Messaggi del 10/09/2011

11 settembre 2001

Post n°688 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Intendiamoci,non ho mai amato gli americani,retaggio della guerra del Vietnam.
Ma quel giorno sono stata americana anche io.
Ho visto cadere le Torri e non ci credevo,mi pareva un filmaccio di serie Z;ho negato la verità per delle ore,come credo molti.
Poi col passare del tempo ho sentito un pianto dentro.
Piangevo dentro per quelli che si son buttati dai grattacieli,per quelli che non son mai stati trovati;piangevo dentro per quei passeggeri di quell'aereo che si sono sacrificati per evitare il peggio al grido di "Let's roll!"
Quella frase per anni è stato il saluto del mio telefonino.
Poi ho visto Rudy Giuliani rischiare la vita alla testa dei soccorritori e avrei voluto abbracciarlo.
Ho sentito la gente gridare. "USA!USA!" e mi sono sentita una di loro.
Ho pianto per i pompieri e i poliziotti morti per gli altri.
C'è una canzone meravigliosa dedicata a loro che si chiama "Shine your light" e ancora se la sento piango.
Sono passati dieci anni in un lampo.
Osama è morto,ma questo non ci riporterà i nostri morti.
Sì,dico NOSTRI,perchè lo sono.
Voglio ricordarli ora con queste parole.

 
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La figlia del Re

Post n°687 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figlia unica, e le volevano più bene che alla pupilla de' loro occhi.
Mandò il Re di Francia per domandarla in sposa.
Il Re e la Regina, che non sapeano staccarsi dalla figliuola, risposero:
- È ancora bambina.
Un anno dopo, mandò il Re di Spagna.
Quelli si scusarono allo stesso modo:
- È ancora bambina.
Ma i due regnanti se l'ebbero a male. Si misero d'accordo e chiamarono un Mago:
- Devi farci un incanto per la figlia del Re, il peggiore incanto che ci sia.
- Fra un mese l'avrete.
Passato il mese, il Mago si presentò:
- Ecco qui. Regalatele questo anello; quando lo avrà portato in dito per ventiquattr'ore, ne vedrete l'effetto.
Regalarglielo non potevano, perché s'eran già guastati coi parenti di lei. Come fare?
- Ci penserò io.
Il Re di Spagna si travestì da gioielliere, e aperse una bottega dirimpetto al palazzo reale.
La Regina volea comprar delle gioie e lo mandò a chiamare.
Quello andò, e in uno scatolino a parte ci avea l'anello.
Dopo che la Regina ebbe comprato parecchie cose, domandò alla figliuola:
- O tu, non vuoi nulla?
- Non c'è niente di bello - rispose la Reginotta.
- Ci ho qui un anello raro; le piacerà.
E il finto gioielliere mostrò l'anello incantato.
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Quanto lo fate?
- Reginotta, non ha prezzo, ma prenderò quel che vorrete.
Gli diedero una gran somma e quello andò via.
La Reginotta s'era messo in dito l'anello e lo ammirava ogni momento:
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza!
Ma dopo ventiquattr'ore (era di sera):
- Ahi! Ahi! Ahi!
Accorsero il Re, la Regina, le dame di corte, coi lumi in mano.
- Scostatevi! Scostatevi! Son diventata di stoppa.
Infatti la povera Reginotta avea le carni tutte di stoppa.
Il Re e la Regina erano proprio inconsolabili. Radunarono il Consiglio della Corona.
- Che cosa poteva farsi?
- Maestà, fate un bando: Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re.
E i banditori partirono per tutto il regno, con tamburi e trombette.
- Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re!

In una città c'era un giovinotto, figlio d'un ciabattino. Un giorno, vedendo che in casa sua si moriva di fame, disse a suo padre:
- Babbo, datemi la santa benedizione: vo' andare a cercar fortuna pel mondo.
- Il cielo ti benedica, figliuolo mio!
E il giovinotto si mise in viaggio.
Uscito pei campi, in una viottola incontrò una frotta di ragazzi che, urlando, tiravan sassate a un rospo per ammazzarlo.
- Che male vi ha fatto? È anch'esso creatura di Dio: lasciatelo stare.
Vedendo che quei ragazzacci non smettevano, saltò in mezzo ad essi, diè uno scapaccione a questo, un pugno a quello, e li sbandò: il rospo ebbe agio di ficcarsi in un buco.
Cammina, cammina, il giovinotto incontrò i banditori che, a suon di tamburi e di trombette, andavan gridando:
- Chi guarisce la Reginotta, sarà genero del Re.
- Che male ha la Reginotta?
- È diventata di stoppa.
Salutò e continuò per la sua strada, finché non gli annottò in una pianura. Guardava attorno per vedere di trovar un posto dove riposarsi: si volta, e scorge al suo fianco una bella signora. Trasalì.
- Non aver paura: sono una Fata, e son venuta per ringraziarti.
- Ringraziarmi di che?
- Tu m'hai salvato la vita. Il mio destino è questo: di giorno son rospo, di notte son Fata. Ai tuoi comandi!
- Buona Fata, c'è la Reginotta ch'è diventata di stoppa, e chi la guarisce sarà genero del Re. Insegnatemi il rimedio: mi basterà.
- Prendi in mano questa spada e vai avanti, vai avanti. Arriverai in un bosco tutto pieno di serpenti e di animali feroci. Non lasciarti impaurire: vai sempre avanti, fino al palazzo del Mago. Quando sarai giunto lì, picchia tre volte al portone...
Insomma gli disse minutamente come dovea fare:
- Se avrai bisogno di me, vieni a trovarmi.
Il giovinotto la ringraziò, e si mise in cammino. Cammina. cammina, si trovò dentro il bosco, fra gli animali feroci. Era uno spavento! Urlavano, digrignavano i denti, spalancavano le bocche; ma quello sempre avanti, senza curarsene. Finalmente giunse al palazzo del Mago, e picchiò tre volte al portone.
- Temerario, temerario! Che cosa vieni a fare fin qui?
- Se tu sei Mago davvero, devi batterti con me.
Il Mago s'infuriò e venne fuori armato fino ai denti: ma, come gli vide in mano quella spada, urlò:
- Povero me!
E si buttò ginocchioni:
- Salvami almeno la vita!
- Sciogli l'incanto della Reginotta, e avrai salva la vita.
Il Mago trasse di tasca un anello, e gli disse:
- Prendi; va' a metterglielo nel dito mignolo della mano sinistra e l'incanto sarà disfatto.
Il giovanotto, tutto contento, si presenta al Re:
- Maestà, è vero che chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re?
- Vero, verissimo.
- Allora son pronto a guarirla.
Chiamaron la Reginotta, e tutti quelli della corte gli s'affollarono attorno; ma le avea appena messo in dito l'anello, che la Reginotta divampò, tutta una fiamma! Fu un urlo. Nella confusione, il giovanotto poté scappare, e non si fermò finché non giunse dove gli era apparsa la Fata:
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la disgrazia.
- Ti sei lasciato canzonare! Tieni questo pugnale e ritorna dal Mago: vedrai che questa volta non si farà beffa di te.
E gli disse minutamente come dovea regolarsi.
Il giovinotto andò subito, e picchiò tre volte al portone.
- Temerario, temerario! Che cosa vieni a fare fin qui?
- Se tu sei Mago davvero, devi batterti con me.
Il Mago s'infuriò e venne fuori, armato fino ai denti. Ma come gli vide in mano quel pugnale, si buttò ginocchioni:
- Salvami almeno la vita!
- Mago scellerato, ti sei fatto beffa di me! Ora starai lì incatenato, finché l'incanto non sia rotto.
Lo legò bene, piantò il pugnale in terra, e vi attaccò la catena. Il Mago non poteva muoversi.
- Sei più potente, lo veggo! Torna dalla Reginotta, cavale di dito l'anello del gioielliere e l'incanto sarà disfatto.
Il giovinotto non avea viso di presentarsi al Re; ma saputo che la Reginotta se l'era cavata con poche scottature, perché tutti quei della corte aveano spento le fiamme, si fece coraggio e si presentò:
- Maestà, perdonate; la colpa non fu mia; fu del Mago traditore. Ora è un'altra cosa. Caviamo di dito alla Reginotta quell'anello del gioielliere, e l'incanto sarà disfatto.
Così fu. La Reginotta diventò nuovamente di carne, ma pareva un tronco: non avea lingua, né occhi, né orecchi; era rovinata dalle fiamme. E se lui non la guariva intieramente, non potea diventar genero del Re.
Partì e andò in quella pianura dove gli era apparsa la Fata:
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la disgrazia.
- Ti sei lasciato canzonare!
E gli disse, minutamente, come dovea regolarsi.

Il giovanotto tornò dal Mago:
- Mago scellerato, ti sei fatto beffa di me! Lingua per lingua, occhio per occhio!
- Per carità, lasciami stare! Vai dalle mie sorelle, che stanno un po' più in là. Devi fare così e così.
Cammina, cammina, arriva in una campagna dove c'era un palazzo simile a quello del Mago. Picchiò al portone. - Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Cornino d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me?
- Vuole un pezzettino di panno rosso; gli si è bucato il mantello.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra un pezzettino di panno rosso, tagliato a foggia di lingua.
Andò avanti, e arrivò a piè d'una montagna dove, a mezza costa, c'era un palazzo simile a quello del Mago. Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Manina d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me?
- Vuole due grani di lenti per la minestra.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra due grani di lenti, involtati in un pezzettino di carta.
Andò avanti, e arrivò in una valle, dove c'era un altro palazzo simile a quello del Mago. Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Piedino d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello! Che cosa vuole da me?
- Vuole due lumachine per mangiarsele a cena.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra le lumachine richieste.
Il giovanotto tornò dal Mago:
- Ho portato ogni cosa.
Il Mago gli disse come doveva fare, e il giovanotto stava per andarsene:
- Mi lasci qui incatenato?
- Lo meriteresti, ma ti sciolgo. Se mi hai ingannato, guai a te!
Il giovane si presentò al palazzo reale e si fece condurre dalla Reginotta.
Le aperse la bocca, vi mise dentro quel pezzettino di panno rosso, e la Reginotta ebbe la lingua. Ma le prime parole che disse furon contro di lui:
- Miserabile ciabattino! Via di qua! Via di qua!
Il povero giovane rimase confuso:
- Questa è opera del Mago!
Senza curarsene, prese i due semi di lenti, con un po' di saliva glieli applicò sulle pupille spente, e la Reginotta ebbe la vista. Ma appena lo guardò, si coprì gli occhi colle mani:
- Dio, com'è brutto! Com'è brutto!
Il povero giovane rimase:
- Questa è opera del Mago!
Ma, senza curarsene, prese i gusci delle lumachine che aveva già vuotati, e con un po' di saliva glieli applicò bellamente dov'era il posto degli orecchi: la Reginotta ebbe gli orecchi.
Il giovane si rivolse al Re e disse:
- Maestà, son vostro genero.
Come intese quella voce, la Reginotta cominciò a urlare:
- Mi ha detto: Strega! Mi ha detto: Strega!
Il povero giovane, a questa nuova uscita, sbalordì:
- È opera del Mago!
- E tornò dalla Fata.
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la sua disgrazia.
La Fata sorrise e gli domandò:
- Le hai tu tolto di dito l'altro anello del Mago?
- Mi pare di no.
- Vai a vedere; sarà questo.
Come la Reginotta ebbe tolto di dito quell'altro anello, tornò gentile e tranquilla.
Allora il Re le disse:
- Questi è il tuo sposo.
La Reginotta e il giovanotto si abbracciarono alla presenza di tutti, e pochi giorni dopo furono celebrate le nozze.

E furono marito e moglie;
E a lui il frutto e a noi le foglie.



di Luigi Capuana

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Pintosmalto

Post n°686 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Tanti secoli fa, lontano lontano, c'era la città di Finzio, dove viveva un ricco mercante con sua figlia Betta, e il suo più grande desiderio era vederla sposata. La fanciulla era tanto bella che venivano a chiedere la sua mano nobili, borghesi e cortigiani, ma lei non ne voleva sapere, perché nessuno era di suo gusto.
Il mercante le voleva molto bene, e faceva di tutto per accontentarla, così un giorno che stava per andare alla fiera di Altobosco le chiese se desiderava qualche regalo. Allora Betta rispose:
"Babbo mio, se mi vuoi bene portami mezzo quintale di zucchero raffinato, mezzo quintale di mandorle di qualità, mezza dozzina di bottiglie d'acqua di rose, tre vasetti di profumo di muschio, trentadue perle, due zaffiri, un po' di granatine, dei rubini e una matassa di fili d'oro; se mi vuoi bene portami anche una madia di legno pregiato e un rasoio d'argento".
Il mercante rimase a bocca aperta sentendo questa stravaganza, ma per farla contenta le portò quello che gli aveva chiesto. Betta contenta lo ringraziò e si fece portare tutto in camera sua.
Chiuse a chiave la porta e aprì la madia, dopo aver tritato le mandorle fini fini le impastò con lo zucchero, l'acqua di rose, il muschio, e quando la pasta fu bella soda formò un uomo lavorandolo con le mani e col rasoio d'argento. Poi gli fece i capelli di fili d'oro, gli occhi di zaffiro, i denti di perle, le labbra di rubini, e diede colore alle sue guance con le granatine.
Era tanto bello che se ne innamorò. Gli mancava solo la parola, e allora Betta si mise a pregare perché Pintosmalto, così lo aveva chiamato, diventasse un uomo in carne ed ossa.
Pregò per tanto tempo e con tanto amore che a un certo punto l'uomo di pasta schiuse gli occhi, cominciò a respirare, poi a parlare, infine gli si sciolsero le membra e si mise a camminare.
Betta era al settimo cielo dalla gioia, lo abbracciò e lo baciò, poi, prendendolo per mano, lo portò da suo padre e disse:
"Caro babbo, hai sempre detto che morivi dalla voglia di vedermi maritata, e allora io per accontentarti sposerei questo Pintosmalto, che è fatto proprio secondo i miei gusti".
Il mercante, che non aveva visto entrare nessuno in casa sua, non capiva come avesse fatto a uscire dalla camera di sua figlia quel Pintosmalto, splendente di bellezza al punto che tanti avrebbero pagato per poterlo guardare, ma senza indagare troppo diede la sua benedizione, e fece preparare una grande festa nuziale.
Bisogna sapere che insieme agli invitati venne anche la regina di Monterotondo, che vedendo Pintosmalto decise di prenderlo tutto per sé.
Avendo aperto gli occhi solo da qualche ora, Pintosmalto era ingenuo come un neonato, non conosceva malignità né inganni, e quando quella regina, approfittando di un momento in cui Betta non guardava dalla sua parte, lo prese per la mano, lui la seguì come un cagnolino.
Lei lo fece salire su una carrozza e tornò di corsa nel suo regno, senza fermarsi fino al palazzo reale, dove approfittando della semplicità di Pintosmalto se lo sposò.

Quando Betta si accorse che Pintosmalto era sparito andò a vedere nel cortile se si era fermato a parlare con qualcuno, salì in terrazza per vedere se era andato a prendere una boccata d'aria, diede un'occhiata anche nel gabinetto per vedere se era andato per la prima volta a fare i suoi bisogni, ma non lo trovò da nessuna parte, così capì che siccome era tanto bello un'altra donna doveva averglielo rubato. Promise una grande ricompensa a chi glielo avesse riportato, ma il tempo passava senza che nessuno si facesse vivo, e allora Betta, che era già incinta, si travestì da mendicante e partì senza sapere dove andare, decisa a viaggiare per il mondo finché non avesse ritrovato Pintosmalto.
Cammina cammina, una sera bussò alla casa di una vecchia, che sentendo la sua storia l'accolse come una figlia, e prima di lasciarla ripartire le insegnò tre formule magiche:

tricchevarlacche, ca la casa chiove,
anola tranola, pizze fontanola,
tafar' e tammurro, pizze 'n gongole e cemmino.


"Bada bene," aggiunse "dille solo quando non saprai più come fare.".
Betta la ringraziò per la sua bontà, anche se non capiva a che servisse questo dono fatto solo di parole, e si rimise in cammino dicendo fra sé e sé che tutto fa, come quel pescatore che pisciò nel fiume in secca...
Cammina cammina, dopo un po' di tempo arrivò proprio nella capitale di Monterotondo, e quando si trovò davanti al palazzo reale pregò alcune damigelle che le concedessero rifugio, anche in una stalla, perché aspettava un bambino, e mancava poco alla nascita, così le fu permesso di stare in una camerina che dava sulle scale.
Quale fu la sorpresa di Betta quando a sera vide passare il suo Pintosmalto, tutto vestito da re! gli andò incontro sorridendo, ma lui non si ricordava più e non la riconobbe, facendola passare dalla gioia alla disperazione. Non sapeva proprio come fare, quand'ecco che si ricordò delle formule magiche, e disse la prima:

tricchevarlacche, ca la casa chiove.

In un batter d'occhio apparve una piccola carrozza d'oro tempestata di pietre preziose, che viaggiava per tutta la camera trainata da due cavallini bianchi.
Le damigelle la videro salendo le scale e andarono a dirlo alla regina, che subito scese giù per ammirarla. Le piacque tanto che propose di comprarla, avrebbe pagato qualunque prezzo, ma Betta disse che anche se era una mendicante lei teneva più ai suoi desideri che a uno scrigno di monete d'oro. Se voleva la carrozzina la regina doveva soddisfare un suo desiderio: lasciarla dormire per una notte con Pintosmalto.
Pur meravigliandosi della pazzia di questa stracciona, che dava via per un capriccio una cosa tanto preziosa, la regina disse di sì, ma a sera chiamò Pintosmalto, che era tanto ingenuo e non diceva mai di no, e gli fece bere una coppa di vino nella quale aveva sciolto un potente sonnifero, poi lo accompagnò nella camera di Betta.
Appena si stese sul letto lui si addormentò come un ghiro: Betta aveva sperato che quella notte le sue disgrazie sarebbero finite, ma Pintosmalto non rispondeva ai suoi richiami, cominciando anche a russare.
Poverina! Si mise a piangere e lamentarsi a voce alta, ricordando che lei lo aveva impastato di mandorle e zucchero, pregando perché diventasse vivo e vero, mentre lui alla prima occasione si era dimenticato tutto e l'aveva lasciata sola. Per tutta la notte Betta non chiuse la bocca, ma Pintosmalto non aprì mai gli occhi.
Al mattino scese la regina, prese per mano il bellissimo re, e se lo portò via.
Allora Betta disse la seconda formula:

anola tranola, pizze fontanola.

E questa volta apparve una gabbia d'oro con un uccellino di pietre preziose, che cantava come un usignolo.
Appena lo videro le damigelle, andarono a dirlo alla regina alla quale piacque tanto che volle comprare anche questa meraviglia, ed era pronta a pagarla qualunque prezzo. Betta rispose anche questa volta che per quanto fosse mendicante teneva di più al suo desiderio che a tutto il tesoro reale: glielo avrebbe dato in cambio di un'altra notte con Pintosmalto.
La regina, che aveva già sperimentato il modo di pagarla senza perderci nulla, le disse di sì, e prima di mandare nella camera di Betta suo marito, gli diede il solito sonnifero.
Betta, vedendo che anche quella notte il suo amore dormiva come se l'avessero scannato, dopo aver provato inutilmente a scuoterlo e a gridargli nelle orecchie, cominciò a lamentarsi forte, dicendo cose che avrebbero commosso le pietre, piangendo e graffiandosi e strappandosi i capelli, e non smise un solo istante fino al mattino, quando venne la regina a riprendere Pintosmalto, e la povera Betta restò lì impietrita dal dolore.

Ma quel giorno Pintosmalto sentì voglia di fichi, e andò a coglierli in un giardino appena fuori dalla città, dove gli si avvicinò un vecchio ciabattino che abitava in una casa vicina al palazzo reale, con la camera accanto a quella dove dormiva Betta.
Il vecchietto chiese al re Pintosmalto se gli sapeva dire chi era quella mendicante che per due notti intere aveva pianto e si era lamentata, impedendogli di dormire. Disse quello che aveva raccontato la fanciulla, e Pintosmalto, che cominciava a usare il suo cervello, si domandò che significato poteva avere questa storia, e pensò che se avesse avuto un'altra occasione di passare la notte con lei non avrebbe bevuto il vino dopo la cena.
Betta intanto non aveva altre risorse che la terza formula della buona vecchia, così la disse:

tafar' e tammurro, pizze 'n gongole e cemmino.

Immediatamente la camerina si riempì di finissime sete di tutti i colori e di cinture ricamate con conchiglie d'oro, tanto belle che in tutto il mondo non si era mai visto l'uguale.
Quando le damigelle andarono a raccontare alla regina di quelle meraviglie, la regina scese di corsa perché voleva tutto per sé. E quando Betta disse che non avrebbe venduto quel corredo per tutto l'oro del mondo, ma glielo avrebbe dato in cambio dello stesso favore delle altre due volte, la regina pensò: "Che me ne importa di accontentare la povera sciocca se ci guadagno tutte queste vesti di seta e d'oro?", e le concesse per la terza volta una notte con Pintosmalto.
Al solito la regina dopo cena diede da bere il vino col sonnifero a Pintosmalto, ma lui questa volta lo tenne in bocca, e andò a sputarlo nel gabinetto, poi scese nella camerina lungo le scale e si stese nel letto, facendo finta di dormire.
Betta per la terza volta si mise a raccontare la sua storia, da quando l'aveva impastato con le sue mani di zucchero e mandorle e gli aveva fatto i capelli d'oro e gli occhi di zaffiro e la bocca di rubini. Piangeva e si lamentava raccontando che glielo avevano rubato e lei che aspettava un bambino si era messa per via per ritrovarlo, poi aveva dato tre tesori di valore immenso solo per averlo nel suo letto, inutilmente! perché lui non aveva fatto altro che dormire e russare, e quella notte morivano tutte le sue speranze.
Pintosmalto mentre ascoltava ricordava piano piano come un sogno tutto quello che era successo, e riconoscendo Betta l'abbracciò e fece tutto quello che poteva per consolarla.
Avendo ritrovato il suo tesoro lei si consolò tanto che le parve di essere in Paradiso.
Era ancora notte fonda quando Pintosmalto si alzò piano piano, entrò nella camera della regina che era immersa un sonno profondo, prese la piccola carrozza d'oro, la gabbia con l'usignolo di pietre preziose e il corredo ricamato d'oro che la regina aveva portato via a Betta, prese anche i gioielli e le monete d'oro che erano nello scrigno, come ricompensa per tutti i guai che avevano passato.
Tornò da Betta e si misero in viaggio, passarono i confini del reame della regina ladra e proseguirono fino alla città di Finzio, dove il padre di Betta si struggeva di dolore credendo che fosse morta. Quando la vide con Pintosmalto ringiovanì di vent'anni, e la felicità di tutti salì alle stelle quando nacque un bellissimo bambino.
La regina di Monterotondo, che non trovò più né il marito né la mendicante né le cose preziose, si graffiò tutta dalla rabbia, imparando a sue spese quanto siano vere quelle parole:

chi la fa l'aspetti.




 
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La foresta d'agli

Post n°685 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Si racconta che una volta, a Piandimeleto, viveva un contadino di nome Felice con sette figlie femmine, e tutto quello che possedeva per mantenerle era un campo dove coltivava gli agli, ma lui per sentirsi un po’ più importante lo chiamava ‘la foresta d'agli’.
Questo brav'uomo aveva un amico che si chiamava Ardito, ricchissimo possidente di boschi a Torritto, e aveva sette figli maschi; e accadde che il suo primogenito Checco, che per lui valeva più della luce dei suoi stessi occhi, si ammalò, e non si riusciva a trovare un rimedio, nonostante innumerevoli medici fossero venuti a visitarlo.
Una volta Felice, dopo tanti anni, andò a trovare Ardito, e a un certo punto il suo amico gli chiese quanti figli aveva. Il povero contadino si vergognò di dirgli che aveva solo femmine, e gli rispose: "Ho quattro maschi e tre femmine". "Ah, bene!" disse Ardito, "speravo proprio che tu avessi un figlio che potesse venisse a far compagnia al mio Checco, e chissà che non lo aiuti a guarire! mi faresti questo gran piacere?".
Felice, vedendo che si era messo in un bell'impiccio, non seppe cosa rispondere e gli fece segno di sì con la testa, ma tornato a Piandimeleto si sentì tutto pieno di malinconia, perché non sapeva come mantenere la promessa fatta al suo amico Ardito. Non trovando altra soluzione, dopo aver chiamato una per una le sue figlie, dalla più grande alla più piccina, domandò chi di loro era disposta a tagliarsi i capelli, a travestirsi da uomo e fingersi un maschio per far compagnia al figlio del suo amico che era tanto malato.
A questa proposta la figlia maggiore, che si chiamava Bella, rispose: "Cos’è, mi è morto il padre che devo prendere il lutto e tagliarmi i capelli?".
Linda, che era la seconda, rispose: "Non sono ancora sposata e dovrei smettere di portare i capelli lunghi?".
Bianca, che era la terza, disse: "Veramente ho sempre sentito dire che le donne non devono mettersi i pantaloni".
Rosa, che era la quarta, rispose: "Maramao! Non puoi mandarmi a cercare la medicina che non hanno i farmacisti per curare un malato!".
Viola, che era la quinta, disse: "A questo malato gli puoi dire che si faccia fare un salasso, perché non darei uno solo dei miei capelli per i cento fili della vita di un uomo!".
Lilia, che era la sesta, disse: "Sono nata femmina, vivo da femmina, e da femmina voglio morire; io non voglio perdere la mia buona reputazione trasformandomi in un falso uomo".
La cucciolina, l’ultima figlia, che si chiamava Vispa, vedendo il babbo che a ogni risposta delle sorelle faceva un sospirone, gli disse: "Se non ti basta che mi trasformi in uomo, posso anche far finta di essere un animale o bucarmi con uno spillo, purché tu sia contento!".
"Oh, che tu sia benedetta!", disse Felice, "perché in cambio della vita che ti ho dato ora tu mi salvi l'onore e la vita! Su, non perdiamo tempo, vieni qua che cominciamo".
Le tagliò subito i capelli, che aveva lunghi e lucenti come tanti fili d'oro, e dopo averle rimediato uno vestituccio sdrucito da uomo la accompagnò a Torritto, dove Vispa, dicendo di chiamarsi Vispo, fu accolta da Ardito e da suo figlio che era sempre a letto malato con tanti baci e carezze. Poi Felice ripartì, lasciando Vispa a far compagnia al malato.
Ma Checco, che sotto a quel vestito vecchio vedeva brillare una bellezza che incantava, guardandola e riguardandola e osservandola in ogni particolare, disse fra sé e sé:
"Se io non ho le traveggole questo maschio deve essere una femmina: la pelle morbida del suo viso me lo fa sospettare, la sua voce me lo conferma, la sua andatura me ne convince, quello che sento in cuore mi dà la certezza, e se sono innamorato dev’essere vero come l'oro. E' una femmina di sicuro, e sarà venuta qui con questo trucco di vestirsi da uomo per sorprendermi a farmi morire d'amore". Allora sospirò e si sprofondò tanto in questi pensieri che la sua malinconia si aggravò, gli salì la febbre, e i medici dissero ormai era in fin di vita.
Allora la sua mamma, che non sorrideva più da quando Checco si era ammalato, cominciò a dirgli:
"Figlio mio, luce dei miei occhi, bastone della mia vecchiaia, ma che roba è questa, che invece di diventare sempre più forte perdi la salute e invece di andare avanti vai indietro come i gamberi? Possibile che tu voglia lasciare nella disperazione la tua mammina, senza dirle perché stai tanto male, senza provare a vedere se c'è una soluzione? Su tesoro mio, parla, urla, sfogati, tira fuori il rospo, dimmi una buona volta di che hai bisogno, che desiderio vorresti realizzare, e lascia fare a me, vedrai che ti accontenterò a qualunque costo!".
Checco, incoraggiato da queste parole affettuose, si lasciò convincere a confessare la passione del suo cuore, e le disse che per lui Vispo era Vispa, e se non gliela davano in isposa lui aveva deciso di non vivere più.
"Piano!", disse la mamma, "per metterti l'animo in pace faremo qualche prova per scoprire se è maschio o femmina, se nel campo c'è l'albero o l’erbetta. Facciamolo scendere nella stalla a montare su un puledro di quelli che abbiamo noi, scegliendo il più selvaggio, perché se è una femmina, siccome le femmine di coraggio ne hanno poco, vedrai come si impaurisce, e così ci leviamo questo pensiero".
A Checco l'idea piacque moltissimo e così mandò Vispa nella stalla, dove le diedero un puledro indiavolato, e lei dopo averlo sellato lo montò con un coraggio da leone e cominciò ad andare al passo che era una meraviglia, al trotto che era un incanto, e poi gli fece fare bellissime piroette, salti mozzafiato e galoppate strabilianti.
Allora la madre disse a Checco: "Caro figliolo, levati questa agitazione che ti fa venire la febbre alta; hai visto? questo sa stare a cavallo meglio del più esperto dei cavalieri del re".
Ma Checco per questo non si mosse di un pelo dalla sua convinzione, e continuò a dire che comunque era una femmina, e nessuno avrebbe mai potuto fargli cambiare idea. La mamma per levargli questa fissazione gli disse: "Piano bello mio, che faremo la seconda prova per farti vedere meglio!". E fatto portare uno schioppo in camera chiamarono Vispa, alla quale dissero di caricarlo e di sparare un colpo.
Prendendo l'arma in mano lei infilò la polvere da sparo nella canna dello schioppo e l'agitazione nel cuore di Checco, accese la miccia sul cane e il fuoco in corpo al malato, e poi sparò, scaricando lo schioppo e caricando Checco di esplosivi desideri.
La mamma, dopo aver visto il garbo, la disinvoltura e l'abilità con la quale quel giovane aveva sparato, disse a Checco: "Levati quell'idea dalla testa e pensa bene che a una femmina tutto questo non può riuscire!". Ma Checco, continuando a discutere, disse non poteva darsi pace e avrebbe messo la mano sul fuoco, perché era sicuro che questa rosa bellissima il gambo non ce l'aveva, e diceva alla mamma:
"Credimi, mamma mia cara, che se quel bell'albero d'amore darà un fico a me che son malato, non me ne importerà più un fico secco di tutti i dottori. Perciò cerchiamo di saperlo con sicurezza, sennò mi riduco come uno spaventapasseri, e siccome non riesco a trovare la strada che cerco per arrivare in un bel posticino, finirò in una fossa!".
La povera mamma, che lo vedeva ancora più intestardito e impuntato sulla sua idea, gli disse: "Vuoi vederci chiaro? E allora portalo a fare una nuotata con te, così si vedrà se si tratta di un'arcata o di una colonna, di una vasca o di un monumento, di una piazza o di un obelisco".
"Brava mamma!" rispose Checco, "Non c'è nulla da dire, hai colto nel segno! Oggi vedrò se è spiedo o padella, mattarello o setaccio, pestello o mortaio".
Ma Vispa aveva sentito tutto, e di nascosto mandò a chiamare un servitore di suo padre, che era un furbo matricolato, e gli diede queste struzioni: "Quando mi vedrai arrivare sulla marina dove devo spogliarmi, vieni di corsa e dì che mio padre sta molto male e vuole vedermi per l'ultima volta".
Il servitore stette ben attento, e appena vide che Vispa e Checco erano arrivati al mare e cominciavano a spogliarsi, fece come stabilito, servendola alla perfezione. E lei a questa notizia salutò l’amico malato e si mise a correre a gambe levate verso Piandimeleto.
Il povero Checco tornò dalla sua mamma a testa bassa, con gli occhi gonfi, il viso pallidissimo e le labbra smorte, e le disse che il progetto era saltato, e per la disgrazia che era capitata al padre di Vispo non aveva potuto vedere la prova definitiva.
"Non ti disperare", gli rispose la mamma, "perché se la lepre scappa il cane la deve rincorrere. Perciò arriverai all'improvviso a casa di Felice e chiamerai suo figlio: se non scenderà alla svelta capirai che c'è il trucco e scoprirai finalmente cosa c'è sotto".
A queste parole sul viso impallidito di Checco ritornò il colore, e la mattina dopo partì presto e andò diretto a casa di Felice, lo chiamò e gli disse: "Presto, presto, c’è una cosa che devo dire immediatamente a Vispo!".
Il buon uomo rimase di stucco, e gli disse di aspettare un pochino, che l'avrebbe fatto scendere: Vispa, per non essere scoperta come femmina, si levò in tutta fretta la camicetta e la gonnella, si mise il vestito da uomo e scese le scale di corsa, ma aveva dimenticato di levarsi gli orecchini. E così, dalle orecchie di Vispa Checco scoprì quello che tanto aveva desiderato sentire, e stringendola forte fra le sue braccia disse:
"Voglio che tu sia la mia sposa, in barba agli invidiosi, a dispetto del destino, anche se si opponesse la morte!".
Felice, vedendo che Checco aveva intenzioni buone, disse: "Se il tuo babbo è contento, io sono arcicontento".
E allora andarono a Torritto, dove Ardito e sua moglie, pieni di gioia nel vedere Checco completamente guarito e così allegro, accolsero la nuora con immenso piacere. A un certo punto chiesero a Felice: "Ma perché l'hai mandata mascherata da uomo?".
Felice arrossendo rispose: "Perché mi vergognavo a dire che avevo solo sette femmine".
Allora Ardito replicò: "Siccome la fortuna ha voluto dare a te tante femmine e a me altrettanti maschi, faremo un viaggio e sette servizi! Va' a prenderle e portale qui da me, penserò io alla loro dote, perché non mi manca nulla, e ho un marito per ciascuna di loro".
Felice sentendo queste belle parole corse a prenderle e insieme a loro in un batter d'occhio fu di ritorno a Torritto, dove si fece una grande festa di nozze con sette coppie di sposi, tanto bella che le musiche e i canti arrivarono fino alle stelle e ai sette pianeti.

di Gianfrancesco Straparola

 
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La fontana della bellezza

Post n°684 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figliuola bruttissima e contraffatta nella persona, e non se ne davano pace.
La tenevan rinchiusa, sola sola, in una camera appartata e, un giorno il Re, un giorno la Regina, le portavan da mangiare in una cesta. Quando erano lì, sfogavansi a piangere.
- Figliuola sventurata! Sei nata Regina, e non puoi godere della tua sorte!
Diventata grande, a sedici anni, lei disse al padre:
- Maestà, perché tenermi rinchiusa qui? Lasciatemi andar pel mondo. Il cuore mi presagisce che troverò la mia fortuna.
Il Re non voleva acconsentire: Dove sarebbe andata, così sola e inesperta? Era impossibile!
- Lasciatemi andare, o m'ammazzo!
A questa minaccia disperata, il Re non seppe resistere:
- Figliuola mia, parti pure!
La diè quattrini a sufficienza, e una notte, mentre tutti nel palazzo reale dormivano, la Reginotta si messe in via. Cammina, cammina, arrivò in una campagna. Il sole, al meriggio, scottava; e lei riparossi sotto un albero.
Di lì a poco ecco un lamentìo:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Lei, dalla paura, si voltò di qua e di là, ma non vide nessuno.
- Ahi! Ahi! Ahi!
Allora, fattasi coraggio, avvicinossi a quel punto d'onde il lamento partiva, e tra l'erba scoperse una lucertolina, che agitava il moncherino della coda e nicchiava a quel modo.
- Che cosa è stato, lucertolina?
- Mi hanno rotto la coda e non ritrovo il pezzettino. O, se tu me lo trovassi, ti farei un gran regalo.
La Reginotta, impietosita, si dié a frugare: e fruga e rifruga in mezzo a quell'erbe, finalmente eccolo lì!
- Grazie, ragazza mia. Pel tuo regalo, scava qui sotto.
Scavato un tantino, la Reginotta tirò fuori una cipolla poco più grossa d'una nocciuola.
- Che cosa debbo farne?
- Tienla cara. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta se la mise in tasca.
Strada facendo, incontrò una povera vecchia con un sacco di grano sulle spalle. A un tratto si rompe il sacco, e tutto il grano le va per terra. La vecchia cominciò a pelarsi dalla stizza.
- Non è nulla disse la Reginotta. Ve lo raccatterò io.
- Ah, i chicchi son contati! Se ne mancasse uno solo, mio marito mi ammazzerebbe!
E la Reginotta, con una santa pazienza, glielo raccattò tutto, chicco per chicco, senza che ne mancasse uno solo.
- Grazie, buona. figliuola; non posso darti altro che questo.
E le dette un coltellino da due soldi, di quelli col manico di ferro.
- Che cosa volete che ne faccia?
- Tienlo caro. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta se lo mise in tasca.
Cammina, cammina, arrivò all'orlo d'un fosso profondo. Sentiva un belato tremolante. Guardò e vide laggiù una capretta:
- Capretta, che cosa è stato?
- Son cascata nel fosso e mi son rotta una gamba.
Scese laggiù, la prese in collo, e poi la fasciò così bene con un fazzoletto, che quella, alla meglio, zoppicando, poté camminare.
- Grazie, ragazza. Che darti? Il mio sonaglino.
- Che cosa vuoi me ne faccia?
- Tienlo caro. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta le staccò dal collare il sonaglino e se lo mise in tasca, insieme con la cipolletta e il coltellino da due soldi.

Cammina, cammina, una sera capitò presso una fattoria fuori di mano.
- Anime cristiane, datemi alloggio per questa notte!
La padrona pareva una buona donna, e si misero a ragionare in cucina, mentre la pentola bolliva.
- Chi siete? Dove andate?
La Reginotta cominciò a raccontarle la sua storia.
- Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta!
Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola.
Non le diè retta e continuò un altro pochino, fino al punto della sua partenza del palazzo reale.
- Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta!
Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola. Rimase colpita; e si fermò.
- E dopo? - domandò la donna.
- Eccomi qui.
Quando giunse il marito, quella donna gli riferì minutamente ogni cosa.
- Sai che ho pensato, marito mio? Noi abbiamo una figliuola che è un sole: conduciamola dal Re. Gli diremo che è la sua figliuola, resa così bella da una Fata. La Reginotta la chiuderemo nel granaio e ve la lasceremo morire.
- Ma il Re come potrà crederlo?
- Ci ho tutti i segnali.
Così fecero. Nel mezzo della notte, afferrarono la povera Reginotta, la chiusero in un granaio, e il giorno dopo condussero la loro figliuola al palazzo reale.
Il Re e la Regina, sentita quella storia della Fata, rimanevano ancora incerti. Allora la ragazza, indettata, disse:
- Maestà, non vi ricordate di quando venivate nella mia camera colla cesta, e poi vi mettevate a dire piangendo: "Figliuola sventurata, sei nata Regina e non puoi godere della tua sorte"?
Il Re e la Regina rimasero. Quelle parole non potea saperle nessun altro, che la loro figliuola! Abbracciarono la ragazza, e bandirono feste reali.
Ai due che l'avean condotta regalarono un monte di monete d'oro.
Intanto la povera Reginotta, dopo essersi per tre giorni stemperata in lagrime, cominciò a sentire anche fame. Chiamò più volte, domandando per carità almeno un tozzo di pan duro!
Non accorreva anima viva. Allora rammentossi della cipolletta:
- Poteva ingannare un po' lo stomaco!
E la cavò di tasca.
- Comanda! Comanda!
- Da mangiare!
Ed ecco pietanze fumanti, tovagliuolo, posata, coltello, bottiglia e bicchiere.
Terminato di mangiare, ogni cosa sparì.
Cavò di tasca il coltellino.
- Comanda! Comanda!
- Spacca quell'uscio per legna.
E, in un attimo, l'uscio fu ridotto un mucchio di legna.
Cava di tasca il sonaglino e si mette a suonarlo. Ed ecco una mandria di capre, che non poteva contarsi.
- Comanda! Comanda!
- Pascolate per questi campi, finché ci sia un filo d'erba.
E in un minuto i seminati, le vigne, gli alberi di quella fattoria eran distrutti.

La Reginotta partì e arrivò in una città, dove c'era un Re che avea l'unico suo figliuolo gravemente ammalato. Tutti i medici del mondo, i più dotti, i più valenti, non n'avean saputo conoscere la malattia. Dicevano ch'era matto: ma egli ragionava benissimo. Aveva soltanto dei capricci, e dimagrava, dimagrava a segno che era ridotto una lanterna.
Un giorno il Reuccio trovossi affacciato a una finestra del palazzo reale, e vide passar la Reginotta.
- Oh! Com'è brutta! La voglio qui! La voglio qui!
Il Re la fece chiamare:
- Ragazza, vorresti entrare a servizio?
- Maestà, volentieri.
- Dovresti servire il Reuccio.
E si mise a servire il Reuccio.
- Bruttona, fai questo! Bruttona, fai quello.
Il Reuccio non la comandava altrimenti: volea perfino che rigovernasse i piatti.
Una volta al Reuccio gli venne la voglia dei bacelli; ed era d'autunno! Dove andare a pescarli?
- Bacelli! Bacelli!
Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quei bacelli a peso d'oro.
La Reginotta rammentossi della cipolletta e la cavò di tasca.
- Comanda! Comanda!
- Un bel piatto di bacelli!
Ed ecco un bel piatto di bacelli.
Il Reuccio se li mangiò con gran gusto, e dopo disse:
- Mi sento meglio!
Un'altra volta gli venne voglia d'un pasticcio di lumache. Ma non era la stagione.
- Pasticcino di lumache! Pasticcino di lumache!
Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quelle lumache a peso d'oro.
La Reginotta corse di bel nuovo alla cipolletta.
- Comanda! Comanda!
- Un pasticcino di lumache!
Il Reuccio se lo mangiò con gran gusto, e dopo disse:
- Mi sento assai meglio.
Infatti, s'era rimesso un po' in carne.
Un'altra volta finalmente gli venne la voglia delle polpettine di rondine. Non era la stagione. Dove andare a pescarle?
- Polpettine di rondine! Polpettine di rondine!
Il Re quelle rondini le avrebbe pagate a peso d'oro.
La Reginotta, al solito, cavò di tasca la cipolletta.
- Comanda! Comanda!
- Polpettine di rondine!
Il Reuccio se le mangiò con gran gusto e dopo disse:
- Sto benissimo.
Era diventato fresco come una rosa: non si rammentava neppure d'essere stato malato. E, un giorno, vista la Reginotta:
- Oh, come è brutta! - esclamò. - Ma chi è costei? Cacciatela via!

La Reginotta andò via piangendo:
- La sua stella voleva così!
E incontrò la vecchia, quella del grano.
- Che cosa è accaduto, figliuola?
In poche parole le raccontò l'accaduto.
- Sta' allegra, figliuola mia! Ti aiuterò io. Vieni con me.
E la condusse davanti a una grotta.
- Ascolta: lì dentro c'è la fontana della bellezza. Chi può tuffarvisi a un tratto, diventa bella quanto il sole. Ed ora, bada bene: questa grotta ha quattro stanze. Nella prima c'è un drago: buttagli in gola la cipolletta, e ti lascerà passare. Nella seconda c'è un gigante tutto coperto d'acciaio, con una mazza di ferro brandita: mostragli la lama del coltellino, e ti lascerà passare. Nella terza c'è un leone affamato: appena ti viene incontro, scuoti il sonaglino: non ti toccherà neppur esso. Ma non bisogna aver paura; se no, addio; sei spacciata. Nella quarta stanza c'è la fontana. Appena entrata lì, senza esitare un momento, tùffati dentro l'acqua con tutte le vesti.
La Reginotta entrò. Ed ecco il drago con tanto di bocca, che stendeva il collo per inghiottirsela. Gli butta in gola la cipolletta, e quello si ritira, si attorciglia chetamente, e si mette a dormire.
Lei passa oltre. Ed ecco il gigante tutto coperto d'acciaio, che si slancia incontro brandendo la mazza, cacciando terribili urli. Gli mostra la lama del coltellino, e il gigante va a rannicchiarsi in un canto.
La Reginotta passa oltre nella terza stanza. Ed ecco il leone, colle fauci spalancate, colla coda rizzata che faceva tremar l'aria. Lei scuote il sonaglino e sbuca un branco di capre. Il leone si slancia su di esse, le sbrana e se le divora.
E lei passa oltre. Vede la fontana, e vi si tuffa dentro con tutte le vesti. Si sentì diventar un'altra: lei stessa non si riconosceva. Da che il mondo è mondo, non s'era mai vista una bellezza pari a quella.
Tornò nella città, dov'era il Reuccio, e prese a pigione una casa dirimpetto al palazzo reale.
Il Reuccio rimase sbalordito:
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Se fosse sangue reale, la prenderei per moglie.
Il Re, che voleva bene al figliuolo quanto alla pupilla degli occhi suoi, mandò subito un ministro a domandarle se mai fosse di sangue reale.
- Sono. Ma se il Reuccio mi vuole, dovrà farmi tre regali.
- Che regali dovrebbe fare?
- La cresta del gallo d'oro, la pelle del re Moro, il pesce senza fiele. Gli do tempo tre anni. Se no, non mi può avere.

Il Reuccio partì alla ricerca del gallo d'oro, che si trovava in certi boschi pieni di animali feroci. E c'era un gran pericolo: chi lo sentiva cantare, moriva. Dopo mille fatiche e mille stenti, una mattina il Reuccio scoperse il gallo d'oro appollaiato su d'un albero. Tirargli e ammazzarlo fu tutt'una. E tornò trionfante.
- Va bene - disse la Reginotta. - Mettetelo lì. Aspetto la pelle del re Moro.
Il re Moro era terribile. Con lui, fin allora non ce n'avea potuto nessun guerriero. Il Reuccio mandò a sfidarlo: ne voleva la pelle.
- Venga a prendersela.
Si combatterono colle spade, e il re Moro lo aveva conciato così bene, che il Reuccio grondava sangue da tutte le parti.
Ma in un punto questi ebbe l'agio d'assestargli un colpo al cuore.
- Son morto!
Il Reuccio lo scorticò con diligenza e portò la pelle alla Reginotta.
- Va bene: mettetela là. Aspetto il pesce senza fiele.
Questo era più difficile. Fra tante migliaia di pesci va a pescare per l'appunto quello lì! Eppure bisognava pescarlo.
Prese canna, lenza ed amo, e se n'andò in riva al mare.
Stette mesi e mesi: tempo perduto! E a compire i tre anni restavano intanto soli otto giorni!
L'ultimo giorno, tirò fuori un pesciolino di meschina apparenza. La fortuna lo aveva aiutato: era il pesce senza fiele.
- Va bene - disse la Reginotta; - mettetelo lì. Ora si mandi dal Re mio padre. Senza il suo consenso, non voglio sposarmi.
Spedirono un ambasciatore, ma l'ambasciatore tornò presto:
- Quello dice che siamo matti. La sua figliuola l'ha lì, chi volesse vederla.
- Dunque tu ci hai corbellati!
E la misero in prigione.
Le rimaneva in tasca il sonaglino. Disperata, si diè a sonarlo furiosamente.
Accorse la capretta.
- Ah, capretta, capretta! Guarda a che sono arrivata! Non ho che te, per aiutarmi.
- Prendi quest'erba, masticala bene e trattienila in bocca.
E intanto che masticava, la Reginotta ritornava bruttissima e contraffatta nella persona come una volta.
- Per ritornar bella, ti basterà sputarla fuori. Ora zitta, e vienmi dietro.
Uscirono di prigione senza che le guardie e i carcerieri se n'accorgessero, e la Reginotta in quattro salti andò a presentarsi ai suoi genitori.
Come la videro, il Re e la Regina capiron subito l'inganno. E sentito il tradimento di quel marito e quella moglie, li mandarono ad arrestare e, insieme con la loro figliuola, li fecero buttare in prigione.
La Reginotta sputò fuori l'erba e ridiventò bellissima.
Da che il mondo è mondo non si era mai vista una bellezza pari a quella!
Fu mandato a chiamare il Reuccio, si sposarono, e vissero fino a vecchi felici e contenti.

di Luigi Capuana

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"In corpore vili"

Post n°683 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cosimino, il sagrestano di Santa Maria Nuova, teneva di guardia i suoi tre marmocchi ai tre mercati della città, che corressero subito subito a chiamarlo, scorgendo da lontano quella zoppaccia della Sgriscia, la vecchia serva di don Ravanà.
Dal mercato del pesce accorse quella mattina il terzo figliuolo, tutto trafelato:

— La Sgriscia, papà! la Sgriscia! la Sgriscia!

E Cosimino, via di volo
Sorprese la vecchia che stava a contrattare con un pescivendolo per una manciata di gamberi.

— Via di qua, subito! Demonio tentatore!

E volgendosi al pescivendolo:

— Non le date retta! Di codesta roba lei non ne compra! non deve comprarne!

La Sgriscia arrovesciò le mani sui franchi, appuntò le gomita davanti, in atto di sfida; ma Cosimino non le diede tempo di rimbeccare; uno spintone, e le fu sopra di nuovo, con le braccia levate, incalzando:

— Via! all’inferno, vi dico!

Il pescivendolo allora prese le parti della cliente che sbraitava: accorse gente da tutto il mercato a trattenere i due rissanti che già venivano alle mani. Cosimino urlava furibondo:

— No, no: gamberi no, non voglio che padre Ravanà ne mandi! non può, né deve mangiarne! E costei vada pure a dirglielo a nome mio; costei che lo tenta come il demonio e fa di tutto per rovinargli lo stomaco.

Per fortuna, si trovò a passare, in quella, dal mercato, proprio lui: don Ravanà.

— Eccolo! Venga! venga! — gridò Cosimino. scorgendolo. — Dica se lei ha ordinato alla serva di comprarle questi gamberi qua!

Il faccione di don Ravanà tremò, impallidendo, in un sorriso nervoso. Balbettò:

— No, io, veramente...

— Come no? — esclamò la Sgriscia, dandosi un pugno sul petto ossuto, stupita, trasecolata. — Me lo negherebbe in faccia ?

Don Ravanà le diede su la voce, arrabbiatissimo.

— Zitta voi, pettegola! Gamberi v’ho detto? v’ho detto pesce.

— Nossignore, gamberi, gamberi: m’ha detto gamberi!

— O gamberi o pesce, non è tutt’uno? — gridò allora Cosimino, tra la serva e il padrone, mentre tutta la gente rideva.

 

— Lesso, brodo e latte; latte, brodo e lesso e niente altro! Così le ha prescritto il medico. Vuol capirlo? Non mi faccia parlare, santo Dio!

— Càlmati, sì, bravo: hai ragione, figliuolo, — s’affrettò a dirgli don Ravanà, tutto confuso, mortificato; e, volgendosi alla serva: — Andate pure a casa! Lesso, al solito!

Gli astanti accolsero quest’ordinazione con un nuovo e più alto scoppio di risa, e don Ravanà si fece largo tra la ressa sorridendo male, come una lumaca nel fuoco, e dicendo a questo e a quello:

— Bravo figliuolo, Cosimino... Eh, bisogna compatire questo caro Cosimino... Lo fa per il mio bene... Sì sì... Largo, figliuoli, largo... Tanta bella grazia di Dio, qua; e io... io, lesso, brodo e latte, purtroppo! È la prescrizione del medico... Sì Non debbo mangiar altro... Cosimino ha ragione.

 

II

— Pss, guarda... — disse piano, davanti all’altare, don Ravanà, con gli occhi bassi, al sagrestano che gli mesceva acqua e vino nel calice. — C’è in chiesa il dottor Nicastro... qua davanti, presso la balaustra... Sta’ fermo! non ti voltare, asino... a destra. Quando puoi, fagli cenno che rimanga dopo messa e che entri in sagrestia.

Cosimino s’accigliò, impallidì, strinse i denti per frenare un impeto d’ira.

- Jer sera lei... Dica la verità!

— Ti vuoi star zitto, malcreato? Davanti al Santissimo Sacramento! — lo rimproverò don Ravanà non tanto piano, voltandosi a guardarlo severamente.

Dalla prima pancata s’intese il rimprovero del sacerdote al sagrestano, e un sussurrio si propagò per un momento nella chiesa, di protesta contro il povero Cosimino che diventò di bragia, tremando tutto dalla rabbia e dalla vergogna. Non sapeva più dove posare le ampolline della bile e dell’aceto.
Finita la messa, seguì don Ravanà in sagrestia, aggrondato ingrugnato. Poco dopo entrò il dottor Liborio Nicastro, piccino piccino, vecchissimo, tutto rattrappito dall’età. La falda della tuba gli posava quasi su la gobba. Vestiva all’antica e portava la barba a collana.

— Che abbiamo, padre Ravanà? — domandò, parlando col naso e socchiudendo al solito gli occhietti calvi. — Avete una faccia, che Dio vi benedica.

— Sì?

Don Ravanà guardò un tantino, perplesso, il medico, se credergli o no; poi con voce irritata, come se si lagnasse d’un’ingiustizia di lui, rispose:

— Ma lo stomaco, dottor Liborio mio, lo stomaco, lo stomaco non mi vuole più star bene, volete intenderlo?

— Eh sfido! — sbuffò Cosimino, voltandosi a guardare da un’altra parte.

Don Ravanà lo fulminò con un’occhiata.

— Sedete, sedete, padre Ravanà, — riprese il dottor Liborio. — Visitiamo la lingua.

Cosimino, con gli occhi bassi, porse una seggiola a don Ravanà. Il dottor Nicastro trasse flemmaticamente gli occhiali dall’astuccio, se li aggiustò sul naso e guardò la lingua.

— Sporca...

— Sporca? — ripeté don Ravanà, cacciandosela subito dentro, come se la voce del dottore gliel’avesse scottata.

Cosimino soffiò, questa volta col naso, un altro sbuffo. La bile gli ribolliva nello stomaco. E teneva le pugna strette e le labbra serrate. Ma, alla fine, proruppe:

— E allora che? quel tartaro... come dicono loro?

— Sì, ematico, figliuolo, — confermò placidamente il dottor Nicastro, porgendo la ricetta a don Ravanà e rimettendosi in tasca occhiali e taccuino. — Si applicata juvant, continuata sanant!

Non c’entrava: ma, tanto, era latino, e tappò la bocca al povero sagrestano.

— Dobbiamo fare al solito? — domandò questi, pallido, accigliato, appena andato via il medico.

Don Ravanà aprì le braccia, senza guardarlo, e disse:

— Non hai sentito?

— Allora, — riprese Cosimino, funebre, — vado a dirlo a mia moglie... Mi dia i soldi per la medicina e se ne vada a casa. Vengo subito.

 


III

Ah... — a ogni scalino, — ah... ah...

La Sgriscia intese quel lamento per le scale, e corse ad aprire a don Ravanà.

— Sta male?

— Malissimo! Malissimo! Andate via! andate a chiudervi in cucina! A momenti arriverà Cosimino. Non vi fate vedere, se non vi chiamo io. In cucina! — La Sgriscia andò a rintanarsi mogia mogia. Don Ravanà entrò in camera; si tolse la zimarra, restò con le brache scinte e un panciottone lungo lungo e largo, in maniche di camicia, e si mise a passeggiare e a rimettere amaramente.
La coscienza gli rimordeva. Non c’era dubbio! Dio misericordioso gli concedeva la grazia di metterlo alla prova per mezzo di quel diavolo zoppo travestito da donna, e lui, lui, ingrato non ne sapeva profittare.

— Ah! — esclamava, con intensa esasperazione, fermandosi di tanto in tanto, e scotendo in aria le pugna.

La poca e povera masserizia pareva, in quella camera, quasi smarrita su l’ampio e nudo pavimento di vecchi mattoni di Valenza qua e là rotti e sconnessi. In mezzo alla parete a destra era il letticciuolo pulito, dai trespoli di ferro esposti; a capezzale, un antico crocifisso d’avorio, ingiallito dal tempo. (Gli occhi di don Ravanà non osavano, quel giorno, levarsi a guardarlo.) In un angolo, presso il letto, una vecchia carabina e, appese alle pareti, alcune grosse chiavi: quelle della casa di campagna.

Tin tin tin.

— Ecco Cosimino, poveretto! puntuale...

E andò ad aprirgli lui stesso:

— Mi raccomando, per carità: — premise Cosimino prima d’entrare — non mi faccia vedere quella stortaccia infame! Per causa sua... basta! Ecco qua la medicina. Vada a prendermi un cucchiaio.

— Sì sì... vado, vado, — disse, umile e premuroso, don Ravanà. — Grazie, figliuolo mio. Tu mi ridai la vita! Entra, entra in camera!

Ritornò poco dopo, pallido e tremante, col cucchiaio in mano.

— L’ho punita, sai? Sta a piangere in cucina. Dici bene, figliuolo mio: tutto per causa sua! Sentisti, ieri, l’ordinazione che le diedi al mercato? Ebbene, mentre sudavo, Dio sa come, Dio sa quanto, a mandar giù quella stoppaccia che il medico mi prescrive, me la vedo entrare, sai? tutta maliziosa, nella saletta da pranzo, nell’atto di riparare con una mano un bel piatto di... Che avresti fatto tu ?

— Avrei mangiato i gamberi, — rispose asciutto e serio Cosimino. — Ma poi avrei scontato da me il peccato di gola: non lo avrei fatto scontare a un povero innocente!

Don Ravanà chiuse gli occhi trafitto, e trasse un lungo sospiro.
Parlava bene, sì, Cosimino; era, senza dubbio, una barbarie dare a prendere a lui ogni volta il tartaro ematico ordinato dal dottor Nicastro. Bastava a don Ravanà assistere agli effetti del medicinale nel corpo della vittima, perché ne avesse lo stesso beneficio, per virtù d’esempio. Barbarie, sì; ma sapeva forse Cosimino quante volte il pensiero di lui tratteneva don Ravanà lì lì per cadere in tentazione? Aveva bisogno li lui, come freno, don Ravanà, aveva bisogno del rimorso che gli cagionava il vederlo soffrire lì, sotto i suoi occhi, ingiustamente, per trionfare in seguito della sua carne vile. Cosimino aveva ricevuto da lui tanti e tanti beneficii; ebbene, in ricambio, che gli chiedeva lui? questo solo sacrifizio per la salute, non tanto del corpo, quanto dell’anima. Ogni volta però la vista di quel supplizio a cui la vittima si sottoponeva senza ribellarsi, lo sconvolgeva talmente; rimorso, stizza, avvilimento gli facevano tale impeto nello spirito, che don Ravanà si sarebbe gettato dalla finestra.

— Che fa? piange adesso? — gli disse Cosimino. — Via, la, lagrime di coccodrillo!

— No! — gemette, con sincera afflizione, don Ravanà.

— Va bene, va bene: si butti sul letto allora e stia a guardare: mi prendo la prima cucchiaiata.

Don Ravanà si buttò sul letto con gli occhi lagrimosi e il volto contratto dalla pena. Cosimino pose il bricco su la spiritiera, per aver pronta al bisogno l’acqua tepida; poi, chiudendo gli occhi, ingollò la prima cucchiaiata del medicinale.

— Ecco fatto... Non mi compianga, per carità! si stia zitto, o faccio cose da pazzi!

— Zitto, sì, zitto, povero figliuolo mio, hai ragione... Parliamo d’altro... Sai? domani, se il tempo lo permette e mi sento meglio, debbo andare in campagna... Vieni anche tu e porta con te i tuoi figliuoli, tua moglie, a prendere una boccata d’aria senza darvi pensiero di nulla... Mal’annata, Cosimino mio, però... Dio ci castiga dei tanti nostri peccati. La pazienza divina è stanca. Il mondo piange, ma piange e uccide... Hai sentito? guerra in Africa, guerra in Cina... Il povero soffre, ma soffre e ruba. E l’ira del Signore ci sta sopra! La grandine, hai visto? ha flagellato orti e vigne... la nebbia minaccia gli olivi... Di’ un po’... ti senti già? No?

— Nossignore, ancora nulla. Mi prendo l’acqua tepida.

— Bene bene... Discorriamo... Dunque, sì, il raccolto del grano, sì, è stato piuttosto abbondante, e se Dio vuole e Maria Santissima ci fa la grazia mitigheremo con esso in certo qual modo la iattura dell’annata.

Cosimino ascoltava con molta attenzione, ma forse senza intender sillaba: di tanto in tanto si faceva in volto di mille colori; poi, d’un tratto, impallidiva, impallidiva vieppiù sudava freddo, si agitava un po’ su la seggiola, l’occhio gli vagellava.

— Ah mamma mia! Padre Ravanà, comincia a muoversi... credo che ci siamo!

Sgriscia! Sgriscia! — gridava allora don Ravanà, impallidendo anche lui e guardando fiso Cosimino per promuovere anche in sè con quella vista gli effetti del medicinale. — Venite subito! Credo che ci siamo!

La Sgriscia accorreva a sorreggere la fronte al padrone, e Cosimino intanto, tra i conati e i contorcimenti, le appoggiava sotto sotto calci di vero cuore.

 


IV

— Adesso un buon tazzone di brodo per Cosimino! — ordinò verso sera don Ravanà alla serva. — Ci vuoi fettine di pane, di’, Cosimino?

— Sissignore, come dice lei... Mi lasci stare... — fece il povero sagrestano rifinito, pallidissimo, con la testa cascante appoggiata al muro senza neppur forza di fiatare.

— Con fettine di pane! con fettine di pane! e un torlo d’uovo! — aggiunse forte don Ravanà, tutto premuroso. — Di’, ce lo vuoi, è vero, un bel torlo d’uovo, Cosimino?

— Non voglio niente! Mi lasci stare! — gemette questi al colmo dell’esasperazione. — Lei si fa la chiacchieratina, e io ci ho il veleno in corpo per lei! Prima mi rovina lo stomaco, e poi fettine di pane e torlo d’uovo! Sono azioni degne d’un santo sacerdote, codeste? Mi lasci andar via... Mannaggia, perderei la fede... Ahi, ahi... ahi, ahi... ahi, ahi...

E se n’andò con le mani sul ventre, nicchiando così.

— Che brutto viziaccio! — esclamò stizzito don Ravanà.

Prima, tutto mansueto; poi ci ripensa, e diventa una vespa. E dire che gli ho fatto tanto bene, a quel brutto ingrato!
Stette un po’ a tentennare il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù; poi chiamò:

— Sgriscia! Dammelo a me, il brodo. Ce l’hai messo il torlo d’uovo? Brava. Ora il cappello e il tabarro...

— Esce?

— Eh sì, non lo sai? Mi sento benone, adesso, grazie a Dio.

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Ho giocato tre numeri al lotto

Post n°682 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Eh sì,cari lettori,anche qua giochiamo al lotto!
Ne sa qualcosa Odoacre Puzzettoni,la cui moglie Gelsomina è un'incallita giocatrice ed in nome di questa passione ha combinato le cose che passo ad elencarvi.
LUNEDI'- LaGelsomina gioca al lotto in società con la sorella Zenaide,e spesso le due si ritrovano a casa Puzzettoni per elaborare strategie vincenti.
Quando Odoacre è arivato a casa,il fumo di sigaretta era tale che pareva di stare in Val Padana,tavolo e pavimento erano pieni di fogli,foglioni e foglietti e palline di carta.
Per mangiare il Puzzettoni è dovuto andare all'osteria-
MARTEDI'- In coda all'ufficio postale la Gelsomina e la Carolina,anche lei accanita giocatrice,si sono incontrate e hanno cominciato a parlare di numeri.
Ancora non hanno capito come mai Capaneo ,marito abbandonato di Rosmunda Cornacchioni, ha tentato di ucciderle quando hanno nominato il 28 (numero dei cornuti)
MERCOLEDI'- immobilizzata a casa da un virus intestinale,la Gelsomina ha incaricato la suocera di andare a giocare per lei i numeri 19,24 e 52.
I numeri sono usciti,ma non ha vinto nulla:la suocera,sorda spaccata,ha giocato l'89,il 74 e il 22.
La Puzzettoni è svenuta.
GIOVEDI'- Oggi Odoacre
Si è tagliato radendosi
Si è ustionato col caffè bollente
E' ruzzolato dalle scale
Invece di soccorrerlo la moglie si è messa a decifrare i numeri relativi a tali accadimenti.
VENERDI'- Saputo che a Monterapato vive un vecchino che dà i numeri vincenti la Gelsomina e la Zenaide ci sono andate.
Il vecchino è morto tre giorni fa,e nessuno ha mai vinto nulla.
Per la rabbia la Zenaide ha preso a calci un muro e si è rotta un piede.
SABATO- La Gelsomina stava sognando la bisnonna Leontina,che stava per darle i numeri vincenti.
L'ha svegliata Odoacre tirando lo sciacquone.
La Puzzettoni ha tentato di affogarlo nel water.
DOMENICA- La Gelsomina,appreso dal Tg che la Zenaide,giocando i numeri che lei aveva scartato,ha vinto ben 36 miliardi,ha dato fuori di matto. e hacominciato a sparare dalla finestra a chiunque passava
Ci sono voluti i NOCS per ridurla a più miti consigli.
Questo accadeva due settimane.
La Zenaide si è comprata un'isola nel mar Egeo.
Odoacre ha chiesto la separazione.
La Gelsomina è ricoverata nella clinica Luminaris:dà i numeri notte e giorno.
Grazie a lei lo Sperandio ha vinto 50 milioni,due infermiere hanno fatto 4 e un inservienete ha addirittura azzeccato il 5+1..
Anche questa cronaca è finita,lettori miei.Scusate la fretta,ma devo andare a giocare i miei numeri al lotto
Non si sa mai,non credete?

 
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Volo di rondine (Teasdale)

Post n°681 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

La mia ora di vento amo e di luce,
e volti e sguardi- la danza leggera
del mio spirito sempre mi seduce -
rondine lungo i cieli della sera.

 
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Anna Anderson era Anastasia?

Post n°680 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Anastasia Nicolaievna Romanova, nata il 18 giugno 1901 e morta il 17 luglio 1918, è la figlia quartogenita dello zar Nicola II di Russia e dell'imperatrice Alessandra d'Assia, è nota anche come Granduchessa Anastasia di Russia.

Fu assassinata il 17 luglio 1918 ad Ekaterinburg insieme al padre, alla madre e alle sorelle Olga Romanova, Tatiana Romanova, Maria Romanova e al fratello Alessio Romanov (1904 - 1918).

Ekaterinenburg (Siberia), 16 luglio 1918
ore 19:00
Il comandante Jurovskij ordinò di avvertire tutto il corpo di guardia di non preoccuparsi se nel corso della notte, avessero potuto sentire degli spari.

Ore 24:00
Il comandante Jurovskij cominciò a svegliare tutta la famiglia, il medico personale dello zar e la servitù. Tutti si alzarono, si lavarono, si vestirono.

Ore 01:00
Undici persone uscirono dalle proprie camere.
Avevano un aspetto calmo, come se non si aspettassero nessun pericolo.
Dal piano superiore della casa scesero per la scala che conduceva fuori.
Lo zar Nicola II aveva il figlio Alessio tra le braccia.
Entrarono nella stanza che si trovava nel seminterrato.
Alcuni avevano con sé un cuscino, mentre la cameriera ne portava due.
Credevano di essere trasferiti in un’altra casa.
- Come, non c’é neanche una sedia? - disse la moglie dello zar, Alexandra Fedorovna. Portarono due sedie.
I revolver erano stati già distribuiti da Jurovskij nelle mani dei sette lettoni presenti nella stanza. In tutto furono consegnati undici revolver.
Il comandante ordinò di restare in fila.
Poi disse ai Romanov che, giacché i loro parenti continuavano ad avanzare verso la Russia Sovietica, il comitato esecutivo degli Urali aveva deciso di fucilarli.
Nicola si girò con la schiena verso la Guardia, rivolto con lo sguardo alla famiglia.
Il comandante ordinò alla squadra di prepararsi.
Sapevano già da prima chi e a chi dovevano sparare, mirando direttamente al cuore. Qualche grida, parole sconnesse, il tempo di capire.
Fu aperto il fuoco, durò due o tre minuti. Nicola fu ucciso immediatamente dallo stesso comandante.
Morirono subito dopo la zarina Alexandra Fedorovna, la figlia Maria, il cameriere, il cuoco, la dama di compagnia.
Il dottor Boklin, il medico di famiglia, il piccolo Alessio e tre delle sue sorelle, Tatiana, Olga e Anastasia, erano ancora vive. Furono finiti a colpi di baionetta.
Quando tentarono di trafiggere il corpo di una delle ragazze con la baionetta, questa non riuscì a perforare il corpetto: era pieno di diamanti cuciti all’interno.
La procedura durò altri venti minuti.
Poi, cominciarono a portare fuori i cadaveri, a metterli nell’automobile, coperti con teli.

Ore 03:00
Una miniera abbandonata.
Qui scoprono che nei corpetti delle ragazze (Tatiana, Olga e Anastasia) vi erano nascosti deii diamanti. Le spogliano completamente e scuciono i diamanti dalla tela. Chi li avesse rubati, sarebbe stato fucilato all’istante.

Ore 05:00
L'alba. I corpi dovevano essere eliminati: vennero quindi dati alle fiamme.

Il mondo cominciò ad interrogarsi sulla "misteriosa" scomparsa di tutti i membri della famiglia imperiale russa: lo zar Nicola II, la moglie Alexandra e i cinque figli (Maria, la primogenita ha 19 anni, Tatiana, Olga, Anastasia, Alessio).
Gli estremisti di sinistra e il Soviet chiedevano da mesi le teste dell'imperatore e della famiglia; i membri del governo esitavano per paura di disgustare gli Alleati.
Qualcuno avrebbe voluti persino salvarli e sondò il terreno per confinarli in Inghilterra. Ma gli inglesi rifiutarono: il governo di Lloyd George si oppose all'asilo del cugino e della cugina del re, il fedele e leale Nicola II che aveva sempre respinto qualunque proposta di pace separata avanzata dagli austriaci o dai tedeschi.


Voci su una possibile sopravvivenza della duchessa sono continuate per decenni, fino all'effettuazione dei test del DNA testing nel 1994 sui corpi rinvenuti ad Ekaterinburg. I test hanno stabilito che si tratta effettivamente dei resti dei Romanov, sebbene due corpi - quello di Alessio e di una delle giovani, probabilmente quello di Anastasia, siano mancanti. I corpi non sono stati rinvenuti probabilmente a causa della cremazione.

Alcune donne, nei decenni successivi, hanno tentato di impersonarla, tra loro una certa Anna Anderson che affermava di essere la granduchessa sfuggita miracolosamente all'esecuzione.

Nel 2000, Anastasia e la sua famiglia furono canonizzati dalla Chiesa Ortodossa.


Icone della famiglia imperiale canonizzata dalla Chiesa Ortodossa:

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In questa si vedono anche i Santi Protettori della Famiglia Imperiale:


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ed infine questa è l'icona di Anastasia, con la croce di Martire:

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ANNA ANDERSON:

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Berlino, 17 Febbraio 1920

Un poliziotto stava passeggiando sul ponte sopra la Sprea quando vide una giovane donna che stava per buttarsi nelle gelide acque del fiume. Riuscì a salvarla.
La sconosciuta, che versava in un grave stato confusionale ed era priva di documenti di identità e di denaro, venne trasportata in un ospedale.
Si risvegliò dallo shock e disse a gran voce, con grande sgomento generale:
"Sono la granduchessa Anastasia, scampata all’eccidio di Ekaterinburg nel luglio 1918"
Raccontò particolari della sua clamorosa fuga, di come la baionetta che la voleva colpire si era spezzata, della confusione generale, della paura, del sangue.
Raccontò i particolari della sua vita, delle sorelle, dello zar, suo padre Nicola II Romanov.
La somiglianza con la giovane Anastasia Romanov impressionò i più deboli: un neo e un'imperfezione della falange di una mano. Tutto sembrava coincidere.
Tuttavia, venne presa per pazza e fu internata per due anni in un manicomio.
Andò a vivere in una baracca della Foresta Nera, adottando il nome di Anna Anderson. Ed iniziò un'interminabile battaglia - che coinvolse magistrati, membri della famiglia Romanov in esilio, testimoni delle ultime vicende alla corte di Russia - affinché venisse ufficialmente riconosciuta la sua identità di Anastasia Romanov.
Alcuni, come il marito (lo storico John Manahan, sposato nel 1969), le credettero ciecamente; altri l'accusano di essere una volgare truffatrice.

Vero è che, dopo l'eccidio della famiglia dello zar, i corpi di Anastasia e di Alessio Romanov, non furono mai trovati... spariti nel nulla.



Charlottesville (Stati Uniti), Febbraio 1984
Anna Anderson morì: chissà se con lei era morta anche Anastasia Romanov...
Forse, qualcuno si sentì rassicurato, alleggerito di un peso, perché la immaginò morire serenamente, nel calore di una casa tranquilla, di una doverosa vecchiaia.



Siberia, Giugno 1989
Lo storico sovietico Gelij Rjabov affermò di aver ritrovato gli scheletri di tutti i componenti della famiglia imperiale russa, compreso quello di Anastasia e di Alessio Romanov, in una fossa comune ad una trentina di chilometri da Ekaterinburg. I corpi dei Romanov, dopo la loro riesumazione nel 1991, riposano oggi nel cimitero di S. Pietroburgo, nella chiesa di Pietro e Paolo. All’appello, mancano ancora due corpi.


Solo nel 1994 fu possibile eseguire le stesse analisi del DNA su un reperto bioptico del 1979, che portarono definitivamente a concludere che Anna Anderson non poteva in alcun modo essere imparentata con la famiglia Romanov, ma si trattava presumibilmente di una certa Franziska Schwanzkowska, una malata di mente di origine polacca scomparsa da un ospedale psichiatrico di Berlino nel 1919.

Alcune strane coincidenze fisico-anatomiche tra la Anderson e Anastasia Romanova, la conoscenza di diversi particolari della vita di corte, il riconoscimento certo da parte di alcune persone vicine alla casa reale e qualche dubbio sull'autenticità del reperto oggetto delle analisi (stranamente conservato per 15 anni), non hanno comunque ancora dissipato tutte le incertezze sulla questione.





* In realtà sembra che il test del DNA sia fasullo e che Anna Anderson era veramente Anastasia!

* Sembra inoltre che non sia mai esistita una certa Franziska Schwanzkowska! Senza contare che Franziska Schwanzkowska, se mai fosse esistita, era fuggita dalla Polonia due giorni dopo il ritrovamento di Anna Anderson!

* Analogo a questo caso è quello del fratello di Anastasia, Alessio!







Articolo sul mistero di Anastasia:

Chi era Anna Anderson? I misteri irrisolti

Febbraio 1920: una ragazza viene ricoverata in una clinica tedesca. E' reduce da un tentativo di suicidio e appare smarrita e confusa. Viene registrata con il nome di Anna Anderson, ma sosterrà fino alla morte (avvenuta nel 1984) di essere la granduchessa Anastasia, figlia di Nicola II, ultimo Zar di tutte le Russie.

Luglio 1918: lo Zar, la sua famiglia e tre camerieri erano stati scortati nella notte nei meandri di un bosco degli Urali. Poco dopo, il plotone di esecuzione si era allontanato. Calarono allora nella tomba i cadaveri dei Romanov e le utime memorie dell'Impero Russo.


Dal 1920 al 1984: Anna Anderson avrà una vita tumultuosa, in più paesi, lontano dalla Russia. Continuerà a sostenere di essere la figlia dello Zar. Lo scopo e i motivi? Viene giudicata mitomane, ma anche alla stregua di un'avventuriera alla ricerca di un'eredità improbabile o del tesoro di Nicola II.

La vita di Anna non la mostra mai equilibrata, ma neanche avida di denaro e beni materiali. I più non credono alla donna, ma il governo americano cala più volte in suo favore, più che altro per screditare la rivoluzione d'ottobre e il governo sovietico. La donna racconta infatti di essere stata scortata, in quella notte tra gli Urali, da un soldato che la minacciava con una baionetta, mentre i suoi venivano uccisi e finiti con il calcio dei fucili. Anastasia era riuscita rocambolescamente a scappare ed a mettersi in salvo. E' poco credibile, e i superstiti del casato dei Romanov, dai loro luoghi di esilio, negano la parentela e persino la sconcertante e autentica somiglianza di Anna con Alessandra.

Perché? vogliono conservare memorie sepolte o hanno un interesse uguale a quello che si imputa alla Anderson: la speranza di ereditare il tesoro dello Zar?

1991: i resti dei Romanov vengono riesumati; gli scheletri conservano protesi dentarie d’oro e i segni del calcio dei fucili, ma i cadaveri sono 9 in tutto e non 11. In pratica mancano Anastasia e suo fratello Alessio.

Dopo la morte di Anna Anderson: un esame del dna esclude la parentela della donna con i Romanov. Prevale la tesi di chi la identifica con una certa Franziska Schwanzkowska, una persona assolutamente priva di ascendenti nobiliari.

Ma: come mai Anna Anderson ricordava tanti minuti dettagli della vita al palazzo reale? e perché alcuni servitori della corte russa l'avevano riconosciuta? e come mai Anna aveva un segno alla spalla e fratture ad un piede e ad una mano, del tutto identiche a quelle della principessa Anastasia?

La falsa Principessa Anastasia?

Un medico disse di aver conservato in naftalina un pezzo di intestino di Anna Anderson, la presunta Principessa Anastasia, figlia dello Zar Nicola II. La donna era morta da qualche anno, quando il chirurgo che l'aveva sottoposta ad un intervento, dette notizia del reperto anatomico in suo possesso. Il tessuto si prestava ad un esame del DNA, che avrebbe potuto chiarire una volta per tutte se Anna era stata una bugiarda mitomane o veramente l'ultima dei Romanov.

L'esame si fece, comparando - sembra - il gene di Anna con quello del Principe Filippo di Edimburgo, marito della Regina Elisabetta d'Inghilterra e parente dei Romanov. Il risultato fu: no!

Anna Anderson non era della stessa famiglia.

Rimangono tuttavia diversi dubbi. Anzitutto sarebbe da vedere se il reperto anatomico impiegato era veramente di Anna e - se si - perché il medico lo aveva conservato. C'è poi da chiedersi il motivo per cui l'esame fu parametrato al DNA del Principe Filippo e non a quello di parenti più prossimi di Anastasia.

Ma la domanda più importante senza risposta è un'altra: non ci sono metodi per esami al computer di comparazioni anatomiche su base fotografica?

Fuori dai laboratori, si può tentare qualcosa, a livello empirico, cone nell'esempio che segue. L'immagine a sinistra è della piccola Anastasia; l'altra è di Anna. La linea tratteggiata nera, sotto la mandibola da l'idea di una curva identica.


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ALTRO ARTICOLO:

Il destino dei Romanov

Dall'inizio alla fine c'è ombra e mistero sulla dinastia dei Romanov. Per quasi 3 secoli la famiglia degli Zar di tutte le Russie governò un impero, quasi sempre in modo dispotico e quasi sempre incappando nelle trappole di tenebrose leggende. Già le origini si collegano ad
Anastasia Romanovna, moglie del sanguinario Ivan IV, passato alla storia con l'appellativo di Ivan il Terribile. Nel 1920, torna in scena un'altra Anastasia. La sua storia è simile a quella dello zar Alessandro. Si chiama Anna Anderson, ma dice di essere appunto Anastasia, la figlia dell'ultimo zar Nicola II, scampata alla fucilazione in cui ufficialmente trovò la morte tutta la famiglia reale.


COME LA PRINCIPESSA ANASTASIA:

Il soldato e l'eremita

Un soldato andò a cercare un eremita che aveva fama di guaritore. Accompagnava un commilitone molto malato, e con lui si addentrò nella campagna della gelida Russia. Giunto alla caverna del monaco, lo guardò un attimo e subito si inginocchiò ai suoi piedi. Quello gli fece cenno di tacere, ma il militare gridò: 'Voi siete Alexander Pavlovic, mio signore e padrone!'.

Era il 1835 circa e lo zar Alessandro I, che il soldato credette di riconoscere, era stato sepolto una decina d'anni prima nella Cattedrale di San Pietro e Paolo a Pietroburgo. Nelle esposizioni al pubblico, la bara non era mai stata aperta e solo la madre dell'imperatore (morto a soli 48 anni) aveva visto e riconosciuto il cadavere, notando però un'eccessiva magrezza di quel corpo senza vita. Successivamente, il medico - che si diceva avesse attestato la morte del sovrano - dichiarò che la firma in calce al verbale di decesso non era sua.

Tanti altri fatti sembrarono confermare il sospetto della finta morte di Alessandro: somiglianza fisica, grafia quasi uguale, ricordi della corte russa, etc. Così l'eremita - chiamato Fedor Kuzmich - ebbe varia fama: quella di santo dei miracoli e quella di vero o falso imperatore. Morì novantenne e sulla sua tomba, nel 1864 o 1867, la lapide riportava una menzione che sembrava riferirsi allo Zar.

Lo Zar Alessandro I

Fu un personaggio ambiguo, indeciso e spesso indolente. Costretto dalla storia a fronteggiare la grande emergenza dell'invasione francese, Alessandro riuscì a contrapporsi a Napoleone (che peraltro ammirava) ed a fissare i criteri della Santa Alleanza, per cadere subito dopo in uno stato di depressione e abulia. In pratica, fu un protagonista, senza volerlo. Poco più che ventenne, aveva quasi assistito all'assassinio del padre. Lo zar Paolo I era stato strangolato nella camera da letto; non si sa se Alessandro, che era nella stanza accanto, non aveva trovato il coraggio di intervenire o se, addirittura, aveva partecipato al complotto contro il padre. Questo fatto, comunque, gli procurò sensi di colpa e crisi mistiche che spiegherebbero una voglia di allontanarsi dal mondo e di abbandonare il potere, conquistato in maniera indegna. Forse Alessandro organizzò veramente il suo stesso finto funerale, per farsi anacoreta. Lasciò il trono al fratello Nicola I, da cui sarebbe derivata l'ultima tragica generazione dell'impero russo.

La verità giace nella tomba della cattedrale di San Pietroburgo. A quanto pare, il sepolcro di Alessandro I è stato aperto due volte: per volontà del pronipote Alessandro III e, dopo la rivoluzione, per ordine di Lenin. In entrambi i casi il cadavere non si trovò.


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Libri dimenticati:La balerina dello zar

Post n°679 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Mathilde è una giovane ballerina di danza classica che diventa l'amante di Nicola,all'epoca zarevic e poi ultimo zar di Russia col nome di Nicola II.
Questa avvicente e palpitante biografia romanzata ricostruisce la vita di Mathilde,testimone privilegiata dell'epoca dei Romanov.
Imperdibile!

 
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Frase del giorno

Post n°678 pubblicato il 10 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un amico è quello che capisce perchè ti piace la granita alla menta senza la menta

 
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