Messaggi del 14/09/2011

Il sacchetto con due soldi

Post n°728 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta un vecchio e una vecchia.
La donna aveva una gallina e l’uomo un gallo. La gallina faceva due uova al giorno, ogni giorno.
La vecchia aveva tante uova da mangiare e al vecchio non dava niente…L’uomo non ce la faceva più e un giorno disse :
-Vecchia mia , tu hai che tanto da mangiare potresti regalare anche a me due o tre uova che mi fanno tanta voglia.
La donna che era molto tirchia rispose:
-Come no! Se hai tanta voglia di uova picchia il tuo gallo come ho fatto io con la mia gallina e così non mi fa mai mancare le uova.
L’uomo che non era molto furbo ed aveva tanta voglia di mangiare le uova acchiappò il gallo e lo picchiò poi disse:
-Tu che mangi a tradimento…o fai le uova…o vai via da casa mia.
Il povero gallo quando finalmente riuscì a liberarsi, scappò via. Vagava intontito per le vie del villaggio….ed ecco vide davanti a se in mezzo alla strada un sacchetto con due soldi che si affrettò a raccogliere. Poco dopo passò sulla stessa strada una carrozza di un gran signore accompagnato da un gruppo di signore. Il signore guardò il gallo e vide il sacchetto nel suo becco. Il signore chiese al cocchiere di andare a vedere cosa portava il gallo nel suo becco. Il cocchiere sceso dalla carrozza riuscì a portare via il sacchetto del gallo. Il signore prese il sacchetto e se lo mise in tasca poi ordinò di partire.
Il gallo arrabbiato non rinunciò al suo sacchetto e inseguendo la carrozza gridava:

COCORICO! Grandi signori
Restituite il sacchetto con due soldi!


Il signore infastidito quando passarono vicino ad un pozzo, disse al cocchiere:
- Prendi quel gallo sfacciato e buttalo nella fontana.
Il cocchiere scese un’altra volta, preso il gallo lo gettò nel pozzo. Al gallo non rimase altro da fare che bere e bere ancora tutta l’acqua del pozzo poi volando fuori ricominciò a gridare:

COCORICO! Grandi signori
Restituite il sacchetto con due soldi!


Il signore, molto infastidito dalla sfacciataggine del gallo, arrivato a casa ordinò ad una cameriera di prendere il gallo e buttarlo nel forno.
La cattiva cameriera esegui l’ordine del suo padrone. Il gallo, appena visto questo nuovo sopruso, riuscì a rimettere tutta l’acqua che aveva bevuto, spegnendo la carbonella ardente, poi uscito dal forno, cominciò a bussare alle finestre della villa gridando:

COCORICO! Grandi signori
Restituite il sacchetto con due soldi!


Il signore ordinò di buttare il gallo in mezzo alle mandrie di animali della fattoria.
Il gallo felice si mise ad ingoiare mucche e buoi, vitelli e cavalli e con la pancia piena continuò a sbraitare:

COCORICO! Grandi signori
Restituite il sacchetto con due soldi!


Il signore arrabbiatissimo ordinò di gettare il gallo nella stanza del tesoro: forse qualche moneta gli andava di traverso.
Il gallo ingoiò tutte le monete d’oro e poi:

COCORICO! Grandi signori
Restituite il sacchetto con due soldi!


Finalmente il signore disperato restituì il sacchetto al gallo che tutto contento prese la strada di casa.
Tutti i volatili della casa del signore, visto quanto era bravo il gallo lo seguirono.
A questo punto il signore era felice di non vedere più il gallo.
Arrivato al portone della casa del suo padrone il gallo cominciò a chiamare:
COCORICO! COCORICO!
Sentito il richiamo del suo gallo, il vecchio corse fuori dalla casa. Il gallo era impressionante: grande come un elefante e seguito da migliaia di oche, galline, anatre, tacchini...
Il gallo disse all’uomo di stendere un tappeto in mezzo al cortile, poi movendo le ali lo riempì di alti animali. Il vecchio felice abbracciava il suo gallo.
Venne fuori anche la vecchia che invidiosa chiese qualche moneta al vecchio che ricordò il consiglio di picchiare il gallo avuto da lei. La vecchia picchiò la gallina fino alla morte. La vecchia rimase anche senza le uova e non aveva più niente da mangiare.
Il vecchio impietosito la nominò guardiana delle sue galline.
Quanto al gallo andava in giro insieme al suo padrone con collane di monete d’oro: erano ricchi e benvisti da tutti.

 
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Giovinezza senza vecchiaia

Post n°727 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta... se non ci fosse stato non si racconterebbe, quando sui pioppi crescevano le mele, quando gli orsi sbattevano la coda, quando i lupi e gli agnelli si abbracciavano e si baciavano fraternamente, quando alle pulci si mettevano i ferri da cavallo pesantissimi e continuavano a saltare fino alle nuvole...i più bugiardi sono quelli che non mi credono.

C’erano dunque un potente imperatore e un’imperatrice giovani e belli che nel desiderio di avere figli avevano varie volte fatto tutto il necessario.
Erano stati a consultare filosofi e maghi per far leggere le stelle e riuscire a prevedere l’arrivo di un erede ma niente.
L’imperatore venne a sapere che in un vicino villaggio viveva un vecchietto in gamba e mando a chiamarlo ma lui rispose ai messi che chi ha bisogno di lui lo deve venire a trovare. L’imperatore e l’imperatrice accompagnati da consiglieri, soldati e servitori andarono alla casa del vecchietto.
Avendoli visti arrivare, il vecchietto usci a riceverli e disse:
- Siate benvenuti ma cosa volete sapere? quello che desideri ti porterà tristezza.
-Non sono venuto a chiederti questo disse l’imperatore ma vorrei sapere se hai una cura per poter avere bambini.
-La cura esiste ma avrete un solo bambino.
Poi dette loro delle pozioni.
Tornarono contenti al castello e dopo pochi giorni l’imperatrice rimase incinta. Tutto il regno e tutta la corte erano felici.
Ma ancora prima di nascere il bambino si mise a piangere e nessuno conosceva un rimedio al suo pianto.
L’imperatore li promise tutte le ricchezze del mondo ma non riuscì a farlo tacere.
- Caro amore di papà, ti darò quel regno o quell’altro ti farò sposare la principessa più bella e finalmente disse:
- Ti darò la giovinezza senza vecchiaia e la vita senza morte!
Allora il bambino si quietò e poco dopo venne al mondo.
La gioia fu altissima:le feste durarono per tutt’una settimana.
Man mano che cresceva il bambino diventava sempre più bravo ed intelligente. Lo misero a studiare nelle migliori scuole e presso i più grandi filosofi. Tutto quello che gli altri bambini imparavano in un anno, lui lo sapeva già dopo un mese. Tutto il regno gioiva di avere un erede al trono tanto bravo quanto re Salomone.
All’improvviso il ragazzo divenne triste e pensieroso.
Il giorno del suo quindicesimo compleanno l’imperatore dette un grande ricevimento al palazzo.
In mezzo alla festa il principe si alzò e disse:
-Papà e’ venuto il tempo di darmi quello che mi hai promesso alla nascita.
Sentite queste parole l’imperatore tristissimo disse:
-Caro figlio, come potrei darti cose impossibili ? avevo fatto quella promessa solo per farti quietare.
- Se non puoi darmi quello che hai detto sarò costretto a girare il mondo per trovare la promessa per la quale sono nato.
Tutti i presenti: l’imperatore, i nobili, i ministri si inginocchiarono e lo pregarono di non lasciare il regno. Dicevano:
- Tuo padre ormai e’ vecchio, ti mettiamo al suo posto e ti porteremo la più bella principessa per farti da sposa.
Era impossibile far cambiare la decisione del principe.
Allora il padre decise di permettere la partenza del principe e ordinò i preparativi.
Il principe andò alle scuderie imperiali per scegliere un cavallo degno di lui…ma tutti i cavalli crollavano sotto la sua spinta…
Quando stava per lasciare la scuderia notò in un angolo un animale magro e mal ridotto. quando lo tocco il cavallo disse:
-Comandi padrone…ringrazio il cielo che mi ha mandato un baldo giovane come te…
Il cavallo alzandosi stette dritto come una candela. il principe chiese che intenzioni avesse e il cavallo rispose:
-Devi farti dare da tuo padre la spada, la lancia, l’arco e la faretra con le frecce e i vestiti di quando era giovane. Mi devi curare con le tue mani, e darmi l’orzo cotto nel latte.
L’imperatore chiamo il gran maggiordomo e gli disse di aprire al figlio tutti gli armadi. dopo aver cercato tre giorni e tre notti il principe trovò in una vecchia cassapanca le armi e i vestiti dell’imperatore da giovane. Per sette giorni il principe lavorò per togliere la ruggine dalle armi. Intanto curava anche il suo cavallo.
Quando il cavallo venne a sapere che Belprincipe aveva pulito e ripristinato i vestiti e le armi si alzò e scuotendosi fecce andare via tutte le piaghe e i bubboni che aveva addosso trasformandosi in un bellissimo stallone… Belprincipe disse:
- Fra tre giorni si parte
-Per me possiamo partire anche subito
Il giorno della partenza la corte, il palazzo e tutto il regno erano listati a lutto: Belprincipe vestito da cavaliere sul suo cavallo salutò tutti uno a uno dall’imperatore all’ultimo stalliere.
Tutti piangevano e continuavano a pregarlo di non partire ma egli, spronando il cavallo, uscì dal portone.
Lo seguivano dei carri con viveri, soldi e vettovaglie e circa duecento soldati mandati dall’imperatore per accompagnarlo.
Uscito dai territori dell’impero Belprincipe regalò tutti i suoi averi ai soldati e salutandoli li mandò indietro portando con se solo i viveri che poteva trasportare. Prese la strada per l’est e andò, andò, andò tre giorni e tre notti. Giunse ad un estesa pianura ricoperta da ossa umane.
Fermandosi a riposare il cavallo gli disse:
-Sappi padrone che ci troviamo sulle terre di Ghenoia, una donna malvagia che uccide ogni persona che osa entrare nelle sue terre. Una volta era una donna come le altre ma la maledizione dei suoi genitori che lei non ascoltava e che faceva soffrire l’hanno fatta diventare così. Adesso si trova con i suoi figli ma domani la incontreremo nel bosco dove lei ti aspetterà per ucciderti. E’ molto grossa ma non devi aver paura ed essere pronto con l’arco e le frecce e tenere a portata di mano la spada e la lancia.-
L’indomani all’alba si preparavano a partire quando si sentì un fracasso tremendo.
-Ecco padrone è lei che sta arrivando-.
Al suo passaggio buttava già gli alberi. Il cavallo, sfruttando il vento, salì al di sopra della Ghenoia e Belprincipe la colpì con due frecce una per gamba.
-Ferma bel Principe, non voglio farti del male e per provartelo ti firmo il mio impegno con il sangue. Devi ringraziare il tuo cavallo se le tue ossa non sono andate a raggiungere quelle che hai visto nella pianura. Sappi che nessun estraneo è giunto fino qua; qualche pazzo è arrivato fino alla pianura delle ossa.-
Andarono alla casa di Ghenoia che organizzò una festa in suo onore. La strega pregò Belprincipe di fermarsi per sposare una delle sue figlie ma egli rifiutò rammentando cosa cercava.
-Con il cavallo ed il coraggio che ti ritrovi penso riuscirai nell’impresa.
Dopo tre giorni di preparativi ripartirono; camminò, camminò e quando passò il confine delle terre di Ghenoia trovò una pianura per metà bella con piante fiorite e per l’altra metà bruciata.
Belprincipe chiese al cavallo perché l’erba era bruciata.
-Qui siamo nella tenuta di Scorpia, la sorella di Ghenoia. Scorpia è peggiore della sorella: ha due teste che sputano fuoco.
L’indomani stavano per partire quando arrivò Scorpia sputando fuoco. Il cavallo prese il volo sul vento e Belprincipe colpì con una freccia la testa della strega. Quando stava per colpire l’altra testa Scorpia piangendo chiese tregua.
Come prima dalla sorella Belprincipe passò tre giorni nella casa di Scorpia e poi partì.
Passato il confine incontrò una pianura. Il tempo era bello ma il cavallo disse:
-Ci aspetta la prova più grande: un po’ più avanti c’è il castello di Vita Senza Morte e Giovinezza Senza Vecchiaia. Intorno al castello un bosco impenetrabile pieno di bestie feroci. Non possiamo passare attraverso; posso solo provare a saltare sopra il bosco. Aggrappati alla mia chioma.
Il cavallo prese il volo e riuscì ad arrivare alla radura al centro del bosco. Ma senza l’aiuto della fata del posto sarebbero caduti in mezzo alle bestie feroci. La fata invitò Belprincipe dentro la casa. All’interno c’erano altre due ragazze, le sorelle della fata.
La vita era molto bella e Belprincipe rimase insieme a loro. Gli dissero che poteva girare ovunque; l’unico posto da non vistare era la valle del pianto.
Il tempo passava e Belprincipe non si accorgeva. Un giorno cacciando una lepre si ritrovò senza saperlo nella valle del pianto. Tutto ad un tratto provò nostalgia di suo padre, tornò al castello e prese congedo dalle ragazze.
Sulla strada del ritorno non trovò più le tenute di Ghenoia e di Scorpia e nessuno sapeva niente di loro. Tutto era cambiato, anche il castello dei suoi genitori era in rovina e nessuno si ricordava più dell’Imperatore suo padre.
Cercando ovunque arrivò in una stanza dove trovò un vecchio baule e quando l’aprì senti una voce:
-Benarrivato, ti aspettavo da tanto!
Era la Morte.





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L'imperatore e le fate

Post n°726 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Imperatore, che chiamavano l'Imperatore Verde. Era un gran cacciatore, come d'altronde lo sono tutti gli imperatori.
Un giorno, andando a caccia, si mise sulle tracce di un cervo e continuò a inseguirlo attraverso i boschi, finché non calò la notte...Che fare? Era solo, perché si era allontanato dai suoi uomini; e il buio era così fitto, che si poteva tagliare con il coltello. Allora si arrampicò sulla cima di un albero e guardò tutto intorno, se mai potesse scorgere in lontananza il chiarore di un fuoco o di un lume, per raggiungerlo. E in effetti riuscì a intravedere un piccolo barlume, lontano lontano.
Scese dall' albero e si avviò in quella direzione.
Nel cuor della notte capitò alla capanna di un uomo povero povero: nel camino ardeva un fuocherello e su un giaciglio soffriva una donna malata. Fuori pioveva a catinelle, tuonava e folgorava che sembrava la fine del mondo.
"Salute, buona gente ! Permettetemi di trascorrere la notte qui con voi, perché mi sono perduto nel bosco e fuori c'è buio e fa un tempaccio che neanche i cani vogliono uscire."
Quella povera gente provava un grande imbarazzo a tenere in casa un forestiero proprio allora che la donna era ammalata, ma neppure se la sentivano di rifiutare ospitalità ad un cristiano, nel cuor della notte e con un tempo come quello. Perciò gli consentirono di coricarsi su una cassapanca vicino alla finestra. Nemmeno passò loro per la testa, che quello fosse l'Imperatore in persona.
Poco dopo, quella notte stessa, la donna diede alla luce una bella bambina; quindi furono presi tutti dal sonno.
Ma l'Imperatore, che era abituato a dormire in morbidi letti imperiali, non riuscì ad addormentarsi su quella cassapanca di legno e si rigirava di qua e di là, fino al canto del gallo di mezzanotte.
Allora arrivarono le fate alla finestra della catapecchia e cominciarono a vaticinare.
Una disse: "Questa bambina sarà la donna più bella e più saggia di tutto l'Impero".
La seconda fata disse: "Questa bambina passerà per grandi disgrazie, ma tutto finirà bene".
E la terza: "Quando avrà vent'anni, si sposerà con il figlio dell'Imperatore Verde, ma l'Imperatore, per il dolore, si impiccherà quel giorno stesso".
Dopo aver pronunciato le loro parole, volarono via dalla finestra e non fecero più ritorno.
L'Imperatore aveva ascoltato bene le loro parole; perciò, se non aveva potuto dormire fino a quel momento, non ci riuscì neanche dopo. Tutta la notte si tormentò il cervello, pensando come avrebbe potuto fare per rendere vane le parole delle fate.
All'alba si svegliarono anche gli altri. Essi non avevano udito nulla delle parole delle fate.
Quando si furono alzati dal letto l'Imperatore disse loro: "Guardate, buona gente, voi siete poveri e giovani e Dio vi può dare altri figli. Datemi questa bambina, ché io sono ricco e non ho figli, così la crescerò come mia figlia adottiva e quando sarà grande le darò una dote come si deve".
Dapprima marito e moglie erano contrari; ma, quando egli donò loro una borsa di denaro, accettarono la borsa e gli diedero la bambina.v L'Imperatore la prese tra le braccia, così in fasce com'era, e se ne andò con lei per il bosco. Arrivato vicino a dei cespugli, oplà, ci buttò la povera bambina e disse tra se: "Vedremo, se diventerai mia nuora!".
Poco dopo, passò di il il medico imperiale: era dalla sera precedente che cercava l'Imperatore, ma non si erano incontrati. Quando arrivò vicino ai cespugli, gli parve di udire la voce di un neonato. Cerca a destra, cerca a sinistra, ma non vede niente.
Scosta con un piede un cespuglio di fragole selvatiche e trova un bimbo in fasce.
Il dottore... ne fu molto contento, perché era ricco e non aveva figli e poi il bimbo era bello e dava segni di buona salute. Lo portò dunque a casa con se, senza proseguire nella ricerca dell'Imperatore, perché lo stavano cercando anche tanti altri.
A quel tempo l'Imperatore aveva un unico figlio, un bambino di tre anni.
Sei anni dopo, il dottore fece un grande banchetto, al quale invitò anche l'Imperatore, l'Imperatrice e il principino, quell'unico figlio che Dio gli aveva dato.
I grandi mangiavano e bevevano, secondo la consuetudine, mentre i bambini, cioè il figlio dell'Imperatore e la figlia del dottore, giocavano insieme.
Verso sera, quando fu il momento di prepararsi per tornare a casa, l'Imperatore domandò dove fosse suo figlio e vide che stava giocando in giardino con la figlia del dottore.
"Che bella bambina avete, dottore!", disse l'Imperatore quando i bambini arrivarono dal giardino.
"Quanti anni ha? Più o meno avrà l'età del nostro bimbo."
"Sei anni esatti, Maestà. La trovai nel bosco quando Sua Maestà Imperiale si smarrì e noi cercammo da ogni parte. Ricorda?"
"Ah, davvero?", disse l'Imperatore.
"Proprio così, Maestà", rispose il dottore.
Se uno avesse guardato con attenzione l'Imperatore, avrebbe visto che a quelle parole era impallidito. Ma subito aveva ripreso il controllo di sé ed era tornato a casa chiacchierando con l'Imperatrice come se non fosse accaduto nulla.
Ma c'era un tarlo che gli rodeva il cuore: i discorsi delle fate! E lo irritava molto anche suo figlio, che, da quando aveva conosciuto la bambina del dottore, la voleva andare a trovare almeno una volta al giorno.
L'Imperatore, vedendo come stavano le cose, concepì un piano nella sua mente.
Chiamò a se il dottore e la moglie del dottore e tenne questo discorso:
"Sapete? Questi bambini stanno troppo bene insieme e sarebbe un peccato separarli. Facciamoli crescere insieme, poi sarà quel che Dio vorrà. Lasciate che la vostra figliola venga ad abitare qui a Palazzo. Poi verranno insieme a trovarvi; ma per adesso lasciate che stiano bene, finché non conoscono bene e male. Quando poi li conosceranno, non gli si potrà impedire di esser felici".
Il dottore e sua moglie furono d'accordo e la bambina fu subito portata al Palazzo imperiale, dove fu trattata come se fosse figlia di Imperatore.
L'Imperatore se la tenne per un po'; ma una mattina il principino, svegliatosi, non la trovò più. Chiese a suo padre dove fosse la bambina e quello gli rispose che la aveva mandata a scuola nella città vicina. Il bambino ci credette, ma non era vero: quella notte stessa l'Imperatore l'aveva rinchiusa dentro una gran botte e aveva posato la botte sulle onde del Danubio. Così sarebbe perita e le parole delle fate non si sarebbero avverate.
Ma l'uomo propone e Dio dispone. La botte fu trasportata a valle dalle onde, finché arrivò al mulino dell'Imperatore e si fermò sull'imbarcatoio.
I molinai, come videro la botte, la presero e la portarono nel mulino, poi la aprirono per vedere che cosa ci fosse dentro. Quando trovarono la bambina, si rallegrarono moltissimo, tanto più che la molinaia non aveva figli. Ma breve fu la loro gioia, perché dopo qualche giorno l'Imperatore mandò al mulino alcuni uomini con il frumento dell'autunno, a fargli la farina dell'inverno. In mezzo a loro si era infilato anche il figlio dell'Imperatore, come fanno i bambini che si arrampicano in cima ai sacchi; quando fu al mulino e vide la sua amica, la riconobbe subito e non si volle separare da lei.
Quando i cortigiani ebbero finito di macinare, tutti e due si misero a sedere in cima ai sacchi e ritornarono al Palazzo.
Allorché l'Imperatore li vide in cima al carro, rimase di stucco, perché ormai pensava che lei fosse annegata. Adesso cominciava a credere che non c'era modo per proteggersi dal vaticinio delle fate, sicché si rassegnò al proprio destino.
I bambini rimasero ancora insieme; ma quando lui ebbe compiuto tredici anni e lei dieci, l'Imperatore fece fare due anelli d'oro con un diamante incastonato, ne diede uno a ciascuno e disse:
"Da oggi vi separerete per dieci anni e in questo periodo ciascuno di voi due imparerà ciò di cui ha bisogno per vivere. Tu, ragazzo, andrai nella tal città, nel tal reggimento e imparerai bene l'arte della guerra; tu, bambina, andrai nella tal città da mia sorella e là imparerai ad essere una buona massaia, per poter diventare Imperatrice. State bene attenti, però, a non perdere i vostri anelli, perché tra dieci anni chi si presenterà davanti a me senza anello pagherà con la testa la propria temerità e l'infedeltà nei confronti dell'altro".
Il ragazzo fu mandato ad un reggimento, lontano, mentre la ragazza andò dalla parte opposta, da una sorella dell'Imperatore Verde.
Intanto l'Imperatore Verde mandò una lettera a sua sorella, dicendole di tenersi la bambina per dieci anni e di ammaestrarla come meglio sapeva, perché sarebbe diventata sua nuora, e di presentarsi con lei alla corte imperiale dieci anni più tardi, senza fallo. Nella lettera c'era anche scritto che doveva fare in modo di rubare alla bambina l'anello col diamante e mandarlo a lui, se fosse stato possibile.
Il ragazzo, al reggimento, imparò tutte le cose della guerra, cioè come ammazzare alla svelta e con successo il maggior numero di uomini adatti al lavoro, come lasciare mamme senza figli, mogli vedove, ragazze senza innamorati e altre cose di questo genere.
La ragazza imparò a filare e a cucire, a tessere e a cucinare e a fare tutte quelle cose che una buona massaia deve saper fare.
Ormai stavano per compiersi i dieci anni.
Una mattina, mentre stava impastando il pane, la ragazza posò l'anello su una sedia vicino a sé. Finito che ebbe di impastare, lo cercò, ma era introvabile: sembrava che la terra se lo fosse inghiottito. Cercarono a destra, rovistarono a sinistra, frugarono dappertutto, misero sottosopra i letti. Non c'era. La ragazza era terribilmente accasciata e dal dolore stava per sprofondare sottoterra.
Sua zia (ché chiamava zia la sorella dell'Imperatore ) sua zia la consolava con le parole, ma in cuor suo diceva: "E mio nipote dovrebbe sposare una come te? Dovrebbe prendersi una poveraccia, quando può sposare la figlia di un re o di un imperatore? E il mio caro fratello si dovrebbe impiccare a causa tua? Mai!".
Impacchettò l'anello col diamante, che proprio lei aveva rubato mentre la ragazza impastava il pane, e lo mandò subito a suo fratello l'Imperatore Verde. È chiaro che si erano consultati di nascosto e avevano stabilito che cosa fare e come fare. Alla vista dell'anello, l'Imperatore gioisce. Lo esamina per bene e, dopo essersi accertato che è proprio quello che aveva consegnato alla ragazza dieci prima, si reca da solo sulla riva del Danubio e... giù dentro l'acqua!
Adesso era tranquillo, coi suoi cattivi pensieri. Sapeva che nel giro di qualche settimana i ragazzi sarebbero tornati a casa e che quello senza l'anello sarebbe stato condannato a morte, perché non aveva conservato la fede. Perciò ordinò che venisse innalzata una forca vicino al Danubio: l'infedele avrebbe scontato la meritata condanna.
Al momento stabilito, i due ragazzi arrivarono a casa entrambi. Lui, allegro, alla testa di un reggimento di cavalleria; lei, tremendamente addolorata, senza l'anello.
Per il giorno del loro arrivo, l'Imperatore aveva decretato un grande banchetto, con una festa mai vista prima, perché si sarebbe sposato suo figlio.
Giunti ambedue alla corte imperiale, prima di incontrarsi dovettero dare la dimostrazione ciascuno della propria bravura. Lui guidava e istruiva i cavalleggeri, lei andava in cucina e preparava di sua mano le vivande.
Dentro a una grande madia, la ragazza trovò una gran quantità di pesce fresco, pescato nel Danubio; quindi cominciò a pulirli, uno dopo l'altro.
Ne aveva puliti due o tre, quando rimase di stucco per la gioia: nelle viscere di un pesce trovò il suo anello di sposa!
Se lo infilò subito al dito e continuò a lavorare alacremente, ringraziando in cuor suo il buon Dio perché non l'aveva abbandonata.
Frattanto l'Imperatore stava tenendo consiglio coi ministri. "Forse ci saranno nozze, forse ci sarà morte", diceva l'Imperatore, "perché dieci anni fa, quando li mandai a imparare l'arte, li fidanzai e diedi a ciascuno un anello con un diamante; ma dissi loro che chi fosse tornato qui senza l'anello avrebbe pagato la propria temerità con la testa. Ho anche ordinato di erigere una forca, perché chi non ha obbedito dovrà essere castigato. Un Imperatore non può passar sopra alla slealtà."
"Viva Sua Maestà l'Imperatore!", gridarono i ministri, "Saggia è la sua decisione e dovrà essere come ha stabilito Sua Maestà."
Poi mandarono a chiamare il ragazzo, che arrivò vestito con l'uniforme di generale e con l'anello col diamante al mignolo perché adesso non gli andava più bene nelle altre dita: da bambino che era, in dieci anni era diventato un giovanotto alto e ben messo.
L'Imperatore e i ministri esaminarono minuziosamente l'anello e si resero conto che era quello di dieci anni prima. Furono perciò molto contenti.Poi fu il turno della ragazza.
L'ordine la raggiunse mentre si trovava in cucina a far focacce sulla lastra di pietra. Era tanto fiera di essersi rosolata accanto al fuoco mentre preparava le focacce, che nessuno si stancava di guardarla. Sottoposero ad esame anche il suo anello e, verificando che era quello di dieci anni prima, furono molto contenti, in particolare il ragazzo.
C'era uno, però, che se ne stava meravigliato e pensieroso con l'anello in mano, ed era l'Imperatore. Non riusciva a capire come quell'anello avesse potuto riemergere dal fondo del Danubio.
Comunque fece finta di gioire anche lui, ma solo lui si sentiva sul cuore una macina di mulino.
In quello stesso giorno fecero venire il pope, che li sposò secondo la legge cristiana. Poi andarono a banchettare.
L'imperatore, prima che i commensali si disperdessero, disse con voce alta e chiara: "Onorati commensali! Sappiate che a partire da oggi mio figlio sarà Imperatore al mio posto; mia nuora sarà Imperatrice, perché è degna di esserlo, dal momento che le fate hanno vaticinato che sarà la donna più bella e più saggia del mio Impero. Quanto a me, sono invecchiato, ho terminato".
I commensali gridarono: "Evviva!". Ma lui uscì fuori e, per la rabbia di non essere riuscito a impedire la decisione delle fate, si impiccò proprio sulla forca che aveva fatta costruire per sua nuora.
Così, anche in questo punto, si avverò la parola delle fate.

 
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La diligenza a dodici posti

Post n°725 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

La notte era gelida e limpidissima: il cielo brillava di stelle. L'orologio della chiesa scoccò dodici rintocchi, e subito i mortaretti incominciarono a scoppiettare e una vecchia latta volò fuori da una finestra, perché era l'ultima notte dell'anno. In quel preciso momento, una vecchia diligenza sconquassata venne a fermarsi alla porta della città; portava dodici viaggiatori, quanti erano i posti.
I nuovi arrivati scesero dalla diligenza. Tutti erano forniti di passaporto e di bagaglio e portavano persino dei doni per me, per voi, per tutti.
- Buon anno! - augurò la sentinella. - avanti il primo: dichiarate nome e professione.
Il primo viaggiatore era tutto avvolto in una pelliccia d'orso e calzava stivaloni di pelo.
- Potete consultare il mio passaporto-disse - io sono colui a cui tutti guardano sempre con speranza. Distribuisco mance e regali, e ne darò uno anche a voi, se verrete a trovarmi domani. Faccio inviti e feste di ballo, ma non posso darne più di trentina. Le mie navi sono imprigionate in mezzo ai ghiacci, ma nella mia casa fa caldo. Mi chiamo Gennaro.
- Avanti il secondo - disse allora la sentinella.
Questi era un personaggio gioviale e pazzerellone: organizzava balli e divertimenti di ogni genere. Portava seco un grosso barile.
- Quando c'è questo, c'è baldoria - dichiarò. - Voglio stare allegro, perché ho poco tempo da vivere: ventotto giorni soltanto. Ogni tanto mi aggiungono un altro giorno per la buona misura, ma non ne faccio gran calcolo. - Poco chiasso! - ammonì la sentinella.
- Io posso fare tutto il chiasso che voglio - replicò l'altro. - Sono il Principe Carnevale, ma viaggio in incognito sotto il nome Febbraio.
Il terzo viaggiatore era magro come la quaresima. Studiava il cielo camminando col naso in aria, perché predicava il tempo e le stagioni. Al risvolto della giacca portava un mazzolino di violette piccine, piccine. Il quarto viaggiatore gli batté la mano sulla spalla.
- Don Marzo, - esclamò sento odor di punch! Nella saletta dei doganieri stanno preparando la tua bevanda preferita. Corri subito a vedere!
Non era vero: il nuovo venuto voleva soltanto giocare un tiro al suo compagno di viaggio; infatti si chiamava Aprile e incominciava la sua carriera con un pesce. Aveva un aspetto gaio, forse perché lavorava poco.
Dopo di lui scese una bella fanciulla che si chiamava Maggiolina. Indossava un vestito color dell'erba tenera. Aveva nei capelli un mazzolino di anemoni e profumava di tino. Quel profumo era tanto forte che la sentinella starnutì.
- Dio vi benedica! - disse la fanciulla.
- Fate largo che scende la dama di Giugno - avvertì il cocchiere.
La signora scese. Era una dama molto bella e un poco altera. L'accompagnava Luglio, suo fratello minore. Questi era un giovane grassoccio, indossava abiti estivi e portava sulla testa un largo cappello di panama.
Un po' affannata e rossa in viso scese poi Mamma Agostina. Era una venditrice di frutta, proprietaria di molti terreni, sempre in faccende.
Dalla diligenza, dopo di lei, sbucò un pittore: il professor Settembre. Aveva per sbaglio i tubetti del colore, perché il colore era la sua passione. Infatti appena entrava nelle foreste, gli alberi e le foglie sfoggiavano la più variopinta magnificenza; qua rosso acceso, là giallo, più in là bruno dorato.
Comparve poi un gentiluomo di campagna, il Conte Ottobre. Amatissimo della caccia, portava con sé il fucile, il cane e il carniere pieno di noci.
Novembre, il suo compagno, era tormentato da una violenta infreddatura. Era provveditore dei Focolari e doveva pensare alle provviste di legna, spaccarla e segarla.
E finalmente ecco l'ultimo viaggiatore: Nonno Dicembre, che stringeva lo scaldino fra le mani. Era freddoloso e intirizzito, e portava in braccio anche un piccolo abete.
- Voglio che cresca tanto da toccare il soffitto, alla sera di Natale - disse, - Così si potrà adornarlo con palle d'argento, candeline colorate e angioletti.
Il doganiere lo interruppe:
- Ogni passaporto è valido per un mese - avvertì. - Io lì ritirerò e, scaduto il tempo consentito, scriverò le note relative alla vostra condotta.
Finito l'anno, cari lettori, credo che anch'io saprò dirvi che cosa i dodici viaggiatori avranno portato in regalo a me, a voi, a tutti, ma per ora davvero non lo so! Forse non lo sanno neanche loro. Si vive in tempi così strani…


di Hans Christian Andersen

 




 
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La settimana di un piccolo elfo

Post n°724 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nessuno al mondo sa raccontare tante storie come Serralocchi. E come le racconta bene!. Verso sera, quando i bambini sono seduti tranquillamente a tavola o sulla loro seggiolina, Serralocchi arriva. Non lo si ode salire la scala, perché ha le pantofole di velluto; apre adagio, adagio la porta e, appena entrato, butta del latte negli occhi dei bambini con molta delicatezza e nello stesso tempo in tale quantità ch'essi non possano vederlo. Scivola dietro a loro, soffia loro nel collo, cosa che rende la testa pesante,si, ma questo non fa male.
Il piccolo Serralocchi non ha cattive intenzioni, vuole soltanto che i bambini siano buoni, e i bambini lo sono soltanto quando dormono.
Vuole che siano buoni e tranquilli per poter raccontare le sue storie che sono sempre molto belle e divertenti. Quante ne conosce!. Appena i bambini sono addormentati, Serralocchi siede sul loro lettino.
E' molto ben vestito: indossa un abitino di seta di un colore indefinibile, a riflessi verdi, rossi, blu, secondo da che lato lo si guarda. Sotto ogni braccio ha un parapioggia:uno ornato di belle figure, lo apre sulla testa dei bambini buoni, e allora essi sognano tutta la notte bellissime storie; l'altro, lo apre sulla testa dei bambini cattivi, e così essi non sognano nulla.
Serralocchi, per una settimana, andò tutte le sere a trovare un bambino che si chiamava Ialmar; ed ecco le storie che gli raccontò: sette come i giorni della settimana. Se volete potete ascoltarle anche voi e...buon divertimento.

Lunedì.

- Ascolta, - disse Serralocchi la sera, dopo che Ialmar fu coricato - incomincia il mio compito.
In quel momento i fiori nei vasi divennero alberi e distesero i loro rami fin sul tappeto e sulle pareti, in modo che la camera sembrò un boschetto. Tutti i rami erano coperti di fiori, e ogni fiore era più bello di una rosa ed esalava un profumo squisito. Vi erano anche frutti che brillavano come l'oro, e dolci ripieni d'uva. Tutto era meraviglioso, di una bellezza incomparabile. Ma improvvisamente, dal cassetto dove Ialmar teneva i suoi libri, uscirono grandi lamenti.
- Che cosa succede?- domandò Serralocchi.
Corse al tavolo e aprì il cassetto: qualche cosa si moveva disperatamente sull' ardesia di una lavagnetta: era un numero sbagliato nell'operazione. Il gessetto si staccò dallo spago che lo teneva legato come un cagnolino, e cercò di correggere l'operazione, ma non vi riuscì.
Nello stesso tempo, anche dai quaderni di Ialmar si levarono dei lamenti. Era terribile! Dall'alto in basso, su ogni pagina, vi erano grandi lettere che erano servite da modello; vicino ad esse le lettere scritte da Ialmar erano coricate, come se le avessero fatte cadere dalla riga su cui dovevano star ritte.
- Su, - dicevano le lettere modello - state diritte, un po' di dignità!
- Lo vorremmo ben volentieri, - rispondevano le lettere di Ialmar - ma non possiamo, siamo ammalate.
- In questo caso vi daremo una medicina.
- Oh, no! - gridarono le lettere rialzandosi così vivacemente che erano deliziose a vedersi.
- Ora non ho tempo di raccontare storie - disse Serralocchi. - Devo fare gli esercizi di ginnastica a queste poverette. Uno, due! Uno, due!
E fece fare tanta ginnastica alle lettere ch'esse finirono con il prendere una posizione eretta e graziosa come quella delle lettere modello.
- Finalmente! - gridò Ialmar felice.
Allora Serralocchi se ne andò; quando all'indomani Ialmar si svegliò, andò subito a guardarle, ma con grande disappunto le trovò ammalate come prima.

Martedì.

Appena Ialmar fu a letto, Serralocchi toccò con la sua bacchetta incantata i mobili della camera, che incominciarono subito a chiacchierare. Sopra il cassettone era appeso un grande quadro in cornice dorata, che rappresentava un paesaggio. Vi si vedevano vecchi alberi enormi, fiori tra l'erba e un largo fiume che, girando intorno alla foresta, passava davanti a diversi castelli e andava poi a sfociare nel mare agitato.
Serralocchi toccò il quadro con la sua bacchetta magica, e improvvisamente gli uccelli presero a cantare, i rami si mossero e le nuvole si misero a correre.
Allora Serralocchi alzò il piccolo Ialmar fino al quadro e lo posò in mezzo all'erba alta.
Egli corse verso l'acqua e sedette su una barchetta dipinta di rosso e di bianco. Le vele brillavano come l'argento, e una mezza dozzina di cigni, con collane d'oro intorno al collo e una stella azzurra sulla testa, trascinarono la barca davanti alla verde foresta, dove gli alberi raccontavano storie di briganti e i fiori ripetevano le avventure degli elfi e le belle parole che avevano udite dalle farfalle. Bellissimi pesci coperti di scaglie d'oro e d'argento seguivano la barca: di quando in quando facevano rapidi guizzi e l'acqua cantava intorno a loro. Le zanzare danzavano, i maggiolini ronzavano, tutti volevano accompagnare Ialmar e tutti avevamo delle favole da raccontagli.
Era proprio una bella gita! Qua e là si vedevano castelli di vetro e di marmo, le principesse si curvavano ai balconi: erano tutte ragazzine che Ialmar conosceva e con le quali aveva spesso giocato.
Ognuna porgeva al viaggiatore un biscotto a forma di cuore. Ialmar afferrò l'angolo di un cuore, ma la principessa lo teneva così stretto che il biscotto si spezzò, e ne ebbero ognuno un pezzetto, la principessa il più piccolo, Ialmar il più grosso.
A un tratto il bambino passò dalla città in cui abitava la balia che lo aveva tanto amato; ella lo riconobbe, e gli cantò dei versi composti da lei stessa. Ascoltandola, i fiori si dondolavano sul loro esile stelo, i vecchi alberi chinavano la testa, proprio come se il piccolo elfo Serralocchi raccontasse le sue belle storie.

Mercoledì.

Come pioveva! Ialmar udiva la pioggia cadere mentre dormiva. Serralocchi aprì la finestra: fuori tutto era diventato un grande lago, e vicino alla casa era ancorato un bastimento.
- Vuoi venire con me, piccolo Ialmar? - disse Serralocchi. - Potrai arrivare questa notte stessa in paesi stranieri!
A un tratto Ialmar, con il suo vestito della domenica, si trovò sul bastimento; il tempo si rimise al bello, ed essi attraversarono il grande lago. Navigarono a lungo, finché ebbero perso di vista la terra. Improvvisamente scorsero uno stormo di cicogne che lasciavano anch'esse le loro case per andare nei paesi caldi.
Ve n'era una così stanca che le ali non la reggevano più, era l'ultima della fila. Improvvisamente si abbassò con le ali aperte, sfiorò i cordami del bastimento, scivolò lungo le vele e cadde sul ponte. Un mozzo la prese e la mise nel pollaio. La povera cicogna era molto imbarazzata fra quegli animali.
- Com'è grossa! - esclamarono le galline.
Il gallo si gonfiò più che poté e le chiese chi fosse. Le anatre indietreggiarono di qualche passo dicendo con superbia:
- Che roba è questa?
Allora la cicogna disse chi era e parlò dei suoi lunghi viaggi: raccontò dell'Africa ardente, delle piramidi, dello struzzo che, simile a un cavallo selvaggio, corre nel deserto infuocato. Ma le anatre non capirono e si fecero ancora più altezzose.
- Siamo tutti d'accordo nel pensare che è stupida - sentenziarono.
Allora la cicogna tacque e pensò solo alla sua Africa.
- Che zampe! - osservò un tacchino. - Quando le hai pagate al metro?
- Kuan, kuan, kra, kra- fecero le anatre minacciose, ma la cicogna sembrava non accorgersene.
- Perché non ridi con noi?- continuò il tacchino. - La mia domanda non ti sembra spiritosa? Forse è troppo intelligente per te. Come sei ottusa!
Detto questo fece glu, glu, glu, e le anitre fecero kuan, kuan. Come si divertivano! Ma Ialmar andò verso il pollaio, aprì la porta e chiamò la cicogna, che saltò verso di lui per ringraziarlo. Poi aprì le ali e volò verso i paesi caldi. Le galline starnazzarono, e la cresta del gallo si fece rossa come il fuoco.
- Domani faremo un buon pasto, con voi! - disse allora Ialmar, e si svegliò.
Che strano viaggio gli aveva fatto fare quella notte il piccolo elfo Serralocchi!.

Giovedì.

- Ascolta - disse Serralocchi - e non aver paura: ti voglio mostrare un sorcetto.
E gli mostrò una graziosa bestiola che aveva in mano.
- E' venuto per invitarti a un matrimonio: stanotte si sposano due sorcetti: essi abitano sotto la finestra della sala da pranzo e hanno una bellissima casa. Credo che rimarrebbero molto male se tu non accettassi il loro invito.
- Ma come potrò entrare attraverso un buco tanto piccolo?
- Lascia fare a me, ti renderò così sottile che ci passerai - rispose Serralocchi che sapeva il fatto suo.
Toccò Ialmar con una bacchetta incantata, e il bambino incominciò a rimpicciolire, finché fu ridotto alle dimensioni di un dito.
- Prendi ora i vestiti di uno dei tuoi soldatini di piombo: ne troverai certamente uno alto come te. E' bello indossare l'uniforme quando si va a una festa importante.
- E' vero - disse Ialmar; e presto fu vestito come il bel soldatino di piombo.
- E adesso entra nel ditale di tua mamma - intervenne il sorcetto - e io ti trascinerò.
Così, dopo aver attraversato un grande viale illuminato a giorno, arrivarono alla festa di nozze dei sorcetti.
- Non senti che buon odore? - chiese il sorcetto che lo trascinava. - tutto il viale è stato unto di lardo.
Quindi entrarono nella sala. A destra erano raggruppate tutte le signore sorcette, e chiacchieravano tra di loro, come se ognuna si divertisse a prendere in giro la vicina; a sinistra erano riuniti i sorcetti, i quali si accarezzavano i baffi con le zampine. In mezzo alla sala c'erano gli sposi: stavano in piedi su una fetta di formaggio e si guardavano felici.
La sala, come il viale, era stata unta di lardo e l'odore saziava i presenti come un pranzo. La frutta consisteva in un grosso pisello verde su cui un sorcetto aveva inciso coi denti le iniziali degli sposi. La conversazione era varia e divertente. Tutti i sorci dichiararono che non si era mai vista festa di nozze più bella.
Ialmar tornò a casa nel ditale. Era felice d'essere stato invitato da persone tanto distinte, anche se era stato costretto a diventare piccolo, piccolo e a rivestire la divisa di uno dei suoi soldatini di piombo.

Venerdì.

- E' incredibile - disse Serralocchi - quanta gente anziana desideri vedermi! Sono soprattutto le persone cattive. " Carissimo," mi dicono quando non possono dormire " non possiamo chiudere occhio: tutta la notte sfilano davanti a noi le nostre cattive azioni, sotto forma di stregoni che ci lanciano addosso acqua bollente. Se tu venissi a scacciarli e a procurarci un buon sonno! " E aggiungono: " Ti pagheremmo bene, Serralocchi, il denaro è già contato vicino alla finestra".
Ma io non faccio nulla per denaro - concluse il piccolo elfo.
- Allora, questa notte che cosa faremo? - chiese Ialmar.
- Se ne hai voglia, andremo a un'altra festa di nozze, ma molto diversa da quella di ieri sera. Il bambolotto di tua sorella, quello che si chiama Ermanno, si deve sposare con la bambola Berta; inoltre è anche il compleanno della bambola, perciò avranno magnifici regali.
- Ah, so di che cosa si tratta - disse Ialmar. - Tutte le volte che le bambole hanno bisogno di vestiti nuovi, mia sorella dice che è il loro compleanno, oppure che devono sposarsi. E' la centesima volta che questo accade.
- Ebbene, questa sera sarà la centunesima. Guarda un po' da quella parte, ora.
Ialmar volse gli occhi verso il tavolo. La casa di cartone era tutta illuminata; fuori, i soldatini di piombo presentavano le armi. I fidanzatini stavano seduti sul pavimento tutti pensierosi ( e avevano le loro buone ragioni ).
Serralocchi, vestito con l'abito nero della nonna, li sposò. Quando il matrimonio fu celebrato, i mobili della camera cantarono una bella canzone. Poi gli sposi ricevettero i regali, ma rifiutarono gentilmente i cibi, poiché il loro amore bastava a nutrirli.
- Che facciamo, adesso? Cerchiamo una casa per la villeggiatura oppure viaggiamo? - chiese lo sposo.
La bambola Berta non sapeva cosa rispondere. Allora consultarono la rondine, vecchissima viaggiatrice, e una vecchia gallina che aveva covato le uova cinque volte.
La rondine parlò di paesi dove l'aria è sempre mite.
- In quei paesi, però - disse la gallina - non ci sono i buoni cavoli rossi!
- Qui, però, fa sempre cattivo tempo.
- E' un clima che fa bene ai cavoli - riprese la gallina. E continuò con severità: - Colui che trova dei difetti al nostro paese non merita di abitarci.
- La gallina è ragionevole -disse la bambola Berta. - E' meglio andarci a stabilire fuori porta, passeggeremo nel giardino dei cavoli rossi.
E cosi fecero.

Sabato.

- Mi racconti una favola? - chiese Ialmar, appena Serralocchi lo ebbe addormentato.
- Questa sera non ho tempo - rispose il piccolo elfo aprendo sul bambino il suo magnifico parapioggia.
- Guarda un po' questi cinesi. Ti piacerebbe essere vestito come loro?- Ialmar allungò il collo per vedere meglio.
- Si, - rispose - mi piacerebbe soprattutto quel largo cappellone di paglia!
Il parapioggia assomigliava a una grande coppa cinese coperta di alberi blu e di ponti aguzzi formicolanti di cinesi, che continuavano a farsi graziosi inchini.
- Domani è domenica, - continuò Serralocchi - e devo sbrigare parecchi lavoretti. Devo salire sul campanile per vedere se le campane sono ben pulite, perché possano dare un suono gradevole, devo andare nei campi a vedere se il vento ha tolto bene la polvere all'erba e alle foglie, e poi devo andare a prendere le stelle per lucidarle. Le metto nel mio grembiule, ma le devo contare tutte e numerare il buco nel quale sono incastrate. Se non facessi così potrei sbagliarmi nel rimetterle a posto, e allora ci sarebbero troppe stelle cadenti.
Ialmar lo guardava con gli occhioni spalancati per la meraviglia.
- Sentite, caro signor Serralocchi, - disse a un tratto un vecchio, dal ritratto appeso alla parete - sono il bisnonno di Ialmar; vi ringrazio perché gli raccontate tante belle storie, ma non vorrei che lo esaltasse. Com'è possibile staccare le stelle per lucidarle?
- Grazie del consiglio, vecchio bisnonno, - disse Serralocchi - ma non ne avevo bisogno; tu sei il capo della famiglia, è vero, ma io sono più vecchio di te, io sono un vecchio pagano. I Romani e i Greci mi chiamavano il dio dei sogni. Sono sempre stato ricevuto nelle migliori famiglie e lo sono ancora. So benissimo come si devono trattare tanto i grandi quando i piccini. D'altra parte, se ce la fai, racconta tu le favole.
- Ma guarda, ma guarda! - brontolò il vecchio dal ritratto. - Adesso non è neppure più permesso esprimere il proprio parere.
Serralocchi, seccato, chiuse il suo ombrello, e Ialmar si sveglio di colpo.

Domenica.

- Buona sera - disse Serralocchi, entrando pian, piano, nella stanza di Ialmar.
Il bambino lo salutò, poi corse alla parete a voltare il ritratto del bisnonno, perché non si intromettesse più nella conversazione.
- Adesso raccontami una bella storia.
- No, non dobbiamo esagerare con le favole - rispose Serralocchi, e preso in braccio il piccolo Ialmar, lo portò alla finestra dicendo:
- Ora, invece ti presento mio fratello, l'altro Serralocchi. Lo vedi? Ha una bella divisa da ussaro, tutta ricamata d'argento e una cappa di velluto nero che ondeggia dietro di lui. Guarda come viene al galoppo.
Ialmar vide il fratello di Serralocchi portare sul suo cavallo una quantità di persone. Alcune le metteva davanti a sé, altre dietro, e diceva a tutte:
- Aprite i vostri quaderni: voglio vedere se avete meritato buoni voti.
- Buonissimi - rispondevano tutti tenendo ben stretti i loro quaderni.
- Voglio vedere io stesso.
Tutte le persone in groppa furono costrette a mostrare i lo voti. Coloro che avevano bene o benissimo presero posto sul davanti del cavallo e udirono storie meravigliose; coloro che avevano mediocre, o cattivo salirono dietro e dovettero ascoltare storie terrificanti: tremavano e piangevano, volevano saltare giù da cavallo, ma non potevano: una strana forza li costringeva a rimanere dov'erano.
- Tuo fratello - disse Ialmar a Serralocchi - mi sembra magnifico e io non ho paura di lui.
- Hai ragione - rispose il piccolo elfo - ma cerca di avere sempre buoni voti sul tuo quaderno.
- Ecco una cosa molto istruttiva - mormorò il bisnonno dal ritratto - Questa storia è proprio utile francamente è la mia opinione.
E parve soddisfatto.
Questa è la storia del piccolo elfo Serralocchi; e se torna stasera, ti racconterà altre favole. Ma, mi raccomando, sii buono, altrimenti non sognerai nulla!



di H. C. Andersen

 

 
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I sette svevi

Post n°723 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta sette svevi: Sciulz, Giacomo, Marco, Giorgio, Michele, Gianni e Gigino.
Insieme partirono in cerca di avventure. Poiché viaggiare era pericoloso, si fecero preparare una lancia, una sola ma molto lunga. Tenevano la lancia tutti e sette insieme: davanti Sciulz, il più coraggioso, dietro gli altri, fino a Gigino che chiudeva la marcia.
Un giorno, un grosso calabrone si mise a ronzare rumorosamente in un prato, sbattendo le alucce. Sciulz, tremando per la paura, gridò:
"Sento dei soldati che suonano il tamburo!".
Giacomo che teneva la lancia dietro di lui disse:
"Non c'è dubbio, sento l'odore della polvere e della miccia".
Sciulz, fuggendo, saltò lo steccato ma ricadde sui denti di un rastrello e il manico lo colpì in piena faccia.
"Ahi! Ahi! - gridò - mi arrendo!".
Gli altri sei saltarono lo steccato uno dopo l'altro gridando:
"Se tu ti arrendi, mi arrendo anch'io!".
Alla fine, poiché non si vedeva in giro nessuno, capirono di essersi resi ridicoli e giurarono di non dire nulla. Proseguirono il loro viaggio e, dopo alcuni giorni, giunsero in un prato, ove una lepre stava all'erta con le orecchie dritte e i grandi occhi spalancati.
I sette svevi, atterriti alla vista di quella spaventosa bestia, si consultarono: che fare? Se fossero fuggiti il mostro li avrebbe inseguiti e divorati tutti quanti.
Allora pensarono: "Dobbiamo attaccar battaglia. Chi si mostra audace è già a metà strada verso la vittoria!".
Tutti e sette presero la lancia, Sciulz in testa e Gigino in coda, ma Sciulz non osava avanzare, mentre Gigino dalla retroguardia gridava:
"Forza! Uccidiamo quel mostro!".
Ma Gianni: "Sei un bel fanfarone, strilli ma sei all'ultimo posto!".
Michele allora gridò: "Amici, abbiamo a che fare proprio con il diavolo!".
E Giorgio: "Se non è il diavolo, è almeno suo nipote o suo cugino!".
Allora Marco ebbe un'idea: "Gigino, passa avanti e io ti seguirò!".
Gigino fece finta di non sentire e Giacomo intervenne: "L'onore di guidare l'assalto tocca a Sciulz, il nostro eroe!".
Allora, Sciulz raccolse il suo coraggio e disse:
"Puntiamo la nostra lancia e facciamo vedere di cosa siamo capaci!".
E insieme si lanciarono all'attacco. Ma Sciulz, più si avvicinava al nemico, più urlava di terrore:
"Ahimè, la mia ultima ora è giunta!".
La lepre, spaventata dalle urla, fuggì.
"Perbacco! - gridò Sciulz - il diavolo è addirittura più furbo di quanto pensassi. Affronterebbe sei svevi; ma non sei svevi più uno Sciulz".
Ringalluzziti dall'impresa, i sette svevi ripartirono. Giunti sulla riva della Mosella, interrogarono un uomo per sapere se il fiume fosse profondo e se ci fosse un modo per raggiungere l'altra sponda. L'uomo, che era francese, non capiva una parola e chiedeva nella sua lingua:
"Quoi? Quoi?".
Sciulz capì: "Di qua!" e pensò che l'uomo gli indicasse il punto in cui il fiume si poteva attraversare a guado. Così, saltò nell'acqua, fu trascinato via dalla corrente e annegò.
Il suo cappello, spinto dal vento, raggiunse la riva opposta, un grillo vi balzò sopra e cantò: "Cri, cri, cri".
Gli altri sentirono questa voce e dissero:
"Sciulz ci sta chiamando, dice Qui! Qui!, attraversiamo!".
Tutti e sei si lanciarono nell'acqua e nessuno fu più visto tornare in Svevia.



Wilhelm e Jacob Grimm



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Ignare

Post n°722 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Sui bianchi tettucci dalla corsia e disposti uno accanto all’altro in quella camera remota del collegio piena di luce e di silenzio, le quattro giovani suore giacevano immobili. Le cuffiette di tela, semplici, senza una trina né un nastro, annodate sotto il mento da due cordelline, disegnavano la rotondità del capo e incorniciavano i pallidi visi quasi infantili. Aprivano di tanto in tanto gli occhi, dapprima un po’ esitanti alla luce, poi attoniti e smemorati; li richiudevano poco dopo con lenta stanchezza, ma ormai senza pena.
Non si curavano più di sapere se, così immobili su quei tettucci, fossero in attesa della guarigione o della morte.
Erano tutte e quattro ferite e fasciate. Ma di che gravità fossero le ferite, non sapevano. Stando immobili’ non le sentivano. Pareva a ciascuna di star bene e di poter credere che non fosse più a ogni modo, per nessuna delle quattro, caso di morte.
Ma poi, chi sa?
Non erano più sicure di nulla; nemmeno se quella camera fosse d’un ospedale o dell’infermeria d’un collegio di suore; né ricordavano come, quando, da chi vi fossero state portate.
C’era nella loro memoria un abisso: un vero inferno che s era spalancato loro davanti all’improvviso inghiottendole e travolgendole; dove tanti demonii avevano fatto scempio c strazio delle loro carni immacolate. Avevano la vaga impressione d’aver navigato a lungo; e sentivano ancora nelle narici, ogni tanto, quel tanfo particolare, alido, nauseante, che cova nell’interno delle navi; negli orecchi, gli scricchiolìi della carcassa enorme galleggiante, agli urti possenti e fragorosi del mare; e avevano la visione confusa d’un porto affaccendato, di grandi alberature non ben ferme sotto grosse nuvole candenti immote su l’aspro azzurro delle acque; e meno confuso il ricordo di strani aspetti, di strane voci; rumori d’argani e di catene.


Ora erano qua. E nel candore e nel silenzio di quella camera luminosa che dava loro con la freschezza fragrante dei lini puliti un conforto d’arcana soavità e un senso d’infinita beatitudine, avevano quasi il dubbio che fosse stato un incubo orrendo tutto quell’inferno e quel lungo navigare e quel porto e quegli aspetti strani.
Avevano bisogno di lasciare in quel torpore non solo il corpo, ma anche la coscienza. Se per qualche movimento inconsulto, o anche soltanto per tirare un più lungo sospiro, il corpo aveva una fitta di spasimo, pur essa la coscienza si sentiva subito trafitta dal ricordo di quanto a quel loro corpo era stato fatto, caduto in preda alle voglie infami di gente feroce, nemica di quella fede di cui esse erano andate a spargere l’esempio nell’isola straniera, lontana. L’asilo di pace, una sera, era stato preso d’assalto, invaso e profanato da orde selvagge. Sotto ai loro occhi s’era compiuta la strage dei ricoverati. All’orrore delle ferite aperte dal ferro nelle loro carni rispondeva l’orrore più grande di un’altra ferita insanabile, per Cui più del corpo la loro anima aveva sanguinato.
L’ultima a lasciare il letto, quantunque col seno e un braccio ancora fasciati, fu suor Erminia. Le tre altre credevano che fossero trattenute nell’infermeria in attesa della guarigione della compagna, per partire poi tutte insieme alla volta di Napoli, per il ritiro. Ma non fu così. Guarita suor Erminia, la Madre Superiora del Collegio ov’erano state ricoverate e curate, venne ad annunziare che soltanto suor Erminia sarebbe partita quella sera stessa per Napoli.
Ascoltando tutte e quattro a occhi bassi quest’ordine, suor Erminia si chiese in cuore, perché lei sola; e ciascuna delle tre altre, in che la loro sorte potesse essere diversa da quella della compagna che più di loro aveva stentato a guarire. Aveva forse bisogno di qualche rimedio che qua non le si poteva apprestare?
Ma allora perché lasciarla partir sola? E perché rimanevano loro tre, se erano al tutto guarite?
Lo seppero la mattina dopo, all’alba, quando insieme con una suora anziana e una vecchia conversa furono fatte salire su una "giardiniera" traballante e svolazzante di tendine di juta.
Sotto le ampie cornette oscillanti erano vestite tutte e tre d’abiti nuovi, ma troppo larghi per il loro corpo già esile e ora più che mai assottigliato dalle sofferenze.
Avvertivano nel seno, mortificato da anni sotto il modestino, respirando finalmente all’aperto, come un indurimento e, nello stesso tempo, uno strano senso di risveglio che le turbava.

Prima di partire, avevano veduto i vecchi abiti, coi quali erano arrivate, ferite e morenti, da Candia. Stinti, strappati, macchiati di sangue, avevano suscitato in loro quello sgomento e quel ribrezzo che si prova per gli oggetti appartenuti a qualcuno tragicamente morto. E tanto più s’erano costernate, in quanto che alle vestigia, evidentissime lì, d’una violenza terribile, non rispondeva più in loro, ritornate alla vita, una memoria precisa.
Lasciate addietro le ultime case della città, la vettura si mise a correre per uno stradone costeggiato di qua e di là da fitti boschi d’aranci e di limoni.
S’era d’ottobre e pareva ancora piena estate, sebbene di tratto in tratto, entro quel tepore denso di odori inebrianti, sorvolasse dal mare che s’intravedeva prossimo di tra il fitto turbinio di tutti quei fusti d’alberi, qualche primo brivido di frescura autunnale.
Ma le tre convalescenti non poterono godersi a lungo la delizia di quell’ora e di quei luoghi. Il traballio della logora vettura cominciò a cagionar loro un grave disturbo. Tanto che, alla fine, una, suor Agnese, non potendo più reggere, chiese per grazia se la vettura non potesse andare più piano.
La vettura si mise quasi di passo.

Use tutte e tre, ormai da tanti anni, a non curare affatto e quasi a non sentire più il proprio corpo, a dominarne tutti i bisogni, a vincerne la stanchezza, provavano ora un avvilimento e uno smarrimento strano, un’ambascia smaniosa, per quelle loro sofferenze corporali. La più giovane, ch’era anche la più gracile, suor Ginevra, chiese a un certo punto se, andando così di passo la vettura, non potesse provarsi a seguirla a piedi. Si provò; ma dovette poco dopo rimontare, perché le gambe non le ressero alla fatica del cammino in salita.
La suora anziana che le scortava, annunziò, per confortarle, che poco ormai ci voleva ad arrivare.
La vettura difatti si fermò, poco dopo, davanti al cancello d’una grande villa solitaria in cima a un poggiolino, cinta tutt’intorno da un muro. Era la grangia del collegio. La conversa sonò il campanello e, levandosi su la punta dei piedi per guardar sopra la banda che copriva la parte inferiore del cancello, chiamò forte:

– Rosaria!

Rosaria era la moglie del contadino che aveva in custodia la grangia ove ogni estate erano condotte le Orfanello a villeggiare.

Invece di Rosaria rispose un grosso cane di guardia con furibondi latrati.

– Ecco "Bobbo" – disse la suora anziana, sorridendo alla conversa.

– Bobbo, Bobbo, siamo noi di casa, – aggiunse la conversa e sonò di nuovo il campanello.

Accorse alla fine la custode, sbracciata, scarmigliata’ col faccione acceso, dorato dal sole, tutto in sudore, due grandi cerchi d’oro agli orecchi, un fazzoletto rosso sgargiante sul seno, e il ventre pregno che le lasciava scoperti, sotto la gonna di baracane tirata su, i fusoli delle gambe entro le grosse calze turchine di cotone, sporche di creta.

– Oh suor Sidonia mia, suor Sidonia! – cominciò a strillare con furiosi gesti di maraviglia e di gioja. – Come va, con tanta compagnia? Anche voi, donna Mita? Come va? Stavo a lavare e, mi vede? – aggiunse, indicando il ventre immane. – Dopo otto anni, suor Sidonia mia! Mah! E queste? Sono tre suore nuove?

Le tre convalescenti s’erano un poco allontanate, e guardavano smarrite le vecchie finestre di quella villa, l’antica cisterna patriarcale, là a principio del lungo pergolato, di fronte al portoncino verde. Si voltarono, nel sentirsi indicate dalla custode, e videro la suora anziana e la conversa parlar piano tra loro; poi la custode prendersi con un gesto d’orrore la testa tra le mani e voltarsi, allargando un po’ le mani, a guardare verso di loro, con la bocca aperta e gli occhi pieni di raccapriccio:

– E lo sanno? lo sanno?

Le tre convalescenti si guardarono negli occhi, angosciate. Quella delle tre, che durante il tragitto non aveva aperto bocca, suor Leonora, ebbe negli occhi come un guizzo di follia; si coprì il volto con le mani emise un mugolio sordo fra un tremore delle spalle e delle braccia.

– Perché? – chiese allora, suor Ginese ra, volgendo gli occhi azzurri infantili all’altra compagna che s’era recata una mano alle labbra e con gli occhi sbarrati era rimasta come sospesa davanti a un abisso scoperto all’improvviso.

Sopravvennero suor Sidonia e la conversa e, poco dopo, con le chiavi della villa, la custode.
Su per la scala, ove l’aria della campagna stanava mista col tanfo grasso della corte vicina e con l’umidore esalante dalla prossima cisterna, suor Leonora afferrò un braccio alla suora anziana e le chiese piano per sè e le compagne se fosse vero ciò che le era parso di dover capire al gesto d’orrore della custode.
Quella socchiuse gli occhi e chinò il capo più volte, sospirando. Suor Leonora scivolò sul gradino della scala. Suor Agnese, ritta addossata al muro, socchiuse gli occhi da cui sgorgarono grosse lagrime. Ignara ancora restava la più giovane dagli occhi celesti. Guardava le lagrime silenziose della compagna addossata al muro, udiva i singhiozzi dell’altra accasciata sullo scalino, ascoltava il conforto e le esortazioni delle tre altre; e non ne capiva ancora la ragione.
Aveva quella villa, nella quiete attonita che regnava tutt’intorno, alcunché di lugubre, con tutti quei fasci di sole che si allungavano di traverso, simmetricamente, nei corridoj. Si vedeva in ognuno di quei fasci fervere lento il polviscolo. Di tratto in tratto, il canto d’un gallo pareva volesse rompere il fascino di quella quiete misteriosa; e un altro gallo, che rispondeva da qualche ala lontana, pareva dicesse che lo stesso fascino di misteriosa quiete gravava anche lì, e più lontano ancora.
Fin dove?

Le tre suore, affacciate alle finestre, si perdevano nella lontananza di quella quiete misteriosa. Non sapevano dove andare con l’anima, a chi rivolgersi per conforto, come nascondere ai loro stessi occhi l’onta di quel martirio.
Era per due di esse in quella lontananza, ma più là, assai più là, dove lo sguardo si perdeva e l’anima non ardiva di arrivare, sè in Toscana, più sè in Lombardia, una casa da tanti anni abbandonata. Picchiare alla porta di quelle case, per conforto, suor Leonora e suor Agnese non potevano. Né il vecchio padre, né il fratello, né la cognata di suor Leonora dovevano sapere; tanto meno poi, oh Dio, il fratello della cognata! Non dovevano sapere la vecchia madre né la sorella di suor Agnese in quel tranquillo borgo sul Po, presso Mantova. Beata suor Ginevra, che non aveva alcuna idea né di casa né di famiglia! Sapeva soltanto d’esser nata a Sorrento; non sapeva da chi; era stata allevata dalle suore in un ospizio, e s’era fatta suora: era dunque, tutta, nell’abito che indossava: e la sciagura presente non le mordeva a sangue le carni offese, coi ricordi d’una vita estranea, d’estranei affetti, da cui le altre due si erano con violenza strappate.
L’abito che aveva indosso, rappresentava per suor Leonora un sacrifizio. La violenza che aveva dovuto fare a se stessa per serbare intatta, contro l’insidia della sua propria carne, la sua purezza, era stata resa vana dalla violenza altrui, brutale; e Dio aveva permesso che quell’abito, simbolo del sacrifizio, le pesasse ora addosso come uno scherno; Dio permetteva che in un corpo offerto a Lui fosse accolto e stesse a maturare un frutto infame, e sotto quell’abito crescesse la vergogna, il ribrezzo, l’orrore d’una atroce maternità. Come poteva Dio permetter questo?
Finché ai loro occhi la castità dell’abito non cominciò a essere offesa dal progressivo sformarsi del corpo, stettero insieme tutte e tre, per sentirsi nel cordoglio meno sperdute dentro quell’ampio rustico casamento dai lunghi corridoi rintronanti, ove per tante finestre in fila entravano l’aria salsa e il fragorìo continuo del mare, gli odori sparsi della campagna, il ronzio degli insetti, il frusciare delle piante.
Scendevano insieme a pregare nella cappelletta; ma spesso le preghiere erano interrotte dai singhiozzi quasi rabbiosi di suor Leonora, che scappava via. Le altre la seguivano e cercavano di calmarla nell’ombra del lungo percolato davanti alla villa o per i sentieruoli in mezzo al frutteto, dove al vespro si raccoglievano tanti uccelli a far sbaldore.

Suor Ginevra aveva trovato lì un cantuccio, ove un certo odore amaro di prugnole e un altro denso e pungente di mentastro le avevano ridestato vivo il ricordo dell’ospizio di Sorrento, in cui aveva passato l’infanzia; e spesso andava lì quasi a covare quel ricordo, felice di sentirsi accanto la sua dolce innocenza d’allora Era ancora come stordita dalla sciagura. Non concepiva adatto l’orrore che ne provavano le altre due; e le guardava e le spiava negli occhi, quasi sospesa in una paurosa, ignota attesa, soffrendo delle fosche, smaniose ambasce dell’una, delle cocenti lagrime dell’altra.
Rosaria, la custode, qualche volta le raggiungeva e, senza rendersi conto della urtante impertinenza delle sue parole, si metteva a parlar loro come a compagne di sventura, che non dovessero aver più ritegno ormai di guardare quel suo sconcio ventre e di udire certi discorsi circa al loro stato comune. Si lamentava di aver dato via ad altre contadine più poverette di lei, le camicine, le fasce, le cunette, i bavaglini del corredo, perché mai più non si sarebbe aspettato di poterne aver bisogno; e ora non aveva tempo di attendere a prepararne uno nuovo. Aveva comperato la tela: oh, rozza tela per le tenere carnucce d’un bimbo; ma i figli dei poveri, si sa, bisognava che presto imparassero a sentire le durezze della vita.
Subito suor Ginevra si profferse di ajutarla a cucire quel corredino. Anche suor Agnese allora le disse che la avrebbe ajutata. Suor Leonora non ne volle sapere.
Con l’inverno, si chiusero ciascuna in una cameretta tra le tante che avevano l’uscio lì sul lungo corridojo. Le finestre davano su l’orto, e di sul muro di cinta si scorgeva l’azzurro denso del mare, che si congiungeva con quello tenue e vano del cielo. Ma cielo e mare perdevano spesso, ora, quella loro diversa azzurrità, si mescevano sconvolti in fosche brume, e nel silenzio tetro della villa solitaria durava per giornate intere su i vetri delle finestre il crepitio della pioggia.
Suor Agnese cuciva e si sforzava di non intenerirsi alla vista di quelle camicine, di quelle cunette, di quei bavaglini: non doveva pensare al bimbo che sarebbe nato da lei. Erano per un altro bimbo quelle camicine, che sarebbe cresciuto lì. Il suo sarebbe scomparso di furto, ignudo. E forse non lo avrebbe neppure veduto.
Non doveva intenerirsene: era appunto questo il martirio: accogliere e maturare nel corpo offerto a Dio quel frutto infame. Ma era in lei; lei lo teneva in grembo, oh Dio! e lo nutriva di sé. O Dio! oh Dio! E non avrebbe potuto, non avrebbe dovuto far nulla per lui? per riscattarlo dall’infamia da cui nasceva? Forse il suo latte, forse le sue cure lo avrebbero redento! Sottratto a lei, allevato in un ospizio, senza amore, come sarebbe cresciuto, concepito com’era nell’orrore d’una strage, frutto nefando d’un sacrilegio?
Ma Dio, certo, nella sua infinita misericordia, aveva disposto che il martirio di lei, nel tempo ch’ella lo soffriva, giovasse al nascituro, bastasse a mondarlo della colpa originaria, bastassero a lavarlo per sempre di quel sangue osceno le lagrime ch’ella ora versava per l’onta e per il supplizio. Così il suo martirio non sarebbe stano invano.
L’altra, invece, suor Ginevra, sollevando con le mani ceree contro il lume della finestra la carnicina or ora cucita, piegava da un lato la testa, la contemplava e sorrideva.

Scendevano adesso nella cappelletto in ore diverse, ciascuna a pregar sola; prendevano il cibo nelle loro camerette e, quand’erano stanche di cucire e di pregare, s’affacciavano alla finestra, oppresse già dal peso del corpo, a guardare l’orto solingo e il mare vicino.
Venne la primavera, e un bel mattino entrò, col sole, nella vecchia villa, Rosaria, ridente e dimagrita, reggendo alto un grosso bimbo roseo tra le ruvide mani e gridando per il corridojo:

– Eccolo qua! È nato! è nato!

Entrò prima nella cella di suor Agnese, che schiuse appena le labbra a un sorriso di infinita tristezza, contemplando con gli occhi rossi di pianto il bimbo e levando come a riparo davanti al seno le mani bianche.

– Coraggio, coraggio, sorella mia! Si fa presto, sa? Vedrà che si fa presto! Vede com’è bello? Ha gli occhi del padre. E guardi qua, guardi con quanti capelli m’è nato!

Corse poi da suor Ginevra e, senz’altro, le posò in grembo il piccino:

– A lei! Eccolo qua, lo vede che cos’è? Pesa, no? pesa. Con la cuffietta che gli ha fatto lei; e anche la camicina, vede?

Suor Ginevra si provò a posare le labbra sul petto roseo del bimbo, che la madre aveva scoperto, poi a sollevare su le mani il dolce peso, e con curiosità mista di pena mirava i movimenti delle pàlpebre del neonato per adattar gli occhi a resistere alla luce. Eccolo: uno così, tra poco, sarebbe nato da lei. E non sapeva ancora come. Uno così!
Rosaria glielo tolse per farlo vedere a suor Leonora; ma questa, storcendo la faccia, la respinse, le gridò sulle furie che non voleva vederlo: via! via! via!
S’era spogliata dell’abito. Non scendeva più a pregare. Passava l’intera giornata a sedere sul letto, inerte, coi denti serrati e gli occhi a terra in una dura e truce fissità. La notte le due compagne la intravedevano dall’uscio delle loro camerette, andare su e giù per il corridojo rischiarato a fasci dalla luna: tozza, enorme, con la testa da maschio e i piedi nodi.
Farneticava.
E i tonfi cupi dei passi nella sonorità del lungo corridojo impaurivano suor Ginevra.
La paura diventò terrore una di quelle notti, allorché, destandosi di soprassalto, udì certe grida laceranti e ùluli lunghi e mugolai da belva ferita. Volle accorrere; ma fu trattenuta sull’uscio dalla conversa la quale le annunziò che, non suor Leonora urlava così, ma l’altra, l’altra: suor Agnese.

– È l’ora sua. Ora si libera, poverina!

E suor Ginevra rimase atterrita, addossata all’uscio, a udire quegli urli che non parevano umani e che, partendo dalla campagna silenziosa, le rappresentavano spaventosamente il mistero che si compiva di là. Avrebbe tra poco urlato così anche lei? Come avrebbe fatto, debole e gracile com’era, a resistere ai dolori che strappavano quegli urli?
E urli, altri urli, ancora urli, poco dopo l’alba, più selvaggi, più lunghi, fra un gran tramestio per il corridojo, le giunsero agli orecchi.
Gelata, allibita, inginocchiata davanti al tettuccio, col rosario in mano, suor Ginevra ascoltava e tremava tutta, senza ardire di alzarsi e di picchiare all’uscio che la conversa aveva chiuso a chiave.
Seppe nel pomeriggio che tutte e due le compagne s’erano liberate, e che ora riposavano tranquille. Una domanda angosciosa le affiorò alle labbra, che subito vani nel silenzio lugubre della villa. Non si sentiva alcun piccolo vagito. La conversa apri le mani e scosse il capo mestamente, con gli occhi socchiusi.
Salì, invece, da un albero dell’orto un cinguettio, nella letizia serena del vespro primaverile.
Tre giorni dopo, sul far della sera, venne la volta di suor Ginevra.

Toccò allora alle altre due, ormai consapevoli, di tremare alle grida disperate della piccola compagna; grida, grida che strappavano altre grida di pietà e di rivolta, come allo spettacolo d’una spietata atroce sopraffazione contro un timido inerme, che invano si dia per vinto.
Tutt’a un tratto, le grida tacquero nella notte. Fu per alcuni minuti, eterni, un silenzio orribile. Poi si udì per il corridojo una corsa precipitosa, tra gemiti, e suono di voci cupe tra fiati affannosi, là nella colletta in fondo al corridojo. Le due compagne non seppero resistere più oltre all’angoscia che le soffocava; scesero dal letto, si buttarono addosso le prime vesti che vennero loro sotto mano e, vacillanti, s’avviarono a quella colletta.
Nessuno parlò. La vecchia conversa ricomponeva sul letto le membra della morta, a cui nel pallido, livido visino affilato erano rimasti semiaperti i dolci occhi azzurri. E pareva che in quel pallore la piccola morta sorridesse d’essersi liberata così
Assalita all’improvviso da un impeto di singhiozzi, suor Agnese andò a buttarsi in ginocchio accanto al letto. Ma suor Leonora? volgendo attorno obliquamente gli occhi da matta, scorse in un angolo un movimento convulso dentro un lenzuolo insanguinato tutto ravvoltolato per terra. Con una mossa da belva balzò a quell’angolo, raccattò da terra una creaturina paonazza, che emise un vagito rôco, e scappò nella sua cella: vi si chiuse, e con gioja selvaggia offrì il seno che le scoppiava a quella creaturina.
La Madre Superiora, accorsa alcune ore dopo dalla città, dovette stentare a lungo per persuaderla a riaprire l’uscio. Pareva impazzita; si teneva quella creaturina stretta al seno e gridava:

– La prendo io! la prendo io! O datemi la mia! Butto via l’abito! Dio ha voluto troppo, ha voluto troppo, ha voluto troppo!

Pian piano, dolcemente, quella trovò il verso di sciogliere in lagrime quel fiero ingorgo di demenza; e la piccina fu fatta sparire.
Poco dopo, le due compagne superstiti piangevano e pregavano inginocchiate ai due lati del letto della piccola morta, che certo aveva riaperto in paradiso i suoi dolci occhi di cielo.

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La solitaria (Teasdale)

Post n°721 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Col passare degli anni s'è arricchito il mio cuore,
ed ho meno bisogno oggi di ieri
di vendere me stessa al primo compratore
o di dare parola ai miei pensieri.

Che ci sia un uomo o no, non cambia niente
se ho me stessa e da me so dove andare:
posso scalare il colle in una notte ardente
lo sciame delle stelle contemplare.

Pensino pure d'avere il mio amore,
ch'io li rimpiango, sola e senza scorta -
se giova al loro orgoglio, a me che importa?
Basto a me stessa, come pietra o fiore.

 
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Libri dimenticati:Mask

Post n°720 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Rocky Dennis ha 18 anni.Da anni suo padre lo ha abbandonato e lui vive con la madre Rusty,donna stravagante e anticonformista ma dal cuore grande.Lui e la madre sono stati praticamente adottati da una banda di motociclisti,fra i quali spicca Gar,da sempre innamorato di Rusty.Il problema è che Rocky è nato con una grave patologia,che deforma i lineamenti del suo viso fino a fargli assumere l'aspetto di un leone e che è destinato a vivere per pochi anni.Sua madre combatte con accanimento e determinazione per fargli vivere una vita normale e Rocky,col suo carattere aperto,la sua ironia,riesce a farsi amare da tutti ed essere,nonostante tutto,un ragazzo della sua età.Ad un campeggio estivo per disabili in cui è animatore Rocky conosce Diana,una ragazza cieca,e per la prima volta si innamora,ma i genitori di Diana porranno fine all'idillio e Rocky morirà di lì a poco.Basato su una storia vera,questo libro è stato trasposto in film,con una splendida Cher nel ruolo di Rusty.

 

 
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Frase del giorno

Post n°719 pubblicato il 14 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nessun luogo è lontano

 
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