Messaggi del 07/09/2011

Giacomo di cristallo

Post n°655 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l'aria e l'acqua. Era di carne e d'ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava in pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente.
Si vedeva il suo cuore battere, si vedevano i suoi pensieri guizzare come pesci colorati nella loro vasca.
Una volta, per sbaglio, il bambino disse una bugia, e subito la gente poté vedere come una palla di fuoco dietro la sua fronte: ridisse la verità e la palla di fuoco si dissolse. Per tutto il resto della sua vita non disse più bugie.
Un'altra volta un amico gli confidò un segreto, e subito tutti videro come una palla nera che rotolava senza pace nel suo petto, e il segreto non fu più tale.
Il bambino crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo, e ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli facevano una domanda, prima che aprisse bocca.
Egli si chiamava Giacomo, ma la gente lo chiamava “Giacomo di cristallo”, e gli voleva bene per la sua lealtà, e vicino a lui tutti diventavano gentili.
Purtroppo, in quel paese, salì al governo un feroce dittatore, e cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo. Chi osava protestare spariva senza lasciar traccia. Chi si ribellava era fucilato. I poveri erano perseguitati, umiliati e offesi in cento modi.
La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze.
Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno. Di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza.
Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.
Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri.
Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire.
Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano.



 
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Il lupo mannaro

Post n°654 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re e una Regina che non avevan figliuoli e pregavano i santi, giorno e notte, per ottenerne almeno uno. Intanto consultavano anche i dottori di Corte.
- Maestà, fate questo.
- Maestà, fate quello.
E pillole di qua, e beveroni di là; ma il sospirato figliuolo non arrivava a spuntare.
Una bella giornata ch'era freddino, la Regina s'era messa davanti il palazzo reale per riscaldarsi al sole. Passa una vecchiarella:
- Fate la carità!
Quella per la noia di cavar le mani di tasca rispose:
- Non ho nulla.
La vecchiarella andò via brontolando.
- Che cosa ha brontolato? - domandò la Regina.
- Maestà, ha detto che un giorno avrete bisogno di lei.
La Regina le fece correre una persona dietro, per richiamarla; ma la vecchiarella aveva svoltato cantonata ed era sparita.
Otto giorni dopo, si presentava un forestiero, chiedeva di parlare in segreto col Re:
- Maestà, ho il rimedio per guarir la Regina. Ma prima facciamo i patti.
- Oh, bravo! Facciamo i patti.
- Se nascerà un maschio, lo terrete per voi.
- E se una femmina?
- Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a quella montagna e abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova.
- Consulterò la Regina.
- Vuol dire che non ne farete nulla.
Stretto fra l'uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca una boccettina, che gli spariva fra le dita e disse:
- Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata, Vostra Maestà glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà.
Infatti, dopo nove mesi, la Regina partorì e fece una bella bambina. A questa notizia il Re diede in uno scoppio di pianto:
- Povera figliolina, che mala sorte! Che mala sorte!
La Regina lo seppe:
- Maestà, perché avete pianto: Povera figliolina, che mala sorte?
- Non ne fate caso.
La Reginotta cresceva più bella del sole: il Re e la Regina n'erano matti. Quando entrò nei sette anni, il povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto doveva condurla in cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto era questo: bisognava osservarlo.
Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina:
- Vo in campagna colla bimba; torneremo verso sera.
Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La Reginotta non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro.
- Siediti qui; aspetta un momento.
E l'abbandonò alla sua sorte.
Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare:
- E la figliuola? E la figliuola?
- Calò giù un'aquila, l'afferrò cogli artigli e la portò via.
- Ah, figliuola mia! Non è vero!
- Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco.
- Ah, figliolina mia! Non è vero!
- Faceva chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse.
- Non è vero! Non è vero!
Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa.
E la Regina partì, come una pazza, per ritrovar la figliuola.
Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non scoperse neppure un segnale; e tornò, desolata, al palazzo.
Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la Regina si affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad aspettarla al terrazzino. Come la vide passare:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il portone.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò andar via; e per le scale le domandò perdono di quella volta che non le aveva fatto l'elemosina. - Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia.
- Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito? Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla.
- E il Lupo Mannaro dov'abita?
- Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né bere, né riposare, e al terzo giorno s'arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di grano, e venite con me.
La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì insieme con lei.
Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchiarella attaccò un capo del refe a una piantina e disse:

- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.


Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte.
- Vecchiarella, riposiamo un tantino!
- Maestà, è impossibile.
Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame.
- Vecchiarella, prendiamo un boccone, mi sento svenire!
- Maestà, non è possibile.
Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete.
- Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua!
- Maestà, non è possibile.
E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella attaccò quell'altro capo ad una pianticina, e disse:

- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.


Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo la Regina dovea lasciar cadere in terra un chicco di grano e la vecchiarella diceva:

- Grano, grano di Dio, Com'io ti semino, vo' mieterti io.

Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano.
- Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo arrivati.
La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse:

- Coltellino, coltellino di Dio, Com'io ti pianto, vo' strapparti io.

Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta.
Vistasi sola sola in cima alla montagna, s'era messa a piangere e a strillare; poi, povera bimba, s'era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei stanzoni non vedeva anima viva. Gira, rigira, era già stanca.
- Reginotta, sedete, sedete!
Le sedie parlavano.
Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una tavola apparecchiata, colle pietanze fumanti.
- Reginotta, mangiate, mangiate!
La tavola parlava.
Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini.
- Reginotta, dormite, dormite!
Il letto parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla, ma s'annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla mamma; ed una volta si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi:
- Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia!
Ma una vociona le gridò:
- Sta' zitta! Sta' zitta!
Ranicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare.
Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare:
- Vuoi vedermi?
E non era quella vociona. Rispose:
- Volentieri.
Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle stanze viene avanti un cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino rosso e una bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello!
E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio, ti voglio.
E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani.
- Come ti chiami?
- Gomitetto.
- Che fai qui?
- Sono il padrone.
- Allora lasciami andare! Lasciami tornare a casa mia!
- No, no! Dobbiamo sposarci.
- Per ora bada a crescere!
Gomitetto se l'ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s'annoiava a star lì senza vedere un viso cristiano. Ogni giorno chiamava:
- Gomitetto! Gomitetto!
Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.
In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d'oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno.
La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio! Ti voglio! Ma per ora bada a crescere.
E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l'ebbe a male e andò via.
Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s'era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d'occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma:
- Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta!
E piangeva sui guanciali; quand'ecco sente buttar dei sassolini all'imposta della finestra.
Chi poteva essere, a quell'ora?
Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino l'impòsta, e domandò:
- Chi siete? Che cosa volete?
- Son io, figliuola mia; siam venute per te!
Dall'allegrezza stava per saltar dalla finestra.
- Ascolta, figliuola - disse la Regina sotto voce. - Quel Gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s'è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t'apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo.
La mattina, la Reginotta udì la solita voce:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.
Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso, peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare.
- Mi vuoi per marito? Ti feci fare apposta per me.
Lei tremava come una foglia.
- Mi vuoi per marito?
Più la Reginotta sentiva quella vociaccia, e più tremava e si smarriva.
- Mi vuoi per marito?
Voleva rispondergli: sì! Ma le scappò detto:
- Oh, no! no!
- Allora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia!
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso! Sarai mangiata domani.
La notte, all'ora fissata, lei s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi scappò detto di no; sarò mangiata domani.
- Fatevi coraggio! - disse la vecchiarella.
E picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro tutto il palazzo tremava.

Son coltellino,
Son piantato nella terra dura,
Per difender la creatura.


Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina, all'alba, venne fuori; e come vide il coltellino, si mordeva le mani:
- Se trovo chi l'ha piantato, ne faccio un boccone!
Cercò, frugò attorno, ma non trovò nessuno. All'ultimo chiamò la Reginotta:
- Vien qua, strappami di terra questo coltellino: non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e strappò il coltellino.
- Ed ora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: strappa di terra questo coltellino, ed io glielo strappai. Domani sarò mangiata!
- Fatevi coraggio!
E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro, tutto il palazzo tremava.

Son frumentino,
Son seminato nella terra scura,
Per difender la creatura.


Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba, venne fuori; e come vide il seminato colle spighe penzoloni, si mordeva le mani:
- Se trovo chi lo seminò, ne faccio un boccone.
Cercò, frugò intorno, ma non trovò nessuno. E la mattina dopo disse alla Reginotta:
- Vieni qua: mietimi questo frumento; non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e si mise all'opera. Per lei non c'era malìa, e in una giornata poté facilmente terminare di mieterlo.
- Ed ora vien qui!
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Quegli stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso, per l'ultima volta.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: mieti questo frumento ed io glielo mietei. Domani sarò mangiata.
- Fatevi coraggio!
E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? - urlò il Lupo Mannaro.

Son refe fino
Son attaccato alla pianta matura,
Per difender la creatura.


Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba venne fuori, e come vide il capo del refe legato alla pianticina, si mordeva le mani:
- Vien qua; scioglimi questo refe dai due capi: non ti mangerò più.
La Reginotta era stata indettata dalla vecchiarella.
Non doveva fermarsi un passo, né mangiare, né bere, ma aggomitolare, aggomitolare e andare avanti. Sciolse quel capo, e lei avanti, aggomitolando, il Lupo Mannaro dietro.
- Ripòsati, ripòsati!
- Quando sarò stanca, mi riposerò.
Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Prendi un boccone, prendi un boccone!
- Quando avrò fame mangerò.
Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Bevi un gocciolino d'acqua, un gocciolino!
- Quando avrò sete, berrò.
Eran già arrivati alla buca d'uscita. Come il Lupo Mannaro s'accorse che l'altro capo del refe era attaccato alla pianticina di fuori, cominciò a mordersi rabbiosamente le mani. E vista la vecchiarella, diventò bianco come un panno lavato.
- Ah! La nemica mia! Son morto! Son morto!
La Regina e la Reginotta si voltarono e, invece della vecchiarella, videro una bellissima signora, che pareva la stella del mattino. Era la Regina delle Fate. Figuriamoci che allegrezza!
La Regina delle Fate prendeva intanto dei sassi, e li metteva l'uno sull'altro davanti la buca.

- Sassi, sassi di Dio,
Io vi muro e vo' smurarvi io!


Murata la buca, la Regina delle Fate sparì.
E quella brutta bestiaccia crepò di fame lì dentro.
La Regina e la Reginotta tornarono sane e salve al palazzo; e un anno dopo la Reginotta sposò il Re di Portogallo.

 

 
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I tre anelli

Post n°653 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un sarto, che aveva tre figliuole, una più bella dell'altra. Sua moglie era morta da un pezzo, e lui si stillava il cervello per riuscire a maritarle. Le ragazze non avevano dote, e senza dote un marito è un po' difficile a trovarsi.
Un giorno questo povero padre pensò d'andarsene in una pianura e chiamare la Sorte:
- Sorte, o Sorte!
Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso:
- Perché mi hai tu chiamata?
- Ti ho chiamata per le mie figliuole.
- Menale qui ad una ad una; si sceglieranno la sorte colle loro mani.
Il buon uomo, tornato a casa tutto contento, disse alle figliuole:
- La vostra fortuna è trovata!
E raccontò ogni cosa. Allora la maggiore si fece avanti, ringalluzzita:
- La prima scelta tocca a me. Sceglierò il meglio!
Il giorno dopo, padre e figliuola si avviarono per quella pianura:
- Sorte, o Sorte!
Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso:
- Perché m'hai tu chiamata?
- Ecco la mia figliuola maggiore.
La vecchia cavò di tasca tre anelli, uno d'oro, uno d'argento, uno di ferro e li mise sulla palma della mano:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
Naturalmente prese l'anello d'oro.
- Maestà, vi saluto!
La vecchia le fece un inchino e sparì.
Tornati a casa, la sorella maggiore, pavoneggiandosi, disse alle altre due:
- Diventerò Regina! E voi reggerete lo strascico del manto reale!
Il giorno dopo andò col padre l'altra figlia.
Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso, e cavò di tasca due anelli, uno d'argento ed uno di ferro: - Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
E, s'intende, prese quello d'argento.
- Principessa vi saluto!
La vecchia le fece un inchino e sparì.
Tornata a casa, quella disse alla maggiore:
- Se tu sarai Regina, io sarò Principessa!
E tutt'e due si diedero a canzonare la sorella minore:
- Che volete? Chi tardi arriva male alloggia. Dovea venire al mondo prima.
Lei zitta. Il giorno dopo andò col padre la figliuola minore.
Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso e cavò di tasca, come la prima volta, tre anelli, uno d'oro, uno d'argento e uno di ferro:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
Con gran rabbia di suo padre, avea preso quello di ferro.
La vecchia non le disse nulla, e sparì.
Per la strada il sarto continuò a brontolare:
- Perché non quello d'oro?
- Il Signore m'ispirò così.
Le due sorelle, curiose, vennero ad incontrarla per le scale.
- Facci vedere! Facci vedere!
Come videro l'anello di ferro, si contorcevano dalle risa e la canzonavano. Saputo poi che lo avea scelto fra uno d'oro e uno d'argento, per grulla la presero e per grulla la lasciarono.
E lei, zitta.

Intanto si sparse la voce che le tre belle figliuole del sarto avevano gli anelli della buona sorte. Il Re del Portogallo dovea prender moglie e venne a vederle. Rimase ammaliato dalla maggiore:
- Siate Regina del Portogallo!
La sposò con grandi feste e la menò via.
Poco dopo venne un Principe. Rimase ammaliato dalla seconda.
- Siate Principessa!
La sposò con grandi feste e la menò via.
Restava l'ultima. Non la chiedeva nessuno.
Un giorno, finalmente, si presentò un pecoraio:
- Volete darmi questa figliuola?
Il sarto, che ne aveva una Regina ed una Principessa, era montato in superbia e rispose:
- Il pecoraio, scusate, noi per ora ce l'abbiamo.
Stava per passare un altr'anno. La minore restava sempre in casa, e il padre non faceva altro che brontolare giorno e notte:
- Le stava bene, stupidona! Sarebbe rimasta in un canto, con quel suo anello di ferro.
E all'anno appunto, tornò a presentarsi il pecoraio:
- Volete darmi quella figliuola?
- Prendila - rispose il sarto. - Non si merita altro!
Si sposarono, senza feste e senza nulla, e la menò via.
Allora il sarto disse:
- Voglio andar a visitare la mia figliuola Regina.
La trovò che piangeva.
- Che cos'hai, figliuola mia?
- Sono disgraziata! Il Re vorrebbe un figliuolo, ed io non posso farne. I figliuoli li dà Dio.
- Ma l'anello della buona fortuna non giova a nulla?
- Non giova a nulla. Il Re mi ha detto: «Se fra un anno non avrò un figliuolo, guai a te!». Son certa, babbo mio, che mi farà tagliar la testa.
Quel povero padre, come potea rimediare? E partì per far visita alla figliuola Principessa. La trovò che piangeva.
- Che cos'hai, figliuola mia?
- Sono disgraziata! Tutti i figliuoli che faccio mi muoiono dopo due giorni.
- E l'anello della buona fortuna non giova a nulla?
- Non giova a nulla. Il Principe mi ha detto: «Se questo che hai nel seno morrà anche lui, guai a te!». Son certa, babbo mio, che mi farà scacciar di casa!
Quel povero padre che potea farci? E partì.
Per via gli nacque il pensiero d'andar a vedere l'altra figliuola, quella del pecoraio. Ma aveva vergogna di presentarsi. Si travestì da mercante, prese con sé quattro ninnoli da vendere e, cammina, cammina, arrivò finalmente in quelle contrade lontane.
Vide un magnifico palazzo stralucente, e domandò a chi appartenesse.
- È il palazzo del re Sole.
Mentre stava lì a guardare, stupito, sentì chiamarsi da una finestra:
- Mercante, se portate bella roba, montate su. La Regina vuol comprare.
Montò su, e chi era mai la Regina? La sua figliuola minore, la moglie del pecoraio. Quello rimase di sasso; non potea neppure aprir le cassette degli oggetti da vendere.
- Vi sentite male, poverino? - gli disse la Regina.
- Figliuola mia, sono tuo padre! E ti chiedo perdono!
Lei, che l'aveva riconosciuto, non permise che le si gettasse ai piedi, e lo ricevé tra le braccia:
- Siate il ben venuto! Ho dimenticato ogni cosa. Mangiate e bevete, ma prima di sera andate via. Se re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito.
Dopo che quello ebbe mangiato e bevuto, la figliuola gli disse:
- Questi doni son per voi. Questa nocciuola è per la sorella maggiore: questa boccettina di acqua per l'altra. La nocciuola, dee inghiottirsela col guscio; l'acqua, dee berne una stilla al giorno, non più. E che badino, babbo!
Quando le due sorelle intesero la bella fortuna toccata alla minore e videro quella sorta di regali che loro inviava, arsero d'invidia e di dispetto:
- Si beffava di loro con quella nocciuola e con quell'acqua!
La maggiore buttò la nocciuola in terra, e la pestò col calcagno. La nocciuola schizzò sangue. C'era dentro un bambino piccino piccino: lei gli aveva schiacciata la testa!
Il Re, visto quell'atto di superbia e il bambino schiacciato:
- Olà! - gridò - levatemela d'innanzi; mozzatele il capo!
E, senza pietà né misericordia, la fece mettere a morte.
L'altra, nello stesso tempo, avea cavato il turacciolo alla boccetta e, affacciatasi a una finestra, n'avea versata tutta l'acqua.
Sotto la finestra passavano dei ragazzi che trascinavano un gatto morto. L'acqua cadde su questo, e il gatto risuscitò.
- Ah, scellerata! - urlò il Principe. - Hai tolto la sorte ai nostri figliuoli!
E in quel momento di furore, la strangolò colle sue mani.
Il babbo tornò dalla figliuola minore, e raccontò, piangendo, quelle disgrazie.
- Babbo mio, mangiate e bevete, e prima di sera andate via. Se re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito. Appena avrò buone notizie, vi manderò a chiamare.
La sera tornò re Sole, e lei gli domandò:
- Maestà, che cosa avete visto nel vostro viaggio?
- Ho visto tagliar la testa a una Regina e strangolare una Principessa. Se lo meritavano.
- Ah, Maestà, eran le mie sorelle! Ma voi potete risuscitarle; non mi negate questa grazia!
- Vedremo! - rispose re Sole. Il giorno dopo, appena fu giunto nel luogo dov'era seppellita la Regina, picchiò sulla fossa e disse:

- Tu che stai sotto terra,
Mi manda la tua sorella;
Se dal buio volessi uscire,
Del mal fatto ti déi pentire.

- Rispondo a mia sorella:
Sto bene sotto terra.
Dio gli dia male e malanno!
Vo' la nuova avanti l'anno!

- Resta lì, donnaccia infame!
E il re Sole continuò il suo viaggio. Arrivato dov'era stata sepolta la Principessa, picchiò sulla fossa e disse:

- Tu che stai sotto terra,
Mi manda la tua sorella;
Se vuoi tornare da morte a vita,
Del mal fatto sii pentita!

- Rispondo a mia sorella:
Sto bene sotto terra.
Male occulto o mal palese,
Vo' la nuova avanti un mese!

Resta lì, donnaccia infame!
Re Sole continuò il suo viaggio, e quelle due sorelle se le mangiarono i vermi.

Stretta è la foglia, larga è la via.
Dite la vostra, ché ho detto la mia





 
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Una notte in paradiso

Post n°652 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta due grandi amici che dal bene che si volevano avevano fatto questo giuramento: chi si sposa per primo dovrà chiamare l'amico per compare d'anello, anche se si trovasse in capo al mondo.
Dopo un po', uno dei due amici muore. L'altro, dovendosi sposare, non sapeva come fare, e chiese consiglio al confessore.
-Brutto affare, - disse il pievano, - tu la tua parola devi mantenerla. Invitalo anche se è morto. Va' alla tomba e digli quello che gli devi dire. Sta poi a lui venire o no.
Il giovane andò alla tomba e disse: - Amico, è venuto il momento; vieni a farmi da compare d'anello!
S'aperse la terra e saltò fuori l'amico. - Sí che vengo, devo pur mantenere la promessa, perché se non la mantengo mi tocca stare chissà quanto tempo in Purgatorio.
Vanno a casa, e dopo in chiesa per lo sposalizio. Poi ci fu il banchetto di nozze e il giovane morto cominciò a raccontare storie d'ogni genere, ma di quel che aveva visto all'altro mondo non ne faceva parola. Lo sposo non vedeva l'ora di fargli delle domande, ma non ne aveva il coraggio. Alla fine del banchetto, il morto s'alza e dice:
- Amico, visto che t'ho fatto questo piacere, dovresti venire ad accompagnarmi un pezzetto.
-Certo, perché no? Però, senti, solo un momentino, perché, sai, è la prima notte con la mia sposa...
- Ma sí, come vuoi!
Lo sposo diede un bacio alla sposa. - Vado fuori un momento e torno subito, - e uscí col morto. Chiacchierando del piú e del meno arrivarono alla tomba. S'abbracciarono. Il vivo pensò: " Se non glielo domando ora non glielo domando piú ", si fece coraggio e gli disse:
- Senti, vorrei chiederti una cosa, a te che sei morto: di là, come si sta?
-Io non posso dire nulla, - fece il morto. - Se vuoi sapere vieni anche tu in Paradiso.
La tomba s'aperse, e il vivo seguí il morto. E si trovarono a essere in Paradiso. Il morto lo condusse a vedere un bel palazzo di cristallo con le porte d'oro e dentro gli angeli che suonavano e facevano ballare i beati, e San Pietro che suonava il contrabbasso. Il vivo stava a bocca aperta e chissà quanto sarebbe rimasto lí se non avesse avuto da vedere tutto il resto.
- Vieni in un altro Posto, adesso! - gli disse il morto, e lo portò in un giardino in cui gli alberi invece di foglie avevano uccelli di tutti i colori che cantavano.
- Andiamo avanti, cosa fai lí incantato! - E lo portò in un prato in cui ballavano gli angeli, allegri e dolci come innamorati.
- Ora ti porto a vedere una stella! - Sulle stelle non si sarebbe mai stancato di guardare; i fiumi invece che d'acqua erano di vino e la terra era di formaggio.
Tutto a un tratto
si riscosse: - Di', compare, sarà già qualche ora che sono quassú. Bisogna che torni dalla sposa che sarà in pensiero.
- Sei già stufo? - Stufo? Sí: stesse a me...
-E ce ne sarebbe ancora da vedere!
-Lo credo, ma è meglio che vada.
-Bene, come vuoi, - e il morto lo riaccompagnò fino alla tomba e poi sparí.
Il vivo uscí dalla tomba, e non riconosceva piú il cimitero. Era tutto pieno di monumenti, statue, alberi alti. Esce dal cimitero e invece di quelle casette di sassi tirate su alla meglio, vede dei gran palazzi, e tranvai, automobili, aeroplani. " Dove diavolo sono? Ho sbagliato strada? Ma com'è vestita questa gente? "
Domanda a un vecchietto: - Galantuomo, questo paese è ... ?
- Si, si chiama cosí, questa città.
-Bene, non so perché, non mi ritrovo. Sapete dirmi dov'è la casa di quello che si è sposato ieri?
-Ieri? Mah, io faccio il sagrestano, e posso dire che ieri non s'è sposato nessuno!
-Come? Io, mi son sposato! - e gli raccontò che aveva accompagnato in Paradiso il suo compare morto.
-Ti sogni, - disse il vecchio. - Questa è una vecchia storia che raccontano: dello sposo che ha seguito il compare nella tomba e non è piú tornato, e la sposa è morta dal dolore.
-Ma no, lo sposo sono io!
-Senti, l'unica è che tu venga a parlare qui col nostro Vescovo.
- Vescovo? Ma qui in paese c'è solo il pievano.
-Che pievano? Sono tanti di quegli anni che qui ci sta il Vescovo -. E lo portò dal Vescovo.
Il Vescovo, quando il giovane gli raccontò cosa gli era successo, si ricordò di una storia sentita da ragazzo. Prese i libri, cominciò a sfogliarli: trent'anni fa, no; cinquant'anni, no; cento, no; duecento, no. E continua a scartabellare. Alla fine, su una carta tutta rotta e bisunta, trova proprio quei nomi.
- È stato trecent'anni fa. Quel giovane è scomparso nel cimitero e la sua sposa è morta di dolore. Leggi qui se non ci credi!
- Ma sono io!
-E sei stato all'altro mondo? Raccontami, raccontami qualcosa!
Ma il giovane diventò giallo come la morte e cadde in terra. Cosí morí, senza poter raccontare nulla di quel che aveva visto.



 
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L'uomo selvatico

Post n°651 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Regnavano un tempo nel prosperoso reame di Serradifalco un re potente e una bella regina che avevano un solo figlio, il giovane principe Guerrino.
Il re amava molto la caccia, nella quale eccelleva per forza e abilità, e un giorno che si trovava a una battuta con i suoi baroni e cavalieri vide uscire da una fitto bosco un uomo selvatico grande e grosso, brutto e mostruoso, che mostrava una forza straordinaria, e tutti rimasero a guardarlo pieni di meraviglia.
Il re chiamò accanto a sé i suoi due migliori cavalieri e dopo un lungo combattimento riuscì a catturarlo, lo legò e lo portò a palazzo, dove lo chiuse a chiave in una stanza sicura, ordinando che non gli facessero mancare nulla.
Siccome il re teneva all'uomo selvatico più che a ogni altra cosa, diede le chiavi della sua prigione alla regina perché le custodisse, e non passava giorno senza che andasse a guardarlo con grande piacere.
Dopo poco tempo il re ebbe di nuovo voglia di andare a caccia, e quando tutto fu pronto partì con i suoi baroni e cavalieri, non senza aver raccomandato alla regina quelle chiavi.
Mentre il re era a caccia Guerrino sentì un gran desiderio di vedere l'uomo selvatico, e ci andò da solo con un arco e una freccia d'oro che amava molto. Accanto alla grata della prigione vide il mostro, e tenendo fra le mani la freccia finemente lavorata si mise a ragionare con lui come con un compagno. L'uomo selvatico parlando lo carezzava e gli faceva tanti complimenti, ma d'un tratto con una mossa improvvisa gli prese la freccia d'oro. Guerrino si mise a piangere a dirotto e fra le lacrime chiedeva all'uomo selvatico che gli rendesse la sua freccia, finché a un certo punto lui disse:
"Se mi vuoi aprire e rendere la libertà ti renderò la tua freccia, altrimenti non la riavrai mai più".
Il fanciullo allora gli rispose:
"Ma come posso aprirti e liberarti, se non so come fare?"
E il mostro: "Se tu volessi davvero sciogliermi e farmi uscire da questa stretta prigione, io ti insegnerei subito il modo di farlo".
"Ma come?", disse Guerrino, "dimmi in che modo!"
E l'uomo selvatico gli insegnò: "Va' dalla regina tua madre, e se la troverai addormentata guarda attentamente sotto il guanciale sul quale posa il capo, e piano piano, perché non ti senta, rubale le chiavi della prigione, portale qui e aprimi: appena mi avrai aperto ti restituirò la freccia, e forse un giorno potrò ricompensarti ancora per la libertà che mi rendi".
Guerrino, tutto desideroso della sua freccia d'oro, non stette tanto a pensarci, corse dalla madre che riposava tranquilla, le tolse piano piano le chiavi, e con quelle tornò dall'uomo selvatico, dicendogli:
"Ecco le chiavi. Se io ti libero di qui, va' tanto lontano che di te non si senta più nemmeno l'odore, perché se mio padre, che è gran maestro di cacce, ti riprendesse, facilmente ti farebbe uccidere".
"Non dubitare, bambino mio," disse l'uomo selvatico, "appena mi avrai aperto la prigione e sarò libero ti darò la freccia d'oro, e andrò tanto lontano che né tuo padre né chiunque altro mi troverà più".
Guerrino impegnandosi con tutte le sue forze riuscì ad aprire la prigione, e l'uomo selvatico, dopo avergli reso la freccia e averlo ringraziato, se ne andò.
Bisogna sapere che l'uomo selvatico era stato un giovane bellissimo, che non era riuscito a conquistare la fanciulla che amava, e per la disperazione del suo cuore era fuggito lontano da tutti ed era andato a vivere nei boschi tra gli animali selvaggi, nutrendosi di erbe e dissetandosi alle fonti insieme alle belve. Così dopo un po' di tempo il pelo del povero giovane era aumentato e si era fatto ispido, la pelle gli si era indurita, mentre la barba folta era cresciuta moltissimo e come i peli e i capelli era diventata verde come l'erba che mangiava, dandogli l'aspetto di un mostro.
Intanto la regina svegliandosi mise le mani sotto il guanciale per prendere le chiavi che teneva sempre con sé, e non trovandole non capiva cosa fosse successo, rivoltò le lenzuola, le coperte, i materassi, ma inutilmente, poi correndo come impazzita alla prigione trovò la porta spalancata e non vide più l'uomo selvatico. Si sentì morire dal dolore, e correva per il palazzo da una stanza all'altra, domandando a tutti quelli che incontrava chi era stato quel temerario incosciente che aveva osato prendere le chiavi della prigione a sua insaputa. E quando Guerrino incontrò sua madre e la vide così infuriata, disse:
"Madre mia, non dare a nessuno la colpa per l'apertura della prigione, se c'è qualcuno che deve essere punito, quello sono io, perché io da solo l'ho aperta".
La regina allora si addolorò ancora di più, temendo che il re quando tornava dalla caccia sarebbe andato in collera al punto di uccidere Guerrino, perché le aveva raccomandato quelle chiavi come dandole in custodia il suo cuore. Così la regina, credendo di evitare un guaio, ne combinò uno molto più grande, perché senza aspettare neanche un momento chiamò due servitori fedelissimi, affidò loro suo figlio e dopo averli forniti di molte pietre preziose, gioielli, denari e cavalli bellissimi li fece partire, pregandoli di aver sempre cura del principe Guerrino.
Dopo poco tornò il re dalla caccia, appena fu a palazzo andò alla prigione dell'uomo selvatico, vide la porta aperta e capì che era fuggito, e subito fu preso da una collera terribile e decise di uccidere chi lo aveva fatto scappare.
Andò dalla regina che era seduta tutta triste nella sua camera, e le domandò chi era stato così sfacciato, arrogante e temerario da aprire la prigione e far fuggire il mostro. La regina con un filo di voce tremante gli rispose:
"Calmati, mio signore, nostro figlio mi ha confessato di essere stato lui", poi gli raccontò tutto quello che aveva fatto Guerrino, e il re si arrabbiò molto.
Allora la regina continuò dicendo che per paura che lo uccidesse lo aveva fatto partire per terre lontane accompagnato da due servitori fidati, ben forniti di gioielli e denari per le necessità del viaggio. Al povero re queste parole raddoppiarono il dolore, e per poco non cadde a terra e non impazzì per la disperazione, se non lo avessero fermato i suoi baroni e cavalieri in quel momento avrebbe ucciso la regina.
Quando scese la sua collera e ritornò in sé il re disse:
"Signora, come hai potuto mandare in paesi sconosciuti il nostro unico figlio? Credevi forse che tenessi più a un uomo selvatico che al sangue del mio sangue?", e senza aspettare risposta diede ordine ai suoi soldati che si schierassero in quattro drappelli e muovessero alla ricerca del principe verso tutti i punti cardinali.
Ma fu inutile, perché Guerrino viaggiava in incognito con i suoi servi e nessuno poteva riconoscerlo.

Così cavalcando coi suoi servitori, passando per valli, monti e fiumi, fermandosi un po' in un posto e un po' in un altro, Guerrino arrivò all'età di sedici anni, ed era diventato bello come una rosa di maggio.
In quel tempo i suoi servitori ebbero un'idea diabolica: uccidere Guerrino e dividersi tutte le sue ricchezze. Ma non poterono attuare il loro piano, perché proprio allora passava di là un bellissimo giovane a cavallo di un superbo destriero bardato con finimenti preziosi, e chinato il capo con cortesia salutò Guerrino dicendo:
"Gentile cavaliere, se non ti fa dispiacere, vorrei cavalcare insieme a te". Guerrino gli rispose:
"Sei così gentile che non si può rifiutare la tua compagnia, ti ringrazio, e anzi sono io a chiederti il grande favore di cavalcare con noi. Siamo forestieri, non conosciamo le strade, e tu cortesemente ce le potrai insegnare, poi lungo la via potremo raccontarci le nostre storie, e il cammino ci sembrerà meno lungo".
Bisogna sapere che questo cavaliere era l'uomo selvatico che Guerrino aveva liberato dalla prigione di suo padre. Dopo aver errato a lungo per boschi e luoghi strani, un giorno per caso aveva incontrato una fata bellissima, che soffriva di una malattia mortale. Avendolo visto così deforme e osservando la sua bruttezza, la fata aveva riso di lui così fragorosamente che gli era scoppiato quell'ascesso vicino al cuore che stava per ucciderla. Così la bella fata trovandosi sana e salva gli era stata grata e gli aveva detto:
'Uomo tanto deforme e sozzo, mi hai reso tu la vita che temevo di perdere, va', io voglio che tu diventi il più bello, il più gentile, il più saggio e il più affascinante giovane che si possa trovare, e voglio anche farti partecipe della mia virtù e della mia potenza magica, perché tu possa fare e disfare in un batter d'occhio ogni cosa secondo il tuo desiderio".
E infine, facendolo montare su un superbo destriero fatato, gli aveva detto che poteva andare ovunque desiderasse.
Cavalcando insieme, dopo un po' di tempo Guerrino e il giovane cavaliere giunsero alla potente città di Assoro, nella quale viveva un re che aveva due figlie, Fedora e Miranda, tanto belle e piene di grazia che tutti si incantavano a guardarle.
Appena giunti ad Assoro, Guerrino col cavaliere sconosciuto e i due servitori presero alloggio nel miglior ostello della città; il cavaliere disse che voleva partire per visitare altri reami e salutò Guerrino ringraziandolo della compagnia, ma il principe ormai lo amava molto, e non volendo che partisse lo pregò con tanta dolcezza che lo convinse a restare.
In quel tempo il reame di Assoro era infestato da due belve: un cavallo e una cavalla selvatici, tanto feroci che non solo distruggevano tutti i raccolti dei campi, ma uccidevano gli animali domestici e anche gli esseri umani. I terribili cavalli avevano sparso il terrore fra la popolazione, che preferiva partire lasciando le case e le terre del reame di Assoro.
Non c'era nessuno che avesse la forza e il coraggio di affrontarli e di ucciderli, così il re vedeva il suo reame devastato e abbandonato, ma non sapeva come trovare un rimedio, e si disperava maledicendo la sua sfortuna.
I due servi, che non avevano potuto attuare il loro piano malvagio lungo la via per l'arrivo del cavaliere sconosciuto, volevano impossessarsi dei gioielli e dei denari di Guerrino, ma avevano paura di essere scoperti, così cercando un modo per farlo morire pensarono di dire all'oste che Guerrino era un prode e valente cavaliere, che tante volte si era vantato di sapere come fare a uccidere il cavallo selvatico senza pericolo.
"L'oste andrà a riferirlo al re," dissero, "e il re di Assoro non vuole altro che la morte dei due animali selvatici e il benessere del suo reame, così farà chiamare Guerrino e gli chiederà come intende fare, lui non saprà rispondere, sarà condannato a morte, e noi resteremo padroni delle sue ricchezze".
Appena l'oste li sentì parlare del coraggio di Guerrino ne fu felice, corse dal suo re e dopo essersi inchinato gli disse:
"Maestà, sappi che nel mio ostello c'è un cavaliere errante molto bello che si chiama Guerrino, e parlando con i suoi servitori ho saputo che il loro signore è prode, coraggioso e tanto valente con le armi in pugno che nessuno ha mai potuto batterlo, e questo Guerrino si è più volte vantato che con la sua forza e la sua potenza può domare il cavallo selvatico che devasta il tuo reame".
Sentendo queste parole il re volle vedere Guerrino, e l'oste, servendolo fedelmente, andò subito a dirgli di andare dal re, perché voleva parlare con lui.
Guerrino allora si presentò al re, e inchinandosi gli chiese per quale ragione lo aveva chiamato.
Il re gli disse: "Guerrino, il motivo che mi ha spinto a farti venire qui è che io ho saputo che sei un valoroso cavaliere, non ce n'è un'altro come te in tutto il mondo, e che molte volte hai detto di avere tanta forza che senza danno per te o per altri sapresti catturare il cavallo che devasta miseramente il mio reame. Se il cuore ti basta per provarti in un'impresa gloriosa come questa e tornare vincitore, io ti prometto sulla mia testa di farti un tale dono che sarai felice per il resto della tua vita".
Guerrino, sentendo la formidabile proposta del re, rimase molto meravigliato, e negò di aver mai detto le parole che gli erano state attribuite. Il re allora si rannuvolò, e molto arrabbiato disse:
"Voglio, Guerrino, che tu tenti questa impresa, e sappi che se non obbedisci alla mia volontà ti condannerò a morte".
Lasciato il re, Guerrino tornò all'ostello addolorato, e non osava dire la pena che gli stringeva il cuore, ma il cavaliere sconosciuto, vedendolo contrariamente al solito pieno di malinconia, gli chiese dolcemente per quale ragione era avvilito e mesto. E lui, volendogli bene come a un fratello, non potè far a meno di rispondergli, e raccontò tutto quello che gli era capitato col re. Allora il giovane sconosciuto gli disse:
"Sta di buon animo e non dubitare, perché io ti insegnerò come fare e non morirai, tu sarai anzi vincitore e il re avrà quello che chiede. Ora tornerai dal re, gli chiederai che faccia venire un valente maestro maniscalco, al quale ordinerai quattro grandi ferri da cavallo, che siano massicci e tutt'intorno due dita abbondanti più grandi dei ferri normali, che siano ben crestati e che dietro abbiano due ramponi lunghi come un grande dito, appuntiti e taglienti. Appena li avrà finiti, farai ferrare con quelli il mio cavallo, che è fatato, e non dubitare di nulla".

Guerrino, tornato dal re, fece come gli aveva detto il suo compagno, e il re, chiamato un ottimo maniscalco, gli ordinò di mettersi ai comandi di Guerrino. Il maestro andò nella sua bottega con lui, ma quando sentì cosa voleva rifiutò di farlo perché erano ferri che non si erano mai visti, e lo prese in giro come se fosse matto.
Guerrino allora andò a lamentarsene dal re, che richiamò il maniscalco e gli ordinò nuovamente di obbedirgli, altrimenti avrebbe mandato lui a domare il cavallo selvatico.
Così il maestro di cavalli forgiò subito i quattro ferri e li mise agli zoccoli del destriero fatato. Quando il cavallo fu ferrato e bardato come si deve, il giovane sconosciuto disse a Guerrino:
"Monta sul mio cavallo, e va' sicuro; quando sentirai il nitrito del cavallo selvatico, smonta dal tuo destriero, togli sella e briglie e lascialo libero, poi sali su un albero alto e aspetta che si compia l'impresa".
Guerrino, ben istruito dal suo amato compagno su ciò che doveva fare, lo salutò e partì contento.
Per tutta la città di Assoro si era già sparsa la fama gloriosa di un giovane bello e pieno di grazia che tentava l'impresa di catturare il cavallo selvatico per portarlo al re, così tutti si affacciavano alle finestre per guardarlo mentre passava, e vedendolo così nobile, giovane e bello, ne avevano pietà e dicevano:
"Oh, povero giovane, come cavalca spensierato verso la sua fine! certo è un gran peccato che sia destinato a morire miseramente!", e non riuscivano a trattenere lacrime di commozione.
Ma Guerrino, intrepido e fiero, cavalcando allegramente giunse nel posto in cui stava il cavallo selvatico e sentendolo nitrire scese dal suo cavallo, gli tolse briglie e sella, e dopo averlo lasciato libero si arrampicò su una grande quercia e attese il terribile combattimento.
Era appena salito sull'albero che arrivò il cavallo selvatico e affrontò il destriero fatato, così cominciarono il duello più feroce e sanguinario che si sia visto al mondo. Sembravano due leoni scatenati, schiumavano dalla bocca come irsuti cinghiali cacciati da cani rabbiosi, e dopo un combattimento in cui avevano mostrato pari valore, il destriero fatato tirò due calci al cavallo selvatico, lo colpì con lo zoccolo crestato alla mascella e gliela ruppe, facendogli perdere il vigore per attaccare e per difendersi. Guerrino vide, e tutto contento scese dalla quercia, prese un capestro che aveva con sé, lo legò e lo condusse nella città di Assoro tra la gioia della folla acclamante, portandolo al re come aveva promesso.
Il re decretò festa e trionfo in tutta la città, ma ai due servitori aumentò la rabbia, perché non avevano raggiunto il loro scopo malvagio, e così fecero arrivare al re la notizia che Guerrino avrebbe agevolmente ucciso anche la cavalla, se ne avesse avuto voglia.
Allora il re di Assoro fece come aveva fatto per il cavallo, e siccome Guerrino rifiutava di tentare questa impresa, davvero pericolosa, minacciò di farlo appendere per un piede, come ribelle della corona.
Tornato al suo ostello Guerrino raccontò tutto al suo compagno, che sorridendo disse:
"Fratello, non aver paura, ma va', trova il maniscalco e ordinagli altri quattro ferri grossi come i primi, con i ramponi ben affilati e taglienti; farai tutto come hai fatto col cavallo, e ne avrai gloria ancora più della prima volta".
Dopo aver ordinato e ottenuto i quattro ferri appuntiti, Guerrino fece ferrare il forte cavallo fatato e partì per la grande impresa. Giunto nel posto in cui stava la cavalla selvatica, dopo averla sentita nitrire Guerrino smontò dal suo destriero, gli tolse briglie e sella e lo lasciò libero, poi come la prima volta salì su un albero. Subito vide arrivare la cavalla selvatica che attaccò il destriero con un morso terribile: il cavallo fatato a mala pena riuscì a scampare da questa ferocia, ma si riprese e con tutto il suo vigore tirò alla cavalla un calcio così forte che con uno dei ramponi le ruppe la gamba destra. Subito Guerrino scese dall'albero, la prese e la legò ben stretta, poi salì sul cavallo fatato, andò a palazzo tra ali di folla festante e la portò al re.
Tutti andavano a vedere i feroci cavalli selvatici, ed erano felici perché il paese era finalmente libero.
Guerrino era già tornato all'ostello, ed essendo stanco si era messo a riposare, ma un rumore confuso non lo faceva dormire, così si alzò da letto e sentì che c'era qualcosa di strano che batteva in un vaso di miele. Allora, aperto il vaso, Guerrino vide un calabrone che sbatteva le ali e non poteva volare: sentendo compassione prese quell'animalino e lo mise in libertà.
Intanto il re che non aveva ancora ricompensato Guerrino per il doppio trionfo, pensando che era giusto provvedere subito lo mandò a chiamare, e gli disse:
"Guerrino, vedi bene che per merito tuo il mio regno è liberato dai cavalli selvatici, e per queste imprese che hai compiuto per me intendo ricompensarti. Non trovando altro dono che sia abbastanza grande per te, ho deciso di darti la principessa Fedora in isposa. Ma sappi che ho due figlie: Fedora porta intrecciati con grazia i capelli che brillano come l'oro, l'altra si chiama Miranda e la sua chioma splende come finissimo argento. Se tu riuscirai a indovinare qual è tra loro Fedora dalle trecce d'oro, l'avrai in isposa con una ricchissima dote, se sbaglierai ti farò tagliare la testa".
Guerrino, sentendo come il re lo ricompensava ferocemente, rimase stupefatto, e gli disse:
"Maestà, è questo il guiderdone per le fatiche che ho sostenuto? Questo è il premio per il mio sudore? Mi fai questo gran dono perché ho liberato il tuo reame, che era devastato e quasi deserto? Ahimè, non meritavo questo, né questo si addice a un re potente come te. Ma siccome così ti piace, e io sono nelle tue mani, fa' quel che più ti aggrada".
"Basta," disse il re, "puoi andare, ti do tempo fino al tramonto di domani per trovare la soluzione".
Disperato Guerrino andò dal suo compagno e raccontò cosa gli aveva detto il re. Il cavaliere sconosciuto, senza dar troppo peso a quello che era successo, disse:
"Guerrino, sta contento e non dubitare, che io ti aiuterò a trovare la soluzione. Ricordi che hai liberato un calabrone che era rimasto invischiato nel miele e lo hai fatto volare? E' grazie a lui che vincerai questa prova, perché domani andrà a palazzo e per tre volte volerà sussurrando intorno al viso della principessa dai capelli d'oro, e lei con la candida mano lo scaccerà. Vedendo per tre volte questo gesto tu capirai qual è la tua sposa".
"Oh!" disse Guerrino al suo compagno, "quando verrà il giorno in cui potrò ricambiare il bene che mi hai fatto? Anche se vivessi mille anni, non potrei ricompensarti nemmeno in minima parte. Che tu riceva tutto il bene che meriti dal grande Benefattore!".
Allora il cavaliere sconosciuto rispose:
"Guerrino, fratello mio, tu non hai bisogno di ricompensarmi per quello che ho fatto. E' tempo che ti sveli chi sono. Tu mi hai salvato dalla morte, e anch'io ho voluto fare qualcosa per te: sappi che sono io l'uomo selvatico che liberasti con amore dalla prigione di tuo padre, e il mio nome è Rubino".
E gli raccontò come la fata alla quale aveva salvato la vita lo aveva reso bellissimo e dotato di poteri magici, regalandogli anche il destriero fatato col quale Guerrino aveva catturato i cavalli selvatici.
Il principe rimase stupefatto e senza dire una parola, col cuore colmo di dolcezza, lo abbracciò e lo baciò teneramente, proprio come un fratello. Poi, siccome stava per finire il tempo concesso per la prova, se ne andarono insieme a palazzo, e il re diede ordine che le sue amate figlie velate di veli bianchissimi venissero alla presenza di Guerrino.
Era impossibile distinguere le principesse una dall'altra, ma il re chiese:
"Quale di loro, Guerrino, è la sposa che ti ho destinato?".
Il principe restava in silenzio riflettendo fra sé e sé e non rispondeva nulla, mentre il re, curioso di vedere come andava a finire, lo tormentava, dicendogli che il tempo fuggiva e che doveva decidersi.
Ma Guerrino rispose: "Maestà, se è vero che il tempo fugge, è altrettanto vero che il tempo che mi hai concesso non è ancora finito, perché il sole non è ancora tramontato".
Siccome era vero, il re e tutti gli altri aspettarono ancora, quand'ecco giunse il calabrone, che sussurrando descrisse un cerchio intorno al viso di Fedora. E lei, un po' spaventata, con la mano candida cercava di mandarlo via, e quando ebbe fatto questo gesto tre volte il calabrone se ne andò.
Mentre Guerrino non si sentiva tanto sicuro, pur fidandosi delle parole del suo caro compagno Rubino, tramontò il sole, e il re disse:
"Forza Guerrino, che fai? ormai il tuo tempo è finito: devi deciderti".
Guerrino, dopo aver guardato con attenzione ora l'una, ora l'altra principessa, pose la mano sopra il capo di quella che gli aveva indicato il calabrone e disse:
"Maestà, la vostra figlia dalle chiome d'oro è questa".
Fedora si tolse i veli e fece vedere che davvero aveva i capelli biondi come l'oro.
Allora il re, tra la gioia della corte e la felicità di tutto il popolo, benedisse le loro nozze, poi avendo conosciuto Rubino diede in isposa a lui Miranda dai capelli splendenti come l'argento.
Guerrino allora rivelò che era figlio del re di Serradifalco, e il re di Assoro fu ancora più felice. Mandò messaggeri alla corte di Serradifalco per annunciare le nozze, e quando i genitori di Guerrino giunsero ad Assoro la loro gioia fu indicibile, perché ritrovavano il figlio che credevano perduto e non si saziavano di abbracciarlo e baciarlo.
Furono celebrate nozze sontuose, con festeggiamenti che durarono giorni e giorni, poi Guerrino tornò con la sua sposa nel reame di Serradifalco, mentre Rubino e Miranda restarono eredi al trono di Assoro.
E quando fu il momento le due coppie salirono al trono e regnarono a lungo felici, in pace e prosperità, lasciando dopo di loro molti bellissimi discendenti, maschi e femmine.


 
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La cavallina del negromante

Post n°650 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un pover'uomo rimasto vedovo, con un figlio chiamato Candido; egli possedeva per tutta fortuna un campicello e tre buoi. Candido, che era un bimbo sveglio e intelligente, giunti agli otto anni disse al padre:
- Vorrei andare a scuola...
- Non ho danaro sufficiente, figlio mio!
- Vendete uno dei buoi.
Il padre restò pensoso, poi si decise. Alla fiera seguente vendette uno dei buoi e col danaro ricavato mandò Candido alla scuola.
Candido imparava rapidamente e i maestri erano sbigottiti della sua intelligenza.
Quando seppe leggere e scrivere, decise di mettersi pel mondo alla ventura. Si vestì d'un abito nero da un lato, bianco dall'altro e si mise in cammino. Per via incontrò un signore a cavallo:
- Dove vai, ragazzo mio?
- A cercar lavoro.
- Sai leggere?
- Leggere e scrivere.
- Allora non fai per me. -e il signore proseguì la via.
Candido restò sbigottito, poi si tolse l'abito, lo vestì a rovescio, corse attraverso i campi fino a trovarsi una seconda volta sulla strada dello sconosciuto; questi non lo riconobbe:
- Dove vai, ragazzo mio?
- A cercar lavoro.
- Sai leggere?
- Né leggere né scrivere.
- Sta bene. Sali in groppa, dietro di me.
Candido salì sul cavallo dello sconosciuto e dopo molti giorni di cammino giunsero ad un castello circondato da mura altissime.
Nessuno venne a riceverli; discesero nel cortile deserto e il signore condusse egli stesso il suo cavallo alla scuderia; poi disse a Candido:
- Non vedrai qui dentro persona viva; ma non t'inquietare; avrai ogni cosa che ti talenta e un lauto stipendio.
- Quali sono le mie incombenze, signoria?
- Dovrai aver cura dei cavalli che ho nelle mie scuderie, non altro. Oggi devo partire per un viaggio lunghissimo, e non ritornerò che fra un anno e un giorno: il mio castello è nelle tue mani. Addio!
Il barone partì.

Candido, rimasto solo, curava diligentemente i cavalli. Quattro volte al giorno trovava la mensa imbandita nella vasta sala da pranzo, senza mai vedere anima viva né udir voce umana; mangiava, beveva, passeggiava per le sale e pel parco.
Un giorno vide tra gli alberi trasparire una veste azzurra: era una fanciulla bellissima che fuggiva verso le scuderie.
Candido la raggiunse e la principessa si rivolse a lui con volto supplichevole.
- Sono uno dei cavalli che voi avete in custodia: un pomellato bianco, il terzo a destra di chi entra. Sono figlia del Re di Corelandia e il barone negromante m'ha cangiata in cavallo perché non lo volli per marito... Se il barone, al suo ritorno, sarà contento dei vostri servigi, per ricompensarvi vi dirà di scegliere uno dei cavalli; e voi scegliete me, non avrete a pentirvene.
Candido promise e si diede a leggere i libri del barone e apprese i segreti della negromanzia. Dopo un anno il barone era di ritorno al castello.
- Sono soddisfatto dei tuoi servigi, e poiché l'anno è passato, eccoti una borsa di monete d'oro. Vieni nelle scuderie, dove potrai sceglierti un cavallo pel tuo ritorno al paese.
Scesero nelle scuderie e Candido, dopo aver finto qualche esitazione, indicò il pomellato bianco.
- Scelgo quello.
- Come? Quella rozza? Non sei veramente buon intenditore; guarda i magnifici cavalli che le son vicini!
- Mi piace quella e non ne voglio altri.
- Sia pure disse il barone; e pensò: «Servo scaltro! Deve conoscere il mio segreto; ma lo saprò raggiungere a mezza via!».
Candido prese la cavallina pomellata e partì. Appena fuori del castello, essa riapparve nelle forme della principessa.
- Grazie, amico mio. Ritorna presso tuo padre, ed io ritorno alla Corte di Corelandia, dove tu dovrai trovarti fra un anno e un giorno.
E disparve.
Candido si diresse al paese natìo.
Giunse dopo molti giorni alla capanna e si gettò nelle braccia del padre, che stentava a riconoscerlo.
- Siamo ricchi, padre mio, e bisogna goderci il nostro danaro!
E gli presentò la borsa e incominciarono pei due giorni di felicità ed agiatezza. Ma, poiché tutto ha una fine, anche il gruzzolo giunse all'ultimo scudo.
- Figlio mio, siamo ritornati alla miseria di prima!
Non inquietatevi! Domattina andremo alla fiera per vendere un magnifico cavallo.
- Un cavallo? Dove lo posso prendere?
- Poco importa: domattina l'avrete e ne riceverete trecento scudi; ma badate di non cedere la briglia al compratore.
- La briglia si cede con la bestia - osservò il vecchio .
- Non lasciate la briglia, vi ripeto, o mi esporrete ad un pericolo irreparabile.
- Sta bene, la riporterò a casa, benché non sia costume.
All'indomani il vecchio udì nitrire alla porta e vi trovò un magnifico cavallo; ma cercò invano suo figlio perché l'accompagnasse:
«Mi avrà forse già preceduto al mercato». E si mise in cammino.
Giunto in paese non trovò suo figlio e fu circondato subito dai compratori.
- Bello il vostro cavallo. Quanto volete?
- Trecento scudi e la briglia per me.
- Facciamo duecentocinquanta.
- Non cedo d'un soldo!
S'avanzò un mercante sconosciuto dai capelli rossi e dagli occhi di brace (era il barone travestito) che fece l'offerta:
- È caro. Ma la bestia mi piace e non mercanteggio. Datemi la briglia ch'io lo possa condurre.
- La briglia non la cedo a nessun patto.
- Allora non ne facciamo nulla.
E lo sconosciuto s'allontanò minaccioso.
Il cavallo fu venduto a un carrettiere che non pretese la briglia; condusse la bestia per la criniera e la chiuse con altri cavalli nella sua scuderia.
Ma all'alba il cavallo non c'era più.
Era Candido che, grazie ai segreti appresi nei libri magici, s'era trasformato in cavallo, poi in uomo ancora, per ritornarsene dal padre.
Padre e figlio godettero i trecento scudi e vissero lieti per molti giorni.
Giunti all'ultima moneta, Candido disse:
- Non c'è più danaro. L'altra volta mi trasformai in cavallo nero, domattina mi trasformerò in cavallo bianco e mi porterete al mercato; ma badate bene di non cedere la briglia, o tutto è finito per me.
All'alba il vecchio sentì nitrire nel cortile, e vide un cavallo bellissimo, candido come la neve. Lo prese per la briglia e si diresse al mercato.
I compratori circondarono la bestia; s'avanzò il mercante sconosciuto, dai capelli rossi e dagli occhi fiammeggianti.
- Bella bestia, la vostra; quanto volete?
- Cinquecento scudi.
- Sono troppi. Ma ve li do. Lasciatemela prima provare.
E lo sconosciuto salì in sella, cacciò gli speroni nei fianchi della bestia che fuggì di galoppo, lasciando il povero vecchio senza cavallo e senza briglia.
Giunto dinanzi a un maniscalco lo sconosciuto scese di groppa, entrò nella fucina:
- Maniscalco, il mio cavallo non è ferrato. Fategli all'istante quattro ferri di quattrocento libbre ciascuno.
- Quattrocento libbre? Voi scherzate, signore!
- Non scherzo, eseguite senza commenti e sarete ben pagato.
Mentre il barone e l'uomo parlavano, il cavallo era stato legato ad un anello del muro. Alcuni bimbi gli furono intorno e presero a tormentarlo.
- Staccatemi, bambini belli!
- Un cavallo che parla! e i piccoli esultarono di gioia.
- Che dice dunque?
- Dice di staccarlo.
- Sì, staccatemi, bambini, e vi divertirò con un bel giuoco.
Il più alto e il più audace staccò il cavallo, che si convertì subito in lepre e disparve nei campi. Il barone uscì dalla fucina col maniscalco.
- Dov'è il mio cavallo?
- S'è mutato in lepre ed è fuggito attraverso i campi.
Il barone negromante si mutò in cane e si precipitò sulle sue tracce.
Candido, incalzato da presso, si mutò in airone e il negromante lo seguì nell'aria sotto forma d'uno sparviero, e giunsero così nella capitale della Corelandia; lo sparviero stava per ghermire l'airone quando questo si mutò in un anello e infilò il dito della principessa che sospirava alla finestra del castello.
Il negromante riprese la sua forma umana e si presentò a palazzo per offrire le sue cure al Re, che era sofferente d'un morbo insanabile.
- Prometto di guarirvi, Sire; ma ad un patto.
- Domandate e qualsiasi pretesa vostra sarà appagata.
- Voglio l'anello d'oro che porta in dito vostra figlia.
- Questo soltanto, volete? Io son disposto a ben altro!
- Non domando altro, Maestà.
Intanto la principessa aveva chiuse le finestre e stava togliendosi gli anelli; quando si tolse quello d'oro le apparve Candido sorridente.
- Oh Candido! Come siete qui?
Candido narrò i casi suoi:
- Il negromante è nel castello ed ha promesso a vostro padre di guarirlo a patto gli sia dato il vostro anello; voi acconsentite, ma nell'atto di passarlo al dito del negromante, lasciatelo cadere in terra e tutto andrà per il meglio.
La principessa promise.
All'indomani il vecchio Re fece chiamare la figlia nella sala del trono e le presentò il negromante travestito da medico.
- Figlia mia, questo medico famoso non domanda, per rendermi la salute, che il tuo anello d'oro.
- Acconsento - disse la principessa, e fece atto di passare l'anello al dito del negromante, ma lo lasciò cadere ad arte sul pavimento.
L'anello si cangiò in fava e il negromante in gallo, per inghiottirla, ma la fava si cangiò in volpe e divorò il gallo.
Candido riprese la sua forma di prima, dinanzi a tutta la Corte sbigottita del prodigio.
La principessa presentò al padre il suo liberatore e quel giorno stesso furono celebrate le nozze.


 
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La vendetta del cane (Pirandello)

Post n°649 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Senza sapere né come né perché, Jaco Naca s’era trovato un bel giorno padrone di tutta la poggiata a solatio sotto la città, da cui si godeva la veduta magnifica dell’aperta campagna svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, lontano, dopo tanto verde, azzurro nella linea dell’orizzonte.
Un signore forestiere, con una gamba di legno che gli cigolava a ogni passo, gli s’era presentato, tre anni addietro, tutto in sudore, in un podere nella vallatella di Sant’Anna infetta dalla malaria, ov’egli stava in qualità di garzone, ingiallito dalle febbri, coi brividi per le ossa e le orecchie ronzanti dal chinino; e gli aveva annunziato che da minuziose ricerche negli archivi era venuto a sapere che quella poggiata lì, creduta finora senza padrone, apparteneva a lui: se gliene voleva vendere una parte, per certi suoi disegni ancora in aria, gliel’avrebbe pagata secondo la stima d’un perito.
Rocce erano, nient’altro; con, qua e là, qualche ciuffo d’erba, ma a cui neppure le pecore, passando, avrebbero dato una strappata.
Intristito dal veleno lento del male che gli aveva disfatto il fegato e consunto le carni, Jaco Naca quasi non aveva provato né meraviglia né piacere per quella sua ventura, e aveva ceduto a quello zoppo forestiere gran parte di quelle rocce per una manciata di soldi. Ma quando poi, in meno d’un anno, aveva veduto levarsi lassù due villini, uno più grazioso dell’altro, con terrazze di marmo e verande coperte di vetri colorati, come non s’erano mai viste da quelle parti: una vera galanteria! e ciascuno con un bel giardinetto fiorito e adorno di chioschi e di vasche dalla parte che guardava la città, e con orto e pergolato dalla parte che guardava la campagna e il mare; sentendo vantar da tutti, con ammirazione e con invidia, l’accorgimento di quel segnato lì, venuto chi sa da dove, che certo in pochi anni col fitto dei dodici quartierini ammobigliati in un luogo così ameno si sarebbe rifatto della spesa e costituito una bella rendita; s’era sentito gabbato e frodato: l’accidia cupa, di bestia malata, con cui per tanto tempo aveva sopportato miseria e malanni, gli s’era cangiata d’improvviso in un’acredine rabbiosa, per cui tra smanie violente e lagrime d’esasperazione, pestando i piedi mordendosi le mani, strappandosi i capelli, s’era messo a gridar giustizia e vendetta contro quel ladro gabbamondo.
Purtroppo è vero che, a voler scansare un male, tante volte, si rischia d’intoppare in un male peggiore. Quello zoppo forestiere, per non aver più la molestia di quelle scomposte recriminazioni, sconsigliatamente s’era indotto a porger sottomano a Jaco Naca qualche giunta al prezzo della vendita: poco; ma Jaco Naca, naturalmente, aveva sospettato che quella giunta gli fosse porta così sottomano perché colui non si riteneva ben sicuro del suo diritto e volesse placarlo; gli avvocati non ci sono per nulla; era ricorso ai tribunali. E intanto che quei pochi quattrinucci della vendita se n’andavano in carta bollata tra rinvii e appelli, s’era dato con rabbioso accanimento a coltivare il residuo della sua proprietà, il fondo del valloncello sotto quelle rocce, ove le piogge, scorrendo in grossi rigagnoli su lo scabro e ripido declivio della poggiata, avevano depositato un po’ di terra.
Lo avevano allora paragonato a un cane balordo che, dopo essersi lasciato strappar di bocca un bel cosciotto di montone ora rabbiosamente si rompesse i denti su l’osso abbandonato da chi s’era goduta la polpa.
Un po’ d’ortaglia stenta, una ventina di non meno stenti frutici di mandorlo che parevano ancora sterpi tra i sassi, erano sorti laggiù nel valloncello angusto come una fossa, in quei due anni d’accanito lavoro; mentre lassù, aerei davanti allo spettacolo di tutta la campagna e del mare, i due leggiadri villini splendevano al sole, abitati da gente ricca, che Jaco Naca naturalmente s’immaginava anche felice. Felice, non foss’altro, del suo danno e della sua miseria.
E per far dispetto a questa gente e vendicarsi almeno così del forestiere, quando non aveva potuto più altro, aveva trascinato laggiù nella fossa un grosso cane da guardia; lo aveva legato a una corta catena confitta per terra, lasciato lì, giorno e notte, morto di fame, di sete e di freddo.

– Grida per me!

Di giorno, quand’egli stava attorno all’orto a zappettare, divorato dal rancore, con gli occhi truci nel terreo giallore della faccia, il cane per paura stava zitto. Steso per terra, col muso allungato su le due zampe davanti, al più, sollevava gli occhi e traeva qualche sospiro o un lungo sbadiglio mugolante, fino a slogarsi le mascelle, in attesa di qualche tozzo di pane ch’egli ogni tanto gli tirava come un sasso, divertendosi anche talvolta a vederlo smaniare, se il tozzo ruzzolava più là di quanto teneva la catena. Ma la sera, appena rimasta sola laggiù, e poi per tutta la nottata, la povera bestia si dava a guaire, a uggiolare, a sguagnolare, così forte e con tanta intensità di doglia e tali implorazioni d’ajuto e di pietà, che tutti gl’inquilini delle due ville si svegliavano e non potevano più riprender sonno.
Da un piano all’altro, dall’uno all’altro quartierino, nel silenzio della notte, si sentivano i borbottii, gli sbuffi, le imprecazioni, le smanie di tutta quella gente svegliata nel meglio del sonno; i richiami e i pianti dei bimbi impauriti, il tonfo dei passi a piedi scalzi o lo strisciar delle ciabatte delle mamme accorrenti.
Era mai possibile seguitare così? E da ogni parte eran piovuti reclami al proprietario, il quale, dopo aver tentato più volte e sempre invano, con le buone e con le cattive, d’ottenere da quel tristo che finisse d’infliggere il martirio alla povera bestia, aveva dato il consiglio di rivolgere al municipio un’istanza firmata da tutti gl’inquilini.
Ma anche quell’istanza non aveva approdato a nulla. Correva, dai villini al posto ove il cane stava incatenato, la distanza voluta dai regolamenti: se poi, per la bassura di quel valloncello e per l’altezza dei due villini, i guaiti pareva giungessero da sotto le finestre, Jaco Naca non ci aveva colpa: egli non poteva insegnare al cane ad abbajare in un modo più grazioso per gli orecchi di quei signori; se il cane abbajava, faceva il suo mestiere; non era vero ch’egli non gli desse da mangiare; gliene dava quanto poteva; di levarlo di catena non era neanche da parlarne, perché, sciolto, il cane se ne sarebbe tornato a casa, e lui lì aveva da guardarsi quei suoi beneficii che gli costavano sudori di sangue. Quattro sterpi? Eh, non a tutti toccava la ventura d’arricchirsi in un batter d’occhio alle spalle d’un povero ignorante!

– Niente, dunque? Non c’era da far niente?

E una notte di quelle, che il cane s’era dato a mugolare alla gelida luna di gennajo più angosciosamente che mai, all’improvviso, una finestra s’era aperta con fracasso nel primo dei due villini, e due fucilate n’eran partite, con tremendo rimbombo, a breve intervallo. Tutto il silenzio della notte era come sobbalzato due volte con la campagna e il mare, sconvolgendo ogni cosa; e in quel generale sconvolgimento, urla, gridi disperati! Era il cane che aveva subito cangiato il mugolìo in un latrato furibondo, e tant’altri cani delle campagne vicine e lontane s’erano dati anch’essi a latrare a lungo, a lungo. Tra il frastuono, un’altra finestra s’era schiusa nel secondo villino, e una voce irata di donna e una vocetta squillante di bimba non meno irata, avevano gridato verso quell’altra finestra da cui erano partite le fucilate:

– Bella prodezza! Contro la povera bestia incatenata!

– Brutto cattivo!

– Se ha coraggio, contro il padrone dovrebbe tirare!

– Brutto cattivo!

– Non le basta che stia lì quella povera bestia a soffrire il freddo, la fame, la sete? Anche ammazzata? Che prodezza! Che cuore!

– Brutto cattivo!

E la finestra s’era richiusa con impeto d’indignazione.

Aperta era rimasta quell’altra, ove l’inquilino, che forse s’aspettava l’approvazione di tutti i vicini, ecco che, ancor vibrante della violenza commessa, si aveva in cambio la sferzata di quell’irosa e mordace protesta femminile. Ah sì? ah sì e per più di mezz’ora, lì seminudo, al gelo della notte, come un pazzo, costui aveva imprecato non tanto alla maledettissima bestia che da un mese non lo lasciava dormire, quanto alla facile pietà di certe signore che, potendo a piacer loro dormire di giorno, possono perdere senza danno il sonno della notte, con la soddisfazione per giunta... eh già, con la soddisfazione di sperimentar la tenerezza del proprio cuore, compatendo le bestie che tolgono il riposo a chi si rompe l’anima a lavorare dalla mattina alla sera. E l’anima diceva, per non dire altra cosa.
I commenti, nei due villini, durarono a lungo quella notte; s’accesero in tutte le famiglie vivacissime discussioni tra chi dava ragione all’inquilino che aveva sparato, e chi alla signora che aveva preso le difese del cane.
Tutti erano d’accordo che quel cane era insopportabile; ma anche d’accordo ch’esso meritava compassione per il modo crudele con cui era trattato dal padrone. Se non che, la crudeltà di costui non era soltanto contro la bestia, era anche contro tutti coloro a cui, per via di essa, toglieva il riposo della notte. Crudeltà voluta; vendetta meditata e dichiarata. Ora, la compassione per la povera bestia faceva indubbiamente il giuoco di quel manigoldo; il quale, tenendola così a catena e morta di fame e di sete e di freddo, pareva sfidasse tutti, dicendo:

– Se avete coraggio, per giunta, ammazzatela.

Ebbene, bisognava ammazzarla, bisognava vincere la compassione e ammazzarla, per non darla vinta a quel manigoldo!
Ammazzarla? E non si sarebbe fatta allora scontare iniquamente alla povera bestia la colpa del padrone? Bella giustizia! Una crudeltà sopra la crudeltà, e doppiamente ingiusta, perché si riconosceva che la bestia non solo non aveva colpa ma anzi aveva ragione di lagnarsi così! La doppia crudeltà di quel tristaccio si sarebbe rivolta tutta contro la bestia, se anche quelli che non potevano dormire si mettevano contro di essa e la uccidevano! D’altra parte, però, se non c’era altro mezzo d’impedire che colui martoriasse tutti?

– Piano, piano, signori, – era sopravvenuto ad ammonire il proprietario dei due villini, la mattina dopo, con la sua gamba di legno cigolante. – Per amor di Dio, piano, signori!

Ammazzare il cane a un contadino siciliano? Ma si guardassero bene dal rifar la prova! Ammazzare il cane a un contadino siciliano voleva dire farsi ammazzare senza remissione. Che aveva da perdere colui? Bastava guardarlo in faccia per capire che, con la rabbia che aveva in corpo, non avrebbe esitato a commettere un delitto.
Poco dopo, infatti, Jaco Naca, con la faccia più gialla del solito e col fucile appeso alla spalla, s’era presentato davanti ai due villini e, rivolgendosi a tutte le finestre dell’uno e dell’altro, poiché non gli avevano saputo indicare da quale propriamente fossero partite le fucilate, aveva masticato la sua minaccia, sfidando che si facesse avanti chi aveva osato attentare al suo cane.
Tutte le finestre eran rimaste chiuse; soltanto quella dell’inquilina che aveva preso le difese del cane e ch’era la giovine vedova dell’intendente delle finanze, signora Crinelli, s’era aperta, e la bambina dalla voce squillante, la piccola Rorò, unica figlia della signora, s’era lanciata alla ringhiera col visino in fiamme e gli occhioni sfavillanti per gridare a colui il fatto suo, scotendo i folti ricci neri della tonda testolina ardita.
Jaco Naca, in prima, sentendo schiudere quella finestra, s’era tratto di furia il fucile dalla spalla; ma poi, vedendo comparire una bambina, era rimasto con un laido ghigno sulle labbra ad ascoltarne la fiera invettiva, e alla fine con acre mutria le aveva domandato:

– Chi ti manda, papà? Digli che venga fuori lui: tu sei piccina!

Da quel giorno, la violenza dei sentimenti in contrasto nell’animo di quella gente, da un canto arrabbiata per il sonno perduto, dall’altro indotta per la misera condizione di quel povero cane a una pietà subito respinta dall’irritazione fierissima verso quel villanzone che se ne faceva un’arma contro di loro, non solo turbò la delizia di abitare in quei due villini tanto ammirati, ma inasprì talmente le relazioni degli inquilini tra loro che, di dispetto in dispetto, presto si venne a una guerra dichiarata, specialmente tra quei due che per i primi avevano manifestato gli opposti sentimenti: la vedova Crinelli e l’ispettore scolastico cavalier Barsi, che aveva sparato.
Si malignava sotto sotto, che la nimicizia tra i due non era soltanto a causa del cane, e che il cavalier Barsi ispettore scolastico sarebbe stato felicissimo di perdere il sonno della notte, se la giovane vedova dell’intendente delle finanze avesse avuto per lui un pochino pochino della compassione che aveva per il cane. Si ricordava che il cavalier Barsi, nonostante la ripugnanza che la giovane vedova aveva sempre dimostrato per quella sua figura tozza e sguajata, per quei suoi modi appiccicaticci come l’unto delle sue pomate, s’era ostinato a corteggiarla, pur senza speranza, quasi per farle dispetto, quasi per il gusto di farsi mortificare e punzecchiare a sangue non solo dalla giovane vedova, ma anche dalla figlietta di lei, da quella piccola Rorò che guardava tutti con gli occhioni scontrosi, come se credesse di trovarsi in un mondo ordinato apposta per l’infelicità della sua bella mammina, la quale soffriva sempre di tutto e piangeva spesso, pareva di nulla, silenziosamente. Quanta invidia, quanta gelosia e quanto dispetto entravano nell’odio del cavalier Barsi ispettore scolastico per quel cane?
Ora, ogni notte, sentendo i mugolii della povera bestia, mamma e figliuola, abbracciate strette strette nel letto come a resistere insieme allo strazio di quei lunghi lagni, stavano nell’aspettativa piena di terrore, che la finestra del villino accanto si schiudesse e che, con la complicità delle tenebre, altre fucilate ne partissero.

– Mamma, oh mamma, – gemeva la bimba tutta tremante – ora gli spara! Senti come grida? Ora lo ammazza!

– Ma no, stà tranquilla, – cercava di confortarla la mammina, – stà tranquilla, cara, che non lo ammazzerà! Ha tanta paura del villano! Non hai visto che non ha osato d’affacciarsi alla finestra? Se egli ammazza il cane, il villano ammazzerà lui. Stà tranquilla!

Ma Rorò non riusciva a tranquillarsi. Già da un pezzo, della sofferenza di quella bestia pareva si fosse fatta una fissazione. Stava tutto il giorno a guardarla dalla finestra giù nel valloncello, e si struggeva di pietà per essa. Avrebbe voluto scendere laggiù a confortarla, a carezzarla, a recarle da mangiare e da bere, e più volte, nei giorni che il villano non c’era, lo aveva chiesto in grazia alla mamma. Ma questa, per paura che quel tristo sopravvenisse, o per timore che la piccina scivolasse giù per il declivio roccioso, non gliel’aveva mai concesso.
Glielo concesse alla fine, per far dispetto al Barsi, dopo l’attentato di quella notte. Sul tramonto, quando vide andar via con la zappa in collo Jaco Naca, pose in mano a Rorò per le quattro cocche un tovagliolo pieno di tozzi di pane e con gli avanzi del desinare, e le raccomandò di star bene attenta a non mettere in fallo i piedini, scendendo per la poggiata. Ella si sarebbe affacciata alla finestra a sorvegliarla.
S’affacciarono con lei tanti e tant’altri inquilini ad ammirare la coraggiosa Rorò che scendeva in quel triste fossato a soccorrere la bestia. S’affacciò anche il Barsi alla sua, e seguì con gli occhi la bimba, crollando il capo e stropicciandosi le gote raschiose con una mano sulla bocca. Non era un’aperta sfida a lui tutta quella carità ostentata? Ebbene: egli la avrebbe raccolta, quella sfida. Aveva comperato la mattina una certa pasta avvelenata da buttare al cane, una di quelle notti, per liberarsene zitto zitto. Gliel’avrebbe buttata quella notte stessa. Intanto rimase lì a godersi fino all’ultimo lo spettacolo di quella carità e tutte le amorose esortazioni di quella mammina che gridava dalla finestra alla sua piccola di non accostarsi troppo alla bestia, che poteva morderla, non conoscendola.
Il cane abbajava, difatti, vedendo appressarsi la bimba e, trattenuto dalla catena, balzava in qua e in là, minacciosamente. Ma Rorò, col tovagliolo stretto per le quattro cocche nel pugno, andava innanzi sicura e fiduciosa che quello, or ora, certamente, avrebbe compreso la sua carità. Ecco, già al primo richiamo scodinzolava, pur seguitando ad abbajare; e ora, al primo tozzo di pane, non abbajava più. Oh poverino, poverino, con che voracità ingojava i tozzi uno dopo l’altro! Ma ora, ora veniva il meglio... E Rorò, senza la minima apprensione, stese con le due manine la carta coi resti del desinare sotto il muso del cane che, dopo aver mangiato e leccato a lungo la carta, guardò la bimba, dapprima quasi meravigliato, poi con affettuosa riconoscenza. Quante carezze non gli fece allora Rorò, a mano a mano sempre più rinfrancata e felice della sua confidenza corrisposta: quante parole di pietà non gli disse; arrivò finanche a baciarlo sul capo, provandosi ad abbracciarlo mentre di lassù la mamma, sorridendo e con le lagrime agli occhi, le gridava che tornasse su. Ma il cane ora avrebbe voluto ruzzare con la bimba: s’acquattava, poi springava smorfiosamente, senza badare agli strattoni della catena, e si storcignava tutto, guaendo, ma di gioja.
Non doveva pensare Rorò, quella notte, che il cane se ne stesse tranquillo perché lei gli aveva recato da mangiare e lo aveva confortato con le sue carezze? Una sola volta, per poco, a una cert’ora, s’intesero i suoi latrati; poi, più nulla. Certo il cane, sazio e contento, dormiva. Dormiva, e lasciava dormire.

– Mamma, – disse Rorò, felice del rimedio finalmente trovato. – Domattina, di nuovo, mamma, è vero?

– Sì, sì, – le rispose la mamma, non comprendendo bene, nel sonno.

E la mattina dopo, il primo pensiero di Rorò fu d’affacciarsi a vedere il cane che non s’era inteso tutta la notte.
Eccolo là: steso di fianco per terra, con le quattro zampe diritte, stirate, come dormiva bene! E nel valloncello non c’era nessuno: pareva ci fosse soltanto il gran silenzio che, per la prima volta, quella notte, non era stato turbato.
Insieme con Rorò e con la mammina, gli altri inquilini guardavano anch’essi stupiti quel silenzio di laggiù e quel cane che dormiva ancora, lì disteso, a quel modo. Era dunque vero che il pane, le carezze della bimba avevano fatto il miracolo di lasciar dormire tutti e anche la povera bestia?
Solo la finestra del Barsi restava chiusa.
E poiché il villano ancora non si vedeva laggiù, e forse per quel giorno, come spesso avveniva, non si sarebbe veduto, parecchi degli inquilini persuasero la signora Crinelli ad arrendersi al desiderio di Rorò di recare al cane – com’ella diceva – la colazione.

– Ma bada, piano, – la ammonì la mamma. – E poi su, senza indugiarti, eh?

Seguitò a dirglielo dalla finestra, mentre la bimba scendeva con passetti lesti, ma cauti, tenendo la testina bassa e sorridendo tra sé per la festa che s’aspettava dal suo grosso amico che dormiva ancora.
Giù, sotto la roccia, tutto raggruppato come una belva in agguato, era intanto Jaco Naca, col fucile. La bimba, svoltando, se lo trovò di faccia, all’improvviso, vicinissimo; ebbe appena il tempo di guardarlo con gli occhi spaventati: rintronò la fucilata, e la bimba cadde riversa, tra gli urli della madre e degli altri inquilini, che videro con raccapriccio rotolare il corpicciuolo giù per il pendio, fin presso al cane rimasto là, inerte, con le quattro zampe stirate.

 

 

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La disgrazia di Caino

Post n°648 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,eccomi qua.
Stavolta protagonista della mia cronaca è Caino Trogoloni, si è fidanzato con Matelda Vitellozzi.
Il problema è che Caino ha la famiglia che ha e se ne vergogna da morire,Per un po' èriuscito a tenere lontano la Matelda da S.Tobia,ma la cosa èdiventata impossibile quando si è cominciato a parlare di matrimonio e la ragazza,povera innocente,ha manifestato il desiderio di conoscere suoceri e cognati.
Che poteva fare il poveraccio,se non avvertire la famiglia della prossima venuta della fidanzata e pregare che tutto andasse per il meglio?
E siamo arrivati al giorno fatidico.
Appena la Matelda è entrata in casa l'Astorre,a mo' di benvenuto,le ha rifilato una pacca sul sedere da togliere il fiato.La poverina ha fatto stoicamente finta di nulla e si è messa a tavola.
In onore dell'ospite,la Bradamante aveva preparato il famigerato pastone del porco,(per la ricetta vedi "Aggiungi un posto a tavola").La poverina ha dovuto mangiare tutto fino all'ultimo boccone.
Alla cena erano presenti anche la figlia Ermengarda col marito Gnecco e il figlio Leopoldo,che haraccontato alla Matelda tutti i dettagli più raccapriccianti dei suoi esperimenti con topi,ragni e scarafaggi.
Aveva appena finito quando la Bradamante ha informato la futura nuora che
1) Caino ha bagnato il letto finchè non è andato militare
2)Ha paura del buio e non si addormenta se non ha accanto un pupazzetto di Winnie Pooh
3)Soffre di meteorismo.
La Matelda stava per mettersi a piangere,ma non ne ha avuto il tempo,perchè Ladislao le ha rivelato che prima di lei c'erano state altre 49 ragazze,che avevano tutte piantato in asso Caino,e le ha elencato per filo e per segno i perchè.
A questo punto la Vitellozzi avrebbe voluto avere un bazooka ed essere Rambo, ma non era ancora finita.
Eh sì,lettori miei:alla cena era presente anche Bernabò!
L'indescrivibile ha dleiziato la futura cognata sfoggiando tutte le sue buone maniere,ovvero ruttando a ruotali bera,grattandosi in testa e altrove,scaccolandosi il naso e pulendosi le orecchie con una mollica di pane e uno stuzzicadenti.Non contento,ha poi rivelato alla ragazza che Caino porta il parrucchino,ha un occhio di vetro,una gamba artificiale e quando c'è luna piena diventa licantropo.
Naturalmente erano balle spaziali,ma la Matelda non poteva saperlo.
In preda a una crisi isterica,la Vitellozzi ha afferrato la teglia contenente il pastone del porco,lo ha scaranventato in testa a Caino e se n'è andata.
E' finita nella stalla di Cesarone, che odia ogni essere di sesso femminile (è un toro serio,lui)
La Matelda detiene il nuovo record di salto del campanile.
Sono passati dieci giorni.
La poveretta è ricoverata nella clinica Luminaris.
Caino ha ripudiato la famiglia ed è partito per destinazione ignota (anche perchè i familiari della Matelda vogliono arrostirlo vivo)
Larga la foglia,stretta la via,dite la vostra che ho detto la mia




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Non sono tua (Teasdale)

Post n°647 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Non sono tua, tu non mi sai annullare,
anche se a questo il mio essere anela:
perdermi come fuoco di candela
a mezzogiorno accesa, o neve in mare.
Tu m'ami certo, e ancor mi seduce
il tuo spirito ardende, vivo sole;
pure, io resto io, colei che vuole
perdersi come lume in pura luce.
Oh, nell'amore fammi sprofondare,
strazia i miei sensi, fammi diventare
sorda e cieca in tempesta di tormenti,
tenue fiaccola tra maligni venti

 
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Libri dimenticati:Luchino Visconti (Servadio)

Post n°646 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

E' una biografia molto bella del grande regista,che ci rivela l'uomo e ce lo fa capire.
Da leggere sicuramente!

 
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Frase del giorno

Post n°645 pubblicato il 07 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Non esiste notte abbastanza lunga da impedire al sole di sorgere ancora

 
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