo assunto dal presidente verso il giudicabile.

- Perdoni, signor presidente, ma così finiremo d'imbalordire questo pover uomo! Mi pare ch'egli abbia ragione di dire che la colpa non è stata sua, ma della moglie che lo tradiva col cavalier Fiorìca. È chiaro!

- Signor avvocato, prego, - ripigliò, risentito, il presidente. - Lasciamo parlare l'accusato. A voi, Tararà: intendete dir questo?

Tararà negò prima con un gesto del capo, poi con la voce:

- Nossignore, Eccellenza. La colpa non è stata neanche di quella povera disgraziata. La colpa è stata della signora... della moglie del signor cavaliere Fiorìca, che non ha voluto lasciare le cose quiete. Che c'entrava, signor presidente, andare a fare uno scandalo così grande davanti alla porta di casa mia, che finanche il selciato della strada, signor presidente, è diventato rosso dalla vergogna a vedere un degno galantuomo, il cavaliere Fiorìca, che sappiamo tutti che signore è, scovato lì, in maniche di camicia e coi calzoni in mano, signor presidente, nella tana d'una sporca contadina? Dio solo sa, signor presidente, quello che siamo costretti a fare per procurarci un tozzo di pane!

Tararà disse queste cose con le lagrime agli occhi e nella voce, scotendo le mani innanzi al petto, con le dita intrecciate, mentre le risate scoppiavano irrefrenabili in tutta l'aula e molti anche si torcevano in convulsione. Ma, pur tra le risa, il presidente colse subito a volo la nuova posizione in cui l'imputato veniva a mettersi di fronte alla legge, dopo quanto aveva detto. Se n'accorse anche il giovane avvocato difensore, e di scatto, vedendo crollare tutto l'edificio della sua difesa, si voltò verso la gabbia a far cenno a Tararà di fermarsi.
Troppo tardi. Il presidente, tornando a scampanellare furiosamente, domandò all'imputato:

- Dunque voi confessate che vi era già nota la tresca di vostra moglie col cavaliere Fiorìca?

- Signor presidente, - insorse l'avvocato difensore, balzando in piedi, - scusi... ma io così... io così...

- Che così e così! - lo interruppe, gridando, il presidente. - Bisogna che io metta in chiaro questo, per ora!

- Mi oppongo alla domanda, signor presidente!

- Lei non può mica opporsi, signor avvocato. L'interrogatorio lo faccio io!

- E io allora depongo la toga!

- Ma faccia il piacere, avvocato! Dice sul serio? Se l'imputato stesso confessa...

- Nossignore, nossignore! Non ha confessato ancora nulla, signor presidente! Ha detto soltanto che la colpa, secondo lui, è della signora Fiorìca, che è andata a far uno scandalo innanzi alla sua abitazione.

- Va bene! E può lei impedirmi, adesso, di domandare all'imputato se gli era nota la tresca della moglie col Fiorìca?

Da tutta l'aula si levarono, a questo punto, verso Tararà pressanti, violenti cenni di diniego. Il presidente montò su tutte le furie e minacciò di nuovo lo sgombro dell'aula.

- Rispondete, imputato Argentu: vi era nota, sì o no, la tresca di vostra moglie?

Tararà, smarrito, combattuto, guardò l'avvocato, guardò l'uditorio, e alla fine:

- Debbo... debbo dire di no? - balbettò.

- Ah, broccolo! - gridò un vecchio contadino dal fondo dell'aula.

Il giovane avvocato diede un pugno sul banco e si voltò, sbuffando, a sedere da un'altra parte.

- Dite la verità, nel vostro stesso interesse! - esortò il presidente l'imputato.

- Eccellenza, dico la verità, - riprese Tararà, questa volta con tutt'e due le mani sul petto. - E la verità è questa: che era come se io non lo sapessi! Perché la cosa... sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati; perché la cosa, signori giurati, era tacita, e nessuno dunque poteva venirmi a sostenere in faccia che io la sapevo. Io parlo così, perché abito in campagna, signori giurati. Che può sapere un pover uomo che butta sangue in campagna dalla mattina del lunedì alla sera del sabato? Sono disgrazie che possono capitare a tutti! Certo, se in campagna qualcuno fosse venuto a dirmi: «Tararà, bada che tua moglie se l'intende col cavalier Fiorìca», io non ne avrei potuto fare di meno, e sarei corso a casa con l'accetta a spaccarle la testa. Ma nessuno era mai venuto a dirmelo, signor presidente; e io, a ogni buon fine, se mi capitava qualche volta di dover ritornare al paese in mezzo della settimana, mandavo avanti qualcuno per avvertirne mia moglie. Questo, per far vedere a Vostra Eccellenza, che la mia intenzione era di non fare danno. L'uomo è uomo, Eccellenza, e le donne sono donne. Certo l'uomo deve considerare la donna, che l'ha nel sangue d'essere traditora, anche senza il caso che resti sola, voglio dire col marito assente tutta la settimana; ma la donna, da parte sua, deve considerare l'uomo, e capire che l'uomo non può farsi beccare la faccia dalla gente, Eccellenza! Certe ingiurie... sì, Eccellenza, mi rivolgo ai signori giurati; certe ingiurie, signori giurati, altro che beccare, tagliano la faccia all'uomo! E l'uomo non le può sopportare! Ora io, padroni miei, sono sicuro che quella disgraziata avrebbe avuto sempre per me questa considerazione; e tant'è vero, che io non le avevo mai torto un capello. Tutto il vicinato può venire a testimoniare! Che ci ho da fare io, signori giurati, se poi quella benedetta signora, all'improvviso... Ecco, signor presidente, Vostra Eccellenza dovrebbe farla venire qua, questa signora, di fronte a me, ché saprei parlarci io! Non c'è peggio... mi rivolgo a voi, signori giurati, non c'è peggio delle donne cimentose! «Se suo marito», direi a questa signora, avendola davanti, «se suo marito si fosse messo con una zitella, vossignoria si poteva prendere il gusto di fare questo scandalo, che non avrebbe portato nessuna conseguenza, perché non ci sarebbe stato un marito di mezzo. Ma con quale diritto vossignoria è venuta a inquietare me, che mi sono stato sempre quieto; che non c'entravo né punto, né poco; che non avevo voluto mai né vedere, né sentire nulla; quieto, signori giurati, ad affannarmi il pane in campagna, con la zappa in mano dalla mattina alla sera? Vossignoria scherza?» le direi, se l'avessi qua davanti questa signora. «Che cosa è stato lo scandalo per vossignoria? Niente! Uno scherzo! Dopo due giorni ha rifatto pace col marito. Ma non ha pensato vossignoria, che c'era un altro uomo di mezzo? e che quest'uomo non poteva lasciarsi beccare la faccia dal prossimo, e che doveva far l'uomo? Se vossignoria fosse venuta da me, prima, ad avvertirmi, io le avrei detto: "Lasci andare, signorina! Uomini siamo! E l'uomo, si sa, è cacciatore! Può aversi a male vossignoria d'una sporca contadina? Il cavaliere, con lei, mangia sempre pane fino, francese; lo compatisca se, di tanto in tanto, gli fa gola un tozzo di pane di casa, nero e duro!"». Così le avrei detto, signor presidente, e forse non sarebbe accaduto nulla, di quello che purtroppo, non per colpa mia, ma per colpa di questa benedetta signora, è accaduto.

Il presidente troncò con una nuova e più lunga scampanellata i commenti, le risa, le svariate esclamazioni, che seguirono per tutta l'aula la confessione fervorosa di Tararà.

- Questa dunque è la vostra tesi? - domandò poi all'imputato.

Tararà, stanco, anelante, negò col capo.

- Nossignore. Che tesi? Questa è la verità, signor presidente.

E in grazia della verità, così candidamente confessata, Tararà fu condannato a tredici anni di reclusione.

 
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Per poco (Teasdale)

Post n°637 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

E quando sarò andata, andata via,
il mio canto potrà forse restare
per poco, come l'onda nella scia
dopo che s'è perduta in alto mare.

Qualche notte arderà, qualche altro giorno,
dalla fragile striscia luminosa
viva di canto, che farà ritorno
al nulla poi, dimora d'ogni cosa.

 
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Ossessione d'amore

Post n°636 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ricordate l'anziana cronista di gossip Piccarda Strombazzoni-Bon,sorella minore dell'Amalasunta,che aveva perso la testa per bernabò Trogoloni (de gustibus..)al punto da chiederne la mano all'Astorre e alla Bradamante?
Bene,la Piccarda col tempo non è rinsavita e la sua ossessione ha assunto livelli tali da finire per forza sui giornali.
Non mi credete?Leggete e giudicate!
LUNEDI'- La Piccarda ha comprato casa a S.Tobia,manco a dirlo davanti a casa Trogoloni.
Armatasi di un potentissimo telescopio,si è messa a osservare i dirimpettai nella speranza (vana,per inciso)di vedere l'uomo dei suoi sogni.
L'Astorre,stufo di essere osservato perfino in bagno,si è rivolto a Cuccurullo,che ha diffidato la Piccarda e sequestrato il telescopio
MARTEDI'- La Strombazzoni-Bon si è munita di macchina fotografica,si è appostata su ltetto e ha cominciato a fotografare i Trogoloni ogni volta che uscivano di casa.
Cuccurullo ha ridiffidato la Piccarda e sequestrato l'apparecchio-
MERCOLEDI'- La Piccarda ha ingaggiato un investigatore privato per pedinare iTrogoloni.Quelli lo hanno catturato,sottoposto a tre ore di sevizie inenarrabili,poi affidato alle tenere cure di Cesarone.
GIOVEDI'-La Piccarda ha comprato una pagina su tutti i giornali nazionali.Sulla pagina c'era una dichiarazione d'amore per Bernabò, nonchè le sue generalità con tanto di indirizzo , numero telefonico e foto.
I Trogoloni sono lo zimbello del paese e il telefono è rovente:1.300 donne vogliono sposare Bernabò,743 gay lo concupiscono,uno sceicco se lo vuol comprare,144 sono scherzi di pessimo gusto e 2 hanno sbagliato numero.
VENERDI'- Convintasi che Nerina Porchettoni era l'unico ostacolo alla sua unione con bernabò,la Piccarda è andata a Firenze,l'ha rapata ,impeciata e impiumata.
SABATO- Armata di bazooka la Piccarda ha fatto irruzione in casa Trogoloni e vi si èbarricata,dichiarando che di lì non si muoveva se Bernabò non tornava e la sposava intrafinefatta.
DOMENICA-I NOCS hanno liberato iTrogoloni.
Sono passate due settimane
Bernabò è uccel di bosco (anche perchè non sa cosa gli farebbero i familiari se si azzardasse a presentarsi a S.Tobia)
ITrogoloni hanno trasformato la casa in un bunker con tanto di filo spinato elettrificato e telecamere .Hanno 23 ferocissimi rotweiler come cani da guardia e chi si reca da loro senza sapere la parola d'ordine risschia di non tornare vivo a casa (ne sanno qualcosa due fidanzati fiorentini che si erano persi e hanno chiesto un'informazione e ora si trovano sul campanile in stato di choc).
L'investigatore privato è introvabile e i familiari hanno contattato "Chi l'ha visto?"
La Nerina è ricoverata nella clinica Luminaris:si crede un pidocchio nano.
Anche la Piccarda si trova lì,incatenata al muro e con palla al piede (in un giorno ha provato a scappare 73 volte).
Cari lettori,anche questa cronaca è finita ed io vi lascio fino alla prossima





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Libri dimenticati: La mia testimonianza (Edda Ciano)

Post n°635 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Questo è l'unico libro che Edda Ciano ha scritto sulla sua tragedia personale.
Breve ma incisivo,ci fa conoscere gli eventi dalla parte di colei che li ha vissuti in prima persona,senza abbellimenti o verità artefatte

 
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Frase del giorno

Post n°634 pubblicato il 06 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Dio deve proprio amare gli stupidi,visto che ne ha creati così tanti

 
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