Messaggi del 13/09/2011

Il serpente di mare

Post n°718 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un pesciolino di mare di buona famiglia; il nome non me lo ricordo, ma te lo possono dire gli esperti. Quel pesciolino aveva milleottocento fratelli, tutti uguali a lui; non conoscevano né il padre né la madre e dovettero immediatamente provvedere a se stessi e nuotare qua e là, ma per loro era un gran divertimento. Avevano abbastanza acqua da bere, tutto l'oceano, e al cibo non pensavano, lo trovavano comunque! Ognuno avrebbe seguito la propria inclinazione, ognuno avrebbe avuto una sua storia; ma a questo nessuno di loro pensava.
Il sole brillava sull'acqua che luccicava intorno a loro, era trasparente, un mondo pieno di figure stranissime, alcune spaventosamente grosse, con fauci enormi, che avrebbero potuto ingoiare tutti i milleottocento pesciolini, ma loro non ci pensavano neppure: nessuno di loro era ancora stato ingoiato.
Quei piccoli nuotavano tutti insieme, vicini tra loro, come fanno le aringhe e gli sgombri, ma proprio mentre se ne nuotavano beatamente e non pensavano a nulla, cadde dall'alto, con un rumore terribile, giusto in mezzo a loro, una cosa lunghissima e pesante, che non finiva mai; si allungò sempre di più e ogni pesciolino che ne veniva toccato rimaneva schiacciato o subiva un colpo tale da non riprendersi più.
Tutti i pesciolini, e anche quelli grandi, dalla superficie del mare fino alla parte più profonda, si spostarono di fianco atterriti; quella cosa pesante affondava sempre più, diventava sempre più lunga, lunga parecchie miglia per tutto il mare.
I pesci e i molluschi, quelli che nuotano, che strisciano, o che si lasciano trascinare dalle correnti, tutti notarono quell'oggetto terribile, quella smisurata e sconosciuta anguilla che improvvisamente era giunta dall'alto.
Ma che cos'era? Noi lo sappiamo! Era il grande cavo telegrafico, lungo parecchie miglia, che gli uomini avevano calato tra l'Europa e l'America.
Nel punto dove il cavo venne calato ci fu un grande spavento, una grande agitazione tra i legittimi abitanti del mare. Il pesce volante si lanciò sopra la superficie, più in alto che potè, anche la gallinella fece un salto fuori dall'acqua, come un colpo di fucile, perché era capace di farlo; altri pesci invece si diressero verso il fondo del mare a una tale velocità che arrivarono laggiù prima che vi giungesse il cavo telegrafico così spaventarono sia i merluzzi che i rombi, che giravano tranquillamente sul fondo del mare mangiando i loro simili.
Alcune oloturie si impaurirono tanto che sputarono fuori il loro stomaco, continuando comunque a vivere, perché loro possono farlo. Molte aragoste e molti gamberetti uscirono dalle armature, lasciandovi le zampe posteriori.
Con tutto quello spavento e quell'agitazione, i milleottocento fratelli si divisero e non si incontrarono più, o meglio non si riconobbero più; solo una decina di loro rimase insieme, e dopo essere rimasti fermi qualche ora, si rimisero dal primo spavento e cominciarono a incuriosirsi.
Si guardarono intorno; guardarono in su e in giù, e sul fondo credettero di vedere quell'oggetto terribile che aveva spaventato loro e tutti gli altri, grandi e piccini. La cosa giaceva sul fondo del mare, lunga fin dove potevano vedere, e molto sottile, ma loro non sapevano quanto si sarebbe potuta ingrossare o quanto forte fosse. Se ne stava lì ferma, ma loro pensarono che lo facesse per malizia.
«Lasciatela stare, lasciatela stare! A noi non interessa!» disse il più prudente di quei pesciolini. Ma il più piccolo non volle rinunciare a capire che cosa fosse quell'oggetto; era venuto dall'alto, quindi là in alto avrebbero forse potuto sapere qualcosa; così nuotarono verso la superfìcie del mare: il tempo era molto bello.
Incontrarono un delfino; questo è un tipo strano, un vagabondo marino in grado di fare le capriole sulla superfìcie del mare; ha gli occhi per guardare e quindi doveva aver visto qualcosa e poter dare informazioni; glielo chiesero ma quello pensava solo a se stesso e alle sue capriole: non aveva visto nulla, non sapeva cosa rispondere e quindi tacque dandosi molta importanza.

Allora si rivolsero alla foca, che stava per buttarsi in acqua; quella fu più gentile, nonostante mangi i pesciolini! quel giorno era sazia. E ne sapeva un po' di più di quel pesce saltatore.
«Per molte notti sono rimasta sulla pietra umida guardando verso la terra, a molte miglia da qui, dove si trovano creature astute che nella loro lingua si chiamano uomini; quelli ci tendono insidie, ma la maggior parte delle volte riusciamo a sfuggire loro; l'ho capito io e l'ha capito anche quell'anguilla di cui voi chiedete notizie. Era in loro potere, è rimasta sulla terra ferma per moltissimo tempo, poi da lì l'hanno portata su un'imbarcazione per trasportarla in un altro paese molto lontano. Io ho visto che fatica hanno fatto, ma ci sono riusciti; forse quella si era indebolita a stare sulla terraferma.
La arrotolarono in cerchi e ghirlande, sentii come si scuoteva quando la posavano, ma riuscì a sfuggire. Gli uomini la tennero con tutte le loro forze, molte mani la tennero stretta ma quella scivolò giù verso il fondo; ora si trova là, immagino, per il momento!» «È molto sottile!» dissero i pesciolini.
«Ha sofferto la fame!» replicò la foca «ma si riprenderà presto, e tornerà a essere grande e grossa. Credo che sia il grande serpente di mare di cui gli uomini hanno così paura e di cui parlano tanto; non l'ho mai visto prima e non ho mai creduto che esistesse; ora invece lo credo: è quella» e la foca si tuffò.
«Sapeva tante cose! Quanto ha parlato!» commentarono i pesciolini. «Io non ho mai saputo tante cose prima! Purché non siano storie!»
«Potremmo andar giù a controllare» disse il più piccolo. «Lungo la strada sentiremo l'opinione degli altri.»
«Noi non vogliamo dare un solo colpo di pinna per sapere qualcosa!» risposero gli altri voltandosi.
«Ma io sì!» disse il più piccolo, e si diresse verso il mare più profondo. Ma era molto lontano dal luogo dove si trovava "la grande cosa affondata".
Il pesciolino si mise a cercare da tutte le parti nella profondità del mare.
Mai prima d'allora aveva realizzato quanto fosse grande il mondo. Le aringhe passavano a grandi frotte brillando come un'enorme nave d'argento, gli sgombri seguivano tutti in gruppo e erano ancora più belli, c'erano pesci di ogni grandezza e con disegni di ogni colore, le meduse, che sembravano fiori traslucidi, si lasciavano trasportare dalla corrente. Sul fondo crescevano grandi piante, erbe altissime e alberi a forma di palma, ogni foglia era occupata da un crostaceo che scintillava. Finalmente il pesciolino vide sul fondo una lunga striscia scura e si precipitò in quella direzione; ma non era né un pesce né il cavo, era il parapetto di una grande nave affondata, il cui ponte e la coperta si erano rotti alla pressione dell'acqua.
Il pesciolino entrò in una stanza: le molte persone affogate quando la nave era affondata erano state ormai spazzate via, ma ne restavano due: una giovane donna coricata con il suo bambino tra le braccia. L'acqua li sollevava e era come se li cullasse: sembrava che dormissero.
Il pesciolino si spaventò parecchio, non sapeva che non si sarebbero potuti svegliare più. Le piante acquatiche pendevano come fogliame dal parapetto, proprio sopra i due bei corpi della madre e del bambino. C'era un tale silenzio, una tale solitudine.
Il pesciolino si affrettò fuori più presto che potè, fuori dove l'acqua era più luminosa e dove si vedevano altri pesci. Non era andato molto lontano quando incontrò una giovane balena, terribilmente grande.
«Non ingoiarmi!» disse il pesciolino «sono così piccolo che non sono neppure un bocconcino, e poi mi piace molto vivere!»
«Che cosa fai qua giù, dove quelli della tua specie non arrivano?» chiese la balena. Così il pesciolino raccontò di quella lunga e straordinaria anguilla o qualunque cosa fosse, che si era calata dall'alto e aveva spaventato anche il più coraggioso abitatore del mare.
«Oh!» esclamò la balena aspirando tanta acqua che dovette gettare uno zampillo enorme quando risalì per tirare il fiato. «Oh!» ripetè «è quello allora che mi ha fatto il solletico sulla schiena mentre mi voltavo! Credevo fosse l'albero maestro di qualche nave e che avrei potuto usarlo per grattarmi la schiena; ma non era da queste parti. No, quella cosa si trova molto più lontano. Voglio andare a vedere, tanto non ho altro da fare!»
Così nuotarono, quella davanti e il pesciolino dietro, non troppo vicino perché dove la grande balena fendeva l'acqua si formava un'ondata molto violenta.
Incontrarono un pescecane e un vecchio pesce sega, anche loro avevano sentito di quella strana anguilla di mare, così lunga e sottile; non l'avevano vista ma lo desideravano.
Poi giunse un pesce gatto.
«Vengo anch'io!» disse; voleva accodarsi agli altri.
«Se quel grande serpente di mare non è più grosso di una gomena lo spezzerò con un morso!» e aprì le fauci mostrando le sue sei file di denti. «Lascio il segno con un morso sull'ancora di un bastimento, quindi posso senz'altro mordere quella cosa.»
«Eccola!» disse la balena «la vedo, la vedo!» Credeva infatti di vedere meglio degli altri. «Guarda come si solleva, guarda come oscilla, si contorce e si piega!»
Non era quella, era un'immensa anguilla, lunga molte braccia, che si avvicinava.
«Quella l'ho già vista» disse il pesce sega «ma non ha mai fatto troppo baccano nel mare e non ha mai spaventato nessun grosso pesce.» Allora le dissero della nuova anguilla e le chiesero se voleva partecipare alla spedizione.
«Se quella anguilla è più lunga di me» disse l'anguilla di mare «allora succederà una disgrazia!»
«Davvero?» esclamarono gli altri. «Ma noi siamo sufficienti per impedirlo!» e si affrettarono a proseguire.
Qualcosa veniva loro incontro, un mostro straordinario, molto più grande di tutti loro messi insieme.
Sembrava un'isola natante che non riusciva a fermarsi.
Era una balena vecchissima. La testa era coperta di piante marine, la schiena occupata da crostacei e da una gran quantità di ostriche e conchiglie, così che la pelle nera era tutta macchiata di bianco.
«Vieni anche tu, vecchia» le dissero. «È arrivato un nuovo pesce che non si può sopportare.»
«Preferisco restare qui dove sono» disse la vecchia balena. «Lasciatemi in pace, lasciatemi qui. Ah, sono molto malata! Mio solo sollievo è risalire alla superfìcie e mettere la schiena fuori. Così arrivano quei grandi e simpatici uccelli marini a beccarmi: è un tale piacere; basta che non affondino troppo il becco, a volte arrivano fino a toccare il grasso. Guardate qui! Sulla schiena si trova ancora l'intero scheletro di un uccello aveva infilato le zampine troppo in fondo e non è riuscito a liberarsi quando io mi sono tuffata: adesso i pesciolini lo hanno beccato tutto; guardate che aspetto ha e poi guardate me: sono malata!»
«È solo una fissazione!» disse l'altra balena. «Io non sono mai malata; nessun pesce è malato!»
«Ah no, scusi!» replicò la vecchia balena. «L'anguilla ha una malattia della pelle, la carpa sembra che abbia il vaiolo, e tutti abbiamo i vermi negli intestini.»

«Sciocchezze, sciocchezze!» rispose il pescecane; non voleva più star lì ad ascoltare, e neppure gli altri: avevano altro da fare.
Finalmente giunsero dove si trovava il cavo del telegrafo. Aveva un lungo letto sul fondo del mare dall'Europa fino all'America, su banchi di sabbia e sul fango marino, su scogliere e viluppi di piante, su interi boschi di coralli, là dove le correnti si incontrano, si formano mulinelli d'acqua, i pesci si muovono a frotte, più degli innumerevoli stormi d'uccelli che gli uomini vedono passare nel periodo delle migrazioni. È un'agitazione, uno sguazzare, un ronzare, un soffiare, e quel brusìo rimane un pochino nelle grandi conchiglie vuote quando le portiamo alle orecchie.
Così giunsero dov'era il cavo.
«Ecco l'animale!» dissero i pesci grossi, e lo stesso esclamarono i piccoli. Vedevano il cavo, il cui inizio e la cui fine sparivano dalla loro vista.
Spugne, polipi e meduse si alzavano dal fondo, si riabbassavano e si chinavano sul cavo, così che a volte rimaneva nascosto, a volte si mostrava.
Ricci di mare, chiocciole e lombrichi gli si muovevano attorno; grandissimi ragni che avevano sulla schiena una gran quantità di vermiciattoli vi passeggiavano sopra. Le oloturie blu, o come si chiamano quelle che mangiano con tutto il corpo, erano distese e annusavano quel nuovo animale posatosi sul fondo del mare. I rombi e i merluzzi si rigiravano nell'acqua per sentire notizie da tutte le parti. La stella di mare, che sta sempre nascosta tra la sabbia e tiene fuori solo due lunghi pedicelli con gli occhi in cima, stava ferma per vedere cosa sarebbe venuto da quel tubo.
Il cavo del telegrafo era immobile, ma aveva vita e pensieri; lo attraversavano i pensieri degli uomini.
«Quella cosa è furba!» disse la balena. «È capace di colpirmi allo stomaco, che è il mio punto debole!»
«Lasciamelo toccare prima!» disse il polipo. «Io ho braccia lunghe, ho dita agili: l'ho sfiorato, ora voglio tenerlo un po' più stretto.»
E così allungò il braccio agile, il più lungo, fino al cavo, avvolgendolo.
«Non ha scaglie!» disse. «Non ha pelle! Credo che non potrà mai mettere al mondo dei piccoli!»
L'anguilla di mare si sdraiò di fianco al cavo del telegrafo e si allungò più che potè.
«Questa cosa è molto più lunga di me!» esclamò. «Ma non è la lunghezza che conta, bisogna avere testa, stomaco e agilità.»
La balena, quella giovane e forte balena, scese sul fondo più di quanto avesse mai fatto.

«Sei un pesce o una pianta?» chiese. «O sei solo un oggetto che viene dall'alto e può adattarsi tra noi?»
Ma il cavo del telegrafo non rispose; non era previsto che parlasse in quel senso.
Lo attraversavano pensieri, i pensieri dell'uomo; risuonavano in un secondo a centinaia di miglia di distanza, da un paese all'altro.
«Vuoi rispondere o dobbiamo spezzarti?» chiese il feroce pescecane, e tutti gli altri pesci grossi chiesero la stessa cosa. «Vuoi rispondere o dobbiamo spezzarti?»
Il cavo non si mosse, aveva pensieri strani, come può averne solo chi è pieno di pensieri.
"Mi spezzino pure, così sarò tirato su e rimesso a posto; è già successo a altri come me, in acque meno pericolose!"
Per questo non rispose, aveva altro da fare: stava telegrafando, aveva un compito ufficiale sul fondo del mare.
Sopra le acque tramontò il sole, come dicono gli uomini, diventando rosso come il fuoco, e tutte le nuvole del cielo brillarono come fiamme, una più bella dell'altra.
«Ora avremo la luce rossa!» commentarono i polipi «così, se è necessario, vedremo questa cosa molto meglio.»
«All'attacco, all'attacco!» gridò il pesce gatto, mostrando tutti i denti.
«All'attacco, all'attacco!» ripeterono il pesce spada, la balena e l'anguilla di mare.
Si lanciarono avanti, primo fra tutti il pesce gatto, ma proprio mentre stava per mordere il cavo, il pesce sega infilò per la troppa foga la sua sega nella parte posteriore del pesce gatto; fu un grosso sbaglio e il pesce gatto non ebbe più la forza di mordere.
Ci fu un gran pasticcio giù nel fango; pesci grandi e piccoli, oloturie e lumache si lanciarono uno contro l'altro, si divorarono a vicenda, si schiacciarono, si pestarono; il cavo invece rimase fermo a compiere il suo dovere, e così bisogna fare.
La notte buia dominava su di loro, ma miliardi e miliardi di animaletti marini brillavano. Brillavano anche granchi piccoli come la capocchia di uno spillo. È meraviglioso, ma è proprio così.
Gli animali del mare guardavano il cavo telegrafico.
«Ma che cos'è quella cosa, e che cosa non è?»
Già, quello era il problema.
Allora giunse una vecchia mucca marina. Gli uomini chiamano quelli di questa specie sirene o tritoni. Era di sesso femminile, aveva una coda e due braccine corte per nuotare, il seno cadente e animaletti parassiti e funghi sulla testa. E ne era molto fiera.
«Volete avere scienza e conoscenza?» chiese. «Allora sono l'unica che può darvele, ma in cambio pretendo per me e per i miei pascolo libero sull'erba del fondo del mare. Io sono un pesce come voi, e con un po' di esercizio so anche strisciare. Sono la più intelligente del mare; so tutto di quello che si muove quaggiù, e di quello che c'è sopra. Quella cosa di cui vi preoccupate tanto viene dall'alto; e tutto quello che cade in mare dall'alto, è morto o muore e perde le sue forze. Lasciatela stare per quella che è, è solo una trovata degli uomini!»

«Io credo sia qualcosa di più!» disse il pesciolino.
«Sta zitto, sgombro!» gli disse la grossa mucca marina.
«Spinarello!» gli dissero gli altri, e questo era ancora più offensivo.
La mucca marina spiegò che quell'animale che li aveva messi in allarme e che del resto non diceva una parola era solo una trovata che proveniva dalla terraferma. Così tenne una piccola conferenza sulla malizia degli uomini.
«Ci vogliono prendere» disse «questa è l'unica cosa per cui vivono; tendono le reti, vengono con le esche sugli ami per attirarci. Questa è una specie di grande corda e loro credono che noi la morderemo, sono così stupidi! Ma noi no! Evitate di toccare quel pasticcio che si sfilaccia, che diventa polvere e fango. Quello che viene dall'alto fa crac, fa crac, non vale niente!»
«Non vale niente!» dissero tutti gli abitanti del mare e furono del parere della mucca marina, tanto per avere un parere.
Il pesciolino invece rimase della sua opinione. «Quel serpente sottile e terribilmente lungo è forse il pesce più meraviglioso del mare. Io ne ho la sensazione.»
"Il più meraviglioso!" diciamo con lui noi uomini, e lo diciamo con convinzione e conoscenza. È il grande serpente di mare di cui si è parlato a lungo nelle canzoni e nelle saghe.
È nato, è stato concepito dal genio dell'uomo e è stato posto sul fondo del mare; si allunga dai paesi dell'Oriente fino a quelli dell'Occidente, portando le notizie con la velocità dei raggi della luce che dal cielo giungono sulla terra. Cresce, cresce anno dopo anno in potenza e in estensione, attraverso tutti i mari, intorno alla terra, sotto le acque in tempesta o l'acqua cristallina dove il marinaio guarda nel fondo, come se navigasse attraverso l'aria più trasparente, vedendo un pullulare di pesci, un unico fuoco d'artificio di mille colori.
In fondo a tutto questo mondo marino si allunga il serpente, il serpente benefico che si morde la coda, dato che circonda tutta la terra. Pesci e molluschi lo urtano con la fronte, ma non capiscono quella cosa che viene dall'alto: è il serpente della conoscenza, del bene e del male, pieno dei pensieri degli uomini, che annuncia in tutte le lingue, pur non potendo emettere un solo suono, la meraviglia più grande delle meraviglie del mare, la creatura del nostro tempo:
il grande serpente di mare

FINE

 

Hans Christian Andersen







 
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I mesi

Post n°717 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta due giovani fratelli che erano diversi fra loro com’è diverso il giorno dalla notte. Il maggiore, Cianne, avaro ed egoista, era riuscito ad arricchire a dismisura, mentre il minore, Lise, generoso ed altruista, si era ridotto in tale povertà da non sapere, al mattino, che cosa avrebbe mangiato alla sera. Tuttavia Lise era sempre allegro e pronto ad aiutare il prossimo, mentre Cianne, sospettoso di tutti e diffidente, soffriva di un malumore perpetuo.
Un giorno Lise pensò “ Qui in paese non farò mai fortuna, e non posso nemmeno chiedere a mio fratello di aiutarmi perché gli darei un dispiacere troppo grosso. E’ meglio che mene vada. Sono giovane e ho voglia di lavorare: il Cielo mi aiuterà”. Detto fatto, e senza prendere seco nemmeno un fagottino perché non possedeva niente, infilò la prima strada che vide, e via, seguendo il naso. Attraversò diverse contrade, ma invano: la fortuna volesse volgere le spalle al giovane, che però non aveva perso il suo solito buon umore.
Una sera Lise fu colto da un furioso temporale, e in un batter d’occhio fu fradicio fino al midollo. Per fortuna vide in lontananza un lumicino di campagna dove era certamente acceso il fuoco; infatti lo vide brillare attraverso i vetri. “ Almeno potrò asciugarmi gli abiti” pensò rallegrandosi; spinse la porta ed entrò. L’osteria era occupata da dodici viaggiatori che sedevano in cerchio attorno al focolare, e non c’era posto per lui.
- Buona sera, signori – disse rispettosamente; e sedette in distanza per non disturbare.
I dodici personaggi si volsero tutti insieme a guardarlo, e notarono che sgocciolava acqua da tutte le parti, i strinsero un po’.
- C’è posto anche per te – disse gentilmente uno di loro. – Vieni avanti e siedi qui con noi.
Lise non se lo fece ripetere; trascinò la sedia vicino alla fiamma e protese le mani al piacevole calore. Mentre si scaldava, guardava il viaggiatore seduto vicino a lui, e si accorse che era un uomo piuttosto giovane, ma con un aspetto corrucciato, proprio come se qualcuno lo avesse contrariato.
- Ti ha colto il temporale eh? – disse lo sconosciuto che gli sedeva accanto. – Che cosa ne dici, di questo tempaccio?
- Che cosa volete che dica? – replicò Lise. – Siamo nel mese di marzo, ed è giusto che piova. Noi ci lamentiamo sempre, dell’estate perché fa caldo, dell’inverno perché fa freddo, e della mezza stagione perché è mutevole. Ma il Signore ha fatto le cose per benino, e la colpa è nostra se siamo incontentabili.
- Ma del mese di marzo – insisté lo sconosciuto – che cosa ne pensi? A un giorno di sole segue un giorno di neve; soffia un po’ di venticello tiepido, e subito dopo ecco una gelida tramontana. Hanno ragione quelli che lo definiscono pazzo e lo detestano.
- Oh, no! – esclamò Lise vivacemente. – C’è il vento, si, ma serve a mandar via le nuvole e a spazzar bene il cielo. Nevica, si, ma nessuno se ne spaventa perché la neve marzolina viene alla sera e va via alla mattina. E infine è il mese che annuncia la primavera: basta un giorno di sole per ricoprire di fiori e i prati.
I dodici viaggiatori avevano ascoltato sorridendo, e più di tutti sorrideva il giovane sconosciuto che sedeva accanto a Lise.
- Sei proprio saggio, amico mio! – disse frugando nella sua bisaccia e ne trasse una cassettina di legno intarsiato.
- Accettala come mio ricordo. Quando avrai bisogno di qualche cosa, aprila e sarai esaudito. Noi ora dobbiamo partire.
E infatti i dodici viaggiatori si alzarono e uscirono dall’osteria, mentre Lise, meravigliato e incredulo, si profondeva in ringraziamenti. Anch’egli uscì e si rimise in cammino, ma si sentiva sfinito dalla stanchezza. “ che cosa ci sarà qui dentro? “ si chiese aprendo la cassettina. “ Avrei bisogno di trovarmi una bella carrozza foderata di velluto, tirata da due cavalli”.
Aveva appena detto questo, che dalla cassetta balzò una minuscola carrozzina foderata di velluto rosso, che subito s’ingrandì e diventò una carrozza vera tirata da due focosi cavalli. Lise vi entrò tutto beato e riprese il suo viaggio. Così galoppando e trottando la carrozza di Lise percorse un buon tratto di strada.
A un certo punto sentì un gran appetito; aprì la cassettina e disse:
- Vorrei un buon pranzo.
E subito una tavola sontuosamente imbandita e coperta di cibi prelibati apparve davanti a lui.
- E ora vorrei dormire – concluse, ancora trasecolato.
E subito la carrozza si fermò davanti a una sontuosa tenda di damasco rosso deve era preparato un morbido letto. Il giovane dormì saporitamente e al mattino si svegliò fresco e riposato.
- Ho già trovato la fortuna – concluse. – Non mi resta che tornare a casa per riabbracciare mio fratello. Ma voglio abiti degni di un re.
E subito apparve un sontuoso vestito tutto di panno nero foderato di lana gialla, ricamato d’oro e argento. Così Lise tornò a casa, e si presentò al fratello il quale lo guardò a bocca aperta.
- Come hai fatto a diventare tanto ricco? – chiese subito. – Insegnalo anche a me.
Lise non si fece pregare:raccontò della sera passata nella taverna, dell’incontro con i dodici viaggiatori e del dono che gli avevano fatto.
- Debbo uscire per un affare urgente – disse Cianne a questo punto. – Aspettami qui.
Sellò in tutta fretta il suo cavallo e partì al gran galoppo verso l’osteria di campagna. Vi giunse verso sera, ma per via fu colto da un violento temporale che lo infradiciò fino alle ossa. Brontolando pieno di malumore, entrò nell’osteria e vide i dodici viaggiatori seduti accanto al fuoco.
- Stringetevi un po’, perché ho diritto di asciugarmi anch’io – disse sgarbatamente. – accidenti a questo dannato mese di marzo.
I viaggiatori gli fecero posto accanto al fuoco, e il giovane che gli sedeva vicino domandò:
- Che cosa pensi, del mese di marzo?
- Che è pazzo! – gridò Cianne inviperito. – Oggi c’è il sole e domani la neve; oggi c’è caldo da scoppiare e domani un freddo da gelare. Sarei ben felice se fosse possibile cancellarlo dal calendario.
I dodici viaggiatori erano appunto i dodici mesi, e colui che parlava era proprio il mese di marzo. Egli frugò nella sua bisaccia e ne trasse un lungo bastone.
- Accettalo per mio ricordo – disse gentilmente. – Quando comanderai: “ Bastone, dammene cento “ sarai subito accontentato.
“ Cento scudi! “ pensò Cianne fra sé “ Evviva !”. I viaggiatori partirono, e anche Cianne uscì subito dopo; balzo a cavallo e galoppo verso casa. Non appena giunse in una località solitaria, fermò il cavallo e comandò al bastone:
- Bastone, dammene cento!
Subito il bastone incominciò a scaricargli una grandine di legnate, e inutilmente Cianne si diede a una fuga precipitosa. Il bastone lo inseguiva, e nemmeno un colpo andava a vuoto. Finalmente, dolorante e pieno di bernoccoli, giunse alla porta di casa.
- Aiutami, fratello mio! – supplicò.
Subito Lise aperse la cassettina e comandò al bastone di fermarsi. Finalmente il bastone si fermò, e Cianne poté gettarsi sopra il letto e riaversi dalla paura e dalla fatica.
- Ohimè, ohimè! – piagnucolava. – Ecco il bel regalo che mi hanno fatto i tuoi amici!
- Era questo, dunque, il tuo affare urgente? – chiese Lise. – Perché non mi hai detto la verità? Io ti avrei insegnato come comportarti. E che bisogno hai, infine, di ricchezze? Possediamo già una cassettina: non basta per due?
Sentite queste parole Cianne gli chiese perdono per il disamore passato e, fatto un accordo come quello che fanno i mercanti per tenere alti i prezzi, si godettero insieme la buona sorte e da allora in poi Cianne disse bene di ogni cosa, per trista che fosse, perché

il cane scottato dall'acqua calda
ha paura anche dell'acqua fredda.

 
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Re Porco

Post n°716 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta, in tempi lontanissimi, nel ricco reame di Peloro, un re potente e magnanimo e una regina bellissima e gentile, che però non avevano figli. Da molto tempo soffrivano per la mancanza di un erede, quando un giorno che era andata a raccogliere fiori nel giardino del palazzo la regina si sentì molto stanca, vedendo un prato si sedette sull'erba e ascoltando gli uccelli che cantavano dolcemente prese sonno.
In quel momento passarono tre fate che volavano da quelle parti e vedendo la bellezza e la grazia della regina addormentata, si consigliarono tra loro e decisero di incantarla.
La prima fata disse: "Voglio che la regina sia inviolabile e che la prossima notte che passerà con suo marito rimanga incinta del figlio più bello del mondo".
La seconda fata disse: "Voglio che nessuno possa farle del male, e che suo figlio sia dotato di tutte le virtù che si possono immaginare".
L'ultima fata disse: "E io voglio che sia la donna più saggia e più ricca del mondo, ma voglio anche che suo figlio nasca coperto da una pelle di porco, che si comporti come un porco in tutto e per tutto, e che non possa uscire da questa forma prima di aver avuto tre spose".
Le fate partirono e la regina si svegliò, prese i fiori che aveva raccolto e tornò al palazzo. Presto si accorse di essere incinta, e quando fu il tempo un cui doveva nascere il figlio tanto desiderato, partorì un erede che non aveva il corpo di un essere umano, ma di un porco. Fu un dolore quasi insopportabile per il re e la regina, e temendo che sarebbero stati disonorati da questo essere mostruoso, il re di Peloro voleva farlo uccidere e buttare in mare. Ma si fermò a riflettere, e pensando che qualunque fosse il suo aspetto era figlio suo, sangue del suo sangue, abbandonò questo feroce proposito, e sopportando il suo dolore ne ebbe pietà, quindi ordinò che fosse allevato come un essere umano, e non come una bestia.
Il piccino, che veniva nutrito e cresciuto con tutte le cure, spesso veniva dalla mamma, si metteva ritto e le posava in grembo il grugnetto e le zampine. La regina con tenerezza lo accarezzava sulla schiena, poi lo abbracciava e lo baciava come un bambino. Lui allora arricciolava il codino, dimostrando bene con i gesti la sua contentezza e il piacere di ricevere le carezze della mamma. Il porcellino era molto cresciuto e cominciò a parlare e andare in giro per il reame; quando vedeva un letamaio o un mucchio di spazzatura ci si intrufolava, come fanno i porci. Poi, sudicio e puzzolente com'era, tornava a casa, e andando dal re e dalla regina a strofinarsi sulle loro vesti li insudiciava di letame, ma siccome era il loro unico figlio sopportavano tutto con pazienza.

Un giorno il porcello tornò a casa e dopo essersi messo tutto sudicio sulle vesti della madre, grugnendo le disse:
"Io, madre mia, vorrei sposarmi".
Sentendo questo la regina rispose: "O pazzo che sei, chi vuoi che ti prenda per marito? Tu sei puzzolente e sporco, e vuoi che un barone o un cavaliere ti dia in isposa sua figlia?".
Lui rispose grugnendo che in ogni modo voleva una sposa. La regina, non sapendo come destreggiarsi, disse al re:
"Che cosa dobbiamo fare? Guarda in che situazione ci troviamo: nostro figlio vuole sposarsi, e non ci sarà nessuna che lo voglia per marito".
Il porcello ritornò dalla sua mamma e grugnendo forte diceva:
"Io voglio una sposa, e non smetterò fino a quando non mi darete quella fanciulla che ho visto oggi, perché mi piace tanto".
Diceva della figlia di una povera vedova che ne aveva tre bellissime, e sentendo questo la regina mandò subito a chiamare la donna con la maggiore, e le disse:
"Buona donna, tu sei povera e hai tante figlie a cui pensare, se mi dirai di sì presto diventerai ricca. Io ho solo questo figlio porco, e vorrei farlo sposare con la tua figlia più grande. Non pensare a lui che è porco, ma al re e a me, perché un giorno tua figlia sarà padrona di tutto il reame".
La fanciulla sentendo queste parole rimase turbata, e diventando rossa come un papavero disse che non acconsentiva, non voleva proprio accettare quella proposta, ma sua madre le parlò con tanta dolcezza che riuscì a convincerla.
Quando il porco tornò tutto sudicio a casa corse da sua madre, che gli disse:
"Figlio mio, ti abbiamo trovato una moglie, proprio come volevi tu".
E dopo aver chiamato la sposa e averle fatto indossare vesti regali, la presentò al porco. Lui, vedendola bella e graziosa, non stava nella pelle dalla contentezza, e sporco e puzzolente com'era le girava intorno, facendole col grugno e con le zampe tante carezze che nessuno aveva mai visto fare da un porco. E lei, siccome le insozzava tutta la veste, lo spingeva da parte, ma il porco le disse:
"Perché mi respingi? Non te l'ho forse regalata io questa bella veste?".
Lei con fare superbo gli rispose:
"No, non l'ho avuta da te, né dal tuo reame di porci".
Quando fu l'ora di andare a letto, la fanciulla disse:
"Che me ne faccio di questa bestia puzzolente? Stanotte, prima che abbia fatto il primo sonno, lo ucciderò".
Il porco che non era molto lontano sentì le sue parole, ma non disse nulla, e quando fu l'ora, tutto impiastricciato di letame e sudiciume, andò nella camera nuziale, scostò le cortine del baldacchino, sollevò le lenzuola di finissimo lino col grugno e con le zampe, sporcò tutto col suo sterco puzzolente e si distese accanto alla sposa. Poi fece finta di dormire, e quando lei tirò fuori il pugnale che aveva messo sotto il cuscino la trafisse con le zanne appuntite. Al mattino si alzò, e come sempre andò a mangiare e a rotolarsi nel sudiciume.
La regina volle andare a vedere come stava la sua nuora, e quando la vide uccisa e capì che era stato suo figlio, provò un dolore grandissimo. Più tardi il porco tornò a casa e quando la regina prese a rimproverarlo aspramente disse che aveva fatto alla sposa quello che la sposa voleva fare a lui, e se ne andò sdegnato.
Dopo un po' di tempo il porco ricominciò a dire a sua madre che voleva la seconda sorella come moglie, e nonostante la regina gli dicesse di no, lui continuò ostinatamente a dire che la voleva sposare, minacciando di distruggere tutto se non gliela avessero data.
Sentendo questo la regina andò dal re e gli raccontò tutto, e lui le disse che era meglio ucciderlo, prima che devastasse il reame. Ma la regina, che era la sua mamma e gli voleva un bene immenso, non poteva sopportare di perderlo, anche se era un porco.
E dopo aver fatto venire la povera donna con l'altra figlia, parlò a lungo con loro, e quando ebbero ragionato insieme del matrimonio la fanciulla acconsentì a prendere il porco come marito. Ma le cose non andarono come aveva creduto lei, perché il porco la uccise come la prima, e la mattina presto uscì dal palazzo. E quando tornò al palazzo come al suo solito, con tanto sudiciume e letame appiccicato addosso che per il puzzo non gli si poteva stare accanto, fu trattato molto male dal re e dalla regina per quello che aveva fatto. Ma il porco rispose intrepido che aveva fatto alla sposa quello che la sposa voleva fare a lui.

Non era passato tanto tempo quando il principe porco tornò a dire alla regina che si voleva risposare prendendo come moglie la terza sorella, che era ancora più bella della prima e della seconda. Mentre la madre gli diceva che non lo avrebbe mai accontentato, lui insisteva sempre di più che voleva sposarla, e con discorsi volgari e crudeli minacciò di morte la regina, se non gliela dava in isposa. La regina a queste parole sporche e vergognose sentiva il cuore stretto da un tormento così grande che rischiava di impazzire. E senza pensare più a nulla mandò a chiamare la povera donna con la sua ultima figlia, che si chiamava Rosabianca, e le disse:
"Rosabianca, figlia mia, voglio che tu sposi il principe porco, non pensare a lui, ma a suo padre e a me, perché se tu saprai star bene con lui, sarai la donna più ricca e più felice del mondo".
Rosabianca le rispose con viso lieto e sereno che era molto contenta, e ringraziò la regina di accettarla come nuora; anche se non avesse avuto nient'altro, a lei bastava da poverella diventare in un istante la nuora del potente re di Peloro. Sentendo questa risposta amorevole e piena di gratitudine, la regina fu presa da una dolce commozione, e non potè trattenere le lacrime, ma aveva paura che anche a Rosabianca capitasse la stessa disgrazia delle altre due.
Vestita di abiti meravigliosi e ornata di preziosi gioielli, la sposa si mise ad aspettare che suo marito tornasse a palazzo. Quando il principe porco arrivò, più bruttato e sudicio di quanto fosse mai stato, la sposa lo accolse con affetto, stendendo in terra la sua veste preziosa e pregandolo di sdraiarsi accanto a lei. La regina le diceva di spingerlo da parte, ma lei non volle respingerlo, e disse alla regina proprio queste parole:

Tre cose ho già sentite raccontare,
Sacra Corona veneranda e pia:
l'una, quel ch'è impossibile truovare,
andar cercando, è troppo gran pazzia;
l'altra, a quel tutto fede non prestare,
che 'n sé non ha ragion né dritta via;
la terza, il dono prezïoso e raro
ch'hai nelle mani, fai che 'l tenghi caro.


Il principe porco, che si era disteso ma non dormiva, e capiva tutto alla perfezione, si mise ritto e le leccava il viso, il collo, il seno e le spalle, e lei lo accarezzava e lo baciava, così lui si innamorava sempre di più. Venne l'ora di dormire, e la sposa si mise a letto, aspettando che venisse il suo caro sposo, e dopo poco lo sposo, tutto sudicio e puzzolente, entrò nella camera. E lei sollevando le coperte se lo fece venire vicino, gli accomodò il guanciale sotto la testa, coprendolo bene e chiudendo le cortine, perché non patisse freddo. Il principe porco quando fu giorno, lasciando il materasso pieno di sterco, tornò al suo trogolo.
La regina andò nella camera della sposa temendo di vedere la stessa scena delle altre due volte, invece trovò la sua nuora tutta contenta e di buon umore, benché il letto fosse imbrattato di sudiciume e di letame. Allora ringraziò il Cielo di questo dono, che il principe aveva trovato una moglie di suo gusto.
Un giorno il principe porco, mentre stava conversando dolcemente con la sua sposa, le disse:
"Rosabianca, mia cara moglie, se sapessi che tu non dirai a nessuno un grande segreto, io, facendoti immensamente felice, ti svelerei una cosa che finora ho tenuto nascosta; e siccome riconosco che sei saggia e prudente, e sento che mi ami di vero amore, vorrei dividere con te questo mio segreto".
"Puoi farlo senza timore", disse Rosabianca, "perché ti prometto di non dirlo mai a nessuno, senza il tuo permesso".
Così il principe porco, rassicurato dalla sua sposa, si scrollò di dosso la pelle sporca e puzzolente, e lasciandola cadere diventò un giovane bellissimo e pieno di grazia, e così passò tutta la notte stretto alla sua Rosabianca. E dopo averle ordinato di non dire nulla di questa cosa, perché di lì a poco il tremendo incantesimo sarebbe finito, si rimise la pelle di porco e andò a rufolare nella spazzatura come sempre.
Si può immaginare quanta e quale fosse la gioia di Rosabianca, che si ritrovava sposata con un giovane splendido e gentile.
Poco tempo dopo rimase incinta, e quando venne il tempo nacque un bellissimo bambino, che procurò una gioia immensa al re e alla regina, soprattutto perché videro che non aveva forma di bestia, ma di essere umano. A Rosabianca non sembrava giusto tenerle nascosta una cosa così importante e meravigliosa, così andò dalla regina e le disse:
"O saggia regina, io credevo di stare insieme a una bestia, invece tu mi hai dato per marito il giovane più bello, più ricco di virtù e più garbato del mondo. Lui, quando viene in camera per coricarsi accanto a me, si spoglia della scorza puzzolente e lasciandola cadere a terra diventa un giovane bello e pieno di grazia. Nessuno potrebbe crederci, se non lo vedesse con i suoi occhi".
Pensando che la sua nuora scherzasse, mentre diceva solo la verità, la regina le chiese come poteva fare a vederlo, e Rosabianca rispose:
"Se stanotte verrai in camera mia nell'ora del primo sonno, ti lascerò l'uscio socchiuso e vedrai che quanto ti ho detto è vero".
Quando fu notte, dopo aver aspettato che tutti si fossero addormentati, la regina fece accendere le torce, e andò col re alla camera del principe. Appena entrata trovò la pelle di porco in terra da una parte della camera, e avvicinandosi al letto vide che suo figlio era un giovane bellissimo, e Rosabianca, sua sposa, lo stringeva fra le braccia. Vedendo questo il re e la regina ebbero una grande gioia e il re ordinò che prima di uscire si facesse a pezzettini piccolissimi la pelle di porco; e la felicità del re e della regina per la trasformazione del loro figlio fu così grande che quasi ne morivano.
Vedendo che aveva un figlio così bello e virtuoso, che gli aveva già dato un erede, il re depose la corona e il manto regale, e con grandi festeggiamenti del popolo esultante salì al trono di Peloro il principe, che da quel momento si chiamò re Porco, regnò con Rosabianca sua amata sposa in pace e prosperità e vissero per sempre felici.


di Gianfrancesco Straparola

 
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Incontro (Pirandello)

Post n°715 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Scendendo in fretta la scala al bujo Marco Mauri alzò la mano in cui teneva il fiammifero e domandò a un signore che s’affrettava a salire:

- È lei il medico? Venga! Muore... muore, senza un medico...

Quel signore s’arrestò un tratto sul pianerottolo e guardò con le ciglia corrugate il Mauri che singhiozzava e gestiva senza poter più parlare, poi salì dietro a lui.

- Venga... - ripeté il Mauri, pervenuto al pianerottolo del secondo mezzanino, indicando la porta accostata. Entrò innanzi e condusse l’altro, per tre stanzette, alla camera da letto in fondo.

Alla vista della moribonda il nuovo arrivato, che respirava a stento, pallidissimo, ebbe come un singulto nel naso e socchiuse gli occhi, poi si accostò al letto e contemplò la giacente quasi inabissata nel letargo.

- Dottore, dottore... - pregò piano tra le lagrime irrefrenate, il Mauri. - Le dia subito ajuto, mi muore.

Quegli si voltò a guardarlo biecamente, poi sollevò cauto dal seno fasciato della giacente la vescica di ghiaccio.

- È qui... - riprese il Mauri premendosi forte l’indice d’una mano sul petto dalla parte del cuore, per indicare il luogo della ferita. - Qui... e par che la palla sia andata a conficcarsi sotto la scapola...

- Son già quattro giorni? - domandò l’altro, rivolgendosi a un vecchio sacerdote che se ne stava taciturno all’altro canto del letto.

- Sì, oggi è il quarto giorno, - rispose il Mauri, senza dar tempo.

Il vecchio sacerdote si levò da sedere come in preda a un’agitazione improvvisa, e squadrando il nuovo arrivato, che teneva tra le dita il polso deva moribonda, disse:

- Scusi, ma lei, signore...

- Caffeina, ce n’è? - lo interruppe questi.

Il Mauri si recò subito nella stanza attigua e rientrò tosto con una boccetta e una piccola siringa in mano.

- Eccola! - disse. - Stavo quasi per fargliela io una iniezione. Iersera gliene ha fatte due il medico curante.

Restò con la boccetta in mano guardando prima il vecchio sacerdote, il quale, turbatissimo, teneva gli occhi fissi sul nuovo arrivato, poi questi, che s’era nascosta la faccia con ambo le mani.

- È morta? - domandò forte, in un singhiozzo. - E morta? Ditemelo!

- No... no... - gli rispose accorrendo il prete ricordante. - Venga, venga con me... - E gli bisbigliò qualche altra parola nell’orecchio.

- Lui? - fece odiosamente il Mauri additando con l’indice teso il nuovo arrivato e lasciandosi trascinare nell’attigua stanzetta. - Lui? E che è venuto a far qui?

- Un’opera di misericordia... - gli rispose il prete parlando a bassa voce come per indurlo a parlar basso anche lui. - Un’opera di misericordia... Gli ho scritto io, invocando a nome di quella poveretta il suo perdono... Ed è voluto venir egli stesso in persona ad accordarglielo... Io La scongiuro: Ella se ne vada ora, se ne vada... non ha più nulla da far qui...

- No! - disse forte il Mauri abbandonandosi sul canapé e guardando fisso il prete, con occhi da matto. - Io non me ne vado... io rimango qui! - Sentendosi forzar la gola da un altro èmpito di pianto appoggiò i gomiti su i ginocchi e squassando la testa ruppe in nuovi singhiozzi.

Il vecchio sacerdote ritornò premuroso alla camera da letto, e accostandosi a colui, che teneva ancora la faccia nascosta tra le mani:

- Grazie, dottor Clerici; Dio la benedirà... Lei salva un’anima col suo atto misericordioso...

- Lei mi ha scritto - disse Giacomo Clerici guardando il prete severamente - che costei moriva pentita e abbandonata... Chi è colui?

- Un disgraziato... - s’affrettò a rispondere il prete. - Non so chi sia, so che tanto io quanto la poverina abbiamo fatto di tutto per tenerlo lontano: non ci è stato possibile... Ma si affidi a me: ella muore pentita e ha chiesto ella stessa per mio mezzo il suo perdono... Già Lei gliel’ha accordato venendo...

Giacomo Clerici, rivolse gli occhi intorbidati dall’interno tumulto su la moribonda; le mirò prima le palpebre livide, serrate; poi la fronte, e il suo sguardo ne sentì quasi il gelo.
Lottavano in lui la imagine che egli aveva serbato della moglie e questa che ora ritrovava tanto mutata e in cos’ miserando stato, lottavano le due immagini, come se quella si ricusasse, tuttavia sdegnosa, al sentimento di pietà che questa gli ispirava, e non volesse distendersi su quel letto, colpita a morte, con quelle palpebre livide, con quella smunta effigie dolorosa.
Soltanto nei capelli le due immagini s’identificavano. Eran ben quelli di Fulvia, ancora, «la nube d’oro», com’egli nei primi anni del matrimonio li aveva chiamati; ma ora, così disciolti e sparsi sul guanciale, quanto rendevan più misero quel volto cangiato! quanto più triste, la fronte solcata nel mezzo da una ruga incisa come una lunga ferita mal rimarginata... Egli vi appuntò gli occhi, e in quel segno, che su la fronte della Fulvia da lui conosciuta sarebbe apparso come uno sfregio, e qui era testimonianza d’un lungo soffrire, lesse la trarotta vita di lei, il triste cammino fatto da quell’anima per cadere nella presente miseria.
Circa undici anni eran trascorsi, da che ella aveva abbandonato la casa maritale: in questo lasso di tempo, sbollito a poco a poco l’odio, egli si era saputo riconoscere per la massima parte cagione se la moglie era fuggita da lui. Ed ora la presenza di lei, che finiva così tristamente, gli dava immagine della vita a cui dopo il tradimento egli si era con vergogna ed orrore sottratto, ritirandosi in campagna e trasformandosi colà man mano fino al punto di poter dare ora a sè stesso la prova generosa e consolante della superiore equità conquistata dal suo spirito, coll’accorrere al letto di quella infelice a riconoscere il danno degli antichi suoi torti e ad accordarle il perdono.
Si chinò su la giacente e la chiamò due volte per nome, invano; fece per abbassarsi vieppiù su lei, poi si rizzò con un sospiro, posando su quella fronte la mano, invece delle labra. Al contatto del gelo mortale pensò al rimedio non ancora apprestato.

- La boccetta, - disse rivolgendosi al vecchio sacerdote.

Questi si recò subito nella stanza attigua per farsela dare dal Mauri. Lo trovò riverso su la spalliera del canapè col volto affondato tra le braccia.

- Non gliela do! - gli rispose il Mauri di scatto mostrando la faccia stravolta coi capelli e la barba scompigliati. - Meglio che muoia... senza vederlo... È una crudeltà! una crudeltà!

Ma si lasciò prendere dalla mano la boccetta, e si riversò novamente su la spalliera mormorando: - Vuol finirla, vuol finirla!
Alla puntura dell’ago sul braccio, la moribonda si scosse. Il Clerici terminò l’iniezione, abbassando il capo; poi si mostrò alla moglie.

- Fulvia!

Ella sbarrò gli occhi e fece quasi per rannicchiarsi, sgomenta, nel fondo del letto.

- Fulvia! - chiamò egli di nuovo. - Povera Fulvia...

Sgorgarono dagli occhi di lei due grosse lagrime che non poterono scorrerle per le guance, e le invetra- rono lo sguardo smarrito. Poco dopo le palpebre si richiusero. Ella non diede più altro segno di vita.
Dalla stanza attigua si sentiva la voce del Mauri, che ripeteva:

- La ammazza... la ammazza...

Il Clerici, urtato, venne a dirgli:

- Ancora qui Lei?

- Non me ne vado! - gli rispose pronto il Mauri, voltandosi e rimanendo seduto. - Lo so, Lei può scacciarmi... Lei ha tutto il diritto di scacciarmi...

- E La scaccio! - lo interruppe con violenza il Clerici.

- No... M’insulti... mi bastoni... ma mi lasci star qui... Che le faccio io, ora?... Che ombra posso darle?... Mi lasci star qui... Lei non può piangerla, signore... La lasci piangere a me, perchè ella ha bisogno d’esser pianta, più che perdonata, ha bisogno di tante lagrime per quella sua povera esistenza spezzata. E Lei, lo comprendo, non può dargliene... Lei, mi perdoni... dovrebbe uccidere colui che dopo avergliela tolta, ha avuto cuore d’abbandonarla... non deve scacciar me che l’ho raccolta, che l’ho adorata e che per lei ho spezzato anche la mia vita... Per lei, io, Marco Mauri, sappia che ho abbandonato la mia famiglia... mia moglie... i miei figli...

Si levò in piedi con gli occhi stravolti, le braccia alzate e aggiunse: - Veda un pò se è possibile che Lei mi scacci!
Si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani fin quasi a spezzarsi le dita, mentre lagrime silenziose gli scorrevano per la faccia fieramente contratta e andavano a inzuppargli l’ispida barba nera qua e là un po’ brizzolata. A un tratto si arrestò su la soglia della camera da letto.

- Non entri! - gl’intimò il Clerici.

- No... non entro... Mi permetta di sporgere il capo di qua dall’uscio per guardarla soltanto... Non entrerò, come vuol Lei.

Continuò a passeggiare e, passeggiando, a sparlare come in un delirio, gestendo continuamente. Il Clerici sedette presso al tavolino, su cui ardeva la candela, e si prese la testa tra le mani, non sapendo più in che modo regolarsi con colui, e provando quasi uno stordimento di vergogna, che l’avviliva.

- Lei, signore, - parlava intanto il Mauri come tra sè medesimo - non ha nessuna ragione d’esser geloso di me: perchè, lo vede?, ella sta per morire... E lei è venuto a perdonarla perchè ha saputo che ella stava per morire... altrimenti non sarebbe certo venuto... Oh, lo comprendo... Io comprendo. Lei non può esser geloso di me perchè Fulvia, quand’io l’ho amata, non Le apparteneva più... Ora essa, guardi, appartiene più a me... Lei, signore, è stato veramente generoso a venire: ma deve essere generoso anche con me, poiché ella muore, e dinanzi alla morte non c’è più rivalità... E poi Fulvia non si è uccisa per Lei, sa? Si è uccisa per me. Perchè è venuta da lei mia moglie a scongiurarla d’abbandonarmi; ed ella, poveretta, lusingandosi di ridar la pace a una famiglia, mi ha abbandonato, è fuggita, se n’è venuta qui... Appena l’ho saputo, l’ho raggiunta; e allora la disgraziata, dopo avermi più volte respinto, mi si è uccisa... Capisce? Lei, signore, in questo momento prova una bella sodisfazione... oh magnifica!... la sodisfazione della propria generosità... Compatisca chi prova invece lo strazio d’un doppio delitto...

Si fermò innanzi al Clerici e gli tese una mano.

- Sia generoso, mi stringa la mano... mi dica: - Sì, pover’uomo ti voglio degnar di tanto! - Me lo merito, glie lo giuro. Quantunque io, sa? d’ora in poi non possa più metter piede laggiù, nel mio paese. Tutti, tutti mi griderebbero: - Sciagurato! Cinque figliuoli innocenti in mezzo alla strada... - Stia zitto, per carità! Guardi, se mi lanciasse uno sputo e mi dicesse Tieni! lavati la faccia! - debbo cavare il fazzoletto dalla tasca e asciugarmela così, guardi così... Perchè mi merito anche questo... Ah, lo so... lo riconosco... Lei si vergogna di stringermi la mano? Ha ragione; ma crede che me ne offenda e me n’importi? Non m’importa di nulla, purché ella mi resti, purchè ella non muoia... Ah. qualunque cosa, qualunque cosa, purché ella non muoia! Lei non l’ha conosciuta, signore, mi perdoni... Lei non ha saputo apprezzarla, se lo lasci dire da me... Di tutto il tesoro di cui lei non ha saputo valersi, eccola qui una prova: io! mi vede? io che per acquistare questo tesoro ho dato la pace di tutta la mia vita... la mia fama d’onest’uomo perduta ormai nel concetto di tutti, anche di Fulvia sì... perchè ho mentito con lei: le avevo detto ch’io ero solo, che non avevo legami di sorta... altrimenti ella non avrebbe mai risposto al mio amore... tanto vero che, appena scoperto il mio inganno, è fuggita... e ora, eccola lì... s’è uccisa... Ah lei, signore no, non ha dovuto indovinar neppure che cuore avesse quella donna... Glielo dimostro io. Ho voluto dirle la mia vita, perchè conosco la sua: Fulvia stessa me l’ha narrata... senza mai accusarla, cercando anzi di scusarla... incolpando dei torti di Lei le donne, ch’ella odiava tutte profondamente in sè stessa... E quando, pochi giorni or sono, son venuto a raggiungerla qui, ha voluto scusare anche il mio tradimento, la mia menzogna, incolpando sè stessa, certi suoi vezzi involontarii, il malvagio istinto, com’ella lo chiamava, il bisogno cioè che sentono tutte le donne di piacere al marito della propria sorella... E anche quell’altro, quel vigliacco che, dopo averla sedotta, l’ha abbandonata, anche quell’altro ella scusava, mentr’io ne fremevo: diceva d’averlo stancato coi suoi timori... Ecco il concetto ch’ella aveva, signore, di noi uomini che la abbiamo ridotta in quello stato... Vada, vada a inginocchiarsi innanzi al letto di lei... e si faccia perdonare...
Il Clerici aveva conserte le braccia sul tavolino e vi aveva affondato la faccia. Quando da lì a poco, il prete ricordante si fece, sgomento, alla soglia della camera per chiamarlo, alzò la testa, poi balzò in piedi, ma non ebbe animo di accorrere al letto della morta, sentendo già i gridi e il pianto del Mauri accorso innanzi. Poco dopo, al pianto disperato di questo s’unì la preghiera dei defunti recitata dal vecchio sacerdote.

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Il carnevale del Trogoloni

Post n°714 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,rieccolo!A Carnevale poteva mancare Bernabò Trogoloni? Giammai,direte voi!
Ecco che ha combinato lo scellerato a Firenze in una settimana.
Leggete e inorridite!
LUNEDI'- Domenica prossima Eufemio Scappottati (vedi "Il primo aprile di Bernabò")si sposa.Oggi la fidanzata ha ricevuto una telefonata da una certa Ninuzza Mammazzò di Canicattì che le ha detto di essere la moglie di Eufemio da dieci anni,di avere da lui sette figli,quasi 8.laragazza ha riferito la cosa (ex campione nazionale di lotta grecoromana)e ai 6 fratelli (due pugili,due karateka,due esperti di kickboxing)
L'Eufemio è vivo ma non ha più un osso sano
MARTEDI'- Spacciandosi per chiromante,Bernabò ha detto alla sua pettegolissima e antipaticissima portinaia che suo marito la tradisce con sua sorella e che venerdì prossimo fuggiranno alle Bahamas.
Marito e sorella sono a Careggi più morti che vivi e la portinaia è in prigione per tentato omicidio
MERCOLEDI'- Bernabò ha rivelato alla famosa animalista Artemisia Carbonelli che il pollaiolo Clodomiro Trippacchioni rapisce e uccide gatti vendendoli poi come conigli.
L'Artemisia e 4 sue colleghe hanno distrutto la polleria e spedito il pover uomo a far compagnia allo Scappottati e al portinaio.
GIOVEDI'- Il Trogoloni ha telefonato alla barista Natalina Pavonazzi facendosi passare per un trans brasiliano e raccontadole tutti i particolari più piccanti sulla sua relazione col di lei marito Eustachio.
Indovinate dov'è ora il poveraccio?
VENERDI'- Bernabò ha fatto credere alla merciaia Cleonice Scoppietti che suo genero,Tonino Papocchia,ha ingaggiato un killer per ucciderla.
Il Papocchia,impallinato a sale nel fondoschiena,è in ospedale
SABATO- Spacciandosi per il Porchettoni,Bernabò ha fatto 145 telefonate oscene alla Strascicotti,che ha riferito la cosa all'iracondo fratello Calogero Maria.
Il pover'uomo adesso è in camera con gli altri disgraziati
DOMENICA-Recatasi a trovare il padre, ed ascoltati i racconti dei suoi compagni di sventura,la Nerina ha fatto due più due ed avvertito la fidanzata dello Scappottati,la portinaia,la Carbonelli,la Pavonazzi ,la Scoppietti e la Strascicotti.
Per sottrarre Bernabò alle virago c'è voluta una carica della polizia
Sono passate tre settimane.
Il Trogoloni è a Careggi.
Fuori lo attendono lo Scappottati con suocero e cognati ( Eufemio si è sposato,alla fine),il portinaio,il Trippacchioni,l'Eustachio,il Papocchia,il Porchettoni e il Calogero Maria.
Sfuggirà stavolta al castigo?Con questo inquietante interrogativo passo e chiudo

 
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Amore antico e amore nuovo (Teasdale)

Post n°713 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nel mio cuore l'antico amore
Lottò col nuovo;
Rimase spettralmente sveglio
Tutta la notte.
Care cose, cose gentili
Che il mio antico amore disse,
Risuonavano esse stesse con aria di rimprovero
Attorno al mio letto.
Ma io non potevo ascoltarle,
Perché sembravo vedere
Gli occhi del mio nuovo amore
Fissi su di me.
Antico amore, antico amore,
Come posso essere vera?
Sarò disonesta verso me stessa
O verso te?

 
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Libri dimenticatio:il mio piede sinistro

Post n°712 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Christy Brown nasce in una numerosa famiglia irlandese di scarsi mezzi e nasce tetraplegico.Riesce solo a muovere il piede sinistro e con l'aiuto della madre imparerà a scriversi ed esprimersi.Dal libro è stato tratto il film con Daniel Day Lewis

 
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Frase del giorno

Post n°711 pubblicato il 13 Settembre 2011 da odette.teresa1958

La ricerca della verità è più preziosa del suo possesso (Einstein)

 
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