Messaggi del 12/09/2011

Il principe canarino

Post n°710 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era un Re e aveva una figlia. La madre di questa figlia era morta e la matrigna era gelosa della figlia e parlava sempre male di lei al Re. La ragazza, a scolparsi, a disperarsi; ma la matrigna tanto disse e tanto fece che il Re, sebbene affezionato a sua figlia, fini per darla vinta alla Regina: e le disse di condurla pure via fuori di casa. Però doveva metterla in un posto dove stesse bene, perché non avrebbe mai permesso che fosse maltrattata.
- Quanto a questo, - disse la matrigna, - sta' tranquillo, non ci pensare, - e fece chiudere la ragazza in un castello in mezzo al bosco. Prese una squadra di dame di Corte, e gliele mise lì per compagnia, con la consegna che non la lasciassero uscire e neanche affacciarsi alle finestre. Naturalmente le pagava con stipendi da Casa reale.
Alla ragazza fu assegnata una stanza ben messa, e da mangiare e da bere tutto quello che voleva: solo che non poteva uscire. Le dame invece, ben pagate com'erano, con tanto tempo libero, se ne stavano per conto loro e non le badavano neppure.
Il Re ogni tanto chiedeva alla moglie: - E nostra figlia, come sta? Che fa di bello?
La Regina, per far vedere che se ne interessava, andò a farle visita.
Al castello, appena scese di carrozza, le dame le corsero tutte incontro, a dirle che stesse tranquilla, che la ragazza stava tanto bene ed era tanto felice. La Regina salì un momento in camera della ragazza.
- E cosi, stai bene, si? Non ti manca. niente, no; Hai buona cera, vedo, l'aria è buona. Stai allegra, neh! Tanti saluti! - e se ne andò.
Al Re disse che non aveva mai visto sua figlia tanto contenta. Invece la Principessina, sempre sola in quella stanza, con le dame di compagnia che non la guardavano neanche, passava le giornate tristemente affacciata alla finestra.
Stava affacciata coi gomiti puntati al davanzale e le sarebbe venuto un callo ai gomiti, se non avesse pensato di metterci sotto un cuscino.
La finestra dava sul bosco e la Principessa per tutto il giorno non vedeva altro che le cime degli alberi, le nuvole e giù il sentiero dei cacciatori.

Su quel sentiero passò un giorno il figlio d'un Re. Inseguiva un cinghiale e passando vicino a quel castello che sapeva da chissà quanti anni disabitato, si stupì vedendo segni di vita: panni stesi tra i merli, fumo dai camini, vetri aperti. Stava cosi guardando, quando scorse a una finestra lassù, una bella ragazza affacciata, e le sorrise.
Anche la ragazza vide il Principe,vestito di giallo e con le uose da cacciatore e la spingarda, che guardava in su e le sorrideva, e anche lei gli sorrise. Così restarono un'ora a guardarsi e a sorridersi, e anche a farsi inchini e riverenze, perché la distanza che li separava non permetteva altre comunicazioni.
L'indomani quel figlio di Re vestito di giallo, con la scusa d'andare a caccia, era di nuovo lì, e stettero a guardarsi per due ore; e questa volta oltre a sorrisi, inchini e riverenze, si misero anche una mano sul cuore e poi sventolarono a lungo i fazzoletti.
Il terzo giorno il Principe si fermò tre ore e si mandarono anche un bacio sulla punta delle dita.
I1 quarto giorno era lì come sempre, quando da dietro a un albero fece capolino una masca e si mise a sghignazzare: - Uah! Uah! Uah!
- Chi sei? Cos'hai da ridere? - disse vivamente il Principe.
- Ho che non s'è mai visto due innamorati cosi stupidi da starsene tanto lontani!
- Sapessi come fare a raggiungerla, nonnina! - disse il Principe.
- Mi siete simpatici, - disse la Masca, - e vi aiuterò -.
E bussato alla porta del castello diede alle dame di compagnia un vecchio librone incartapecorito e bisunto, dicendo che era un suo regalo per la Principessa perché passasse il tempo leggendo.
Le dame lo portarono alla ragazza che subito lo apri e lesse: " Questo è un libro magico. Se volti le pagine nel senso giusto l'uomo diventa uccello e se volti le pagine all'incontrario l'uccello ridiventa uomo".
La ragazza corse alla finestra, posò il libro sul davanzale e cominciò a voltar le pagine in fretta in fretta e intanto guardava il giovane vestito di giallo, in piedi in mezzo al sentiero, ed ecco che da giovane vestito di giallo che era, muoveva le braccia, frullava le ali, ed era diventato un canarino; il canarino spiccava il volo ed ecco era già più in alto delle cime degli alberi, ecco che veniva verso di lei, e si posava sul cuscino del davanzale.
La Principessa non resistette alla tentazione di prendere quel bel canarino nel palmo della mano e di baciarlo, poi si ricordò che era un giovane e si vergognò, poi se ne ricordò ancora e non si vergognò più, ma non vedeva l'ora di farlo tornare un giovane come prima.
Riprese il libro, lo sfogliò facendo scorrere le pagine all'incontrario, ed ecco il canarino arruffava le piume gialle, frullava le ali, muoveva le braccia ed era di nuovo il giovane vestito di giallo con le uose da cacciatore che le si inginocchiava ai piedi, dicendole:
- Io ti amo!
Quando s'ebbero detto tutto il loro amore, era già sera. La Principessa lentamente cominciò a girare le pagine del libro.
Il giovane guardandola negli occhi ridiventò canarino, si posò sul davanzale, poi sulla gronda, poi s'affidò al vento e volò giù a grandi giri, andandosi a posare su un basso ramo d'albero.
Allora ella voltò le pagine all'incontrario, il canarino tornò Principe, il Principe saltò a terra, fischiò ai cani, lanciò un bacio verso la finestra, e s'allontanò per il sentiero.
Cosi ogni giorno il libro veniva sfogliato per far volare il Principe alla finestra in cima alla torre, risfogliato per rendergli forma umana, poi sfogliato ancora per farlo volar via, e risfogliato perché tornasse a casa.
I due giovani non erano mai stati cosi felici.

Un giorno, la Regina venne a trovare la figliastra. Fece un giro per la stanza, sempre dicendo:
- Stai bene, si? Ti vedo un po' magrolina, ma non è niente, è vero? Non sei stata mai cosi bene, no? -
E intanto s'assicurava che tutto fosse al suo posto: aperse la finestra, guardò fuori, e giù nel sentiero vide il Principe vestito di giallo che s'avvicinava coi suoi cani. "Se questa smorfiosa crede di fare la civetta alla finestra, le darò una lezione ", pensò.
Le chiese d'andare a preparare un bicchiere d'acqua e zucchero; poi in fretta si tolse cinque o sei spilloni dai capelli che aveva in testa e li piantò nel cuscino, in modo che restassero con la punta in su, ma non si vedessero spuntare. " Cosi imparerà a starsene affacciata al davanzale! "
La ragazza tornò con l'acqua e zucchero, e lei disse:
- Uh, non ho più sete, bevitela tu, eh piccina! Io devo tornare da tuo padre. Hai bisogno di niente, no? Addio, allora. - e ne andò.
Appena la carrozza della Regina si fu allontanata, la ragazza girò in fretta le pagine del libro, il Principe si trasformò in canarino, volò alla finestra e piombò come una freccia sul cuscino. Subito si levò un altissimo pigolio di dolore.
Le piume gialle s'erano tinte di sangue, il canarino s'era conficcato gli spilloni nel petto.
Si sollevò con un disperato annaspare d'ali, si affidò al vento, calò giù a incerti giri e si posò sul suolo ad ali aperte.
La Principessa spaventata, senza ancora rendersi ben conto di cos'era successo, girò velocemente i fogli all'incontrario sperando che a ridargli forma umana gli sarebbero scomparse le trafitture, ma, ahimè, il Principe riapparve grondante sangue da profonde ferite che gli squarciavano sul petto il vestito giallo, e cosi giaceva riverso attorniato dai suoi cani.
All'ululare dei cani sopraggiunsero gli altri cacciatori, lo soccorsero e lo portarono via su una lettiga di rami, senza nemmeno alzare gli occhi alla finestra della sua innamorata ancora atterrita di dolore e di spavento.
Portato alla sua reggia, il principe non accennava a guarire, e i dottori non sapevano portargli alcun sollievo. Le ferite non si chiudevano e continuavano a dolergli.
Il Re suo padre mise bandi a tutti gli angoli delle strade, promettendo tesori a chi sapesse il modo di guarirlo; ma non si trovava nessuno.
La Principessa intanto si struggeva di non poter raggiungere l'innamorato. Si mise a tagliare le lenzuola a strisce sottili e ad annodarle insieme in modo da farne una fune lunga lunga, e con questa fune una notte si calò giù dall'altissima torre.
Prese a camminare per il sentiero dei cacciatori. Ma tra il buio fitto e gli urli dei lupi, pensò che era meglio aspettare il mattino e trovata una vecchia quercia dal tronco cavo entrò e s'accoccolò là dentro, addormentandosi subito, stanca morta com'era.
Si svegliò mentre era ancora notte fonda: le pareva d'aver sentito un fischio. Tese l'orecchio e sentì un altro fischio, poi un terzo e un quarto. E vide quattro fiammelle di candela che s'avvicinavano.
Erano quattro Masche, che venivano dalle quattro parti del mondo e s'erano date convegno sotto quell'albero. Da una spaccatura del tronco la Principessa, non vista, spiava le quattro vecchie con le candele in mano, che si facevano grandi feste e sghignazzavano: - Uah! Uah! Uah!
Accesero un falò ai piedi dell'albero e si sedettero a scaldarsi e a far arrostire un paio di pipistrelli per cena. Quand'ebbero ben mangiato, cominciarono a domandarsi cosa avevano visto di bello nel mondo.
- Io ho visto il Sultano dei Turchi che s'è comprato venti mogli nuove.
-Io ho visto l'Imperatore dei Cinesi che s'è fatto crescere il codino di tre metri.
- Io ho visto il Re dei Cannibali che s'è mangiato per sbaglio il Ciambellano.
- Io ho visto il Re qui vicino che ha il figlio ammalato e nessuno sa il rimedio perché lo so solo io.
- E qual è? - chiesero le altre Masche.
- Nella sua stanza c'è una piastrella che balla, basta alzare la piastrella e si trova un'ampolla, nell'ampolla c'è un unguento che gli farebbe sparire tutte le ferite.
La Principessa da dentro all'albero stava per lanciare un grido di gioia: dovette mordersi un dito per tacere.
Le Masche ormai s'eran dette tutto quel che avevano da dirsi e presero ognuna per la sua strada.

La Principessa saltò fuori dall'albero, e alla luce dell'alba si mise in marcia verso la città. Alla prima bottega di rigattiere comprò una vecchia roba da dottore, e un paio d'occhiali, e andò a bussare a palazzo reale. I domestici, vedendo quel dottorino male in arnese non volevano lasciarlo entrare ma il Re disse:
-Tanto, male al mio povero figliolo non gliene può fare, perché peggio di come sta è impossibile. Fate provare anche a questo qui -
Il finto medico chiese d'essere lasciato solo col malato e gli fu concesso.
Quando fu al capezzale dell'innamorato che gemeva privo di conoscenza nel suo letto, la Principessa voleva scoppiare in lagrime e coprirlo di baci, ma si trattenne, perché doveva in fretta seguire le prescrizioni della Masca. Si mise a camminare in lungo e in largo nella stanza finché non trovò una piastrella che ballava. La sollevò, e trovò un'ampollina piena d'unguento. Con questo unguento si mise a fregare le ferite del Principe, e bastava metterci sopra la mano unta d'unguento e la ferita spariva.
Piena di contentezza, chiamò il Re, e il Re vide il figlio senza più ferite, col viso tornato colorito, che dormiva tranquillo.
- Chiedetemi quel che volete, dottore, - disse il Re. Tutte le ricchezze del tesoro dello Stato sono per voi.
- Non voglio danari, - disse il dottore, - datemi solo lo scudo del Principe con lo stemma della famiglia, la bandiera del Principe e il suo giubbetto giallo, quello trafitto e insanguinato -
E avuti questi tre oggetti se ne andò.
Dopo tre giorni, il figlio del Re era di nuovo a caccia. Passò sotto il castello in mezzo al bosco ma non levò neppure gli occhi alla finestra della Principessa. Lei prese subito il libro, lo sfogliò, e il Principe, sebbene tutto contrariato, fu obbligato a trasformarsi in canarino.
Volò nella stanza e la Principessa lo fece ritrasformare in uomo.
- Lasciami andare, - disse lui, - non ti basta avermi fatto trafiggere dai tuoi spilloni e avermI causato tante sofferenze? - Infatti il Principe aveva perso ogni amore per la ragazza, pensando che lei fosse la causa della sua disgrazia.
La ragazza era lì lì per svenire. - Ma io t'ho salvato! Sono io che t'ho guarito!
- Non è vero, - disse il Principe. - Chi m'ha salvato è un medico forestiero, che non ha voluto altra ricompensa che il mio stemma, la mia bandiera e il mio giubbetto insanguinato!
- Ecco il tuo stemma, ecco la tua bandiera, ed ecco il tuo giubbetto! Ero io quel medico! Gli spilli erano una crudeltà della mia matrigna!
Il Principe la guardò un momento negli occhi stupefatto. Mai gli era parsa cosi bella. Cadde ai suoi piedi chiedendole perdono, e dicendole tutta la tua gratitudine e il suo amore.
La sera stessa disse a suo padre che voleva sposare la ragazza del castello nel bosco.
- Tu devi sposar solo la figlia d'un Re o d'un Imperatore, - disse il Padre.
- Sposo la donna che m'ha salvato la vita.
E si prepararono le nozze, con l'invito per tutti i Re e le Regine dei dintorni. Venne anche il Re padre della Principessa, senza saper nulla.
Quando vide venir avanti la sposa: - Figlia mia! - esclamò.
- Come? - disse il Re padrone di casa. - La sposa di mio figlio è vostra figlia! E perché non ce l'ha detto?
- Perché, - disse la sposa, - non mi considero più figlia d'un uomo che m'ha lasciato imprigionare dalla mia matrigna, - e puntò l'indice contro la Regina.
I1 padre, a sentire tutte le disgrazie della figlia, fu preso dalla commozione per lei e dallo sdegno per la sua perfida moglie. E non aspettò nemmeno d'esser tornato a casa per farla arrestare.
Cosi le nozze furono celebrate con soddisfazione e letizia di tutti, tranne che di quella sciagurata.

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Sole Luna e Talia

Post n°709 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un gran signore, che quando gli nacque una figlia le diede nome Talia e chiamò tutti i sapienti e gli indovini del reame perché predicessero il suo destino. Loro studiarono le stelle e si consultarono a lungo, poi dissero:
"Talia sarà bella e piena di grazie, ma rischia di morire a causa di una lisca di lino".
Sperando di evitare la disgrazia, quel signore comandò che in casa sua nessuno tenesse o portasse più lino, e nemmeno canapa, né qualunque cosa gli somigliasse.
Ma quando Talia era già una fanciulla, un giorno che stava alla finestra vide passare una vecchia che filava; e a lei che non aveva mai visto una conocchia né un fuso piacque moltissimo come rotolava. Le venne un desiderio tanto grande di vederlo da vicino che invitò la vecchia a salire su da lei, e presa in mano la rocca provò a tirare il filo, ma una lisca di lino le si infilò sotto l'unghia e nello stesso istante cadde a terra morta, mentre la vecchia vedendo cos'era successo prese le scale e andò via di corsa.
Il povero padre di fronte a questa disgrazia pianse a calde lacrime e si sentì inondato dalla tristezza. Allora lasciò la bellissima Talia nel suo palazzo di campagna seduta su una poltrona di velluto, sotto un baldacchino di broccato, poi chiuse tutte le porte e abbandonò per sempre quel palazzo, sperando di dimenticare la disgrazia e di superare il terribile dolore che gli aveva causato.
Dopo tanto tempo passò un re che andava a caccia, e gli sfuggì il falcone che volò nel palazzo da una finestra aperta, e non tornava più al suo richiamo. Allora il re fece bussare al portone, credendo che ci abitasse qualcuno, ma nessuno rispondeva, così si fece portare una scala da vendemmiatore e volle andare a vedere cosa c'era in quel palazzo.
Girò per tutte le stanze e rimase pieno di meraviglia perché non vedeva anima viva, finalmente aprì la porta della camera dov'era Talia sotto l'incantesimo, e credendo che fosse addormentata la chiamò, ma lei non rispondeva, allora provò a rianimare la bellissima fanciulla pensando che si fosse sentita male, ma inutilmente; infine, infiammato dalle sue bellezze, la prese fra le braccia e l'adagiò sul letto, la baciò e le diede tutto il suo amore. Poi lasciandola là distesa fece ritorno al suo palazzo, e per un bel po' di tempo non ripensò più a quello che era successo.

Talia dopo nove mesi partorì due creature, un maschio e una femmina, splendenti di bellezza come oro e gemme, che furono curati da due fate apparse nel palazzo, che li attaccarono ai seni della mamma.
Un giorno che i gemelli volevano poppare, non trovando il capezzolo presero in bocca il dito di Talia, e tanto succhiarono che fecero uscire la lisca di lino.
Allora a Talia parve di svegliarsi da un lunghissimo sonno, poi vide accanto a sé quelle due bellissime creature, tutta contenta diede loro il suo latte, e li teneva cari come la sua stessa vita.
Talia non capiva cosa le fosse successo, si trovava tutta sola in quel palazzo con i suoi gemelli, mentre le servivano da mangiare senza che potesse vedere chi glielo portava, quando il re si ricordò della bella addormentata.
Tornò a caccia, e arrivato davanti al palazzo entrò per vederla, e siccome la trovò risvegliata con quei due bambolottini così belli e gioiosi, fu felice come non era mai stato prima.
Raccontò a Talia chi era e come erano andate le cose, così si conobbero e si vollero subito bene, e passarono insieme un po' di giorni. Poi la lasciò sola, promettendole che sarebbe tornato per portarla con sé, e andò nel suo reame, dove nominava di continuo Talia e i suoi figli, tanto che mentre mangiava aveva sulle labbra Talia, Sole e Luna, così aveva chiamato i bambini, e non si svegliava né si addormentava se non pronunciando il loro nome.
La regina, vedendo che era stato tanto tempo lontano per la caccia, aveva avuto qualche sospetto, e sentendo che non faceva altro che chiamare Talia, Sole e Luna, divenne furiosa per la gelosia. Chiamò il suo segretario e gli disse:
"Stammi a sentire, bello mio, non ti conviene rifiutare quello che ti chiedo, perché se mi dici di chi è innamorato il re ti faccio arricchire, e se me lo nascondi ti faccio ammazzare".
Il segretario da una parte era impaurito, dall'altra avido di ricchezza e, dimenticandosi di aver mai sentito parlare di onore, di giustizia o di fedeltà al re, le raccontò tutto quello che voleva.
Allora la regina gli ordinò di andare da Talia a dirle che il re voleva i bambini a palazzo.
Talia ne fu contenta e mandò Sole e Luna col segretario, che li mise nelle mani della regina, e lei, che era più velenosa di una vipera, comandò al cuoco di scannarli e cucinarli in varie salse per farli mangiare al re.
Ma il cuoco per fortuna era di cuore tenero, e vedendo quei due bei bambolottini ne ebbe pietà, così, dopo averli affidati a sua moglie perché ne avesse cura, preparò al loro posto due capretti secondo cento ricette.
Quando arrivò il re, la regina tutta soddisfatta fece servire in tavola, e mentre il re mangiava di gusto, esclamando:
"Oh, com'è buono questo! Che squisitezza quest'altro!", lei ogni volta gli diceva:
"Mangia, che mangi la carne tua!".
Il re a un certo si rannuvolò e le disse: "Lo so che mangio la mia carne, perché io sono il re ed è tutta roba mia, mentre di tuo qui non c'è nulla";
poi si alzò e andò a fare una girata in campagna per farsi passare la rabbia.

Ma alla regina ancora non bastava quello che aveva fatto, e così ordinò al segretario di andare a chiamare Talia con la scusa che il re l'aspettava.
Talia contenta si preparò e partì subito, piena di desiderio di vedere il re, e non sapeva che andava in bocca alla sua nemica.
Appena arrivò davanti alla regina, questa con una smorfia crudele e con voce perfida e beffarda le disse:
"Ah! Ah! Ben arrivata signorina sgualdrinella! Sei tu allora la cagnetta che ha abbindolato il re, tu sei la smorfiosa che voleva tenerlo tutto per sé! E' da te madamigella porcellina che passa tanto tempo! Sei arrivata al tuo tribunale, perché ora io ti darò la punizione che ti meriti!".
Talia cominciò a chiedere scusa, dicendo che non era colpa sua, che il re aveva preso le sue proprietà mentre lei era incantata, ma la regina non volle ascoltarla.
Accese il grande rogo che aveva fatto preparare nel cortile del palazzo e diede ordine che ce la mettessero a bruciare.
Vedendo che le cose si mettevano male, Talia si inginocchiò davanti alla regina e le disse:
"Ti prego, dammi almeno il tempo di levarmi questi bei vestiti che indosso".
Non per pietà, ma perché le piacque l'idea di prendersi quegli abiti ricamati d'oro e di perle, la regina le rispose:
"E va bene, spogliati".
Allora Talia cominciò a spogliarsi lentamente, e ad ogni parte del suo abito che si toglieva gettava un grido, così, quando si era già levata il mantello, la giacchina e la gonnella, al momento di levarsi la sottoveste gettò l'ultimo strillo, e la presero e la stavano mettendo sul rogo dove la regina voleva trasformarla in un mucchietto di cenere, quando accorse il re, e trovandosi di fronte a quella scena ordinò che nessuno si muovesse. Volle sapere cos'era successo, e quando chiese dei suoi bambini, la regina crudele gli disse:
"A questo non metterai rimedio, perché te li ho fatti mangiare e ti sono anche piaciuti tanto".
Il re credette d'impazzire, e piangeva e gridava:
"Poveri agnellini miei, allora sono stato io il vostro lupo mannaro! Com'è possibile che non abbia riconosciuto le vostre ciccine che ho tanto accarezzato? E tu, perfida strega rinnegata, come hai potuto essere più feroce delle bestie selvatiche? Ma io non ti concederò il tempo di chiedere perdono per i tuoi peccati!".
E diede ordine che la regina fosse bruciata sul rogo che aveva fatto preparare per Talia, con lei fece bruciare anche il segretario suo complice e comandò che bruciassero anche il cuoco che aveva tagliuzzato e cucinato i suoi bambini. Ma il cuoco si buttò ai suoi piedi e disse:
"Signore, sarebbe un rogo la ricompensa per il servizio che ti ho reso? Così mi fai festa, mentre arrostisco legato a un palo? E' questa la buona posizione che mi fai avere, in gratella con la regina? Mi aspettavo qualcosa di meglio per aver salvato le tue creature disobbedendo a quel cuore di pietra che voleva fartele mangiare!"
A sentire queste parole il re rimase attonito, e pensava che fosse un sogno, perché non riusciva a credere a quello che gli dicevano le sue orecchie. Poi si rivolse al cuoco e gli disse:
"Se è vero che hai salvato i miei bambini, sta sicuro che ti farò smettere di girare lo spiedo, e ti darò il potere di girare il mio cuore, perché voglio accontentarti in tutti i tuoi desideri, e ti darò un premio tanto grande che sarai l'uomo più felice del mondo!".
Mentre il re diceva queste parole, la moglie del cuoco che aveva visto suo marito in pericolo portò Sole e Luna, e il re li abbracciò insieme a Talia, e piangendo di gioia non riusciva a saziarsi di baciarli e accarezzarli.
Dopo aver assegnato una ricca rendita al cuoco e averlo nominato primo gentiluomo del palazzo, il re sposò Talia, che visse sempre felice e contenta col marito e i figli, dopo aver sperimentato che anche dormendo si può aver fortuna.


illustrazione di Warwick Goble

dal Pentamerone di Gianbattista Basile

 
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Il mondo sottoterra

Post n°708 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un omo che aveva tre figlioli. Si sa bene che più che vecchi non si campa; quest'omo, prima di morire, chiama i figlioli al letto e gli dice:
"Sentite ragazzi. Vedete, io sono per morire: mi raccomando che voi stiate in pace. E questo po' di roba, fatene le parti uguali".
Dunque questo viene a morte, e non se ne parla più; e rimane questi tre figlioli poeri.
"Come si deve fare? - dicono - Si venderà questo po' di roba e ci si metterà in viaggio per vedere se si fa fortuna".
Vendon la roba e poi vanno via. Quando sono per la strada camminan quanton posson camminare, e si mettono in un'osteria a mangiar qualcosa, perché avevan fame, sapete? Poi si rimettono in viaggio e cammina cammina si trovano sur una bella piazza. E si voltano e vedono una lapide che ci diceva: Il Mondo sottoterra.
E questi ragazzi trovano una casa di un contadino e picchiano. Dice:
"Ci dareste un corbello, una fune e un campanello? Or ora noi vi si riporta".
Questi contadini gnene dànno e loro si mettono ad alzà questa lapide. L'alzano.
Dice il maggiore: "Entrerò io in questo corbello. Quando sentite ch'io sòno tiratemi su; gli è segno che non trovo il fondo".
Più che gli andava in giù, più bujo, più bujo. Sòna il campanello e vien su.
Quell'altro fratello: "Ma perché? - dice - Ora, ora, che vado io!". Entra lui e va giù.
Anche codesto, quando gli è a un dato punto, sòna e ritorna in su: gua' non trovava fondo!
Dice il minore: "Anderò io. O che si mora di fame, o che si mora nell'andare giù, gli è la medesima: qualcosa sarà di me".
E così entra nel corbello e va giù, giù, giù: sino in fondo. E vede un cortile. Guarda: di qui morti, di qua morti, tutti morti attaccati.
In mentre gli è lì a guardare i morti, sente dire: "Che fai tu costi?".
Dice, poerino: "Siamo venuti a cercar fortuna. Siamo tre figlioli che ci è morto il babbo. Siamo in estremo bisogno".
"Ah poerino! - dice - tu non lo sai? Tu non vedi come sono questi morti? Come sei venuto te tu sarai come loro".
"Perché?"
"Ora ti dirò il perché. Abbi da sapere che ci è un gigante che tiene una Regina tutta incatenata. Se non ti riescisse d'ammazzarlo, tu l'avresti pur troppo la sorte. Tieni! - dice - Questo è un mazzo di chiavi e questa è una falce. Va avanti. Ci sono sette porte da aprire da questo gigante. Se tu sei bravo e lesto con questa falce di tagliargli la testa, tu sei un signore". E sparisce il vecchio.
Questo povero giovane comincia ad aprire una porta, ne apre un'altra, infino a sei. Quando gli è all'ultima sente uno scatenio, un rumore d'armi: era il gigante, che sentendo avvicinare il nemico, arrotava le armi. E lui un timor pànico, non sapeva neppure cosa si fare. Si fa coraggio, apre l'uscio, e con la falce lo piglia così alla gola e il gigante casca a terra.
Appena cascato a terra, un urlìo: "Eccolo il nostro salvatore! eccolo il nostro liberatore!".
Va dietro alle voci e trova la porta in dove era incatenata la Regina. Apre e vede questa disgraziata poerina lì più morta che viva, piena di catene. Gli apre le catene, gli leva tutte quelle che vede.
Dice: "Voi sarete il mio sposo, voi mi avete salvata la vita".
Prendono tutte le ricchezze che c'eran lì: e mettono tanta roba nel corbello; sonano e i fratelli tiran su, e veggono questa gran ricchezza di quattrini, d'oro, di tutto. Ricalano il corbello: per quattro volte il corbello fu pieno di queste gran ricchezze.
Finalmente il fratello minore mette la sposa nel corbello, perché la tirin su.
I fratelli che veggono tutta questa gran ricchezza e questa bella donna, che fanno? Buttan giù la lapide, vanno a riportare il corbello e la fune e si rimettono in viaggio con la Regina e i tesori.
Il fratello minore sta lì ad aspettare il corbello per venir su: l'aspetta ancora.
Sente l'istessa voce del vecchio che s'affaccia: "Vedi tu, se tu siei stato tradito? Ora tu siè' morto: che vuoi tu fare? Non c'è altro scampo - dice - ché alle dodici viene il drago. O senti: li vedi questi morti? Mettigline tre o quattro costì; ed empigli un bel bigotto d'acqua".
Questo ragazzo obbedisce subito a quel che dice il vecchio. "E quando tu senti che gli ha mangiato tutti questi morti, e gli ha bevuto, lui s'addormenta. Vai adagio, adagio; attaccati al collo. Lui va via e ti porta via da questo posto".
E questo vecchio si vole che fosse l'anima di suo padre, de' tre fratelli.
Questo ragazzo gli fa tutta l'obbedienza; prepara tutta la roba come aveva detto e si mette da sparte d'un cantuccio, niscosto. Quando gli è le dodici, eccoti il drago, bruummatatapum! Si mette a mangiare tutti questi morti; beve; e poi si mette a dormire saporitamente. Questo ragazzo adagio adagio si attacca al collo, e il drago che sente e non sa che sia, via fori della buca. E lui, gli riesce di attaccarsi ad un albero.
Dunque la mattina, sapete bene, i contadini vengon giù presto, all'alba; quando sono a questo posto, dice: "Oh c'è gente sopra quegli alberi".
Dicono gli altri: "Eh, c'è davvero, io vo' a casa".
E tornano tutti addietro. Vanno a casa; e prende la falce, prende la vanga:
"Perché - dice - se è qualche traditore, in tanti si ammazza".
Aspettan che si faccia lume e veggon che gli è un omo davvero:
"Che fai costassù?".
"Ahn! - dice - sono un povero disgraziato! Èramo tre fratelli: siamo venuti per far fortuna...", e gli fa tutta la spiegazione.
Dicono: "Questo de' esser quello! Io ho inteso che avete trovata la ricchezza?".
"Sì, appunto".
Dicono: "O non sapete che a mezzogiorno uno dei vostri fratelli gli è sposo della Regina che voi avete liberata?".
Gli metton delle funi, s'imbracá e vien giù questo poero disgraziato.
"Noi - dicono i contadini - vi accompagneremo sino alla casa de' vostri fratelli, poerino!".
Vanno alla casa e picchiano. I traditori s'affacciano e veggono che gliè il fratello.
"Che nessuno apra! che nessuno apra!".
Picchia picchia e nessuno apriva. Che ti fanno i contadini? Vanno alla giustizia e gli raccontano il caso. La giustizia picchia; e nessun risponde. E buttan giù la porta, oh lo credo, io!
"Oh traditori iniqui - dice - ora per voi è finito il bene stare!".
Li ammanettano, gli legano le braccia e li portano al bargello.
"E voi sarete lo sposo - dice il giudice al fratello minore. E lo sposalizio seguirà a mezzogiorno con la vostra sposa".
Ah potete credere la sposa quando lo vedde può immaginarsi! il suo liberatore! che gioja ch'ella ebbe. Segue lo sposalizio, com'era fissato; e all'ora del pranzo i fratelli furono impiccati tutti e due. Questo fu il pago che ebbero.
E così loro, gli sposi, senza più paura e timore se ne vissero insieme in pace.
E così questa novella è finita.
O non è bella?


da "la novelleja fiorentina" di Vittorio Imbriani

 
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Le tre sorelle

Post n°707 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una mamma che aveva tre figlie e, a causa della grande povertà che con tante disgrazie e rovesci di fortuna era entrata in casa sua, le mandava in giro a chiedere l'elemosina per sopravvivere.
Una mattina aveva raccattato qualche foglia di cavolo buttata dalla finestra dal cuoco di un palazzo, e volendo cuocerle chiese alle sue figlie di andarle a prenderle un po' d'acqua alla fontana.
Loro si misero a litigare, la prima diceva che doveva andarci la mezzana, e la mezzana rispondeva che questa volta toccava alla prima, tanto che alla fine la povera mamma disse:
"Vorrà dire che ci penserò io", e prese la brocca per andarci lei, anche se era tanto vecchia che si reggeva male sulle gambe.
Ma Alma, che era la più piccina, disse:
"Dammela a me mammina, che anche se ho poca forza voglio risparmiarti questo lavoro".
Si prese la brocca e andò fuori dalla città, dove c'era una fontana intorno alla quale sbocciavano tanti fiori variopinti, e mentre riempiva la brocca apparve uno schiavo, che le disse:
"Mia bella fanciulla, se tu volessi venire con me a una grotta che è poco distante, avresti tanti bei regali".
Alma, che sognava sempre di ricevere un regalo, gli rispose:
"Fammi portare quest'acqua alla mia mamma che mi aspetta, e poi torno qui".
E, riportata a casa la brocca, con la scusa di andare a cercare qualche scheggia di legno per il fuoco, tornò alla fontana, dove lo schiavo l'aveva aspettata, e s'incamminò con lui, che facendola passare dentro a una grotta di tufo ornata d'edera e capelvenere la portò in un bellissimo palazzo sotterraneo, tutto sfavillante d'oro, dove fu subito apparecchiata per lei una tavola meravigliosa; nello stesso tempo apparvero due belle cameriere, che la spogliarono dei poveri stracci che aveva addosso e la vestirono come una principessa. E a tarda sera la misero in un letto tutto ricamato di perle e d'oro dove, appena si spensero le candele, qualcuno si coricò accanto a lei.
Successe la stessa cosa per alcuni giorni, quando a un certo punto la fanciulla sentì un gran desiderio di vedere la mamma, e lo disse allo schiavo, che andò in una stanza a parlare con qualcuno, e tornato con una grande borsa di monete d'oro le disse:
"Questa borsa portala alla tua mamma, ma non scordarti nulla lungo il cammino, e torna presto, senza dire a nessuno da dove sei venuta né dove sei stata".

Quando Alma andò a casa le sue sorelle vedendola così bella, ben vestita e piena di gioie, sentirono crescere un'invidia che quasi le strozzava. E quando Alma voleva andare via, la mamma e le sorelle la volevano accompagnare, ma lei, rifiutando la compagnia, tornò al palazzo entrando dalla stessa grotta.
Passò tranquilla un po' di mesi nello stesso modo, ma a un certo punto le tornò la voglia di vedere la mamma, e lo schiavo consultandosi con qualcuno le permise di andare e le diede un'altra grande borsa di monete d'oro ricordandole di tornare presto e che non doveva far sapere a nessuno da dove veniva e dove stava.
Dopo che la stessa cosa si fu ripetuta tre o quattro volte, aumentando ad ogni visita l'invidia delle sorelle, alla fine queste brutte arpie si diedero tanto da fare che seppero da un'orca tutto quello che era successo, e quando Alma tornò da loro le dissero:
"Anche se tu non hai voluto raccontarci nulla della fortuna che ti è toccata, noi sappiamo tutto: ogni notte, siccome ti fanno bere del vino col sonnifero, non puoi accorgerti che dorme con te un giovane bellissimo. Ma non ti potrai mai godere tutta la felicità se non ti decidi a seguire il nostro consiglio. In fondo siamo noi le tue sorelle, e chi può volerti più bene? Noi vogliamo che tu stia ancora meglio e che sia ancora più contenta di come sei. E allora, quando la sera vai a dormire e lo schiavo ti porge il bicchiere, tu fai finta di girarti per prendere il tovagliolo e mentre non ti vede butti via il vino, che così puoi stare sveglia tutta la notte. E appena avrai visto il tuo sposo addormentato apri questo catenaccio, perché l'incantesimo deve rompersi anche se lui non vuole, e tu diventerai la signora più felice del mondo".
La povera Alma, che non sapeva che le sorelle parlavano come colombine ma erano delle serpi velenose, credette alle loro parole e, preso il catenaccio, tornò al solito palazzo passando dalla grotta. Poi, quando venne la notte, fece come le avevano insegnato quelle bugiarde, e appena tutto fu silenzioso e tranquillo con l'acciarino accese una candela e vide steso accanto a lei un miracolo di bellezza, un giovane che avrebbe incantato chiunque lo avesse visto. Innamorata del bellissimo sposo, disse:
"Giuro che ora non ti lascio più scappare!"
Preso il catenaccio lo aprì, così vide un gruppo di donne che portavano sulla testa tante belle matasse di filo. Quando una di loro lasciò cadere una matassa, Alma, che era tanto gentile, non ricordandosi più dov'era, le gridò:
"Signora, raccogli la tua matassa!". A quello strillo il giovane si svegliò, e gli dispiacque tanto essere stato scoperto che immediatamente chiamò lo schiavo, fece rimettere ad Alma gli stracci con i quali era arrivata e la mandò via anche se era incinta. Lei, pallida come dopo una terribile malattia, tornò dalle sorelle, ma quelle crudeli la mandarono via con sgarbo e brutte parole.
Allora si mise a chiedere l'elemosina vagando per il mondo, finché poverina, dopo mille patimenti, quando era vicina a partorire, arrivò alla città di Torrelunga, e bussò al palazzo reale chiedendo che la lasciassero entrare per riposare anche su un po' di paglia. Una damigella di corte che era buona l'accolse gentilmente, e venuto il tempo Alma partorì un bambino maschio tanto bello che era una meraviglia a guardarlo.
La prima notte dopo la sua nascita, mentre tutti gli altri dormivano, entrò un bellissimo giovane in quella stanza, prese in braccio il piccino e cullandolo disse:

O mio bambino, mio bel bambino,
se lo sapesse la regina
ti laverebbe nella conca d'oro
ti fascerebbe con le fasce d'oro:
e se il gallo non canterà
mai più nessuno ci separerà.


E dopo queste parole, al primo canto del gallo, sparì come se fosse stato d'argento vivo.
La damigella aveva sentito tutto, e siccome quel bellissimo giovane veniva ogni notte, diceva quelle parole e spariva al primo canto del gallo, andò a raccontarlo alla regina, che appena fu giorno fece un crudele bando, che ordinava di tirare il collo a tutti i galletti di Torrelunga, rendendo vedove in una volta sola tante povere galline.
La regina andò in quella stanza ed era ben sveglia quando arrivò il giovane, che come ogni notte, cullando il bambino fra le sue braccia, disse:

O mio bambino, mio bel bambino,
se lo sapesse la regina
ti laverebbe nella conca d'oro
ti fascerebbe con le fasce d'oro:
e se il gallo non canterà
mai più nessuno ci separerà.


La regina riconobbe suo figlio, e all'alba corse ad abbracciarlo, liberandolo dalla maledizione di un'orca: che vagasse per il mondo finché la sua mamma non lo avesse abbracciato all'inizio di un giorno in cui nessun gallo avrebbe cantato.
La regina era felice, e dopo aver saputo tutta la storia celebrò con grandi feste le nozze di suo figlio con Alma, che si trovò sposata con un principe meraviglioso.
E le sorelle, quando seppero che aveva sposato il principe, con una gran faccia tosta vennero a trovarla, ma ebbero quello che si meritavano, perché nessuno volle farle entrare, così sempre più divorate dall'astio si accorsero che dall'invidia non avevano ricavato un accidente.


di Gianbattista Basile

 
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Itre cedri

Post n°706 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta, tanto e tanto tempo fa, nella ricca città di Torrelunga, un re con un unico figlio, di nome Vincenzo, che era tutta la sua speranza. Non vedeva l'ora che si sposasse per dare un erede al trono, ma il principe era un tipo così solitario e selvaggio, che quando il re suo padre gli diceva di sposarsi scuoteva la testa, e se ne andava a caccia per una settimana.
Accorgendosi di diventare vecchio, il povero re tentò in tutti i modi di convincere suo figlio a cambiare idea, ma Francesco non si lasciò commuovere né dal suo dolore, né dai consiglieri che gli spiegavano la necessità di assicurare un erede al trono, né dalle preghiere dei suoi sudditi.
Ma un giorno, quando ormai il vecchio re aveva perso tutte le speranze, accadde che, mentre erano riuniti intorno alla tavola, il principe pensava alle cornacchie nere che passavano in cielo e tagliava a metà una ricotta: si tagliò un dito e due gocce di sangue, cadendo sulla ricotta, fecero un abbinamento di colori così bello e pieno di grazia che se ne innamorò. Decise di trovarsi una sposa bianca e rossa come quella ricotta colorata dal suo sangue, e disse al re:
"Padre mio, se non riesco a trovare una fanciulla così per farne la mia regina, morirò di dolore. Per nessuna mi è mai battuto il cuore, e ora lo sento correre per il desiderio di una bellezza che abbia il colore del mio sangue. Fammi partire, la cercherò fino ai confini del mondo, e quando l'avrò trovata ritornerò".
Il vecchio re si sentì mancare il fiato, e con un fil di voce gli disse:
"Figlio mio adorato, speranza della mia vita, che pazzia è questa? Non hai voluto sposarti per darmi un erede al trono, e ora per sposarti vuoi vedermi morire di dolore? Non abbandonarmi, non lasciare la tua casa, lascia questa pazzia, rimani in questo reame che senza di te andrà in malora!".
Ma era come se parlasse al vento, e quando vide che non c'era modo di farlo rinunciare al suo desiderio, il re gli diede una borsa di monete d'oro, qualche servitore, e la sua benedizione. Da un balconcino del suo palazzo il re guardò Francesco che si allontanava, lo salutò finché riuscì a vederlo col canocchiale, e poi si mise a piangere a vite tagliata.
Il principe Francesco cavalcava e trottava per boschi e per campagne, per colline e per vallate, attraversava pianure e saliva su alte montagne, vedeva paesi e città e conosceva gente diversa, tenendo gli occhi ben aperti per trovare la fanciulla dalla pelle bianca come la ricotta e rossa come il suo sangue, ma inutilmente. Dopo alcuni mesi di viaggio, arrivò a una lontanissima città di mare, dove si fermarono i suoi servitori, perché si sentivano male, mentre il principe si imbarcò su un naviglio genovese, e navigò per tanto tempo. Viaggiò per i mari e per gli oceani, cercando in tutti i reami, le regioni e le province, guardando in ogni piazza, in ogni palazzo, in ogni villa, in ogni casupola, la fanciulla di cui portava sempre l'immagine nel cuore.
E tanto navigò e viaggiò che arrivò finalmente all'Isola delle Orche, dove, appena la nave gettò l'ancora, il principe Francesco scese a terra e incontrò una vecchia, secca secca e brutta brutta.
Il principe, dopo averla salutata gentilmente, le spiegò dopo quale lunghissima avventura era arrivato all'isola, e la vecchia rimase incantata, sentendo come si era innamorato perdutamente di una fanciulla che non aveva mai visto, ed era andato a cercarla per tutte le terre e per tutti i mari, affrontando tanti rischi e tante fatiche.
Allora disse a Francesco: "Figlio mio, fila via, scappa, perché se dai nell'occhio a tre figli miei, che sono golosi di carne umana, la tua vita non varrà un soldo: tutta la tua avventura avrà fine nella loro pancia, dopo che ti avranno arrostito! ma se ti metti a correre come una lepre, senza metter tempo in mezzo, un po' più in là troverai la tua fortuna".
Rabbrividendo dalla paura il principe Francesco seguì il consiglio della vecchia, e corse senza fermarsi finché non arrivò in un altro paese, dove trovò una vecchia ancora più vecchia della prima. Appena le ebbe raccontato la sua storia per filo e per segno, la seconda vecchia gli disse:
"Scappa a gambe levate, se non vuoi diventare lo spuntino dei miei figli orchetti, ma corri, perché la tua situazione è proprio nera, e un po' più in là troverai la tua fortuna".
Il povero principe si mise a correre come se avesse il diavolo alle spalle, e dopo un po' di tempo arrivò da un'altra vecchia, che stava a sedere su una ruota con un paniere infilato nel braccio, pieno di pastine e confetti. Dava da mangiare queste leccornie a un branco di asini, che poi saltavano in riva a un fiume e tiravano calci a dei poveri cigni.
Francesco, dopo aver cortesemente salutato e riverito la vecchia con tanti inchini, le raccontò la storia del suo lungo viaggio, e la terza vecchia, consolandolo con buone parole, gli diede una squisita colazione, e Francesco si leccò anche le dita. Quando si alzò da tavola, la vecchia gli diede tre cedri che parevano appena colti dall'albero, e gli diede anche un coltello, dicendo:
"Puoi tornare nel tuo reame, perché ormai la tua ricerca è finita: hai quello che cercavi. Va', e quando sarai vicino a Fiumefreddo fermati alla prima fonte che trovi e taglia un cedro, ne verrà fuori una fata che ti dirà: 'Dammi da bere!'. Dovrai essere sveltissimo con l'acqua, sennò la fata scomparirà come l'argento vivo. Se non sarai abbastanza svelto la prima volta, aprirai un altro cedro, e se non ce la farai nemmeno con la seconda fata prova con l'ultimo cedro, ma bada di essere prontissimo con la fanciulla perché non ti sfugga fra le dita: solo se riuscirai a dissetarla in tempo avrai la sposa del tuo cuore".
Il principe tutto contento baciò cento volte la mano grinzosa e pelosa della vecchia, e dopo averla salutata lasciò l'Isola delle Orche, navigò per l'oceano e per il mare e finalmente approdò a un porto che era distante un giorno di cammino dal reame di Torrelunga.

A un certo punto si trovò in un bellissimo boschetto, dove gli alberi erano così fitti che tenevano sempre all'ombra i prati e trovò una fonte dalle acque così fresche che invitavano a bere: si fermò, prese in mano il coltello e cominciò a tagliare il primo cedro.
In un batter d'occhio apparve una fanciulla bellissima, bianca come la ricotta e rossa come il sangue, che disse:
"Dammi da bere!".
Francesco rimase a bocca aperta, incantato dalla bellezza della fata, non fu tanto svelto a darle l'acqua, e quasi nello stesso istante in cui era apparsa la fanciulla scomparve. Il principe si sentì come se lo avessero bastonato: come sa chi, dopo aver tanto desiderato e cercato una cosa, la perde proprio quando la sfiora con le dita.
Tagliando il secondo cedro gli successe la stessa cosa, e sentì lo stesso colpo. Mentre dai suoi occhi sgorgavano tante lacrime che anche lui pareva una fontana, diceva: "Accidenti a me, sono proprio un disgraziato! due volte me la sono fatta scappare, due volte, come se fossi senza mani! dovrei correre come una lepre, e invece sono più lento di una lumaca! se non mi sveglio perdo tutto, dopo l'uno e dopo il due c'è solo il tre, e se con questo coltello non avrò la mia fanciulla, mi pianterò la lama nel cuore".
Tagliò il terzo cedro e uscì la terza fata, dicendo come le altre due: "Dammi da bere!", ma questa volta Francesco nello stesso istante le diede l'acqua.
Finalmente gli rimase accanto una fanciulla dalla pelle morbidissima e bianca come la ricotta, con le guance rosse come il sangue, di una bellezza mai vista al mondo, con i capelli d'oro fino, così affascinante che incantava chiunque la guardasse. Il principe non capiva com'era potuto succedere, e guardava al colmo della meraviglia quell'incanto venuto dal taglio del cedro, non sapendo se sognava o era desto, domandandosi come avesse fatto a uscire dal frutto asprigno una cosa più dolce del miele, come fosse venuta fuori da un frutto tanto piccolo una fanciulla così grande e ben formata.
Alla fine, realizzando che non era solo un sogno, perché la fanciulla del suo desiderio era viva e vera accanto a lui, la abbracciò a lungo e la coprì di baci. Dopo mille tenerezze, il principe le disse:
"Non voglio, anima mia, portarti dal re mio padre senza le vesti preziose che sono adatte alla tua bellezza e senza il corteo degno di una regina. Perciò, sali su questo albero di cedro dove i rami sembrano un nido pronto per te, e aspetta comodamente il mio ritorno. Io correrò al palazzo di mio padre come se avessi le ali ai piedi, e sarò presto di ritorno per condurti al palazzo reale, vestita, ornata e scortata come si conviene". Poi la salutò e partì.
Proprio allora venne alla fonte una schiava brutta e nera con una brocca: mentre la riempiva, guardando nell'acqua, vide riflesso il bellissimo viso della fata, e credendo che quell'immagine fosse la sua si rimirò e disse:
"Cosa vedono i miei occhi! Sono così bella e devo affaticarmi a riempire la brocca? ma neanche per sogno!". Presa dalla collera scaraventò sui sassi la brocca che andò in frantumi, e andò a casa.
Alla sua padrona disse: "La brocca si è rotta sui sassi!".
Il giorno dopo la schiava nera fu mandata ad attingere acqua con un barilotto, e appena si chinò sull'acqua rivide il bel viso.
Sospirò e disse: "Una fanciulla bella come sono io non deve certo stancarsi a portare un barilotto d'acqua!", poi sfasciò il recipiente e tornò a casa brontolando.
Quando disse: "Un asino per via mi ha rotto il barilotto", la padrona andò in collera, prese una scopa e la riempì di botte. Il giorno dopo le diede un otre e la rimandò alla fonte, dicendole che se questa volta non fosse tornata con l'acqua l'avrebbe sistemata.
Ma, arrivata alla fonte, la schiava rivide la bellissima immagine riflessa nell'acqua, e gridò: "La mia bellezza non ha rivali! Dovrei sposare un principe, non stare qui a faticare per una padrona che mi maltratta: ora ci penso io".
Si levò uno spillone dai capelli e tutta inviperita cominciò a bucare l'otre di qua e là, tanto che l'acqua zampillava da tutte le parti.
Sul cedro la fata si era divertita vedendo cosa succedeva, e a quel punto non riuscì a trattenere una risata. La schiava allora guardò in su, vide la fanciulla tra i rami, e finalmente capì di chi era il bel viso che si specchiava nella fontana.
Disse tra sé e sé: "Per colpa di quella ho rotto una brocca, una barilotto, un otre, ho preso le bastonate, e ora mi prende anche in giro", poi le chiese: "Che ci fai lassù bella fanciulla?".
La fata, che era gentile quanto bella, le raccontò tutta la sua storia, e le spiegò che da un momento all'altro sarebbe tornato il principe per condurla a palazzo con vesti sontuose e un corteo regale.
La serva pensò che poteva fare la sua fortuna, e le disse: "Mentre aspetti il tuo sposo, fammi salire sull'albero con te, ti pettino ben bene e ti faccio diventare ancora più bella!".
Dopo averle detto: "Che tu sia la benvenuta, amica mia!", la fata porse la sua manina bianca e morbida alla schiava, che la agguantò con la mano secca e nera e si tirò su.
Ma mentre le accarezzava i capelli, le piantò lo spillone nel capo, e la fata, sentendosi trafiggere, gridò:
"Colomba, colomba!", e trasformatasi in una colombina bianca prese il volo.
Allora la schiava nera si levò i suoi brutti vestiti, li scaraventò lontano, e si accoccolò fra i rami ad aspettare.

Dopo poco tempo, con un corteo di dame e cavalieri, arrivò il principe Francesco, che trovando la brutta serva nera dove aveva lasciato la candida fata, rimase a lungo senza fiato. Poi prese a lamentarsi della sua disgrazia, perché quando credeva di aver raggiunto il suo paradiso dopo tanto peregrinare, si sentiva all'inferno, e mentre credeva di unirsi per sempre alla fata del suo cuore gli toccava una schiava così brutta che nessuno avrebbe voluto vederla.
Ma la donna nera gli disse: "Ehi, principe! sta' buono, io sono fatata: un anno lo passo chiara e un anno lo passo scura".
Il povero Francesco, visto che non c'era rimedio, mandò giù questo boccone amaro, e, fatta scendere dal cedro la schiava nera, la vestì, l'adornò da regina, e la condusse a palazzo in pompa magna.
Quando la videro il re e la regina, si dissero che il loro unico figlio aveva viaggiato come un pazzo, per il mondo intero, per trovare una colomba bianca, e poi aveva portato a casa una cornacchia nera. Ma comunque, come avevano stabilito, rinunciarono al regno, e il principe Francesco ascese al trono mettendo la corona d'oro sul capo di una regina nera come il carbone.
Si preparavano grandi festeggiamenti per le nozze, e mentre il cuoco, le fantesche e gli sguatteri correvano per le cucine reali spennando oche grasse, frollando fagiani, marinando cinghiali e caprioli, mescolando creme e besciamelle, montando panna e chiare d'uovo, tritando noci, mandorle, pinoli e canditi, una colombella bianca entrò da una finestra della cucina e disse:

Cuoco che cuoci da mane a sera,
cosa fa il re con la donna nera?

Dapprima il cuoco non ci fece caso, ma la colombina tornò poco dopo, e quando lo fece per la terza volta, ripetendo sempre le stesse parole, il cuoco corse a tavola per raccontare di questa apparizione sorprendente.
Appena sentì, la regina nera ordinò che la colomba fosse immediatamente catturata, spennata e gratinata in padella. Allora il cuoco si diede da fare, finché acchiappò la colombella, e, eseguendo l'ordine, le tirò il collo, la tuffò nell'acqua bollente per spennarla meglio, e la mise al fuoco. Buttò l'acqua e le penne nel vaso che stava su un balconcino, e dopo tre giorni spuntò un ramo di cedro che cresceva a vista d'occhio: il re affacciandosi a una finestra da quella parte vide il bell'albero che prima non c'era, e cominciò a domandare chi l'avesse piantato.
Il cuoco gli raccontò tutta la meravigliosa storia della colombella, e il re Francesco, sospettando qualcosa, gli ordinò:
"Nessuno osi toccare questa pianta, pena la vita! e fa' in modo che sia ben curata, di tutto punto!".
Dopo pochi giorni apparvero tra i rami tre cedri come quelli che gli aveva dato l'orca: il re aspettò che fossero ben maturi, li colse, si chiuse in camera sua con una grande coppa d'acqua fresca, e, con il solito coltello che portava sempre alla cintura, cominciò a tagliare.
Col primo cedro e col secondo gli capitò come l'altra volta, ma la terza volta fu pronto a dare l'acqua alla fanciulla nello stesso istante in cui gliela chiedeva, e gli rimase fra le braccia la più bella, uguale all'immagine che aveva sempre nel cuore, bianca come la ricotta e rossa come il suo sangue.
Era la stessa fata che aveva lasciato sull'albero, e gli raccontò tutto il male che le aveva fatto la schiava nera.
Nessuno riuscirebbe a raccontare l'allegria e la soddisfazione di Francesco, che non riusciva a stare nella pelle dalla contentezza, e non avrebbe mai smesso di abbracciare e di baciare la fata rinata dal cedro. Poi le fece indossare una veste regale, le pose un prezioso diadema sui biondi capelli, la prese per mano e la portò nel salone dove erano riuniti tutti i cortigiani per festeggiare le nozze. Li chiamò uno a uno, chiedendo loro:
"Ditemi, che pena dareste a chi facesse del male a questa meravigliosa creatura?".
I cortigiani e tutti i nobili invitati rispondevano che se qualcuno le avesse fatto del male avrebbe meritato una corda intorno al collo, o una sassaiola mortale, o un veleno, o il rogo, o di essere messo in una botte chiodata e rotolato lungo una montagna, o di essere buttato in mare con una pietra al collo.
Infine il re lo chiese alla regina nera, e lei rispose: "Meriterebbe di essere bruciata e le sue ceneri andrebbero buttate dalla cima della torre!".
"Tu hai pronunciato la tua condanna", disse il re Francesco, "è proprio questa la fanciulla che hai infilzato con lo spillone, è lei la colombella che hai fatto sgozzare e gratinare! chi fa il male, il male aspetti".

 
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L'orsa

Post n°705 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Si racconta che c'era una volta il re di Roccapalumba che aveva una sposa perfettamente bella. Ma quando era ancora nel fiore degli anni la regina si ammalò tanto gravemente che nessuno riuscì a guarirla, e sentendo che la sua ora era arrivata chiamò il re e gli disse:
"So che mi hai sempre amato con tutto il cuore, e ora che la mia vita finisce voglio l'ultima prova del tuo amore: promettimi che non ti risposerai mai se non trovi una donna bella come me, o ti giuro che ti odierò anche nell'altro mondo".
Il re, che le voleva un bene inimmaginabile, sentendo il suo ultimo desiderio scoppiò in pianto, e per un bel pezzo non riuscì a pronunciare una parola. Alla fine, interrompendo il suo lamento, le disse:
"Piuttosto che risposarmi, voglio che il fulmine mi incenerisca, meglio essere trafitto da una spada, meglio essere sbranato dalle bestie feroci. Sai tesoro mio, nemmeno in sogno potrei amare un'altra donna, perché tu mi hai fatto innamorare la prima volta, e tutto il mio amore morirà con te".
Mentre diceva queste parole, la moglie stava già rantolando, poi rigirò gli occhi e rimase secca.
Il re, vedendo che se ne era andata, lasciò andare le lacrime e si mise a gridare, quelli che erano nel palazzo accorrevano e vedevano il re che si strappava i peli della barba, chiamando per nome la sua povera sposa, maledicendo il destino che gliela aveva rubata e le stelle che gli avevano mandato questa disgrazia.
Ma morto un papa se ne fa un altro, e poco tempo dopo il re cominciò a dire fra sé e sé:
"Dunque, ora mi è morta la moglie e sono restato vedovo. Sono solo con questa povera bambina che mi ha lasciato e non ho neanche un figlio maschio, dovrei fare in modo di avere un erede, ma dove la vado a cercare la donna che mi ci vuole? E dove si potrebbe trovare una bella come quella che mi è morta? Ora sì che sono nei pasticci! Con quella promessa mi ha messo in un labirinto dal quale non potrò mai uscire, povero me! Ma non è giusto che io rinunci prima di provare, via, è mai possibile che in tutto il mondo non ci sia una donna che possa prendere il posto di mia moglie? Perché dovrei rinunciare a vivere, con tutte le donne che ci sono dappertutto?".
Così dicendo fece subito pubblicare un bando, col quale ordinava che tutte le donne belle del mondo venissero da lui per una gara, la più bella sarebbe diventata sua sposa e regina di Roccapalumba. La notizia si diffuse dappertutto e tutte le donne vennero a tentare la fortuna, anche le più brutte, perché quando si parla di bellezza non c'è donna che si tiri indietro, arrivano anche le più brutte e racchie, e se lo specchio riflette una figura storta dicono che lo specchio è sciupato.
Il re le fece mettere in fila e camminando le guardava come il Gran Turco quando entra nel serraglio per scegliere la scarpa per il suo piede; andava in su e in giù tutto agitato, adocchiandone una e squadrandone un'altra, questa gli sembrava troppo bassa, quella spilungona, una aveva il naso schiacciato, l'altra le labbra troppo grosse, quella era grassa e questa troppo secca, una era troppo seria e un'altra pareva sciocca, avevano la pelle troppo scura o i capelli sbiaditi, troppo pallore o troppo rosso.

Alla fine le rimandò via tutte, chi per un difetto e chi per un altro, e disperando di trovarne una davvero bella era deciso a farla finita, quando incontrò sua figlia per le scale, e si disse:
"Ma cosa speravo di trovare in giro per il mondo, se mia figlia Preziosa è bella proprio come la sua mamma? Ho questa meraviglia qui a palazzo e andavo a cercarla lontano!".
Disse subito a sua figlia quello che pensava e si prese una sfuriata piena di sdegno. Allora si arrabbiò e disse:
"Rimetti la lingua tra i denti e non provarti a discutere la mia volontà, stasera io e te ci sposiamo, e se ti rifiuti finirai a pezzettini".
Quando Preziosa sentì qual era la volontà di suo padre si chiuse in camera disperata, e si mise a piangere graffiandosi e strappandosi i capelli, finché arrivò una vecchietta che vendeva i profumi, e trovandola fuori di sé, dopo aver saputo cosa le era successo, disse:
"Sta' di buon animo, bambina mia, non disperarti, perché non c'è male al quale non si possa trovare un rimedio, fuorché la morte. Ora ascolta: quando tuo padre, che è diventato un asino, verrà in camera tua per fare lo stallone, mettiti in bocca questo steccolino, e immediatamente ti trasformerai in un'orsa; allora scappa, perché lui s'impaurirà e ti lascerà fuggire, e va' diritto nel bosco, dove è nascosta la tua fortuna. E quando vuoi mostrarti fanciulla, come sei e resterai sempre, basta che ti levi lo steccolino di bocca e tornerai alla tua vera forma".
Preziosa, dopo aver abbracciato la vecchia e averla ricompensata con generosità, la mandò via; quando venne la sera il re fece venire i suonatori, e invitò tutti i suoi nobili a una grande festa, ballarono per parecchie ore e poi si misero a tavola, e quando ebbero finito di mangiare e bere il re andò a letto. Ma appena ordinò a sua figlia di venire accanto a lui, Preziosa si mise lo steccolino in bocca, si trasformò immediatamente in un'orsa terribile e lo assalì. Il re atterrito da questo incantesimo si arrotolò dentro i materassi, e non mise fuori il naso nemmeno la mattina dopo.

Intanto Preziosa uscì fuori e prese la strada per il bosco, tanto fitto che non c'entrava mai un raggio di sole, dove stava a parlare dolcemente con gli altri animali, finché un giorno venne a caccia in quelle terre il figlio del re di Acquedolci, che quando vide questa orsa quasi morì dallo spavento. Ma accorgendosi che questo animale tutto festoso si accucciava, dondolava la coda come un canino, e gli veniva dietro, si sentì riavere, e facendogli le carezze, dicendogli 'cuccia cuccia, micio micio, titti, fufi, ciccia ciccia, puccino, vieni vieni', se la portò a casa, e ordinò che la trattassero con tutti i riguardi, come facevano con lui stesso, facendola stare in un giardino accanto al palazzo reale, per potersela guardare da una finestra quando ne aveva voglia.
Una volta che tutti erano usciti dalla casa e il principe era rimasto solo, si affacciò per vedere l'orsa e vide Preziosa, che per curare i suoi capelli, dopo esservi levata lo steccolino di bocca, si pettinava le trecce d'oro. Per questo, vedendo una bellezza inimmaginabile rimase tutto sconvolto, poi si buttò per le scale e corse nel giardino. Ma Preziosa, accorgendosi dell'assalto, s'infilò lo steccolo in bocca e tornò com'era prima.
Arrivato giù il principe, non trovando quello che aveva visto da sopra, se la prese tanto per questo scherzo che gli venne una grande malinconia, in pochi giorni cadde ammalato, e diceva sempre:
"Orsa mia, orsa mia!".
La madre, che sentì questo suo lamento, immaginò che l'orsa gli avesse fatto qualcosa di male, e diede ordine che venisse uccisa. Ma i servitori, affezionati a lei perché era così buona e mansueta che conquistava tutti, non ebbero cuore di macellalarla e la portarono nel bosco, mentre dissero alla regina che l'avevano uccisa.

Quando questa notizia arrivò alle orecchie del principe gridò cose da non credersi, si levò dal letto e voleva fare una strage di servitori; e dopo aver saputo da loro com'erano andate le cose saltò sul cavallo e correndo come un pazzo girò tanto e tanto cercò che riuscì a trovarla, se la riportò a casa, la fece entrare in una stanza e le disse:
"O bel bocconcino da re, che stai rifugiato in questa pelle! Perché mi hai fatto le feste e mi hai seguito, per vedermi cadere malato e consumato di malinconia? Io muoio disperato, confuso e allucinato dalla tua bellezza, guarda come sono pallido, sono ridotto pelle e ossa perché il desiderio di te mi consuma tutto. Ti supplico, levati questa coperta pelosa, fammi vedere la tua pelle splendente, scosta la tenda di pelliccia e vieni fuori, meravigliosa fanciulla! Chi è stato che ha imprigionato in un baule di duro cuoio la tua tenerezza? Rivelati a me e scopri il mio cuore, non ho altro desiderio che te al mondo".
Ma dopo aver parlato tanto, non ricevendo nemmeno un piccolo cenno di risposta, si ributtò a letto, gli venne un brutto male, e i medici dissero che forse non c'era più nulla da fare. La mamma, che non aveva altro che lui, seduta accanto al letto gli disse:
"Figlio mio, da dove viene questa disperazione furiosa? che cos'è questa nera malinconia che ti prende? Tu sei giovane, sei amato, sei grande, sei ricco: cosa ti manca, figlio mio? parla, a chi non bussa non si apre la porta. Se vuoi una sposa, tu la scegli e io la procuro, tu compri e io pago. Non vedi che il tuo male fa male anche a me? Se il tuo polso batte forte, a me viene il batticuore, se bruci di febbre io mi sento andare in fumo il cervello, perché ho solo te nella vita. E allora sta' contento e accontentami, questo regno senza te è perduto, il nostro casato finisce e io son disperata".
Il principe, sentendo queste parole, disse:
"Nessuna cosa mi può dar conforto se non la vista dell'orsa. Perciò se mi vuoi vedere star bene, falla stare in questa stanza, e non voglio che nessun altro pensi a me e mi faccia il letto e da mangiare, solo lei e lei sola, e di certo con questo piacere guarirò in quattro balletti".
La mamma, pur sembrandole uno sproposito che l'orsa facesse la cuoca e la cameriera e pensando che suo figlio aveva perso la testa, volle accontentarlo e la fece venire. E lei, avvicinatasi al letto del principe, alzò la zampa e toccò il polso del malato, cosa che terrorizzò la regina, convinta che da un momento all'altro gli avrebbe sbranato il naso.
Ma quando il principe disse all'orsa:
"Puccina mia, non vuoi cucinare per me e darmi da mangiare e farmi le cose?", lei abbassò il capo facendo capire che accettava.
Allora la regina ordinò che portassero un po' di galline e che accendessero il fuoco nel camino della camera per far bollire l'acqua. L'orsa prese in mano una gallina, la scottò e la spennò con garbo, e dopo averla svuotata ne infilò una parte nello spiedo e con l'altra parte preparò un bel gratinato, che il principe, al quale non riuscivano a far inghiottire nemmeno lo zucchero, mangiò tutto leccandosi le dita, e quando ebbe finito di mangiare l'orsa gli diede da bere con tanta grazia che la regina la volle baciare in fronte.
Fatto questo, mentre il principe era sceso a fare quella roba che guardano i medici per giudicare come sta il malato, l'orsa rifece subito il letto e, correndo in giardino, colse un bel mazzo di rose e fiori di cedrangolo e ce li sparse, tanto che la regina disse che questa orsa valeva un patrimonio, e che aveva proprio ragione suo figlio a volerle bene.
Ma il principe, vedendo con che cortesia lo serviva, sentì ravvivarsi il fuoco d'amore, e se prima si consumava piano piano, ora rischiava di finire in un colpo solo, e disse alla regina:
"Mamma, signora mia, se non do un bacio a questa orsa, rimango senza fiato!".
La regina, che lo vedeva perdere i sensi, disse:
"Bacialo, bacia, bell'animale mio, non vedi che questo povero figlio mio sta morendo?".
E come l'orsa si accostò, il principe dopo averla presa a pizzichini non si stancava di baciarla, e mentre stavano muso a muso non so come scappò lo steccolino dalla bocca a Preziosa e restò fra le braccia del principe la creatura più bella del mondo. E lui, tenendola stretta forte fra le braccia, le disse:
"Ti sei fatta acciuffare scoiattolina, non mi scappi più senza ragione!".
Preziosa, spandendo il colore della vergogna sulla sua naturale bellezza, gli disse:
"Sono già nelle tue mani, ti affido il mio onore e rifletti pensa e mettimi dove vuoi".
Alla regina che domandò chi era questa bella fanciulla e cosa l'aveva costretta a quella vita selvatica, lei raccontò per filo e per segno tutta la storia delle sue disgrazie; per questo la regina, lodandola perché era buona e onorata, disse al figlio che era felice che la sposasse.
E il principe, che non chiedeva nient'altro che questo dalla vita, le diede la fede, mentre la loro bellissima unione fu festeggiata in tutto il reame di Acquedolci, dove vissero felici per sempre.


Illustrazione di Warwick Goble

di Gianbattista Basile

 
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Il bimbo dell'anno

Post n°704 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

L'alleanza fra la sindachessa Marianna e il direttore di TeleCampagnola6 Agilulfo Taripijo ha di nuovo dato i suoi frutti (ahimè)
Stavolta i nostri hanno avuto la brillantissima idea di eleggere il bimbo dell'anno,ovvero il pupo più bello,simpatico,etc, da 0 a 6 anni.
In finale due settimane fa sono arrivati i gemellli Lepracchioni (18 mesi),Lucio Cornelio (3 anni),L'Ermione (anni 6),ed Erode figlio minore del Cuccurullo (mesi 6).
La giuria era composta dalla Marianna,dalla nuova dottoressa Clitennestra Ciambelloni,da Ireneo e il farmacista Mangiapaperi.
Per primi si sono presentati i gemelli Lepracchioni,Pacuvio e Transilvania.
La Clitennestra ha avuto la scellerata idea di offrir loro un leccalecca al limone (Pacuvio) e uno alla fragola (Transilvania).Come poteva sapere che uno adora la fragola e l'altra il limone?
Ne è nata una zuffa tremenda a base di morsi,graffi,pugni e schiaffoni.
Naturalmente li hanno dovuti squalificare.
E' poi arrivato Lucio Cornelio che, esasperato dalle domande cretine del Cornacchioni,
1) Ha intimato al suddetto di farsi i bipbip suoi
2)Ha dichiarato al popolo e al comune che fa bene suo babbo a dire che Ireneo sembra un becchino vestito a lutto
3)Ha mandato Ireneo a quel paese
4)Ha dichiarato che per lui sta storia del bimbo dell'anno è una c...a pazzesca
Dopodichè se n'è andato,lasciando tutti allocchiti.
Ma il peggio doveva ancora venire
Portata a forza dal Geremia, scalciante e urlante,è arrivata l'Ermione.
Quando ha visto la Ciambelloni,che detesta cordialmente,la peste in gonnella prima le ha sferrato un violento calcio
negli stinchi poi l'ha mezza scotennata.
Per levargliela di sotto ci sono voluti gli sforzi congiunti di Ireneo e del Taripijo
Ansiosi di concludere, i giurati hanno quindi premiato Erode,che non si è accorto di nulla perchè dormiva in braccio al padre (e quindi non poteva far danno alcuno).Per la gioia Telesforo ha baciato tutti (anche belva).
Sono passate due settimane.
I Lepracchioni ora vivono in Burundi,dove le maniere da zulù dei figli sono più tollerate.
Lucio Cornelio non potrà sedersi per due mesi.
Geremia e la Fidalma hanno messo la museruola all'Ermione e la chiamano Fido.
Il Mangiapaperi e la Ciambelloni si sposeranno presto.
Cuccurullo ha appeso foto di Erode ovunque in caserma ed ha aperto un sito dedicato al figlio www.erode,com.
I colleghi non ne possono più.
Per ora,lettori miei,passo e chiudo.




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Da sè (Pirandello)

Post n°703 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

 

Un carro di prima classe, con cavalli bardati e impennacchiati, cocchiere e staffieri in parrucca, i suoi parenti non lo avrebbero preso di certo, per lui. Ma uno di seconda, sì; almeno per gli occhi del mondo.
Duecentocinquanta lire: prezzo di tariffa.
La cassa, poi, se pure d’abete e non di noce o di faggio, nuda nuda non l’avrebbero certo lasciata (sempre per gli occhi del mondo).
Coperta di velluto rosso, anche d’infima qualità, con borchie e maniglie dorate; a dir poco, quattrocento lire.
Poi: una buona mancia a chi lo avrebbe lavato e vestito da morto (bel servizio!); spesa per la papalina di seta e per le pantofole di panno; spesa per le quattro torce da accendere ai quattro angoli del letto; mancia ai becchini che avrebbero portato a spalla il feretro fino al carro, e poi dal carro alla fossa; spesa per una corona di fiori, almeno una, santo Dio: poi lasciamo la banda municipale, che se ne poteva far di meno; ma un pajo di dozzine di ceri per l’accompagnamento delle orfanelle del Boccone del povero che vivevano di questo, cioè delle cinquanta lire che si davano loro per accompagnare tutti i morti della città; e chi sa quant’altre piccole spese imprevedibili.

Tutto questo Matteo Sinagra avrebbe tatto risparmiare ai parenti, andando co’ suoi piedi a uccidersi economicamente, al cimitero, davanti al cancelletto della sua gentilizia. Dimodochè, con pochissima spesa, lì stesso, dopo l’accesso del pretore avrebbero potuto cacciarlo dentro a quattro assi nude senza neanche dargli una spazzolata, e calarlo giú, dove riposavano da un pezzo il padre, la madre, la prima moglie e i due figliuoli che n’aveva avuti.
I morti hanno l’aria di credere che il forte sia perdere la vita e che tutto sia finito con essa. Per loro, senza dubbio. Ma non pensano all’orribile ingombro del corpo che resta lì duro sul letto uno o due giorni e ai fastidi e alle spese dei vivi che, pur piangendogli attorno, debbono liberarsene. Sapendo quanto costa questa liberazione, in un caso come il suo, cioè di morte in buona salute, i signori morti volontarii potrebbero far due passi fino al cimitero e andare a riporsi tranquillamente da sé.
Ecco: non aveva ormai da pensare ad altro, Matteo Sinagra. La vita gli s’era tutt’a un tratto come votata d’ogni senso. Quasi non ricordava piú con precisione ciò che vi avesse fatto. Ma sì, di certo, anche lui tutte le sciocchezze che si fanno di solito. Senz’accorgersene Con molta leggerezza e grande facilità. Sì, perché era stato anche abbastanza fortunato, lui, fino a tre anni fa. Non gli era mai riuscito nulla difficile; né mai s’era fermato un momento perplesso, se fare o non fare una tal cosa, se prendere questa o quella via. S’era gettato con gaja fiducia a tutte le imprese; s’era incamminato per tutte le vie, ed era andato sempre avanti; superando ostacoli che forse per gli altri sarebbero stati insormontabili.

Fino a tre anni fa.
Tutt’a un tratto, chi sa come, chi sa perché, quella specie d’estro che per tanti anni lo aveva assistito e spinto innanzi, alacre e sicuro, gli s’era spento; quella gaja fiducia gli era crollata, e insieme eran crollate le imprese finora sostenute con mezzi e arti di cui ora, improvvisamente e quasi con sgomento, non si sapeva piú render conto egli stesso.
Tutto così, da un giorno all’altro, gli s’era cangiato, oscurato; anche l’aspetto delle cose e degli uomini. S’era trovato all’improvviso a tu per tu con un altro se stesso, ch’egli non conosceva affatto, in un altro mondo che gli si scopriva adesso per la prima volta attorno, duro, ottuso, opaco, inerte.
In prima era rimasto quasi con quello stordimento che il silenzio cagiona a coloro che vivono in mezzo a un fracasso di macchine, allorché d’un subito vengono fermate. Poi aveva considerato la rovina, non sua solamente, ma anche del padre e del fratello della seconda moglie, che gli avevano affidato grossi capitali. Ma forse il suocero e il cognato, pur soffrendo gravi danni, si sarebbero rialzati. La sua rovina, invece, era totale.
S’era chiuso in casa, schiacciato non tanto dal peso della sciagura, quanto dalla coscienza dell’irrimediabilità del guasto misterioso avvenuto così fulmineamente nel congegno della sua vita.
Muoversi? E perché? Perché uscire di casa? Inutile ogni atto, ogni passo; inutile anche parlare.
Zitto, rincantucciato in un angolo, era rimasto a guardar le smanie e le lacrime della moglie disperata, come un insensato. Tutto barba e tutto capelli.
Finché non era venuto sulle furie il cognato a cacciarlo fuori a spintoni, dopo averlo fatto tosare a viva forza.
C’era da fare qualche cosa, da guadagnare dieci lirette al giorno, mettendosi per galoppino a servizio d’una piccola banca agraria, che s’era aperta or ora. Che stava a covare lì su quella sedia? Fuori! Fuori! Non bastava il danno arrecato finora? Voleva anche vivere, con la moglie e le due piccine, alle spalle delle sue vittime? Fuori!
Fuori, ecco qua. Era uscito di casa, da alcuni giorni. S’era messo a fare il galoppino per conto di quella piccola banca agraria. Il cappello spelato, l’abito stinto, le scarpe sdrucite, e un’aria d’allocco che consolava.
Nessuno lo riconosceva piú.

– Matteo Sinagra, quello lì?

Non si riconosceva piú neanche lui stesso, per dire la verità. E quella mattina, finalmente...
Era stato un amico, un caro amico del buon tempo, a chiarirgli la situazione.
Chi era piú, lui? Nessuno. Non solo perché aveva perduto tutto il suo; non solo perché s’era ridotto in quella misera, avvilente condizione di galoppino, con l’abito stinto, il cappello spelato, le scarpe sdrucite. No, no. Non era piú, veramente, nessuno, perché non c’era piú niente in lui, fuorché l’aspetto (e pur esso tanto cangiato, irriconoscibile!) di quel Matteo Sinagra ch’egli era stato fino a tre anni fa. In questo galoppino uscito or ora di casa né lui si sentiva né gli altri lo riconoscevano. E dunque? Chi era lui? Un altro, che ancora non viveva: che bisognava imparasse a vivere, se mai, una nuova vita, meschina, affliggente, da dieci lirette al giorno. E ne valeva la pena? Matteo Sinagra, il vero Matteo Sinagra era morto, morto assolutamente, tre anni fa.
Questo gli avevano detto con la piú ingenua crudeltà gli occhi di quell’amico incontrato per caso quella mattina.
Ritornato in paese dopo circa sei anni d’assenza, questo amico non sapeva nulla della sciagura di lui. Passando per via, non lo aveva riconosciuto.

– Matteo? Ma come? Sei tu Matteo Sinagra?

– Dicono...

– Ma come?

E gli occhi, quegli occhi, erano rimasti a mirarlo con tale espressione di smarrimento e insieme di pietà e di ribrezzo, ch’egli tutt’a un tratto s’era veduto in essi morto, assolutamente morto, senza piú neanche un briciolo in sé di quella vita che Matteo Sinagra aveva avuto.
E allora, appena quell’amico, non sapendo piú trovare una parola, uno sguardo, un sorriso da rivolgere a quest’ombra, gli aveva voltato le spalle, aveva avuto l’impressione strana che tutte le cose, a un tratto, proprio gli si fossero vôtate d’ogni senso, tutta la vita gli si fosse fatta vana.
Ma da ora soltanto? – No... Perdio! Da tre anni così... Da tre anni era morto, da ben tre anni... E ancora stava lì, in piedi?.. camminava... respirava... guardava? Ma come?... Se non era piú niente! se non era piú nessuno! Con quell’abito addosso, di tre anni fa... con quelle scarpe di tre anni fa, ancora ai piedi...
Via, via, via: non si vergognava? Un morto, ancora in piedi? A cuccia, là, al cimitero!
Tolto di mezzo l’ingombro di questo morto, alla vedova, alle due orfanelle avrebbero pensato i parenti.
Matteo Sinagra s’era tastata nel taschino del panciotto la rivoltella, sua fida compagna di tant’anni. E senz’altro, eccolo per la via che conduce al cimitero.
È una cosa davvero divertente, un godimento inaudito. Un morto, che se ne va da sé, co’ suoi piedi, piano piano, con tutto il comodo, al suo destino.
Matteo Sinagra lo sa perfettamente, che è un morto: un morto vecchio, anche: un morto di tre anni, che ha avuto tutto il tempo di votarsi d’ogni rimpianto della vita perduta.
Ora è leggero leggero: una piuma! Ha ritrovato se stesso; è entrato nella sua qualità, d’ombra di se stesso. Libero d’ogni ostacolo, scevro d’ogni afflizione, esente da ogni peso, va a riposarsi comodamente.

Ed ecco: quella via che conduce al cimitero, a farla così da morto, per l’ultima volta, senza ritorno, gli si rappresenta in un modo nuovo, che lo riempie d’una gioja di liberazione, che è veramente già fuori della vita, oltre la vita.
I morti la fanno in carrozza, chiusi e saldati in una doppia cassa, di zinco e di noce. Egli cammina, respira, può volgere il collo di qua e di là, a guardare ancora

E guarda con occhi nuovi le cose che non sono piú per lui, che per lui non hanno piú senso.
Gli alberi... oh guarda! erano così gli alberi? erano questi? E quei monti laggiú... perché? quei monti azzurri, con quella nuvola bianca sopra... Le nuvole... che cose strane!... E là, in fondo, il mare... Era così? Quello, il mare?
E un sapore nuovo ha l’aria, che gli entra nei polmoni, una soavità di refrigerio su le labbra, nelle narici... L’aria... ah, l’aria... Che delizia! La respira... ah, la beve ora, come non l’ha mai bevuta di là nella vita; come nessuno che stia nella vita, può berla! È aria come aria; non respiro per vivere. Tutta questa infinita, avvolgente delizia mica la possono avere gli altri morti, che se ne vanno per quella via in carrozza, tesi, stirati, attuffati nel bujo d’una cassa. Neanche i vivi la possono avere, i vivi che non sanno che cosa voglia dire goderla dopo, così, una volta e per sempre: eternità viva, presente, fremente!
Ancora è lunga, la via. Ma egli già potrebbe fermarsi qui; è nell’eternità; vi cammina, vi respira, in un’ebbrezza divina, ignota ai vivi.

– Mi vuoi? Portami con te...

Un sasso. Un sasso della via. E perché no?
Matteo Sinagra si china, lo raccatta, lo pesa nella mano. Un sasso... Erano così i sassi? erano questi? Sì, eccolo, un piccolo frantume di roccia, un pezzo di terra viva, di tutta questa terra viva, un frantume dell’universo... Eccolo qua: in tasca; verrà con lui.
E quel fiorellino?
Ma sì, anch’esso, qua qua, all’occhiello di questo morto, che se ne va da sì, così alieno, sereno e felice, coi suoi piedi, alla sua fossa, come a una festa, col fiorettino all’occhiello.
Ecco l’entrata del cimitero. Un’altra ventina di passi, e il morto sarà a casa sua. Niente lagrime. Ci viene da sé, con passo svelto, e con quel fiorettino all’occhiello.
Fanno un bel vedere questi cipressi di guardia al cancello. Oh, è una casa modesta, in vetta a un poggio, tra gli olivi. Ci saranno, sì e no, un centinaio di gentilizie, senz’alcuna pretesa d’arte; cappelletto con un altarino, il cancelletto e un po’ di fiori attorno.
È proprio, per i morti, una dimora invidiabile, questo cimitero. Lontano dal paese, i vivi ci vengono di raro.
Matteo Sinagra entra e saluta il vecchio custode che sta seduto davanti all’uscio della sua casetta, a destra dell’entrata, con lo scialle bigio di lana su le spalle ed il berretto gallonato sul naso

– Ehi, Pignocco!

Pignocco dorme.
E Matteo Sinagra resta a contemplar quel sonno dell’unico vivo fra tanti morti, e – in qualità di morto – ne prova dispiacere, una certa irritazione. `
S’ha un bel dire. Fa bene ai morti pensare che un vivo vegli sul loro sonno e stia in faccende sopra la terra che li ricopre. Sonno sopra, sonno sotto: troppo sonno. Bisognerebbe svegliare Pignocco; dirgli:

– Eccomi qua; sono dei tuoi. Sono venuto da me, coi miei piedi, per far risparmiare un po’ di soldi ai miei parenti. Ma è questa la cura che tu ti prendi di noi?

Oh via, che cura, povero Pignocco! Che bisogno di custodia hanno i morti? Quando ha annaffiato qua e là qualche ajuola; quando ha acceso in questa e in quella gentilizia qualche lampadina che non fa lume a nessuno; quando ha spazzato le foglie morte dai vialetti; che altro gli resta da fare? Non fiata nessuno lì dentro. Il ronzio delle mosche allora e il lento stormire degli smemorati olivi sul poggio lo persuadono a dormire. Sta in attesa anche lui della morte, povero Pignocco; e in quel l’attesa, ecco qua, provvisoriamente dorme sopra i tanti morti che dormono per sempre sotto.
Forse si sveglierà tra poco, allo scoppio secco della rivoltella. Ma forse, neppure. È così piccola la rivoltella, e lui dorme così profondamente... Piú tardi, verso sera, allorché prima di chiudere il cancello, si recherà in giro a fare un’ultima ispezione, troverà un ingombro nero in quel vialetto, là in fondo.

– Oh! E che roba è questa?

Niente, Pignocco. Uno che deve andar sotto. Chiama, chiama che gli apparecchino il letto, giú, alla meglio, senza tanti riguardi. Per risparmio di spese ai parenti è venuto da sé, e anche per il piacere di vedersi così, prima, morto tra morti, a casa sua, arrivato a destino in buona salute, con gli occhi aperti, in perfetta coscienza. Lasciagli in tasca il sasso che si è seccato anch’esso di stare al sole su la strada. E lasciagli anche il fiorellino all’occhiello, che è la sua civetteria di morto in questo momento. Se l’è colto e se l’è offerto da sé, per tutte le corone che i parenti e gli amici non gli offriranno. È qua ancora sopra la terra; ma è proprio come se fosse venuto da sotto, dopo tre anni, per curiosità di vedere che effetto fanno sul poggio queste tombe gentilizie, queste ajuole, questi vialetti inghiaiati, queste croci nere e queste corone di latta nel campo dei poveri.
Un bell’effetto, veramente. E zitto zitto, in punta di piedi, Matteo Sinagra, senza svegliare Pignocco, s’introduce.
È ancora presto per andare a dormire. Vagherà per i vialetti fino a sera, curiosando (da morto, s’intende); aspetterà che sorga la luna, e buona notte.

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Dopo la separazione (Teasdale)

Post n°702 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Oh, ho seminato il mio amore così ampiamente
Che egli lo troverà ovunque:
Lo sveglierà di notte,
Lo abbraccerà nell'aria.
Poserò la mia ombra alla sua vista.
E l'ho alata col desiderio,
Che può essere una nuvola di giorno
E di notte un pozzo di fuoco

 
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Libri dimenticati:L'altra Elvira (Rugarli)

Post n°701 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

E' un libro molto particolare,che vuol tracciare un parallelo fra le eroine pucciniane e la donna da lui amata e odiata,Elvira.
Da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°700 pubblicato il 12 Settembre 2011 da odette.teresa1958

I momenti sereni di oggi sono i pensieri tristi di domani (Marley)

 
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