Il labirinto
blog diarioMessaggi del 11/09/2011
Zio Salvatore, il nostro vecchio fattore, cominciò:
- Figlioli miei, io non sono stato sempre agricoltore: ero nato per diventare qualcosa di grande, prete almeno, ma i casi e l'estrema povertà della mia buona mamma, non lo permisero. Tuttavia durante la mia fanciullezza feci il sagrestano nella nostra chiesetta di San Giuliano, e solo allorché, smessa ogni vocazione religiosa, pensai di ammogliarmi, mi scossi via il profumo d'incenso e di cera che esalava dalle mie vesti, e, vestitemi le ghette mi posi a lavorare la terra. Sentite dunque: era l'ultimo anno della mia... segrestania e ne contavo già ventidue.
Una sera di novembre, all'imbrunire, me ne stavo seduto al di fuori della nostra casetta, sul carro di un vicino, e guardavo in fondo alla via. Siccome faceva freddo nessuno si degnava tenermi compagnia, e anch'io, certo se non fossi stato spinto da un forte motivo, non sarei rimasto là. Vedevo i monti, già coperti di neve, tutti velati di nebbia, sentivo giù dal cielo fosco stillare un'umidità gelata che trapassava il mio cappotto, e il vento freddo m'imporporava il naso, eppure non mi muovevo. Il campanile nero di San Giuliano, facendo di tanto in tanto capolino fra la nebbia e le tinte fosche dell'imbrunire, mi avvertiva esser l'ora di recarmi a sonar l'ave, eppure io restavo là duro, stecchito, immemore del mio dovere. Ciò che più mi tentava era l'allegro schioppettare del fuoco, dentro, nella nostra cucinetta calda ove mamma preparava un buon minestrone di fagiuoli con cavoli, un vero lusso sapete, aizzando ogni tanto con la sua voce tremula l'asinello che funzionava ancora, monotono e lento, intorno alla macina in un angolo della cucina. Guardavo ogni tanto il tetto basso e umido che fumava e il pensiero del buon fuoco accresceva il mio freddo, pure non mi muovevo, come fossi incantato. Ah, sì, ero proprio incantato. Un'ora prima, all'uscita della novena, Graziarosa, mi aveva detto con mistero:
«Compare Batò, devo parlarvi: attendetemi fra un'ora davanti a casa vostra».
Graziarosa parlarmi, darmi un convegno! Era una cosa che io non sognavo neppure: perché dovete sapere che, innamorato pazzo di lei, lei non mi aveva mai voluto ascoltare, anzi mi derideva chiamandomi: compare campanile! Come soffrivo Dio Santo! Graziarosa si credeva un gran che perché serviva in casa del Sindaco, il più ricco signore del paese, e accompagnava la padroncina Donna Daniela, a passeggio; era una bella ragazza, Graziarosa, con gli occhi verdi, e io ne andavo pazzo: ma lei non mi dava uno sguardo, anzi pretendeva di maritarsi con un signore! Figuratevi però che signore! Uno che avesse pantaloni, ecco, talché io, esasperato, quando lo seppi, le cantai persino sotto la sua finestra, una canzone infame:
Teracas chi signoras bos cheries...
Essa minacciò di farmi bastonare da suo fratello: io stavo per farle comporre una poesia scandalosa da un poeta che scriveva così canzoni per l'uno e per l'altro mediante la ricompensa di sette pezzas , allorché mi diede il convegno, con buona grazia e chiamandomi insolitamente col mio vero nome.
Ecco perché, io che, ben potete figurarvi, l'amavo sempre, me ne stavo quella sera al fresco, trangugiandomi la nebbia e col naso rosso...
Come Dio volle Graziarosa arrivò: ritornava dalla fonte, le mani avvolte nel grembiale e il viso livido dal freddo. Appena la vidi mi alzai di scatto e le andai incontro palpitando e mormorando:
«Che diavolo! Vi attendo da due ore, sapete. Ed ho da suonar l'ave!».
Un sorriso beffardo le increspò le labbra: depose l'anfora su un muricciuolo e mi rispose, guardandosi attorno:
«Altro che ave, compare mio! Si tratta di scudi. Volete guadagnarvene venti?...».
La fissai bene, e pensai: «A che vuol concludere?». Anch'io mi guardai attorno, ricordandomi la sua minaccia, e dubitando che il fratello fosse là dietro il muro, ma non vidi nessuno. Solo a venti passi la mia casetta nera, fra la nebbia invadente e il crosciare minimo della nostra macina mossa dall'asinello, Graziarosa si accorse della mia... stavo per dire paura.
«Su, - disse, facendosi seria, - non state a fare il matto. Non ho tempo da perdere. Ditemi se volete guadagnarvi venti scudi...».
Assicuratomi che parlava sul serio e visto che potevo fare il galante senza correre alcun pericolo cominciai a far gli occhi languidi imbambolati, e risposi:
«Comare Graziarò, se dite davvero, e se si tratta di farvi un piacere, parlate pure subito... Già, lo sapete, io sono pronto a gettarmi nel fuoco per voi: purché mi vogliate un po' di bene, io, senz'altra ricompensa, vado all'inferno...».
«Ufh!... - esclamò la ragazza fissandomi. - Siete un fanfarone! E non che andare all'inferno, ma scommetto che non mi farete punto il piacere che vi chiedo, che è poi per altri... Vi sono cento lire per me e cento per voi, senza contare l'amore che d'ora innanzi vi porterò...».
Queste ultime parole mi entusiasmarono tanto che, non sapendo come meglio ringraziare Graziarosa, cercai farle qualche carezza, sembrandomi già di aver qualche dritto su di lei. Ma essa diede indietro dicendo:
«Abbasso le mani, compà, o vi piglio a schiaffi... ohé!».
Brutto prologo del suo promesso amore! Siccome la notte avanzava e il vento strideva più forte fra la nebbia, Graziarosa proseguì:
«Stanotte di certo la padrona mi manda via... E donna eh, da perdonarmi! Dunque facciamo presto. Prima però di dirvi di che si tratta bisogna mi giuriate che non svelerete mai nulla, acconsentiate o no, né che mai pronunzierete il nome mio se narrate questo fatto!».
Io, appunto perché sapevo che avrei fatto il contrario, conoscendo bene il mio carattere, proferii i più orribili giuramenti. Allora Graziarosa, a voce sommessa, mi fé noto ciò che voleva: era qualcosa di orrendo per me. Si trattava nientedimeno che di darle, mediante la sopradetta ricompensa di venti scudi e il suo futuro amore, un po' di olio santo!...
Diventai pallido nel pensare che mi credevano capace di tanto: tremai tutto allorché sentii che l'olio santo doveva servire per una magia; ma per quante preghiere facessi, Graziarosa non volle dirmi che sorta di magia fosse e per chi servisse. Naturalmente negai, con orrore e terrore, compiere questo sacrilegio, per quanto mi tentasse sempre la strana promessa dell'amore di Graziarosa e un pochino anche i cento franchi. Oh, avere cento franchi e saldare con essi l'unico debito che aveva la mamma sin dal tempo in cui era morto il babbo! Cento franchi! Erano per me un sogno, grande quanto quelli che mi dava la disperata passione per Graziarosa, ma averli a quel prezzo! Prima mi fossero piombati cento fulmini! Avrei ucciso meglio un uomo! E lo dissi francamente alla ragazza.
«Vedete, avevo ragione io! E dicevate di andare all'inferno!...».
«Oh, chiedetemi tutto ciò che volete, ditemi di fare qualunque altro delitto e lo farò per voi, ma questo no, questo no, no, no...».
Dopo lunga contesa Graziarosa se ne andò via pestando i piedi ed io rimasi come un sonnambulo, là, a occhi aperti senza veder nulla, con tanto di naso rosso fra la nebbia, chiedendomi se tutto non era una visione.
Quella sera a San Giuliano non si suonò punto l'ave, ed io non presi alcun gusto al minestrone di fagiuoli preparato dalla mamma, la quale mi disse:
«Sei malato!». E volle farmi bere del latte caldo per farmi sudare!
Circa un mese dopo, causa un gran temporale, rovinò il tetto a una casa vicina alla chiesa: la sventura volle che quella casa fosse appunto quella del nostro creditore che, povero come noi, ci scongiurò a pagarlo alla fine, dopo tanti e tanti anni.
Non avevamo neppure dieci franchi disponibili, sicché pregammo tanto il nostro creditore ad avere pazienza, ma come poteva pazientare quel povero diavolo con la casa scoperta? E in inverno? In breve: citò la mamma. Fu quella una brutta giornata per noi che non sapevamo neanche di che colore fosse l'usciere, che non avevamo mai posto piede, neppure come testimoni, in un tribunale. Ci sembrò una infamia, un'onta, tanto più che sapevamo di non poter assolutamente pagare.
San Giuliano mio! Cercai ogni pertugio, pregai tutti, ma ahimè, se ora il denaro è morto allora era moribondo, e... non trovai un'anima che mi prestasse cento franchi. Bisognava dunque rassegnarci a lasciar fare spese e metterci all'asta le masserizie?
Fra tanta disperazione una notte mi ricordai i cento franchi di Graziarosa, e, ve lo confesso, ero così desolato e disperato che per un momento ebbi il sacrilego pensiero di dare l'olio santo. Ripensai a che poteva servire, e ricordandomi che avevo sentito dire esservi certi signori che non credendo più in Dio e nei santi, per fare uno sfregio alla nostra Santissima Religione, usano battezzare asini, cani e simili animali, parodiando in orribile modo il Battesimo e adoprando il vero olio e acqua santa, mi sentii rizzare i capelli e mi chiesi come mai, per un solo minuto avevo deliberato di dar mano a questa perdizione.
Ma il pensiero del nostro malanno incalzava sempre più tenace e il demonio mi assaliva da ogni parte: oramai l'idea dei cento franchi di Graziarosa - non ricordavo punto la promessa del suo amore... - e delle nostre povere masserizie poste all'asta in pubblica piazza, onta e ludibrio estremo, mi si confondevano così nella mente, che mi posi fervorosamente a pregare per scacciare la tentazione! San Giuliano, San Giuliano mio, aiutatemi voi o sono perduto. Ma invano, invano! Quella notte il mio patrono doveva esser sordo o non udiva le mie preghiere causa il forte soffiare del vento...
Fatto sta che il demonio mi vinceva e nulla valeva a scacciarlo. All'alba ero ancora sveglio, lottando sempre contro quell'orrendo pensiero: alla fine mi rivolsi a Santa Barbara, ch'era la santa della mia povera mamma, e la pregai tanto tanto di salvarmi, se non per i miei meriti per misericordia di quella buona vecchia di mia madre, che mi esaudì. Ne son certo, è stata lei, Santa Barbara, a salvarmi, a inspirarmi, ad aiutarmi.
Zio Salvatore qui ci fece un lungo sermone che vi risparmio per quanto interessantissimo, poi proseguì, noi sempre attenti e curiosi:
- Fatto appena giorno mi recai in casa del Sindaco e chiesto di Graziarosa le dissi:
«Comare Graziarò, per quell'affare ho bene pensato, sapete...».
«Come? - disse lei spalancando gli occhi e attirandomi in un angolo remoto del cortile. - Acconsentite? Ma parlate piano».
«Sì!» risposi, io pure stralunando gli occhi. E siccome volevo guadagnar molto, giacché mi ci ero messo: «Ma sentite, lo faccio per voi, perché non posso più resistere... Se sapeste come vi amo! Se voi seguitate a fare così la crudele io me ne muoio, me ne muoio a dirittura...».
«Piano, compà... - mormorò la serva guardando con timore le finestre ancora chiuse dei padroni. - Se vi odono mi mandano via. A questo poi ci penseremo dopo... Ditemi dunque?...».
«Stasera passate in casa, tornando dalla fonte!...».
Sul tardi Graziarosa infatti passò ed io le consegnai una piccola ampollina di olio. Vidi i suoi grandi occhi verdi scintillare allegramente e per poco non mi baciò. Nascosta ben bene l'ampollina mi consegnò un biglietto da cento lire che io, dopo molte finte cerimonie accettai. Quella sera cominciammo a parlare d'amore, e quella sera dal campanile nero di San Giuliano risuonò la più allegra ave maria che si possa immaginare, tanto allegra che non pareva ave maria.
Dopo qualche anno Graziarosa diventò mia moglie: solo allora volle confidarmi il segreto dell'olio santo.
Donna Daniela, la sua padroncina, che benché ricca era un tantino brutta e antipatica, innamorata da morirne di un suo cugino, bel giovine e laureato, viste riuscite inutili tutte le altre seduzioni, era ricorsa ad una famosa maga di un villaggio vicino.
«Si procuri un po' d'olio santo, - rispose la maga, - e ne unga la fronte del giovine mentre dorme, una notte di luna piena, a mezzanotte precisa...».
Graziarosa, intima confidente di Donna Daniela, aveva subito pensato a me che, come sagrestano, potevo procurarle l'olio santo. Avuto questo, Donna Daniela, sempre a furia di denaro e di mistero, erasi una notte di plenilunio introdotta in casa del cugino e gli aveva unto la bellissima fronte mentre egli dormiva e la mezzanotte suonava.
La maga aveva detto che dopo questa operazione il cugino doveva anch'egli innamorarsi pazzamente di Daniela...
«E invece?... - chiesi io a Graziarosa. - Il cugino?...».
«Invece, - mi rispose lei con melanconia, - non solo non se ne innamorò, ma poco di poi partì per Cagliari e sposò un'altra ragazza».
«Figuriamoci! - esclamai dando in una gran risata. - Sfido io! Quello che ti consegnai era semplice olio che di santità non conosceva neppure il nome!...».
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C'era una volta un Re, il quale era proprio una persona tanto perbene, che i suoi sudditi lo chiamavano il Re buono. Un giorno, mentre trovavasi a caccia, accadde che un coniglio bambino, che stava lì per essere ucciso dai cani, venne a gettarsi fra le sue braccia.
Il Re fece delle carezze alla povera bestiolina e disse:
"Giacché si è messo sotto la mia protezione, non voglio che nessuno gli faccia del male".
E portò il piccolo coniglio nel suo palazzo, e gli fece dare una bella stanzina e delle erbe eccellenti da mangiare.
Nella notte, quando fu solo in camera, il Re vide apparire una bella donna, la quale non era vestita con abiti ricamati d'oro e d'argento, ma la sua veste era bianca come la neve, e portava in testa una corona di rose bianche.
Il buon Re rimase molto maravigliato nel vedere questa signora, tanto più che l'uscio di camera era chiuso, né sapeva capacitarsi come diavolo avesse fatto a passar dentro.
"Io sono la fata Candida, e passando per il bosco mentre eravate a caccia, volli vedere se veramente siete quel buon Re, che tutti dicono. A questo fine presi la figura di un piccolo coniglio e mi messi in salvo fra le vostre braccia: perché so che chi sente pietà per le bestie, la sente anche per gli uomini: e se mi aveste ricusato il vostro soccorso, vi avrei tenuto per un cattivo. Vi ringrazio dunque del bene che mi avete fatto, e contate che io sarò sempre vostra buonissima amica. Voi non dovete far altro che chiedere, e tutto vi sarà accordato". "Signora", disse il buon Re, "poiché siete una fata, voi dovete leggermi in cuore quel che desidero. Io non ho che un figlio solo, al quale voglio un bene dell'anima, tanto che lo chiamano tutti il Principe Amato. Se mi volete fare un regalo, pigliate a benvolere questo mio figlio."
"Con tutto il cuore", rispose la fata, "io posso fare del vostro figlio o il più bel Principe del mondo, o il più ricco, o il più potente. Scegliete voi."
"Nulla di tutto questo", replicò il buon Re, "quanto a me, vi sarò obbligatissimo se vorrete farne il migliore dei Principi. A che gli servirebbe di esser bello, ricco e padrone di tutti i regni del mondo, se fosse cattivo? Voi sapete meglio di me che sarebbe un disgraziato, perché non c'è che la virtù che renda veramente felici."
"Avete mille ragioni", rispose Candida, "ma non è in mio potere di far diventar buono il Principe Amato, a suo dispetto: se vuol esser virtuoso, bisogna che anch'esso ci metta dell'impegno e della buona volontà. Tutto quel più che posso promettervi è di dargli dei buoni consigli, di riprenderlo quando farà male: e anche di castigarlo, se non voglia correggersi o punirsi da sé."
Il buon Re fu arcicontento di questa promessa, e dopo poco morì. Amato pianse moltissimo il padre, perché era tutta la sua affezione, e avrebbe dato volentieri regni, oro, argento, ogni cosa insomma, per poterlo salvare: ma non era possibile.
Due giorni dopo la morte del Re, mentre Amato era a letto, Candida gli apparve e gli disse:
"Ho promesso a vostro padre di esservi buona amica; e in segno che voglio mantenere la mia parola, eccomi qua a farvi un regalo".
E nel dir così, infilò un anellino nel dito di Amato e gli disse:
"Tenete conto di quest'anello: è più prezioso dei brillanti; ogni volta che sarete per fare una cattiva azione, vi pungerà il dito: ma se nonostante la puntura, vi ostinerete nel male, perderete la mia amicizia e diventerò vostra nemica".
Dette queste parole, Candida sparì e lasciò Amato fuori di sé dallo stupore.
Per qualche tempo egli fu così ammodo e perbene, che non sentì mai bucarsi dall'anello: e questa cosa lo rendeva tanto contento, che al suo nome di Amato, che già portava, gli venne aggiunto anche quello di Felice. Accadde però che in quei giorni essendo andato a caccia e non avendo morto nessun animale, entrò di cattivissimo umore. Allora gli parve che l'anello gli pigiasse, così non ci badò né tanto né quanto. Entrato che fu nella sua camera, la canina Bibì gli venne incontro, tutta saltellante in atto di fargli festa, ma egli le disse:
"Passa a cuccia! Ho altro per il capo che le tue carezze".
Ma la povera canina che non capiva nulla di quel che diceva, gli tirava il vestito per obbligarlo almeno a voltarsi a guardarla. Questo bastò per fargli perdere la pazienza e le lasciò andare una gran pedata. In quel momento l'anello lo punse così forte, come se fosse stato uno spillo. Egli ne restò confuso, e tutto rosso dalla vergogna andò a nascondersi in un canto della sua camera.
E intanto pensava: "Io credo che la fata abbia voglia di burlarsi di me: che male ci può essere a dare una pedata a una bestia che viene a seccarmi? siamo giusti: a che mi servirebbe di essere il sovrano di un grand'impero, se non fossi neanche padrone di picchiare il mio cane?".
"Io non mi burlo di voi", disse una voce che rispondeva al pensiero di Amato, "voi avete commesso tre errori, invece di uno: siete entrato di cattivo umore, perché vorreste tutte le cose a modo vostro e perché credete che le bestie e gli uomini sieno creati apposta per ubbidirvi; siete andato in furia, e anche questa è una cosa bruttissima; in terzo luogo, vi siete mostrato crudele con una povera bestiuola, che non si meritava davvero di essere presa a calci. Lo so anch'io che voi siete molto al di sopra di un cane, ma se fosse lecito e ragionevole che i grandi potessero maltrattare la gente che sta al disotto di loro, io potrei in questo momento battervi e anche uccidervi; perché una fata è da più d'un uomo. Il vantaggio di trovarsi padroni di un grande impero, non sta nel poter far tutto il male che si vuole, ma tutto il bene che si può."
Amato riconobbe il suo errore e diè parola di emendarsene. Ma fu come dire al vento. Bisogna sapere che fin da bambino era stato allevato da una sciocca governante, che lo aveva avvezzato male. Se voleva una cosa, non doveva far altro che piangere, imbizzirsi, pestare i piedi e quella lo contentava subito, e così ne faceva un ostinato, da non poterci campare. Fra le altre cose, essa passava le giornate intere a dirgli e ripetergli che un giorno sarebbe diventato Re, e che i Re erano felicissimi perché tutti gli uomini dovevano ubbidirli e venerarli, e perché erano padroni di cavarsi tutti i capricci che frullavano loro per la testa.
Quand'Amato crebbe e fu in caso di ragionare, riconobbe da sé che non c'era cosa tanto brutta, come quella di mostrarsi disprezzanti, orgogliosi e testardi. E si studiò di correggersi, ma ormai si era tirato su con tutti questi difetti, e quando si è presa una cattiva piega è difficile abbandonarla. Non si può dire, peraltro, che in fondo in fondo fosse cattivo di cuore: ché anzi, quando aveva commesso qualche errore, piangeva dal dispetto e diceva:
"Quanto son disgraziato di dover combattere tutti i giorni contro la mia superbia e contro il mio naturale bizzoso. Se da ragazzo mi avessero sgridato, ora non mi ritroverei a questo dispiacere".
L'anello lo pungeva spesso, e allora, se egli stava facendo un'azione non bella, si fermava subito: altre volte invece non ci badava e tirava avanti: e la cosa curiosa era questa: che per i piccoli falli, l'anello lo pungeva poco: ma quando poi si mostrava cattivo davvero, allora gli faceva uscire il sangue dal dito.
Alla fine perse la pazienza e volendo essere un malanno quanto gli pareva e piaceva, gettò via l'anello. Liberato dalla seccatura di sentirsi bucare, credé di essere il mortale più felice della terra. Si buttò allo sbaraglio e ne fece di ogni risma e colore: talché diventò un vero rompicollo e nessuno lo poteva soffrire.
Un giorno che Amato era alla passeggiata, vide una fanciulla tanto bella che esso si messe subito nell'idea di volerla sposare. Si chiamava Zelia ed era una ragazzina tanto perbene, quanto era bella. Amato si figurava che a Zelia sarebbe parso di toccare il cielo con un dito a poter diventare una gran Regina; ma la fanciulla invece gli disse senza tanti complimenti:
"Sire, io sono una povera contadinella e senza un soldo di dote: eppure, sebbene nuda bruca, non vi sposerò mai".
"Che forse non vi piaccio?", le domandò Amato un tantino commosso.
"No, mio Principe", rispose Zelia, "per me siete bellissimo, come lo siete difatti: ma a che vi gioverebbe la vostra bellezza, le vostre ricchezze, i bei vestiti e le belle carrozze che avete, se i vostri cattivi portamenti mi costringessero tutti i giorni a pigliarvi in uggia e dispetto?"
Amato s'imbestialì contro Zelia e ordinò a' suoi ufficiali di condurla per forza al palazzo. Quanto fu lunga la giornata, non seppe darsi pace di vedersi così disprezzato da questa fanciulla: ma perché le voleva bene, non trovava il verso di maltrattarla.
Fra i cattivi compagni di Amato, c'era un suo fratello di latte, col quale si confidava in tutto e per tutto. Quest'uomo, che aveva delle passioni volgarissime, com'era volgare la sua nascita, accarezzava le passioni del padrone e lo metteva sempre per la cattiva strada.
Nel vedere che Amato era di umore tristo, gli domandò la cagione della sua tristezza.
E avendogli il Principe risposto che non sapeva rassegnarsi al disprezzo di Zelia, e che aveva fatto giuro di emendarsi de' suoi difetti, perché per piacere a lei bisognava essere persone oneste e virtuose, quel malanno uscì fuori col dirgli:
"Siete molto ma molto buono, a usar tanti riguardi con quella ragazzuccia: se fossi io ne' vostri panni, saprei quel che fare per costringerla a ubbidirmi: ricordatevi che siete Re e che vi farebbe un gran torto a darla vinta ai capricci di una contadina, la quale dovrebbe stimarsi felice di essere ammessa fra le vostre schiave. Cominciate a tenerla a stecchetto, a pane e acqua: rinserratela in una prigione e, se perfidia a non volervi sposare, fatela morire in mezzo ai tormenti, non foss'altro per insegnare agli altri a chinare il capo ai vostri voleri. Se si viene a risapere che vi siete lasciato imporre da una monella, ci rimetterete un tanto di reputazione, e i vostri sudditi non si ricorderanno più che sono al mondo apposta per servirvi".
"Ma", chiese Amato, "non sarei ugualmente portato per bocca, se facessi morire un'innocente? Perché, in fin dei conti, Zelia non è rea di alcun delitto."
"Chi si ribella ai vostri comandi, non è mai innocente", riprese il malvagio consigliere, "ma dato anche che dobbiate commettere un'ingiustizia, è sempre meglio far sapere che siete ingiusto, di quello che s'abbia a dire che sia lecito qualche volta mancarvi di rispetto e di sommissione."
Il cortigiano stuzzicava Amato nel suo debole; e la paura di veder diminuita la propria autorità fece tanto effetto sull'animo del Re, da far tacere le buone intenzioni che egli aveva avuto di darsi al buono. Difatti fissò la sera stessa di andare nella camera della villanella e di pigliarla colle cattive, caso si fosse ostinata a non volerlo sposare. Il fratello di latte di Amato, per evitare il pericolo che avesse a pentirsi, riunì tre giovani signorotti, tristi da quanto lui, per fare un'orgia in compagnia del Re: e cenando insieme s'ingegnarono di farlo bere come una spugna, perché questo povero Principe perdesse affatto il lume della ragione. Durante la cena lo messero su contro Zelia e gli rinfacciarono tante e tante volte la sua debolezza di carattere, che alla fine egli si alzò da tavola giurando e spergiurando che voleva essere ubbidito, e subito: o se no, il giorno dopo l'avrebbe fatta vendere sul mercato come una schiava.
Quando Amato entrò nella camera della fanciulla, restò sorpreso di non trovarcela: tanto più che egli stesso aveva la chiave in tasca.
Prese una furia bestiale, e giurò lo sterminio di tutti quelli che avessero dato mano alla fuga di Zelia. I suoi compagni di vizio, nel sentire un discorso simile, pensarono di trar partito dal suo cieco furore, per rovinare un gentiluomo, che era stato aio di Amato. Questo brav'uomo si era preso qualche volta la libertà di ammonire il Re de' suoi difetti, perché gli voleva bene come a un figlio. Amato cominciò col ringraziarlo; ma poi impazientitosi di vedersi contraddetto, finì col credere che fosse unicamente per ispirito di opposizione, se l'aio suo lo ripigliava di certi mancamenti: mentre tutti gli altri non facevano che lodarlo e dirne un gran bene. Amato gli ordinò di allontanarsi dalla Corte: peraltro, malgrado quest'ordine, gli rendeva giustizia, ripetendo che era un onest'uomo, e sebbene non lo avesse più nelle sue buone grazie, si sentiva obbligato, a suo marcio dispetto, a doverlo stimare.
I suoi amici stavano sempre colla paura che un giorno o l'altro gli pigliasse l'estro di richiamare l'aio; finché credettero di aver trovato il bandolo per levarselo affatto di fra i piedi. E per far questo, dettero ad intendere al Re che Solimano (era il nome di quella degna persona) si era vantato di rendere la libertà a Zelia. Tre individui, comprati con mance e regali, raccontarono di aver sentito questo discorso dalla bocca stessa di Solimano; talché il Principe perse il lume degli occhi: comandò al suo fratello di latte di mandare dei soldati, perché gli conducessero dinanzi il suo aio e governatore, ammanettato come un assassino.
Dato quest'ordine, Amato se ne tornò nella sua camera; ma appena fu dentro, la terra tremò: si sentì un tuono spaventoso e Candida apparve dinanzi a' suoi occhi.
"Avevo promesso a vostro padre", diss'ella con voce severa, "di darvi dei consigli, e di punirvi, se aveste ricusato seguirli. Questi consigli voi li avete disprezzati e a voi non rimane altro che l'aspetto di uomo; perché i vostri difetti vi hanno trasformato in un mostro da far ribrezzo al cielo e alla terra. È tempo che io mantenga la mia promessa e che vi punisca. Io dunque vi condanno a diventare simile alle bestie, colle quali avete in comune le inclinazioni. Vi siete reso simile al leone per la collera violenta; al lupo per la voracità; al serpente straziando colui che vi aveva fatto da secondo padre; al toro per la vostra brutalità. Nel vostro nuovo aspetto, serberete un po' delle forme e del carattere di tutti questi animali."
Appena la fata ebbe finito di dir così, Amato si vide subito, con suo grandissimo spavento, trasformato e diventato tale e quale aveva ordinato la fata. La sua testa era di leone, le corna di toro, i piedi di lupo e la coda di vipera. E nello stesso tempo si trovò in mezzo a un gran bosco, proprio sull'orlo di una fontana, dove poté specchiarsi e vedere la sua orribile figura: e sentì una voce che gli disse: "Guarda un po' lo stato in cui ti hanno ridotti i vizi: eppure la tua anima è anche più brutta dello stesso corpo".
Amato riconobbe la voce di Candida e in un accesso di furore si voltò per lanciarsi contro di lei e divorarla, se avesse potuto; ma non vide anima viva, e la stessa voce gli disse:
"Io mi rido della tua impotenza e de' tuoi furori. Io confonderò il tuo orgoglio, rendendoti lo zimbello de' tuoi stessi sudditi".
Amato pensò che, allontanandosi da quella fontana, avrebbe trovato un po' di rifrigerio ai suoi tormenti: non foss'altro non avrebbe avuto più dinanzi agli occhi la sua bruttezza e la sua deformità: e detto fatto, s'inoltrò nel bosco; ma dopo pochi passi cascò dentro una buca, scavata apposta per prendere gli orsi, e in quel punto stesso alcuni cacciatori, che stavano nascosti sugli alberi, scesero e, dopo averlo incatenato, lo menarono alla capitale del suo regno. E lungo la strada mandava mille imprecazioni, mordeva le catene e faceva la bava dalla rabbia, mentre avrebbe fatto meglio a riconoscere che quel castigo se l'era chiamato addosso unicamente per colpa sua.
Nell'avvicinarsi alla città, dove lo conducevano, vide grandi feste di allegrezza pubblica: e i cacciatori avendo chiesto che cosa ci fosse di nuovo, fu loro risposto che quel principe Amato, che si divertiva a tormentare i suoi sudditi, era stato incenerito da un fulmine nella sua camera. Così la raccontavano, e così la credevano.
"Gli Dei", aggiungevano altri, "non potevano patire più a lungo gli eccessi della sua malvagità, e ne hanno liberata la terra. Quattro signori, complici di lui, credevano di profittarne e di spartirsi fra loro il regno: ma il popolo che sapeva che erano stati essi coi loro tristi consigli che avevano traviato il Re, li ha fatti a pezzi ed ha offerto il trono a Solimano, che quel malanno di Amato voleva far morire a ogni costo. Il degno gentiluomo è stato incoronato poco fa, e noi festeggiamo questo giorno, come quello della liberazione del regno: perché Solimano è una gran brava persona e si prepara a ricondurre fra noi la pace e l'abbondanza."
Nel sentire questi discorsi, Amato fremeva di rabbia; ma si trovò a peggio, quando giunse sulla gran piazza davanti al suo palazzo. Fu lì che vide Solimano assiso sopra un magnifico trono e tutto il popolo a desiderargli una lunga vita, per riparare al gran male fatto dal suo predecessore.
Solimano fece segno colla mano per chiedere un po' di silenzio, e disse al popolo:
"Io ho accettato la corona che mi avete offerta, ma l'ho fatto per serbarla al principe Amato. Egli non è morto, come ve l'hanno dato ad intendere. Lo so da una fata, e forse un giorno lo rivedremo buono e virtuoso com'era stato nella sua prima giovinezza. Ohimè!" seguitò a dire colle lacrime agli occhi "gli adulatori lo avevano sedotto. Io conosceva bene il suo cuore, che era fatto per la virtù: e senza i malvagi suggerimenti di coloro che gli stavano accosto, egli sarebbe stato un buon padre a tutti voi. Detestate i suoi vizi, ma compiangetelo; e tutti insieme preghiamo gli Dei perché ce lo rendano. In quanto a me, mi stimerei ben fortunato di dare tutto il mio sangue per vederlo risalire sul trono, con tutte le virtù degne di un gran sovrano".
Le parole di Solimano toccarono il cuore di Amato. Egli conobbe allora quanto fosse sincero l'affetto e fedeltà di quest'uomo: e per la prima volta rinfacciò a se stesso la propria colpa.
Appena ebbe dato retta a questo segno di ravvedimento, cominciò a sentirsi calmare quella rabbia che lo rodeva vivo; e ripensando ai falli commessi nella vita, si capacitò che non era stato punito in ragione del merito.
Smesse, intanto, di sbatacchiarsi dentro la gabbia di ferro dov'era incatenato, e diventò agevole come un agnello. Fu portato in un gran serraglio, dove si tenevano tutti i mostri e gli animali feroci e venne rinchiuso insieme cogli altri.
Amato fece allora un animo risoluto e cominciò a voler riparare al mal fatto, col mostrarsi obbediente e sommesso al guardiano che l'aveva in custodia. Ma costui era un omaccio, e quando aveva le paturne, lo bastonava senza motivo e senza discrezione, sebbene ei fosse docilissimo e alla mano. Un bel giorno che il guardiano s'era addormentato accadde che una tigre, rotta la gabbia, si avventò su di esso per divorarlo. Amato, nel primo momento, provò una specie di contentezza, nel vedere che stava per essere liberato dal suo persecutore: ma si pentì subito di questo sentimento e desiderò di trovarsi libero.
"Io sento", diss'egli, "che sarei capace di rendere ben per male, salvando la vita a quel disgraziato."
Appena ebbe formato questo desiderio, vide aperta la sua gabbia di ferro: ed egli si slanciò dalla parte di quell'uomo che si era già svegliato e che si difendeva contro la tigre. Quando il guardiano vide anche il mostro, si fece bell'e spedito: ma il suo spavento si cambiò presto in allegrezza, perché il mostro benefico si gettò sulla tigre, la strangolò, e dopo andò ad accovacciarsi ai piedi del guardiano che aveva liberato.
In segno di gratitudine, quell'uomo stava chinandosi per fare delle carezze al mostro, che gli aveva reso un sì gran favore, quando sentì una voce che disse: "Una buona azione non resta mai senza ricompensa" e nel tempo stesso, invece del mostro, vide ai suoi piedi un grazioso canino. Amato, lietissimo di questa sua nuova trasformazione, cominciò a fare un monte di feste al guardiano, il quale lo prese in collo e lo portò al Re, a cui raccontò per filo e per segno tutta questa meraviglia; la Regina volle il cane per sé e Amato sarebbe stato felice di questo suo nuovo stato, se avesse potuto dimenticarsi di essere uomo e sovrano.
La Regina era tutto il giorno a carezzarlo: ma per paura che crescesse troppo, consultò i medici di Corte, i quali la consigliarono di dargli soltanto del pane e in piccolissima dose. Il povero cane sentiva rifinirsi dalla fame dodici ore del giorno: ma bisognava rassegnarsi, e zitti. Una volta, che gli avevano portato il solito panino per la colazione, gli venne l'estro di andarlo a mangiare nel giardino del palazzo e presolo coi denti si avviò verso un ruscello, che egli conosceva e che era piuttosto lontano: ma arrivato sul posto, il ruscello non c'era più e trovò invece un palazzo, le cui mura esterne risplendevano tutte d'oro e di pietre preziose. Vi vedeva entrare una gran folla di donne e di uomini, magnificamente vestiti: e dentro si cantava, si suonava, si mangiava fior di pietanze: ma tutti quelli che poi uscivano di lì, erano pallidi, rifiniti, coperti di bolle e mezzi nudi, perché i loro vestiti cascavano a pezzi. Alcuni nell'uscir fuori cadevano morti; altri si allontanavano con grande stento e fatica; altri rimanevano per terra, sfiniti dalla fame, e chiedevano un boccone di pane a quelli che entravano in questa casa; i quali non si voltavano neppure a guardarli.
Amato si accostò a una giovinetta, la quale cercava di strappare un po' d'erba per mangiarla. Mosso a compassione, il Principe disse fra sé e sé: "Il mio appetito è grande, non c'è che dire; ma non per questo morrò di fame di qui all'ora di desinare: per cui se io mi levassi dalla bocca la mia colazione per darla a quella povera creatura, forse le salverei la vita".
Risolvé di dar retta a questa buona ispirazione e andò a mettere il suo panino nelle mani della giovinetta, che se lo portò alla bocca con grandissima avidità. In un batter d'occhio parve riavuta da morte a vita, e Amato, contento di averla aiutata in tempo, stava per tornare al palazzo, quando sentì delle grida acutissime e vide Zelia fra le mani di quattro uomini, che la trascinavano verso questa bella casa, dove la fecero entrar per forza. Amato in quel punto provò un gran dispiacere a non aver più la figura di un mostro, ché allora non gli sarebbe mancato il modo di soccorrere Zelia: ma debol canino com'era, non poté far altro che abbaiare contro i rapitori e provarsi a dar loro alle gambe. Lo mandarono indietro a furia di calci: e nondimeno non si volle allontanare di lì, per la passione di sapere che cosa sarebbe avvenuto di Zelia. Egli si sentiva pesare sulla coscienza tutte le disgrazie di quella povera fanciulla.
"Ohimè", diceva dentro di sé, "io son qui che me la piglio con quelli che l'hanno rapita!... ma non commisi anch'io lo stesso delitto? E se la giustizia divina non ci fosse entrata di mezzo, non l'avrei trattata con altrettanta indegnità?"
Questi pensieri di Amato furono interrotti da un rumore, che veniva fatto al disopra della sua testa. Si voltò in su, vide una finestra che si apriva, e la sua gioia fu grandissima quando scorse Zelia che da questa finestra gettava giù un piatto di vivande così ben cucinate, da far tornare l'appetito a un morto. La finestra si richiuse subito, e Amato che in tutta la giornata non aveva trovato il modo di sdigiunarsi, pensò che era venuto il momento buono per rimettere il tempo perso.
E già si preparava ad attaccare il dente in quelle pietanze, quando la giovinetta alla quale aveva dato il panino, cacciò un grido e avendolo preso fra le braccia:
"Povera bestiolina", gli disse, "non ti accostare alla bocca quella sorta di cibi. Questo è il palazzo della Voluttà; e tutto ciò che esce di lì dentro, è avvelenato".
Nel tempo stesso Amato sentì una voce che disse:
"Tu vedi come una buona azione non resta mai senza ricompensa".
E subito si trovò cangiato in un bel piccioncino bianco. Si ricordò allora che questo era il colore di Candida, e cominciò a sperare che finalmente ella volesse rammentarlo nelle sue buone grazie.
Il suo primo pensiero fu quello di avvicinarsi a Zelia, e levatosi a volo per aria, girò intorno a tutta la casa, e vide con gioia che c'era una finestra aperta.
Ma ebbe un bel frugare la casa in tutti i cantucci: Zelia non la poté trovare. Disperato di averla smarrita, fece giuro di non fermarsi un momento solo, fino a tanto che l'avesse incontrata. E per più giorni volò e volò, finché entrato in un deserto vide una caverna, e per curiosità vi si accostò.
Quale non fu la sua gioia nello scorgere Zelia, che seduta accanto a un venerabile Eremita, faceva con lui un frugalissimo pasto.
Amato, nell'impeto della passione, volò sulla spalla della graziosa contadinella, e dava a vedere colle sue carezze il gran piacere che provava nel rivederla.
Zelia, innamorata della dolcezza di questo animalino, lo lisciava delicatamente colla mano, e sebbene non pensasse di essere intesa, gli disse che gradiva il dono che le faceva di se stesso, e che gli avrebbe voluto sempre bene.
"Che avete mai fatto, Zelia?", le disse l'Eremita. "In questo modo avete impegnato la vostra parola."
"Sì, graziosa pastorella", le disse Amato il quale riprese in quel momento la sua forma naturale, "la fine della mia metamorfosi dipendeva dal vostro consenso alla nostra unione. Voi mi avete promesso di amarmi sempre: confermate la mia felicità e io corro a scongiurare la fata Candida, mia protettrice, perché mi renda quella figura, sotto la quale ebbi la fortuna di piacervi."
"Voi non dovete temere per nulla la sua incostanza", gli disse Candida, e lasciò cadere le spoglie d'Eremita, sotto le quali s'era nascosta, per apparire ai loro occhi tale, qual era difatti. "Zelia vi amò appena vi vide, ma i vostri vizi la costrinsero a nascondere la inclinazione che sentiva per voi. Il cambiamento avvenuto ora nel vostro cuore, la fa padrona di dare libero sfogo a tutta la sua tenerezza. Voi sarete felici, perché la vostra unione sarà fondata sulla virtù."
Amato e Zelia si erano gettati ai piedi di Candida. Il Principe non rifiniva di ringraziarla della sua bontà, e Zelia, oltremodo contenta di sapere che Amato detestava i propri trascorsi, tornava a ripetergli il grande amore che sentiva per lui. "Alzatevi, figli miei", disse loro la fata, "che io voglio trasportarvi nel vostro palazzo per rendere ad Amato una corona, della quale i suoi vizi l'avevano reso indegno."
Appena dette queste parole, si trovarono tutti nella camera di Solimano, il quale lietissimo di rivedere il suo diletto padrone divenuto virtuoso, gli cedé il trono e restò il più fedele de' suoi sudditi. Amato regnò lungo tempo con Zelia: e si racconta che fu così scrupoloso nell'adempimento dei propri doveri, che l'anello che aveva ripreso, non lo punse nemmeno una volta sola, in modo da fargli far sangue.
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C'era una volta, molti secoli fa, nella ricca città di Furtei, un giovane birbone e amante della bella vita e dei divertimenti, che era il più astuto malandrino del mondo.
Tutta la città conosceva il giovane come ladro matricolato, e molti cittadini erano andati dal pretore a denunciare i suoi furti. Il pretore mandava a chiamare il giovane e gli diceva che se continuava a fare così lo avrebbe fatto impiccare, ma Mercuzio, questo era il suo nome, giurava che non era stato lui, e così non veniva arrestato.
Per i furti e le malefatte Mercuzio era un cattivo soggetto, ma aveva questo di buono: non rubava perché era avido di quelle ricchezze, ma per regalarle generosamente quando e come gli faceva piacere. E dato che era intelligente e di carattere divertente e allegro, il pretore gli era sinceramente affezionato, e godeva spesso della sua compagnia.
Siccome Mercuzio non smetteva di rubare e il pretore continuava a ricevere denunce contro di lui, ma gli voleva troppo bene per punirlo, un giorno lo chiamò e gli parlò seriamente, per convincerlo a diventare una persona perbene lasciando la vita da malandrino, altrimenti sarebbe incorso nei pericoli mortali di chi va contro le leggi.
Mercuzio lo ascoltò attentamente, e poi disse:
"Signore, ho sentito e ho capito i rimproveri che mi fai, e sapendo che parli perché mi vuoi bene ti ringrazio. Quello che mi dispiace è che degli sciocchi invidiosi mettano in giro queste calunnie, rovinando la mia reputazione per farmi del male. Chi ti ha riferito queste bugie sul mio conto farebbe meglio a mordersi la lingua velenosa".
Accecato dall'affetto il pretore volle credere a Mercuzio, e non dava corso alle denunce contro di lui, continuando a vederlo tutti i giorni.
Una volta che erano insieme a tavola e si narravano storie divertenti, Mercuzio cominciò a raccontare di un ladro matricolato, così abile e astuto che senza farsi prendere riusciva a rubare qualsiasi cosa, per quanto fosse ben nascosta e sorvegliata.
Allora il pretore gli disse: "Questo giovane devi essere tu, che sei intelligente, astuto e birbone. E se stanotte sarai capace di rubarmi il letto in cui dormo, ti prometto sul mio onore cento monete d'oro".
A questa proposta Mercuzio si rannuvolò, e gli rispose così:
"Signore, tu pensi dunque che io sia un ladro, ma non è vero, non ci sono mai stati ladri nella mia famiglia; io vivo onoratamente senza far nulla di male. Ma se vuoi che io corra questo pericolo mortale, per il bene che ti ho sempre voluto e che ti voglio, stanotte farò quello che mi hai proposto, e se muoio, pazienza".
Con una gran voglia di accontentare il pretore, Mercuzio andò via, passò tutto il giorno a scervellarsi per trovare un modo di portargli via il letto senza che se ne accorgesse; finalmente gli venne un'idea, e si mise subito all'opera.
Quel giorno a Furtei era morto un mendicante, e lo avevano sepolto fuori dalla chiesa: Mercuzio aspettò che tutti fossero immersi nel sonno, andò alla tomba, la aprì leggermente, prese il morto per i piedi e lo tirò fuori dal sepolcro.
Poi rivestì il corpo morto con i suoi abiti, che gli stavano alla perfezione, tanto che chiunque lo avesse visto avrebbe creduto che fosse Mercuzio, non il mendicante, se lo caricò sulle spalle e si avviò verso il palazzo del pretore.
Là prese una lunga scala, salì sul tetto e senza farsi sentire cominciò a levare le tegole, poi con i suoi arnesi di ferro tagliò travi e tavole, facendo una grande apertura in corrispondenza della camera del pretore.
Il magistrato, che era disteso sul letto senza dormire, sentiva tutto quello che faceva Mercuzio, ma anche se si era accorto che gli stava rompendo il tetto si divertiva, e voleva proprio stare a vedere quando sarebbe venuto per rubargli il letto di sotto.
E fra sé e sé diceva: "Fa' pure l'astuto malandrino più che puoi Mercuzio, tanto stanotte il mio letto non lo porterai via".
Mentre il pretore stava ad aspettare con gli occhi spalancati e le orecchie tese che venisse per prendergli il letto, Mercuzio fece scivolare giù il mendicante morto, che cascò in terra con un tonfo.
Il pretore impaurito si alzò, accese un lume, e quando vide il corpo steso a terra tutto pesto e lacerato riconobbe Mercuzio dai vestiti e, stretto dall'angoscia, disse:
"Oh, misero me! per soddisfare un desiderio sciocco e infantile sono stato sconsiderato e ho provocato la sua morte! Cosa diranno di me quando si saprà che è morto in camera mia? Come devono essere sempre saggi e prudenti gli uomini!".
Lamentandosi andò a picchiare all'uscio della camera di un servitore fedele, e dopo averlo svegliato gli raccontò quel triste accadimento, pregandolo di scavare una fossa nel giardino e di metterci il cadavere, perché la cosa rimanesse nascosta e non si risapesse in giro.
Mentre il pretore e il servo seppellivano il morto, Mercuzio, che era lassù fermo e guardava tutto, vedendo che nella camera non c'era più nessuno si calò giù con una fune, prese il letto, e facendolo passare dal buco se lo portò via.
Dopo aver sotterrato il morto, tornando in camera a dormire il pretore vide che mancava il letto.
Rimase stupefatto, e se volle riposare gli toccò cambiare camera, meravigliato dalla finissima astuzia del ladro matricolato.
Il giorno dopo Mercuzio, come al suo solito, andò al palazzo a trovare il pretore, che vedendolo disse:
"Mercuzio, sei proprio un ladro matricolato! Chi avrebbe mai immaginato un modo così astuto per rubare il letto, se non tu?".
Mercuzio non rispondeva nulla, e stava lì sorridente, come se la cosa non lo riguardasse.
"Mi hai fatto una delle tue beffe", diceva il pretore, "ma ti sfido a farmene un'altra, e allora capirò quanto vale la tua astuzia. Se stanotte riuscirai a rubare il mio bellissimo cavallo storno, che mi è tanto caro, oltre alle cento monete d'oro che ti avevo detto te ne regalerò altre cento".
Mercuzio dopo aver sentito queste parole con l'espressione corrucciata si rammaricò della cattiva opinione che il pretore aveva di lui, dicendogli di non mandarlo in rovina. Quando vide che rifiutava la sua proposta il pretore andò in collera, e gli disse:
"Se non lo farai, da me non aspettarti più nulla: sarai impiccato a uno degli anelli lungo le mura di questa città".
Vedendo che la faccenda era diventata pericolosa e che non si trattava affatto di uno scherzo, Mercuzio disse al pretore:
"Va bene, farò tutto quello che posso per accontentarti, succeda quel che succeda, anche se non mi sento adatto a fare di queste cose", poi lo salutò e se ne andò.
Il pretore, che si divertiva a mettere alla prova la straordinaria astuzia del giovane, chiamò uno dei suoi servi e gli disse:
"Va' nella stalla, prepara il mio cavallo storno, monta in sella e non smontare fino a domattina, fa' buona guardia e vedi che non portino via il cavallo".
Ordinò a un altro servo di montare la guardia per tutta la notte, infine chiuse personalmente le porte del palazzo e della stalla con fortissime chiavi.
Mercuzio aspettò che fosse notte fonda, prese i suoi strumenti e andò alle dimora del pretore, dove vide il guardiano che si era addormentato sulla porta. Siccome conosceva tutti i segreti del palazzo, lo lasciò dormire ed entrò nella corte da un'altra parte, si avvicinò alla stalla e, avendola trovata serrata, lavorò così bene con i suoi ferri che senza far rumore aprì le porte, ma quando vide il servitore sul cavallo con le briglie in mano ebbe paura di non riuscire a portare a termine l'impresa. Poi avvicinandosi si accorse che anche quello era profondamente addormentato, e allora il ladro furbo e matricolato immaginò il trucco più geniale che si potesse inventare: misurò l'altezza del cavallo, calcolò qualcosa in più, poi andò in giardino, prese quattro grandi pali che sostenevano le viti del pergolato, li appuntì e ritornò nella stalla, dove il servo continuava a dormire come un ghiro.
Con destrezza recise le redini che il servo stringeva tra le dita, poi tagliò il pettorale, la cinghia, la groppiera e tutto quello che lo legava al cavallo, e dopo aver ficcato in terra un palo, sollevò delicatamente uno degli angoli della sella e ce la appoggiò sopra.
Prese un altro palo e dopo averlo piantato ci posò sopra la sella da un'altra parte e fece lo stesso con i pali sollevando gli altri due angoli. Così, mentre il servo continuava a dormire, lo spostò con la sella e tutto sui quattro pali conficcati nel terreno, poi prese un capestro, lo mise al capo del cavallo e sfilandolo di sotto al servo se lo portò via.
La mattina dopo il pretore si alzò presto e andò nella stalla, dove, credendo di trovare il suo cavallo storno, vide il servo che dormiva sulla sella appoggiata su quattro pali.
Lo svegliò e gliene disse di tutti i colori, poi tutto rannuvolato uscì dalla stalla.
Dopo poco Mercuzio, come al suo solito, andò al palazzo a trovare il pretore e lo salutò con affabilità.
Il magistrato gli disse: "Sei proprio il migliore di tutti i ladri, io dico anzi che sei il principe e il re dei ladri. Ma ora capirò davvero fino a che punto sei abile e geniale. Mi pare che tu conosca don Severino, il prete di quella chiesa appena fuori dalla città: se me lo porterai chiuso in un sacco, sul mio onore raddoppierò le duecento monete d'oro che ti ho promesso. Se non lo farai, preparati a morire".
Don Severino era un buon prete, faceva una vita semplice e onesta, ma non era troppo furbo; si occupava della sua chiesa senza pensare ad altro.
Vedendo che il pretore era tinto male verso di lui, Mercuzio pensò: "Lui vorrebbe proprio incastrarmi e farmi morire, ma forse non andrà come crede, perché escogiterò di tutto pur di riuscire a portargli quello che mi ha chiesto".
E fece proprio così: prese in prestito da un suo amico un camice bianco da prete lungo fino ai piedi e una stola tutta ricamata d'oro, poi cercò dei grandi cartoni robusti, intagliò due ali e le dipinse con tanti colori, infine fabbricò un diadema per illuminare tutto intorno.
Quando fu buio prese tutte queste cose con un grosso sacco, uscì dalla città e andò dove abitava don Severino, si nascose dietro una macchia di rovi e rimase lì tutta la notte.
All'aurora Mercuzio indossò il camice sacerdotale accomodandosi al collo la stola, si mise in capo il diadema con le candele accese e si fissò le ali alle spalle, poi si acquattò e restò ad aspettare finché venne il prete per suonare il mattutino.
Quando don Severino arrivò col chierichetto alla chiesa, entrò lasciando la porta aperta e si mise a fare i suoi servizi.
Mercuzio, che stava attento e guardava la porta, mentre il prete suonava l'Ave Maria venne fuori dalla macchia, senza farsi sentire entrò in chiesa, si mise all'angolo di un altare e stando ritto, mentre teneva il sacco aperto con tutte e due le mani, con voce umile e melodiosa cominciò a dire:
"Chi vuol andare in paradiso entri nel sacco! chi vuol andare in paradiso entri nel sacco!".
Mercuzio continuava a recitare così, ed ecco che il chierichetto venne fuori dalla sacrestia: vide il camice bianco come la neve, il diadema che risplendeva come le stelle, le belle ali che parevano penne di pavone, sentì la voce e si spaurì tutto.
Appena si riprese un poco tornò dal prete e gli disse:
"Don Severino, sai che io ho visto l'angiolo del cielo con un sacco in mano che dice: 'chi vuol andare in paradiso entri nel sacco'? Io ci voglio andare".
Il prete credette subito alle parole del chierichetto, e senza pensarci due volte uscì dalla sacrestia, vide l'angiolo meraviglioso e sentì quello che diceva. Siccome desiderava moltissimo andare in paradiso e aveva paura che il chierichetto gli prendesse il posto nel sacco, fece finta di essersi dimenticato il breviario e disse al bambino:
"Va' a casa, guarda in camera mia, e portami il breviario che mi sono dimenticato sullo scanno".
Mentre il chierichetto andava a casa, il prete si avvicinò all'angiolo e con grande devozione entrò nel sacco.
Mercuzio, astuto, malizioso e matricolato, vedendo che il suo piano andava a meraviglia, chiuse il sacco e lo legò ben stretto, poi si spogliò del camice sacerdotale, si levò il diadema e le ali, ne fece un fagotto, se lo mise sulle spalle con il sacco e si avviò verso la città.
Arrivò che era giorno fatto, e all'ora giusta portò il sacco al pretore, lo slegò e fece venir fuori don Severino.
Questo, più morto che vivo, vedendo il pretore si accorse che lo avevano preso in giro, e cominciò a gridare, lamentandosi che era stato assassinato e messo nel sacco con l'inganno, che ne aveva avuto danno e disonore, e chiedeva giustizia al pretore, dicendogli che doveva punire un crimine come quello con una severissima pena come esempio e ammonimento per tutti i malandrini.
Il pretore, che aveva sentito com'era andata dal principio alla fine, non riusciva a trattenere le risa, e rivolgendosi a don Severino gli disse:
"O pretino, sta' cheto e non ti sgomentare, avrai la prova della mia benevolenza e della mia giustizia, anche se questa, come possiamo vedere bene, è una beffa".
E tanto disse e tanto fece, che riuscì a calmarlo, poi prese un sacchetto con un po' di monete d'oro e glielo mise in mano, ordinando che lo accompagnassero fino a casa sua.
Poi si rivolse a Mercuzio e disse:
"Mercuzio, Mercuzio, le tue imprese straordinarie superano di molto la tua fama di ladro matricolato. Eccoti le quattrocento monete d'oro che ti avevo promesso, perché te li sei guadagnati con tutti gli onori. Ma sta attento e in futuro bada di vivere con saggezza e prudenza, perché se mi arriverà all'orecchio un'altra accusa, ti prometto che senza clemenza ti farò dondolare con un cappio al collo".
Mercuzio si congedò dal pretore ringraziandolo per le monete d'oro, con le quali cominciò a fare il mercante, e con il suo ingegno fece fortuna, diventando un uomo ricco e saggio..
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Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l'ultima, e guardava giù per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie.
Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell'estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendentisi ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d'oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le roccie e i roveti montani.
In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di musco giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza.
Si chiamava Antonio. Anch'esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo; però una leggera nuvola era apparsa dopo due anni di completa felicità sul cielo sereno della sua esistenza. Saveria non lo aveva reso né ancora accennava a renderlo padre! Era una cosa ben triste! Egli l'aveva tanto sognato un bel marmocchio bruno come lui che appena in gambe l'avrebbe seguito su e giù, fra i boschi e le valli, aiutandolo nelle dure fatiche di pastore; un marmocchio che poi, fatto forte giovanotto, la gioia e la speranza dei suoi vecchi, ammogliandosi avrebbe a sua volta tramandato il loro nome e la discendenza dei loro armenti in un altro, e così via pei secoli dei secoli! Tutti gli avi di Antonio erano stati pastori: e questa gloria egli sognava di continuarla ma come fare se non veniva l'erede?
Tutto fu messo in opera; promesse, novene, pellegrinaggi. Antonio andò, scalzo e a testa nuda, a piedi, sino al celebre santuario della Madonna dei Miracoli, a Bitti, fece fare una processione, una messa solenne, e promise di dare tante libbre di cera lavorata alla Madonna quante ne avrebbe pesate il futuro figliuolino, ma tutto fu inutile.
Saveria restava sottile, sottile, elegante nel suo costume dal corsetto giallo e la camicia ricamata, e la casa non veniva ancora rallegrata dagli strilli del sognato bambino né dalla nenia della mamma accompagnata dal cigolio della culla.
Era una ben triste, triste cosa! Se ne aveva già deposta l'ultima speranza allorché un giorno un'amica di Saveria venne a trovarla e le disse con profondo mistero, dopo i primi complimenti alla francese :
- Non sapete dunque, comare Sabé? Peppe Longu mi ha detto che voi non fate figli perché...
- Perché?... - chiese attenta Saveria con gli occhi spalancati.
- Perché? - seguitò l'altra abbassando la voce. - Ci scampi Iddio, ma voi lo sapete, Peppe è un mago di prima qualità, così almeno dicono tutti... e lui stesso mi ha detto che è per opera di una sua magia che voi non avete figli.
- Liberanosdomine! - esclamò Saveria ridendo e facendosi il segno della croce. Come tutte le donnicciuole del villaggio essa era superstiziosa e credeva alle magie, anzi una volta aveva visto coi suoi propri occhi un fantasma bianco vagare pei monti, ma che poi Peppe Longu, per quanto fosse mago, arrivasse a quel punto, ah, questo era troppo! Ma l'altra proseguì, offesa dell'incredulità di Saveria, e tanto disse che finì per convincerla.
Dopo un'ora di chiacchiere accanto al focolare, sulle cui bracie Saveria aveva posto a bollire il caffè, ell'era così convinta della magia di Peppe che chiese pensosa alla comare:
- E... ditemi, non la potrebbe disfare questa opera infernale?
- Questo poi no, mi ha detto, questo no! Pare che abbia dell'astio contro vostro marito!...
All'imbrunire Antonio comparve in fondo alla strada rocciosa sul suo cavallino nero e la bisaccia gonfia di formaggio fresco e di ricotta. Mentre scaricava la sua entrata sotto il pergolato, Saveria lo informò di tutto: egli non rise punto, ma aggrottando le folte sopracciglia si contentò di scuotere la testa. E quando tutto fu rimesso in ordine, cavallo, bisaccia ed entrata, Antonio si sedette a piedi in croce accanto al focolare e si fece ripetere la strana novità.
- Ma che diavolo avete con Peppe? Perché si vendica così orribilmente? - domandò alla fine Saveria con grande serietà.
- Nulla!... - rispose Antonio. - A meno che non sia perché mi rido sempre delle sue magie!
- È male! Non hai visto come ha disperso le cavallette che rovinavano la vigna di Don Giovanni? E quelle di Jolgi Luppeddu?...
- È vero... è vero... ma! Vedremo! Domani gli parlerò.
- Ah, se sciogliesse la magia!... - esclamò Saveria.
Quella notte i due sposi sognarono nuovamente un bel bambino bruno; ma l'indomani, per quante preghiere Antonio gli facesse, il mago del villaggio ricusò assolutamente di disfare l'incantesimo.
Era un tipo alquanto misterioso quel mago: viveva come tutti gli altri uomini del mondo, però non lavorava mai.
È vero che oltre le magie pubbliche di cui menava vanto, come l'uccidere le cavallette e il sanare le pecore malate con semplici parole misteriose, per cui non accettava compenso alcuno egli riceveva molte visite notturne; però nessuno ci badava e generalmente si credeva che i genî che egli aveva al suo comando gli dessero il denaro e le provviste che abbondavano nella sua catapecchia.
Ma forse Antonio la pensava diversamente perché, viste mal riuscite tutte le sue preghiere e anche le sue minaccie, si recò una notte da Peppe e gli promise un bel luigi d'oro purché sciogliesse finalmente la fatale magia.
Sulle prime Peppe fece il sordo, si mostrò anzi scandalizzato, come un artista a cui si proponga un affare che spoetizzi i suoi ideali; ma poi, visto realmente lo splendore del luigi, chissà donde il pastore lo aveva tratto! cedé a poco a poco e gridò:
- Ebbene, sì! Lo faccio però per amicizia e pietà di Saveria; ma tu non lo meriti, tu che mi hai sempre deriso!...
Antonio protestò; Peppe allora l'avvertì di trovarsi l'indomani notte in un sito deserto della montagna, col fucile scarico, una tovaglia bianca e due ceri.
Antonio lasciò la moneta al mago e promise tutto; però, allorché trovossi nella strada oscura, minacciò col pugno la casa rovinata da cui era uscito e sogghignò:
- Vedremo!
L'indomani notte fu il primo ad arrivare al convegno: era un sito orrido e dirupato reso fantastico dal chiarore croceo della luna al tramonto. Nella notte serena non spirava un alito di brezza, e i rovi fioriti, le liane nere e il musco olezzavano nel silenzio misterioso delle roccie illuminate dalla luna.
Il pastore depose il fucile che, secondo la raccomandazione di Peppe, non aveva caricato, la tovaglia, e i ceri su un masso e attese... Peppe non tardò. Le sue prime parole furono:
- È giusta l'ora! Mezzanotte -.
Stese la tovaglia su una larga pietra nuda e isolata dalle altre, fissò i ceri in terra e fece stendere bocconi, per un secondo, il pastore.
Quando si rialzò Antonio vide i ceri accesi e il fucile posto sulla tovaglia.
- Cominciamo! - disse Peppe.
E infatti cominciò a fare mille pantomime che Antonio seguiva con occhio torvo e con un sorriso di sdegno sulle labbra. Più che mai si sentiva in vena di deridere il mago; ma qual non fu il suo spavento quando Peppe rivoltosi alla pietra coperta dalla tovaglia, la interrogò in un linguaggio strano che probabilmente doveva passare per latino, e la pietra rispose, con voce flebile, lugubre, uscente di sotterra, nel medesimo linguaggio?... In pari tempo i ceri si spensero da sé senza che tirasse vento o che Peppe si chinasse su di essi.
Si rivolse invece verso il pastore che tremava verga a verga e gli disse:
- La pietra mi risponde che... il fucile risponderà se la magia è sì o no sciolta!...
- Come? - chiese Antonio richiamato in sé dalla voce del mago.
- Era scarico il tuo fucile?...
- Sì perdio! - esclamò il pastore.
- Ebbene, piglialo e spara in aria: se fa fuoco è segno che l'incantesimo è sciolto!
Antonio, oramai preparato ad assistere a tutte le meraviglie del mondo ma non a quest'ultima, si accostò alla pietra parlante, prese il fucile e sparò...
Peppe cadde al suolo, senza emettere un solo gemito, col cuore trapassato da una palla.
Invece di sparare in aria, Antonio lo aveva preso di mira...
Dopo il suo involontario delitto, perché, nonostante tutto, credeva che il fucile non facesse fuoco, il pastore pensò di darsela a gambe ma poi rifletté che nessuno sapeva nulla di tutta questa faccenda, e... ripiegò la tovaglia, riprese i ceri e il fucile e ritornò al villaggio camminando sulle rupi in modo da non lasciare alcuna traccia dietro di sé, e passò tranquillamente il resto della notte con la sua adorata Saveria.
... Sempre incredulo in fatto di magie, il forte pastore dai grandi occhi ardenti non seppe mai spiegarsi come la pietra avesse parlato, come i ceri eransi spenti e come il fucile aveva fatto fuoco; però nove mesi dopo ebbe la gioia di pigliare fra le sue braccia robuste un bel marmocchio di cui Saveria lo rese padre.
Allora si pentì amaramente di non aver sparato in aria; ma non potendo far rivivere il mago, si contentò di fargli dire una messa di suffragio nella vecchia chiesetta della montagna.
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C'era una volta un Re e una Regina che avevano una figliuola più bella della luna e del sole.
Un giorno, dopo il pranzo, il Re disse alla Regina:
- Maestà, guardate qui, tra i capelli. Sento qualche cosa che mi morde.
La Regina osservò, scostando i capelli colle dita, e trovò un pidocchio che era uno stupore. Stava per ischiacciarlo.
- No - disse il Re. - Proviamo d'allevarlo.
E misero il pidocchio in uno scatolino piccino piccino.
Gli davan da mangiare ogni giorno, e quello cresceva e ingrassava. Presto dovettero levarlo via di lì perché non ci capiva più, così grosso s'era fatto.
Il Re, curioso di vedere fin dove sarebbe arrivato, lo trattava bene, e insieme alla Regina, andava tutti i giorni ad osservarlo in quella stanza del palazzo reale dove lo tenevano nascosto.
Il pidocchio cresceva, cresceva. Furon costretti a levarlo via anche da quell'altro scatolino; era più grosso d'un pugno: si stentava a riconoscere che fosse un pidocchio.
Insomma, cresci, cresci, diventò quanto una gallina e poteva appena muoversi, dalla gran ciccia che avea addosso.
Allora il Re lo ammazzò, lo scorticò e ne conciò la pelle. E fece un bando:
- Chi indovina che pelle di animale sia questa, avrà la Reginotta mia figliuola in isposa. Chi non sa indovinarlo, gli si taglia la testa.
La Reginotta era angustiata.
- Che marito le sarebbe toccato in sorte?
E piangeva. Ma il Re voleva così e bisognava ubbidire!
Accorsero parecchie persone da tutti i punti del regno. Chi disse la pelle essere d'un animale, chi d'un altro; ed ebbero, senza misericordia, tagliate le teste.
Si provarono altri. L'idea di sposar la Reginotta era una gran tentazione, e pareva cosa facile il conoscere una pelle d'animale. Però, quand'erano lì, rimanevano. E il Re, senza misericordia, gli faceva tagliare le teste.
Finalmente, ecco un bel giovane.
- Peccato! Verrà fatta la festa anche a lui!
Tutti ne aveano compassione vedendolo così giovane e così bello. Perfino il Re gli disse di pensarci due volte prima d'esporsi al cimento. Ma quegli, ostinato, entrava nella sala dov'era esposta la pelle.
- È pelle di pidocchio!
- Bravo! - gli disse il Re. - Tu sposerai la Reginotta.
L'abbracciò, lo ritenne a pranzo e ordinò feste per tutto il regno.
La Reginotta era contenta. Lo sposo, giovane e bello, pareva anche d'alto lignaggio.
- Chi sei? - gli domandò il Re a tavola.
- Son carne battezzata e ho sangue reale nelle vene.
- E dov'è il tuo paese?
- Il mio paese? È lontano, lontano. Per andarvi ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno.
La Reginotta sgomentossi.
Il Re e la Regina piangevano, pensando che la loro figliuola doveva vivere in quel paese lontano, lontano, che per andarvi ci si metteva un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno. Ma parola di Re non va indietro.
E fatte le nozze, la Reginotta e il bel giovane, con un gran seguito, si misero in viaggio. Centinaia di carri e di cavalli portavano la dote di lei, tutta in gioie e quattrini, e il corredo e i magnifici regali ricevuti dal Re e dalla Regina.
Cammina, cammina, cammina, non arrivavano mai!
- Dov'è il tuo paese?
- Dietro quelle montagne.
Oltrepassaron le montagne e non s'arrivava ancora!
- Dov'è il tuo paese?
- Più in là di quelle foreste.
Oltrepassaron le foreste e non s'arrivava ancora!
- Dov'è il tuo paese?
- In fondo a quella pianura.
Traversarono la pianura e non si arrivava ancora!
La Reginotta intanto non si dava pace. Pensava al babbo e alla mamma che non avrebbe più riveduti.
Quel paese, così lontano lontano che non ci s'arrivava mai, le metteva un grande sgomento.
- Vuoi tu fare in fretta? - le disse lo sposo.
- Sì.
- Ti prenderò in collo e vedrai.
E la Reginotta lo lasciò fare. E non gli si è attaccata al collo colle braccia, che il bel giovane si trasforma in un Orco, alto, grosso, peloso, dagli occhi di brace, con certe zanne e certe granfie!...
- Ah, Vergine santa! Ah, mamma mia!
La Reginotta avea chiuso gli occhi, si sentiva come portar via da un vento furioso.
L'Orco, nella sua corsa, faceva rintronar le vallate e le montagne:
- Auhiii! Auhiii!
Pareva un terremoto dovunque passasse, pareva un tempesta.
Quando la Reginotta aperse gli occhi, capì che era già arrivata nel castello dell'Orco suo sposo.
Si sentì stringere il cuore.
Il castello era tutto circondato da mura così alte che si vedeva a mala pena un po' di cielo. Stanzoni freddi e bui; catenacci dappertutto; dappertutto ceffi di guardie che avrebbero messo spavento anche al più coraggioso del mondo.
- Che fare? Bisognava rassegnarsi!
L'Orco le usava grandi riguardi. La mattina andava via per la caccia e tornava la sera carico di preda. La Reginotta riconosceva quell'alito a dieci miglia di distanza. La preda consisteva sempre in poveri cristiani, parte uccisi, parte vivi, che l'Orco poi divorava mezzo crudi, uno a colazione, uno a pranzo, uno a cena.
Per la Reginotta invece portava pietanze squisite, pasticcini, torte, dolciumi di ogni sorta.
- Mangia! Hai paura?
- No.
- Mangia dunque!
- Non ho appetito.
- Mangia!!...
E bisognava mangiare, perché l'Orco s'offendeva del rifiuto e digrignava i denti.
- Bevi! Hai paura?
- No.
- Bevi dunque!
- Non ho sete.
- Bevi!!...
E bisognava bere, perché l'Orco s'offendeva del rifiuto e digrignava i denti.
Ma torniamo al Re e alla Regina.
Un giorno, dopo che il vincitore e la Reginotta eran partiti, arrivò un giovinetto:
voleva, anche lui, tentar la prova della pelle.
- Troppo tardi, bel giovinetto! La prova fu vinta.
- E da chi, Sacra Maestà?
- Da uno che abita un paese così lontano, che per andarci ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno.
- È un Orco! Ahimè, la Reginotta è alle mani d'un Orco!
Figuriamoci il dolore del Re, della Regina e di tutta la corte a questa brutta notizia!
Il giovinetto andò via lamentandosi che la sua cattiva sorte lo avesse fatto arrivare troppo tardi. Era innamorato della Reginotta soltanto perché gli avevano detto che era più bella della luna e del sole; ed ora, pensando che lei si trovava alle mani di quella bestiaccia, provava un dolore di morte.
E camminava, senza saper dove andasse: i suoi occhi parevano due fontane.
Giunto in una pianura, stanco del cammino fatto, si sedette sopra un sasso, continuando a rammaricarsi.
Passava una vecchia con un fastello di legna sulle spalle.
- Che hai bel giovinetto?
- Che volete che abbia, vecchiarella mia?
E narrò il tristo caso della Reginotta e dell'Orco.
La vecchia non rispose nulla e riprese il cammino col suo fastello sulle spalle.
- Voi siete stanca, povera donna - disse il giovinetto. - Date a me cotesto fastello. Faremo strada insieme.
- Grazie, figliuolo!
Il giovinetto si caricò il fastello e riprese la via insieme alla vecchia. Quel fastello era pesante.
- Nonna, la vostra abitazione è molto lontana di qui?
- Un albero che balla e un uccellin che parla; appena gli avremo incontrati e saremo giunti a casa mia.
Il fastello aumentava di peso. Il giovinetto stentava a reggerlo, sudava, ansava. E intanto il sole era tramontato; faceva già scuro.
- Nonna, la vostra abitazione è molto lontana di qui?
- Un albero che balla e un uccellin che parla; appena gli avremo incontrati e saremo giunti a casa mia.
Era notte; ci si vedeva poco. Ed ecco pel prato un albero che andava saltelloni e pareva ballasse, come se fosse stato una persona viva.
- Hai fatto buona guardia, ora basta - gli disse la vecchia.
E l'albero cessò di saltellare. Il giovinetto si era fermato, stupito.
- Avanti, figliuolo; c'è ancora qualche tratto.
Intanto il fastello aumentava di peso.
Il giovinetto non ne poteva più!
Stava per maledire l'ora e il punto che lui avea fatto quella carità a quella vecchia, quand'ecco uno sbattere di ali.
Era l'uccellino che parlava.
- Bene arrivata la mammina mia! Bene arrivato chi viene con lei!
Il giovinetto, dalla paura, cominciò a tremare.
- Siamo giunti - disse la vecchia.
Ed entrarono in casa.
Quello si tolse di spalla il fastello, ch'era ridiventato leggiero, e lo posò accanto al focolare.
Allora la vecchia prendeva due ramicelli di legna, accendeva il fuoco, preparava la minestra; poi stendeva la tovaglia e metteva i piatti sulla tavola.
E quando tutto fu pronto:
- Cricrì, cricrì, cricrì!
L'uccellino diventava una bella ragazza.
Si misero a mangiare.
Il giovinetto aveva ribrezzo di toccar le pietanze; temeva fossero incantate.
- Dove vai, giovinetto, così sperso pel mondo? Se tu volessi fermarti qui, ti darei le mie ricchezze e questa bella figliuola in isposa.
- Ah, nonna mia, lasciatemi andare! Cerco la Reginotta del mio cuore e vo' trovarla, ad ogni costo. Se non la troverò monaco mi farò.
- Poverino! Ma tu non sai la via del paese dell'Orco. È lontano, lontano! Per andarvi ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno!
- Che importa? La mia vita è della Reginotta; se morrò per lei, tanto meglio! Datemi un cantuccio per dormire, e domani svegliatemi all'alba; vo' mettermi in cammino.
La vecchia lo condusse in una cameretta così bella da star bene anche in una reggia. Ma il giovinetto non poteva dormire. Pensava alla sua Reginotta e a quell'Orco, si svoltava di qua e di là fra le lenzuola e sospirava.
- Cricrì, cricrì, cricrì!
Entrava in camera l'uccellino e subito diventava una bella ragazza, quella di poco prima.
- Perché non dormi, giovinetto? Perché sospiri?
- Penso alla Reginotta del mio cuore e non posso chiuder occhio.
- Prendi me. Sono bella, sono ricca, sono di sangue reale. Dove vorresti trovare una fortuna migliore?
- Ah, ragazza mia, lasciatemi andare! La mia sorte vuol così.
- Cricrì! Cricrì! Cricrì!
La bella ragazza ritornava uccellino.
- Strappa una penna da questa coda, strappa due penne da queste ali. Nei momenti di gran pericolo, prendine una in mano e comanda. Sarai ubbidito.
Il giovinetto esitava:
- Poteva essere un tranello!
Ma quello, di nuovo:
- Strappa una penna da questa coda, strappa due penne da queste ali. Nei momenti di gran pericolo, prendine una in mano e comanda. Sarai ubbidito.
- Allora!... - disse il giovinetto.
E, rassicurato, gli strappò quelle penne dalla coda e dalle ali e se le mise in serbo nelle tasche.
La notte era lunga e lui non poteva conciliar sonno. Pensava alla sua Reginotta e a quell'Orco, si rivoltava di qua e di là fra le lenzuola e sospirava.
Entrò in camera la vecchia.
- Perché non dormi, giovinetto? Perché sospiri?
- Penso alla Reginotta del mio cuore e non posso chiuder occhio.
- Sposa la mia figliuola. È bella, è straricca, è di sangue reale.
- Ah, nonna, lasciatemi andare! La mia sorte vuol così.
- Tu sei un cuore fedele! Prendi questa nocciuola. Nei momenti di gran pericolo schiacciala fra i denti e comanda. Sarai ubbidito.
All'alba il giovinetto partì.
Cammina, cammina, giorno e notte, arrivava in mezzo a una foresta dove non c'era un segno di strada. Alberi di qua, alberi di là, macchie, siepi, spine. Non poteva più andare né avanti, né indietro.
- Ah!... Questo è il paese dell'Orco! - esclamava ad un tratto.
Provò una grande allegrezza. Prese in mano quella penna della coda dell'uccellin che parlava, e:
- Penna mia, penna mia, presto, aprimi la via!
Il bosco s'aperse. Ed ecco una strada larga, diritta, che non finiva mai. Più lui s'inoltrava e più la strada s'allungava. Il giovinetto avea terminato il pane e l'acqua portati con sé; e lì non c'era acqua, non c'era frutta, nulla! Cominciava già a provare tutti gli strazii della fame. Intanto annottava; una notte senza stelle, buio come in gola; e si sentivano pel bosco gli urli dei lupi affamati...
- Questa volta è finita. I lupi mi divoreranno!
Ma ecco laggiù, in fondo, in fondo, un lumicino che si vedeva e non si vedeva.
Il giovinetto si fece coraggio, raccolse le sue forze e tirò innanzi. Il lumicino restava sempre in fondo, che si vedeva e non si vedeva. Finalmente, come Dio volle, il poverino giunse dove quel lume luccicava dalla fessura d'un uscio, e picchiò.
Non rispose nessuno.
Lui tornava a picchiare.
- Aprite, anime cristiane! Ricoveratemi per questa notte!
Ma non riceveva risposta.
- Era dunque arrivato in terra di pagani?
E picchiava di nuovo, questa volta più forte.
- Chi sei?
Quella vocina fioca fioca veniva di cima della casa.
- Sono un viandante smarrito. Fate la carità, in nome di Dio! Ricoveratemi per questa notte!
- Zitto, non rifiatare, se ti è cara la vita! Aspetta che io ti cali giù le treccie dei miei capelli e afferrati ad esse.
Il giovinetto s'afferrava a quelle treccie venute giù, e si sentiva tirar in alto come una secchia. Un braccio l'aiutava ad entrare per la finestra, e lui si trovava faccia a faccia con una bella donzella, che lo guardava sorpresa.
- Come sei venuto fin qui? Ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno!
- Ah! Dunque si trovava nel castello dell'Orco! E quella donzella era la sua amata Reginotta!
Si mise a piangere dalla contentezza.
E quando disse chi era e come e perché venuto, piansero insieme.
Ma già stava per aggiornare. Il castello rintronava degli urli dell'Orco che si preparava ad andar a caccia. La Reginotta fece nascondere il giovinetto in un armadio e finse di ricamare.
L'Orco diè un calcio all'uscio. E appena entrato nella camera, cominciava a fiutare intorno intorno.
- Perché fiutate?
- Mucci, mucci, sento odor di cristianucci!
- Andate là! Avete fatto colazione or ora e n'avete piene le narici.
L'Orco s'acchetava e partiva per la sua caccia:
- Auhiii! Auhiii!
- Fuggiamo - disse il giovinetto appena l'Orco fu partito.
- Ah, poveri a noi! Di qui non s'esce. Potessimo anche uscirne, non sapremmo ritrovare la strada in mezzo al bosco che per cento miglia circonda il castello.
Allora il giovinetto ricorreva all'altra penna dell'uccellin che parlava.
- Penna mia, penna mia, tutti e due portaci via!
E di botto si sentirono come presi in collo, per aria, e, in men che non si dica, si ritrovarono ben oltre le cento miglia dal bosco.
Camminarono a piedi per tutta la giornata; e quando furono stanchi, veduto un pagliaio abbandonato, andarono a ricoverarsi lì e s'addormentarono saporitamente.
La mattina di buon'ora, ripresero il cammino.
Ma dopo un pezzetto, ecco da lontano un rumore sordo sordo, che s'avvicinava crescendo:
- Auhiii! Auhiii!
Era l'Orco che li inseguiva!
Affrettarono il passo, anzi si misero a correre; ma l'Orco gli aveva già scoperti da lontano e gli veniva addosso più lesto del vento.
Il giovinetto prese in mano l'ultima penna dell'uccellin che parlava e:
- Penna, pennina, lei fontana ed io anguilla!
L'Orco s'arrestò, stupito di non più vederli.
La fontana, limpida come il cristallo, gorgogliava allato della strada, e l'anguilla guizzava nell'acqua dimenando la coda.
L'Orco ebbe il sospetto che si fossero trasmutati l'una in fontana e l'altro in anguilla.
- Fontana, ti berrò! Anguilla, ti prenderò!
Ma, bevi, bevi, quella fontana era sempre allo stesso punto, e quell'anguilla gli sguizzava sempre di mano.
L'Orco s'era già pieno lo stomaco d'acqua, ne avea fino alla gola. Non poteva più articolar la mano, tanto s'era stancato.
Si riposava un momento e poi daccapo:
- Fontana, ti berrò! Anguilla, ti prenderò!
E tornava a bere, sforzandosi.
E cercava di afferrare quella maledetta anguilla che gli sguizzava sempre di mano. Finalmente buttossi per terra, morto dalla fatica, oppresso da quel peso dello stomaco, e subito s'addormentò.
La Reginotta e il suo compagno, visto che l'Orco dormiva, ripresero la strada.
Avevano camminato tutta la notte e metà del giorno appresso, quand'ecco nuovamente:
- Auhiii! Auhiii!
L'Orco gli inseguiva, più furioso di prima.
- Ferma! Ferma!
Pareva che tuonasse.
La povera Reginotta si perdette d'animo e svenne. L'Orco era a pochi passi; già arrotava i dentacci:
- Auhiii! Auhiii!
Allora il giovinetto schiacciò la nocciuola.
- Nocciuola, nocciuola, trasmutaci in roccia e in farfalla che vola!
E l'Orco si trovò davanti a una roccia scoscesa e brulla, che s'alzava a picco sulla campagna.
Una magnifica farfalla svolazzava qua e là colle sue ali dorate e andava, di tanto in tanto, a posarsi su quella.
L'Orco ebbe il sospetto che si fossero trasmutati l'uno in roccia e l'altra in farfalla.
- Roccia, t'atterrerò! Farfalla, t'acchiapperò!
E si diè a scalzare la roccia, scavando la terra colle ugne; ma non riusciva a spostare nemmeno un sassolino.
Avea le mani tutte scorticate, le ugne tutte rotte; e scavava, scavava. Poi lasciava di scavare e dava la caccia alla farfalla. Ma quella volava in alto e non si lasciava acchiappare.
Morto dalla fatica, sdraiossi per terra, sotto la roccia, e si addormentò.
A un tratto la roccia gli si lasciava cader addosso tutta d'un pezzo.
- Auhiii! Auhiii! - urlava l'Orco, dando gli ultimi tratti.
Così la Reginotta e il suo compagno poterono rimettersi in viaggio tranquilli, e finalmente arrivarono ai confini del loro paese.
Quando il Re e la Regina ricevettero la notizia del loro prossimo arrivo, bandirono feste per tutto il regno.
Uscirono ad incontrarli fuori le porte della città con tutta la corte e un immenso popolo dietro, e ordinarono subito i preparativi per le nuove nozze della Reginotta col suo liberatore.
Ma lui disse:
- Debbo fare un viaggio. Se fra otto giorni non sarò ritornato, piangetemi per morto.
La Reginotta si disperava:
- Anderai dopo, sposo mio!
- Anderete dopo, figliuolo mio!
Ma la Reginotta, il Re, la Regina non riuscirono a persuaderlo.
Partì, e si trovò nella pianura deserta dove avea incontrato quella vecchia.
Aspettava un pochino, ed ecco la vecchia, anche questa volta col suo fastello di legna sulle spalle.
- Mi riconoscete, vecchiarella mia?
- Si, figliuolo, ti riconosco. O che vieni a fare da queste parti?
- Ve lo dirò dopo; datemi intanto il vostro fastello. Faremo strada insieme.
Questa volta il fastello era leggiero leggiero.
- Son venuto per ringraziarvi e per invitarvi alle mie nozze.
- Bravo figliuolo che tu sei!
E, detto questo, la vecchia si trasfigurava. Era diventata una bellissima signora, risplendente più d'una stella, con una verga d'oro nel pugno.
Sorrise e sparì.
Allora lui comprese che quella era una Fata. Ritornò, tutt'allegro, al palazzo reale, e la stessa sera vennero celebrate le nozze.
Così furono marito e moglie:
e lui ebbe il frutto e noi le foglie.
di Luigi Capuana
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Viveva centinaia di anni fa, nella lontana città di Pietramala, un uomo chiamato Mastro Gergerio, che era espertissimo in due arti. Di giorno esercitava l'arte della sartoria, tanto bene che andavano a farsi cucire gli abiti da lui i nobili e i migliori mercanti della città, di notte praticava in segreto la magia e la negromanzia. Mastro Gergerio aveva preso come apprendista il figlio di un povero contadino, un giovane di nome Lionetto, sveglio, volonteroso, pronto a imparare tutto ciò che padrone gli insegnava.
Ma una volta Lionetto si svegliò nel cuore della notte, e avendo qualche sospetto si alzò e senza far rumore andò a guardare da una fessura cosa faceva il suo padrone: rimase tanto affascinato da quello che vide che anche la notte seguente fece finta di dormire, per poi alzarsi e stare a guardare gli esperimenti magici. Così prese a scrutare ogni notte nella stanza segreta di Mastro Gergerio, perché gli piaceva di più l'arte della magia che l'arte della sartoria.
Di giorno però Lionetto non imparava più nulla, e da accorto e preciso era diventato pigro e trasandato, tanto che Mastro Gergerio finì col riportarlo da suo padre.
Il pover'uomo si disperò e dopo poco riportò Lionetto da Mastro Gergerio, supplicando perché lo riprendesse come garzone, gli insegnasse la sartoria, e lo punisse se non si comportava bene.
Allora il mago lo riprese, ma Lionetto dava ancora meno l'impressione di imparare, non teneva nemmeno gli occhi aperti, così il mago lo prendeva a pugni e calci tutti i giorni, picchiandolo tanto che spesso lo faceva sanguinare. Ma Lionetto sopportava, e ogni notte da quella fessura guardava nella stanza segreta gli esperimenti del suo padrone.
A un certo punto Mastro Gergerio, convinto che il suo apprendista aveva il cervello bacato senza rimedio, non si curò più di nascondergli gli strumenti della negromanzia, pensando che chi non riusciva a imparare il mestiere di sarto, tanto meno avrebbe potuto imparare la magia nera, che era assai più difficile. Lionetto si mostrava tonto, ma era assai rapido nell'imparare l'arte segreta, tanto che dopo un po' di tempo aveva superato il suo maestro.
Un giorno che il padre di Lionetto venne a vedere a che punto era nel mestiere di sarto il suo figliolo, lo vide che anziché cucire portava l'acqua e la legna per la cucina, spazzava, faceva i servizi più umili, e ci rimase male, così lo riportò a casa.
Il contadino aveva speso molti soldi per mandare Lionetto in città, e rammaricandosi perché non aveva imparato l'arte della sartoria gli disse:
"Figlio mio, tu sai quanti sacrifici ho fatto perché tu diventassi sarto, e ora non mi ritrovo nemmeno un soldo da parte e non so come fare per andare avanti".
"Padre mio," rispose Lionetto, "prima di tutto voglio ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me, poi voglio che non ti preoccupi per il futuro anche se non ho imparato l'arte del sarto come desideravi, perché ne ho imparata un'altra che potrà servirci molto più di quella. Stai tranquillo, caro babbo, e vedrai che non è stato inutile mantenermi in città, e che presto questa casa non conoscerà più la miseria. Ora con l'arte negromantica mi trasformerò in un cavallo, e tu mi porterai alla fiera con sella e briglie, e mi venderai: ma sta ben attento a non dare a nessun costo le briglie al compratore, perché altrimenti non potrei tornare a casa e forse non mi vedresti mai più".
Così dicendo Lionetto si trasformò in un bellissimo cavallo e suo padre lo portò alla fiera, dove tutti lo guardavano ammirati per la sua bellezza e per le straordinarie prove di agilità.
Ma passò di là anche Mastro Gergerio, che si accorse che il cavallo nero era magico; così tornò a casa, si trasformò in mercante e dopo aver preso molti denari tornò alla fiera. Guardando il cavallo da vicino riconobbe il suo vecchio apprendista e chiese al contadino se voleva venderglielo. Quello disse di sì, e si accordarono per una somma di duecento monete d'oro, senza le briglie, ma il mago insistette tanto, e offrì al contadino altre monete d'oro, tante che lo convinse.
Così il mago prese il cavallo per le briglie e lo portò nella sua stalla, somministrandogli subito una violenta scarica di bastonate. Lo bastonava a sangue tutte le mattine e tutte le sere, tanto che il cavallo era ridotto in uno stato da far pietà.
Mastro Gergerio aveva due figlie che vedendo il loro padre così crudele ebbero compassione del povero animale, e ogni giorno andavano nella stalla e gli facevano tante carezze. Una volta poi,lo presero per la cavezza e lo portarono al fiume per dargli da bere, ma appena il cavallo fu vicino all'acqua si trasformò in un pesce tonno e si tuffò nelle onde.
Le figlie del mago si spaventarono e tornarono a casa piangendo a dirotto.
Quando il mago tornò andò subito nella stalla per bastonare come ogni sera il cavallo, e non trovandolo si infuriò, ma entrato in casa vide le sue figlie tutte disperate, e disse:
"Non abbiate paura, raccontatemi cosa è successo col cavallo e cercherò un rimedio".
Appena le figlie gli ebbero detto che il cavallo si era trasformato in un pesce tonno, il mago corse in riva al fiume e tuffandosi si trasformò in un pesce squalo che cominciò a rincorrere il tonno per divorarlo. Il pesce tonno nuotava veloce ma lo squalo gli era sempre dietro, cercava di nascondersi tra le canne e nelle grotte acquatiche, ma lo squalo riusciva sempre a trovarlo. A un certo punto il tonno, avendo paura di essere divorato, si avvicinò alla sponda e trasformandosi in un preziosissimo rubino saltò fuori dall'acqua e si lasciò cadere nel cestino di una damigella, che raccoglieva le più belle pietruzze di fiume per donarle alla figlia del re.
La principessa, che si chiamava Lucilla, quando vide il prezioso rubino rimase estasiata, lo fece incastonare in un anello d'oro e se lo mise al dito. Il rubino le piaceva tanto che lo tenne al dito anche quando andò a letto.
Nel cuore della notte Lionetto riprese la sua forma umana e vedendo la bellissima fanciulla addormentata l'accarezzò.
Lucilla si spaventò e voleva urlare, ma lui le mise una mano sulla bocca, poi si inginocchiò e la supplicò di aiutarlo.
"Non credere, mia bella principessa," disse, "che io sia venuto qui per farti del male o per rapirti, sappi che la mia vita è in pericolo a causa di un maledetto mago negromante, e che ora tu puoi perdermi o salvarmi. Ti prego, ascolta la mia storia".
Così le raccontò di quando anziché imparare l'arte del sarto aveva imparato l'arte magica, poi come il padre lo aveva venduto dimenticando che doveva tenere le briglie, della crudeltà del mago che voleva farlo morire di stenti e di bastonate e delle due fanciulle che lo avevano portato al fiume. Le raccontò che si era trasformato in tonno e che aveva rischiato di essere divorato dal mago in forma di squalo, poi le disse che la sua fortuna era stata quella di trovarsi nel cestino che era arrivato nelle sue mani.
La principessa si commosse sentendo questa storia favolosa, ed era ammirata dalla bellezza di Lionetto, perciò dopo averlo ascoltato gli rispose:
"Anche se la tua storia sembra incredibile io credo che sia vera, perché hai toccato il mio cuore, e anche se non avresti dovuto venire da solo nella mia stanza, dove il re mio padre ti ucciderebbe, voglio aiutarti, purché tu ti comporti da buon cavaliere".
Lionetto la ringraziò e rientrò nel rubino, che lei ripose dove teneva le sue cose più care, e quando poteva andava a trovarlo: Lionetto riprendeva la forma umana e stava a conversare dolcemente con lei.
Accadde in quel tempo che il re si ammalò gravemente, e tutti i medici che lo avevano visitato dicevano che purtroppo non esistevano rimedi.
Venne a saperlo Mastro Gergerio, che si vestì da medico e andò al palazzo reale, fu introdotto nella camera del re, lo guardò bene, gli sentì il polso, e infine gli disse:
"Maestà, si tratta di una malattia grave e pericolosa, ma presto sarai guarito, perché io ho un sostanza che in poco tempo cura tutte le malattie. Sta' contento signore, e non aver paura".
Disse il re: "Maestro, se tu mi liberi da questa malattia, ti ricompenserò in modo tale che sarai felice per il resto della vita".
Il medico allora gli disse che non voleva né danari né terre, ma una sola cosa. "Non voglio altro come ricompensa", concluse, "che quel rubino legato in oro che ora si trova tra i gioielli di tua figlia".
Stupito perhé chiedeva una cosa così piccola, il re gli promise che gliela avrebbe data, e Mastro Gergerio in pochi giorni lo guarì.
Il re allora fece chiamare Lucilla e le ordinò di andare a prendere tutti i suoi gioielli. Lucilla obbedì, ma non portò il rubino che amava tanto, e Mastro Gergerio si lamentò perché mancava proprio la gemma che gli era stata promessa, lei negava di averla mai avuta, ma il medico insisteva.
Allora il re lo congedò, assicurandogli che il giorno dopo avrebbe avuto la pietra, poi richiamò sua figlia e le chiese dolcemente dove teneva il rubino, ma ottenne come unico risultato che lei si mise a piangere continuando a negare di averlo.
Lucilla piangendo si chiuse in camera sua, e tenendo fra le mani il rubino lo baciava e lo carezzava, maledicendo l'ora in cui era apparso quel medico maledetto. Vedendo i suoi occhi pieni di lacrime e sentendo i suoi sospiri il rubino si commosse, e riconoscendo quanto bene gli voleva riprese la forma umana e disse:
"Mia principessa adorata, alla quale devo la vita, non piangere, non sospirare per me che ti appartengo come questo anello. Col tuo aiuto e con la mia arte confido di non cadere nelle grinfie di quel medico, che deve essere proprio il mio nemico mortale, visto per avermi in suo potere rinuncia a qualunque ricompensa. Non dovrai più disobbedire all'ordine di tuo padre, domani mi porterai al mago, ma anziché mettermi nelle sue mani fingerai di essere in collera e togliendomi dal dito mi lancerai violentemente contro il muro, e poi lascia fare a me".
Il giorno dopo Mastro Gergerio si ripresentò al re che gli disse che sua figlia negava di avere il rubino, ma il mago insisteva e il re la mandò a chiamare e le disse:
"Lucilla, tu sai che solo per merito di questo medico io sono guarito, e per ricompensa lui non vuole terre né tesori, ma solo il tuo rubino. Credevo che tu mi volessi tanto bene da essere disposta a dare per me il tuo sangue, non solo un rubino. Per il bene che ti voglio, non rifiutare di dargli quello che chiede".
La principessa allora andò in camera a prendere il rubino e lo mostrò al mago, che esclamò: "Eccolo!", e fece per afferrarlo.
Ma la principessa disse: "State indietro Maestro, perché vi toccherà!", e tenendo in mano sua il rubino disse: "Siccome è proprio questo il rubino caro e gentile che cercate, ve lo do per obbedire al padre mio, anche se perdendolo io sarò infelice per tutta la vita", e così dicendo scagliò il rubino contro il muro.
Appena cadde sul pavimento il rubino si trasformò in una bellissima melagrana, si aprì e fece rotolare i suoi chicchi dappertutto.
Il mago vedendo questo si trasformò in un gallo, e si mise a beccare tutti i chicchi della melagrana per divorare Lionetto, ma un grano si nascose e il mago non riuscì a vederlo. Appena fu il momento adatto il chicco si trasformò in una volpe agile e astuta, si accostò al gallo, lo afferrò al collo e lo uccise, divorandolo davanti al re e alla principessa.
Mentre il re vedendo queste cose era rimasto incantato, Lionetto riprese la forma umana, gli raccontò tutta la sua storia e ottenne la mano della principessa Lucilla con la quale visse a lungo in gioia e prosperità, dopo aver reso ricco suo padre.
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Ricordate Caino Trogoloni? Lo avevamo lasciato in clinica,prostrato per il rifiuto della Ludovica,ed ora lo ritroviamodi nuovo innamorato
"Ahi ahi!" direte voi.
Ne avete ben donde,lettori miei!
Ma facciamo un passo indietro.
Nella clinica Luminaris era ricoverata ,anche lei depressa per la rottura del fidanzamento,Brunilde Pannicotti.
Uniti dal dispiacere,i due giovani hanno scoperto di piacersi e,una volta usciti,hanno deciso di frequentarsi,coi risultati che adesso vi elenco.
LUNEDI'- Primo appuntamento
Emozionatissimo Caino ha incontrato la Brunilde...al cimitero delle Porte Sante,che lei frequenta quando è felice.Caino si è dovuto sorbire una passeggiata di tre ore fratombe e loculi,con relativa lettura delle iscrizioni più toccanti.
MARTEDI'- Caino hha scoperto che laBrunilde lavora nell'impresa di pompe funebri paterna.
MERCOLEDI'- La Brunilde ha portato al cinema Caino,costringendolo a sorbirsi una maratona di 8 ore dei film horror del regista John O' Paur.
Le urla di terrore del disgraziato hanno fatto scappare tutti quanti
GIOVEDI'- La Brunilde ogni mese fa una seduta spiritica a casa della celebre medium romena Violeta Mortulescu.
Stavolta ci ha portato il Caino,che quando il tavolo si è mosso è svenuto.
VENERDI'- LaBrunilde ha organizzato una serata romantica:visita notturna a un cimitero di campagna e caccia ai fuochi fatui.
Il Trogoloni sta ancora correndo.
SABATO- La Brunilde ha fatto vedere a Caino il piccolo museo paterno (di bare,ovvio).
Quando gli ha chiesto di collaudare una rara bara matrimoniale del primo 800,Caino le ha detto cose che non riporto qui:il giornale può finire in mano ai bambini.
DOMENICA- La Brunilde ha posto un ultimatum a Caino:o la sposa e si mette a lavorare nell'impresa paterna,o addio.
Il Trogoloni,stufo marcio ,le ha allora detto (a lei,a pratesi pistoiesi,senesi e livornesi,veramente)cosa pensava di lei,delle sue balordaggini,della Mortulescu,delle bare sue,di suo padre,di suo nonno,e di tutti i mortacci sua.
Poi ,afono ,le ha fatto vedere il medio e se n'è andato .
Sono passati dieci giorni.
La Brunilde è di nuovo in clinica (questo è il duecentesimo fidanzamento rotto).
Caino è in crociera e pare sia diventato uno sciupafemmine incallito.
Esaurito anche stavolta il mio compito di narratore,passo e chiudo
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di splendide visioni luminose -
onde azzurre spumose alle scogliere,
garruli fuochi in lingue scintillanti,
volti di bimbi in estasi sognanti
come coppe imbevute di chimere.
La vita vende gli amorosi incanti,
nella pioggia il pineto profumato -
c'è la musica, un alto arco dorato,
caldi abbracci, devoti sguardi amanti,
delizie dello spirito incorrotte,
visioni come stelle nella notte.
Spendi tutto per doni come questi,
senza pensare al conto della spesa.
Un'ora in pace candida, sicura,
vale di mesi ed anni amara attesa:
per un respiro di estasi pura
da' quel che fosti, o ch'essere potresti.
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Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38