Messaggi del 16/09/2011

Il farfallone

Post n°750 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

l farfallone voleva una fidanzata, che naturalmente doveva essere un grazioso fiorellino.
Guardò tutti i fiori, ciascuno se ne stava tranquillo e piegato sul suo stelo, come una signorina deve stare quando non è ancora fidanzata; ma ce n'erano tanti tra cui scegliere, era difficile, e il farfallone non aveva voglia di stare a cercare; così volò dalla margheritina.
I francesi la chiamano Marguerite, e sanno che è capace di prevedere il futuro, come fa quando gli innamorati le staccano un petalo dopo l'altro chiedendo: "M'ama, non m'ama, di cuore, con dolore, mi ama molto, mi ama poco?" o cose simili. Ognuno chiede nella sua lingua.
Anche il farfallone giunse per chiederle qualcosa, non le staccò i petali, ma li baciò uno per uno pensando che con la gentilezza si ottiene di più.
«Dolce margheritina Marguerite!» disse «lei è la donna più intelligente di tutti i fiori! Lei sa prevedere il futuro! Mi dica, la troverò oppure no? E chi sarà? Quando lo saprò, andrò direttamente da lei a chiederle la mano!»
Ma Marguerite non rispose affatto. Non le piaceva essere chiamata donna, perché era una signorina, e quindi non era una donna. Lui le fece le stesse domande una seconda e poi una terza volta, ma non ottenendo neppure una parola da lei, non ebbe più voglia di chiedere di nuovo, e se ne andò via a cercarsi la fidanzata da solo.
Si era all'inizio della primavera, era pieno di crochi e di bucaneve.
«Sono bellissime!» esclamò il farfallone «sembrano graziose cresimande; ma un po' insipide.»
Come tutti i giovani lui preferiva le ragazze un po' più mature. Allora volò dagli anemoni, ma erano un po' troppo acidi, le violette erano troppo romantiche, i tulipani troppo pomposi, le giunchiglie troppo borghesi, i fiori di tiglio troppo piccoli e poi avevano una famiglia troppo numerosa; i fiori di melo sembravano proprio delle rose, ma un giorno c'erano e il giorno dopo erano già caduti, secondo come soffiava il vento, e quello sarebbe stato un matrimonio troppo breve a suo avviso.
Il fiore del pisello era quello che più gli piaceva, era rosso e bianco, tenero e sottile, proprio come quelle ragazze di casa che sono carine e anche brave in cucina. Stava per chiedere la mano, quando vide proprio lì vicino un baccello con un fiore appassito in cima.
«Che cos'è?» chiese.
«Mia sorella» disse il fiore di pisello.
«Ah, col tempo sarà anche lei così!» e, spaventato, il farfallone se ne volò via.
I caprifogli pendevano dalle siepi, erano tante signorine col viso lungo e la pelle gialla, proprio di quelle che a lui non piacevano. Già, ma che cosa gli piaceva? Chiedeteglielo un po'!
La primavera passò. Anche l'estate passò e poi l'autunno; lui era sempre allo stesso punto. I fiori misero i loro vestiti più belli, ma a cosa serviva, ora che non c'era più la fresca e profumata giovinezza? Con la vecchiaia si bada sempre meno al profumo, e poi non è detto che le peonie o la malvarosa abbiano un profumo particolare. Così il farfallone andò dalla menta.
«Non ha nessun fiore, ma è come se fosse un fiore solo, profuma dalla testa ai piedi, ha il profumo dei fiori in ogni sua foglia. Scelgo questa!»
E le chiese la mano.
Ma la menta rimase immobile e tranquilla e alla fine disse: «Amicizia, ma niente di più! Io sono vecchia e anche lei è vecchio! Potremmo tranquillamente vivere uno per l'altro senza sposarci. Non rendiamoci ridicoli alla nostra età!».
E il farfallone non sposò nessuno. Aveva cercato troppo a lungo, e questo non si deve fare. Divenne uno scapolone, come si dice.
Alla fine dell'autunno si mise a piovere e venne la nebbia, il vento soffiava freddo nella schiena dei vecchi salici, e li faceva scricchiolare. Non era affatto bello volare per la campagna coi vestiti dell'estate: l'entusiasmo sbollisce, come si dice.
Ma il farfallone non volò fuori, casualmente era entrato in una porta dove c'era del fuoco in una stufa, faceva caldo come d'estate, lì si poteva vivere, ma
«Vivere non è abbastanza» disse «il sole, la libertà, e un fiorellino bisognerebbe avere!».
Così volò contro il vetro, fu visto, ammirato e puntato con uno spillo in una cassetta di vetro. Di più non si poteva fare.
«Adesso ho anch'io un gambo proprio come i fiori!» commentò il farfallone «non è poi tanto comodo! È un po' come essere sposati: si è legati» aggiunse per consolarsi.
«È una misera consolazione!» dicevano i fiori dei vasi.
"È meglio non fidarsi dei fiori dei vasi" pensava il farfallone "vivono troppo a contatto con gli uomini."

 

Hans Christian Andersen




 
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Il racconto di Parola

Post n°749 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un imperatore di nome Parola. Egli regnava sopra un vasto impero con sudditi ricchi e contenti, ma nonostante la felicità che lo circondava, aveva un grande dolore: non aveva figli. Arrivato alla vecchiaia la sua tristezza aumentò sempre più e continuava a piangere e piangere ancora e altro non faceva. Oggi così e domani ancora. Un giorno l’imperatore stava all’ingresso del suo palazzo e continuava a lamentarsi. Passo di lì un vecchio, lo salutò poi disse:
-Imperatore, abbi pietà di un povero viandante e dammi per favore, una brocca d’acqua e un pezzo di pane .
L’Imperatore rispose:
-Vecchio mio, non ti darò così poco ma entra per favore e la mia Imperatrice ti offrirà la cena e se devi andare lontano, passa la notte da noi.
L’Imperatore condusse il vecchio in casa e l’Imperatrice portò il mangiare caldo e suo marito verso il vino nel bicchiere del vecchio, poi gli augurarono buona notte e lo lasciarono riposare. Durante la notte l’Imperatore fece un sogno: il vecchio gli stava dicendo:
-Imperatore, per la vostra ospitalità vi porterò via il dolore che avete nell’anima. Fate quello che vi dico e tutto andrà bene. L’Imperatrice deve cercare nel cortile del palazzo un alberello che dovrà curare e quando darà frutti li dovrà mangiare. Fate questo e tutto andrà per il meglio.
Al mattino l’Imperatore raccontò tutto a sua moglie e i due corsero a cercare il vecchio…ma questi era già andato via.
Allora dopo aver pensato a lungo, decisero di seguire le indicazioni ricevute dall’Imperatore nel sogno.
L’Imperatrice andò nel cortile del palazzo e grande fu la sua meraviglia quando trovò un alberello nel luogo indicato dal vecchio e dove prima non c’era niente. Lo annaffio, gli tolse i rami e le foglie secche. L’indomani l’Imperatrice trovò sui rami tre piccoli pomi che mangiò subito. Passato il tempo necessario, l’imperatrice dette alla luce tre bambine.
Gioia grande per l’Imperatore e per tutto il regno…
Il giorno della festa fu imbandita una grande tavola con cibo per le Auguri: farina, latte, miele, sale e acqua.
Le "Auguri" avevano il compito di indagare la mente degli dèi osservando il volo, il canto ed altre manifestazioni della vita degli uccelli ("auspicium" od "avispicium"); perché i Romani non credevano di poter intraprendere nessun atto di una certa importanza senza aver prima preso l'"augurio", né assegnare un'area alla costruzione di un tempio o ad altro uso solenne, senza che questa fosse stata "inaugurata", cioè delimitata dalle "Auguri" per prendervi l'auspicio.
Queste mangiarono poi predissero:
-La più grande si chiamerà Parola Giusta e sarà dura, colpirà, romperà poi raddrizzerà con giustizia e amore di verità.
-La seconda si chiamerà Parola di Spirito e sarà sempre alla ricerca del nocciolo delle conoscenze.
-La terza si chiamerà Buona Parola e sarà dolce, mansueta, caritatevole, pronta a lenire le ferite del corpo e dell’anima.

Le figlie crebbero ed in tutte le loro azioni rendevano felici i genitori.
Le cose previste alla loro nascita si dimostravano vere: Parola Giusta era tanto accorta che suo padre le aveva ceduto ben volentieri il compito di fare giustizia; Parola di Spirito parlava con i grandi scienziati e ricercatori; Parola Buona accarezzava tutti i sofferenti e dove passava nascevano i sorrisi e la gioia. I loro genitori erano felici e non passava giorno che non ringraziassero per l’arrivo del vecchio alla loro porta.
La felicità regnava sul loro paese… ma un giorno comparve un drago a uno dei confini dell’impero. Bruciava i paesi, mangiava il cibo della gente.
L’Imperatore le provò tutte: mandò armate, mandò ambascerie, fece circolare un bando che prometteva la mano di una delle figlie a chi avesse sconfitto il drago.
Niente, il drago sembrava invincibile.
Allora l’imperatore andò di persona a trovare il drago e gli chiese:
-Ei Drago, ma cosa vuoi tu da noi.
-Vedi Imperatore, io da voi non vorrei niente ma sono troppo arrabbiato e la causa è la mia padrona l’Imperatrice Lettera: è rimasta senza pensieri e nel nostro impero regna la confusione. Lei è molto preoccupata poiché non sa più come risolvere i problemi. Io allora mi arrabbio e me la prendo con chi trovo sulla mia strada.
Dopo aver sentito il discorso del drago, l’Imperatore stette a pensare… doveva fare qualcosa per liberare il suo paese da quel drago.
-Guarda Drago che io ho tre figlie che saprebbero risolvere i problemi della tua Imperatrice. Potrebbero venire nel tuo paese, a patto che tu lasci stare le mie terre e i miei uomini.
-Allora sia fatto come dici tu Imperatore - e il drago dopo aver salutato se ne andò per la sua strada.
Tornato al palazzo l’Imperatore chiamò le sue figlie e le informò dell’impegno preso col drago. Preparati i bagagli le ragazze si misero in viaggio.
Trovarono l’Imperatrice Lettera molto arrabbiata, comunque le ricevete in modo adeguato… Poi ella raccontò:
-La colpa di tutto è soltanto mia. Un giorno mentre ero in Consiglio con i miei dignitari, mi sono vantata che gli uomini non saprebbero imbrogliare le chiare lettere che io metto nero su bianco sulla carta. Di colpo comparve la Fata Brontolona arrabbiata e mi lanciò un incantesimo tremendo: che non ci fosse ordine e pulizia di pensiero nel mio regno. Solo cose ingarbugliate e balbettii finche non troverò la preghiera dell’intelligenza. Come e dove sarà non ho idea ma lei diceva che si trova in mezzo a Legge, Istruzione e Carità. Ho cercato e poi cercato ancora ma non ho trovato niente di quello che mi ha detto la Fata. Se voi troverete la soluzione mi farò serva alla corte di Parola e a voi darò il mio regno.
Le ragazze si misero a pensare ma non trovarono risposta. Quando stavano per rinunciare ecco chi si vide? Il Vecchio che disse:
-Mie figlie prendete la strada dove sorge il Sole e tramonta la Morte. La troverete solo se avrete questa grazia.
Le ragazze partirono verso Oriente. Camminarono quel tanto che possono durare due pani e una brocca d’acqua e giunsero in un bosco.
Ma che bosco!! come mai avevano visto: nero e ingarbugliato, percorso da cattivi pensieri e rabbia. Stanche e affamate, le ragazze seguirono un sentiero pieno di erbacce e giunsero ad una casa in rovina.
Bussarono e la porta fu aperta da una vecchia, ma tanto vecchia che i suoi anni non si contavano più. Le ragazze chiesero un pò di pane ed acqua.
-Vi posso dare l’acqua, visto che l’abbiamo dal Signore ma per il pane dovrete lavorare per un giorno.
Le ragazze accettarono.
Parola Giusta lavorò nel pollaio: lo pulì, lo lavò poi dette il mangime ai polli. Grande fu la sua meraviglia quando vide che il mangime era mescolato con quello dei cani e dei bovini. Con pazienza divise i vari mangimi e dette ad ognuno la giusta porzione.
Parola di Spirito ebbe come compito fare ordine fra le carte della vecchia che erano tremendamente ingarbugliate. Nessuna speranza di venirne a capo…ma la ragazza con infinita pazienza, ricordando l’insegnamento avuto dai sapienti del regno di suo padre sistemò tutto.
Parola Buona ebbe come compito di accudire proprio la vecchia che era molto bisbetica ma la giovane con il suo modo di fare fece nascere un sorriso sul volto della donna.
Finita la giornata di lavoro la vecchia disse:
-Siete state tanto brave in tutto che vi darò un ultima cosa da fare. Tornate da Lettera e ditele di salire nella torre abbandonata del palazzo e di portare giù la cassetta che lì troverà. Il resto lo saprete dopo.
Trovato il scrigno lo aprirono e vi trovarono tre lettere con i loro nomi su ogni busta.
Aprirono le buste: in quella di Parola Giusta c’era scritto “fatapen”, da Parola di Spirito:“sierovie” e da Parola Buona “nisonoinpena”.
Lettera si mise a piangere:
-Questa è opera di Brontolona .
Le ragazze lessero più volte fin che capirono: FATA PENSIERO VIENI SONO IN PENA.
Subito comparve una fata meravigliosa accompagnata da tre bellissimi principi e disse:
-Io sono la fata del Pensiero e loro sono i miei tre figli: Legge, Istruzione, Carita’.
Così si sposarono e Lettera entrò in servizio da Parola e Pensiero badò a tutti per garantire la tranquillità e l’armonia fra la mente e l’anima.

leggenda Rumena Tradotta e Inviata da Avian degli amici del Forum di Pinu

 
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Il Natale di Martin

Post n°748 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

n una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: « La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.»
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi.»
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica!- rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera- rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l’accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: « Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.»
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.


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di Leone Tolstoj


 
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L'ago

Post n°747 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un ago da stuoie, era convinto d’essere sottile, che per poco non si credeva un ago da cucire.
- Attenzione a tenermi stretto! – disse alle dita che lo tirarono fuori. – Non lasciatemi cadere, altrimenti, per terra, sarà ben difficile trovarmi, sono così sottile!…
- Andrà come andrà! – risposero le dita, e presero l’ago a mezzo corpo.
- Ammirate, eh! Ora salgo su con il mio bravo seguito! – disse l’ago da stuoie, e si tirò dietro una lunga gugliata, ma nel filo non c’era nodo.
Le dita infilarono l’ago proprio nella babbuccia della cuoca, perché la parte superiore della ciabatta era scoppiata e bisognava darvi due punti.
- E’ un lavoro troppo grezzo – disse l’ago da stuoie – non ne verrò mai a capo! Mi spezzo! Mi spezzo!
E si ruppe davvero.
- Ve l’ ho detto! – esclamò – Sono troppo sottile, troppo fino!
- Ora, non è più buono a nulla! – esclamarono le dita, ma lo tennero stretto ancora un po’, perché la cuoca vi fece cadere delle gocce di cera lacca, e se ne servi come spilla per lo scialle.
- Sono diventato uno spillo da signora! – disse l’ago da stuoie – immaginavo che avrei fatto carriera! Quando si crede in se stessi si giunge sempre!
E sorrise pian pianino, tra se, ma non si può mai vedere quando gli aghi ridono. Se ne stava, lì fiero al suo nuovo posto come se conducesse un tiro a quattro e si guardava intorno.
- Permettete una domanda: siete d’oro? – chiese l’ago allo spillo suo vicino.
– Fate una splendida figura, si vede che avete testa, anche se siete piccolo. Bisogna che cerchiate di crescere; non a tutti capita la fortuna che la cera lacca piova sul capo!
L’ago da stuoie alzò la testa con tanta boria, che cadde fuori dallo scialle, e finì proprio dentro l’acquaio, dove la cuoca stava pulendo.
- Eccomi, partito per un nuovo viaggio! – disse l’ago – speriamo che non mi perda …
E infatti andò perduto.
- Sono troppo sottile per questo mondo! – pensava, mentre era in fondo allo scarico. – Ma almeno so chi sono, ed è una consolazione.
Così l’ago mise da parte i suoi modo superbi, e non perdette il buon umore. Sopra di lui galleggiavano oggetti di tutti i tipi, fuscelli di paglia, vecchi giornali, cenci …
- Ma guarda come galleggiano! – esclamava l’ago – loro non sanno chi è qui sotto! Ed io sono qui, e resto fermo. Ecco, una pezza che passa, in tutto il mondo trovar altro di meglio a cui pensare che se stesso … una pezza! Un pezzetto di paglia … come gira! E rigira … intorno a se stessa!… pensa a qualcos’altro, piccola! Non avere occhi solo per te stessa o andrai a battere contro qualche pietra … Un pezzetto di giornale che nuota . quello che c’è scritto sopra è bel dimenticato da tutti, e pure si dà certe arie di importanza! Solo io sono qui tranquillo, e paziente. Perché so chi sono, e tale rimango!
Ma un giorno, gli si posò qualcosa accanto, che luccicava, l’ago lo credette un diamante, ma, non era altro che un pezzetto di vetro di una bottiglia rotta. Ma luccicava … l’ago gli rivolse la parola, e si presentò come spillo da cravatta.
- Immagino che voi siete un diamante….
- Si, qualcosa di simile.
Ognuno dei due credeva che l’altro fosse un oggetto di gran valore, ed iniziarono a parlare di quanta arroganza c’era in giro.
- Abitavo in una scatola di una signora – narrò l’ago – Questa signora era la cuoca, e aveva cinque dita per ogni mano, e non ho veduto mai tanta boria come in quelle dita, nell’adoperarmi, per tirarmi fuori dalla scatola e nel ripormi, non c’erano che loro.
- Almeno erano di buona famiglia? Ma eccellevano in qualche virtù? … - chiese il fondo di bottiglia.
- Che cosa? – esclamò l’ago. – Ma avevano una alterigia … erano dieci fratelli, tutti appartenenti alla famiglia delle dita, ed erano molti uniti fra loro, sebbene fossero di altezza diversa, il signor Pollice, il maggiore, era grasso e piccolo; aveva un solo movimento nella schiena e sapeva fare solo un inchino, e sosteneva che senza di lui nella mano, l’uomo non poteva andare in guerra. Il secondo il signor Leccapiatti, si infilava in tutto, nell’amaro e nel dolce, indicava persino il sole e la luna, e imponeva le sue impressioni quando si scriveva. Il signor Lungo, il terzo, vedeva tutti dall’alto e dal basso. Il quarto Fasciadoro, si vantava perché aveva una cintura dorata stretta alla vita. Il quinto Pierino Balocchino, non aveva nulla da fare tutto il giorno ma era un vanitoso, in quella famiglia non si udivano altro, per questo sono andato via.
- Ed ora, siamo qui che brilliamo! – disse il fondo di bottiglia.
In quel momento, entrò più acqua del solito tanto che il fondo di bottiglia fu trasportato via dalla corrente.
- Lui ha trovato la sua strada – disse l’ago. – Io resto qui sono troppo sottile. Ma è il mio orgoglio.
E restava lì pensieroso. “ Posso affermare d’essere nato da un raggio di sole, per quanto sono sottile! Tanto che mi pare che i raggi del sole cerchino me, sott’acqua. Sono così sottile, che neanche mia madre riesce a trovarmi! Se avessi ancora il mio vecchio occhio, quello che si è rotto piangerei … no … non lo farei … piangere non è da persone sottili.
Ma un giorno, due bambini gettati per terra, esploravano nella fogna, dove molte alte volte avevano trovato soldini, vecchi chiodi ed altri tesori.
- Ahi! … - grido un bambino, che si era punto con l’ago. – Ecco ho trovato un affare per te!
- Non sono una cosa, sono un signore! – disse l’ago.
Ma i bambini non l’ascoltarono. La cera lacca si era staccata e lui era diventato nero, ma il nero snellisce, ed egli si sentiva ancora più sottile.
- Guarda un guscio d’uovo, che naviga! – esclamarono i ragazzi, e appuntarono l’ago in mezzo al guscio d’uovo.
- Le pareti bianche dell’uovo fanno notare la veste nera. Così va meglio! – disse l’ago felice. – Così mi noto! Speriamo che non soffra il mal di mare!
Ma non lo soffrì neanche per un attimo.
- Contro il mal di mare ci vuole uno stomaco d’acciaio e la certezza di avere qualcosa in più degli altri. Così non si soffre e più si è persone sottili, si è più resistenti.
Ma il guscio d’uovo fece “ Crac”, perché un barattolo che passava di lì l’aveva urtato.
- Santo Cielo! Come si rimane delusi! – esclamò l’ago – Ora sì che avrò il mal di mare … mi rompo … mi rompo!
Ma non si ruppe, sebbene una ruota di bicicletta gli passasse sopra. Rimase lì disteso, per molto tempo.




di Hans Christian Andersen

Illustrazione di Marilena Maglio

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Il custode dei maiali

Post n°746 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un principe povero, che possedeva un reame piccolo piccolo, ma grande abbastanza per potercisi sposare: e infatti lui voleva proprio sposarsi. Certo, era una bella sfacciataggine da parte sua andare dalla figlia dell'imperatore e chiederle:
"Vuoi sposarmi?", ma lui l'osò, perché il suo nome era pur sempre conosciuto nel mondo: c'erano centinaia di principesse che a una domanda così avrebbero risposto subito di sì: ma lei, invece, niente.
Ora, state un po' a sentire quel che successe...
Sulla tomba del padre di questo principe cresceva un cespuglio di rose meraviglioso. Questo cespuglio fioriva ogni cinque anni, e faceva una rosa sola, un fiore tanto bello che odorandolo ci si dimenticava di tutti i dolori e le preoccupazioni; e sul cespuglio veniva un usignolo che nel suo piccolo becco sembrava contenere tutte le melodie del mondo. Quella rosa e quell'usignolo sarebbero stati il dono per la principessa: infatti il principe li chiuse in un astuccio e glieli mandò.
L'imperatore ordinò che gli mostrassero i doni, nel grande salone dove anche la principessa veniva a giocare con le sue dame di compagnia (era l'unica cosa che lei sapesse fare). Fu così che , quando vide gli astucci dei regali, batté le mani dalla gioia.
"Magari fosse un gattino", disse lei: e invece saltò fuori una splendida rosa.
"Che meraviglia", dissero tutte le dame.
"È veramente bella", disse l'imperatore .
Ma quando la principessa la toccò con la mano, per poco non si mise a piangere.
"Che orrore , padre!", disse; "non è finta, è vera!"
"È vera? Che orrore!" dissero le dame.
"Aspettiamo prima di arrabbiarci" disse l'imperatore; vediamo prima cosa c'è nell'altro astuccio. Saltò fuori l'usignolo: all'inizio cantava così bene che nessuno poteva lamentarsi.
Le dame si misero a fare apprezzamenti in francese, una meglio dell'altra: "Superbe! Charmant!".
Ma poi un vecchio cavaliere osservò: "Mi ricorda molto il carillon della povera imperatrice. È la stessa melodia, lo stesso tono."
"È vero!", disse l'imperatore , e si mise a piangere come un bambino.
"Allora, forse non è un uccello vero", disse la principessa.
"Ma certo che è un uccello vero", dissero quelli che lo avevano portato lì.
"Allora se ne può anche volare via", disse quella, e non permise assolutamente che il principe venisse a trovarla a corte.
Ma lui non si lasciò intimidire ; si spalmò sulla faccia una tinta marrone scura, si abbassò il berretto sulle orecchie e bussò alla porta.
"Buongiorno, imperatore", disse. "Potrei per caso entrare a servizio nel vostro palazzo?"
"Eh, ma lo sa quanti ce ne sono, come lei, che cercano un lavoro!" disse l'imperatore. "Però, aspetta un po', ho bisogno di qualcuno che stia di guardia ai miei maiali. Ne abbiamo così tanti!"
E il principe fu assunto come guardiano dei maiali dell'imperatore . Gli fu data una lurida stanzetta negli scantinati, vicino alla stalla, e dovette rimanere lì.
Per tutto il giorno rimase seduto a lavorare, e prima di sera aveva già fabbricato una marmitta; intorno all'orlo aveva messo dei campanellini che , non appena la zuppa bolliva, cominciavano a suonare alla perfezione una vecchia melodia:

"O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato..."


Ma la cosa migliore era che se uno infilava il dito nel fumo che saliva dalla marmitta, capiva subito dall'odore quali cibi stavano cuocendo sui fornelli di tutta la città: altro che belle rose!
Proprio in quel momento passò la principessa con tutte le dame; e quando sentì la melodia si fermò, molto contente, perché anche lei la conosceva.

"O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato..."


Anzi, era la sola canzone che conosceva, ma la sapeva suonare soltanto con un dito solo.
"Il nostro custode dei maiali dev'essere molto colto", disse; "sa proprio la canzone che conosco io!", disse. "Di grazia, andate a chiedergli quanto costa il suo strumento".
E così una delle dame dovette mettersi gli zoccoli per andare a parlare con lui.
"Cosa volete per quella marmitta?", gli chiese.
"Voglio dieci baci dalla principessa!", disse il custode.
"Mamma mia!", rispose la dama.
"Mi dispiace, ma non posso venderla per meno".
Quando la dama fu tornata, la principessa le chiese: "E allora, cos'ha detto?"
"Non posso ripetervelo", rispose la dama; "È troppo orribile".
"Ditemelo almeno nell'orecchio", rispose lei, e così la dama glielo disse nell'orecchio.
"Che razza d'insolente!", disse la principessa, e se ne andò; ma aveva fatto ancora pochi passi che i campanelli ripresero d'incanto a tintinnare:

"O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato..."


"Di grazia", disse, "andate a chiedergli se gli vanno bene dieci baci delle mie dame".
"Proprio no, grazie", fu la risposta del custode dei maiali. "Dieci baci della principessa: è la mia ultima parola".
"Che disdetta!", disse la principessa; "bisognerà che voi dame vi mettiate davanti a me, affinché non ci veda nessuno.
Le dame la circondarono da tutte le parti e allargarono le gonne: così il custode dei maiali ottenne dieci baci, e lei ebbe la pentola.
Che bel divertimento! Per tutta la notte e tutto il giorno misero a bollire la marmitta; così sapevano tutto quello che si stava cucinando in città, dalla casa del ciambellano a quella del ciabattino. Le dame ballavano e battevano le mani dalla contentezza.
"Noi sappiamo chi avrà la zuppa e chi avrà la focaccia! Sappiamo chi avrà la minestra e chi avrà le briciole! Questo sì che è interessante".
"Certo che è interessante", disse l'intendente della corte.
"Sì, ma mi raccomando, acqua in bocca! Io sono la figlia dell'imperatore!"
"Ma si figuri", dicevano in coro tutte quante.
Il custode dei maiali - che in realtà era un principe, ma tutti lo prendevano per un vero custode di maiali - non lasciava passare un giorno senza inventarsi qualcosa. Un giorno costruì una raganella: quando uno la faceva girare saltavano fuori tutti i valzer, le polche e le mazurche che sono state composte sin dalla notte dei tempi.
"Questo sì che è davvero 'superbe'", disse la principessa quando passò di lì. "Non ho mai sentito canzoni così belle! Di grazia, andate a chiedergli quanto costa quello strumento; attenzione, però: io baci non glieli do!"
Una dama entrò a chiedere, e tornò dicendo che il custode dei maiali voleva cento baci.
"Ma quello lì è proprio matto, secondo me!", disse la principessa; e stava per andarsene; ma dopo qualche passo tornò indietro: "Bisogna pur incoraggiare l'arte!", pensò. "Dopotutto io sono la figlia dell'imperatore! Ditegli che gli darò dieci baci, come l'altro giorno, e gli altri glieli danno le dame!"
"Veramente a noi non piace", dissero queste.
"Quante storie!", rispose la principessa. "Se lo bacio io, perché non dovreste baciarlo anche voi? Dopotutto vi pago il vitto e l'alloggio!" E così la dama dovette tornare dal custode.
"Vuole soltanto cento baci dalla principessa", disse, "Se no ognuno resta con quello che ha".
"Fate da paravento", sospirò la principessa: e una volta che tutte le dame si furono messe davanti, baciò il custode dei maiali.
"Che sarà mai tutta quella ressa davanti alla stalla dei maiali?", si chiese l'imperatore , che si era affacciato al balcone. Si stropicciò gli occhi e poi inforcò gli occhiali.
"Ma sono le dame di compagnia! Chissà cosa stanno combinando! Bisogna che vada a vedere!", e si tirò le pantofole sul calcagno - veramente un tempo erano state scarpe, ma lui le aveva tutte consumate.
Non appena fu sceso nel parco, prese a camminare piano piano, ma le dame non si accorsero di lui, perché erano troppo impegnate a sorvegliare il corretto svolgimento della faccenda: il porcaro non doveva ricevere troppi baci, ma nemmeno troppo pochi. Così a un certo punto lui si alzò sulle punte dei piedi.
"Ma cosa state combinando?", disse, e quando vide che si stavano baciando, tirò loro una pantofola in testa, proprio mentre il guardiano dei maiali veniva baciato per l'ottantaseiesima volta.
"Via! Sparite!", disse l'imperatore , infuriato, e così la principessa e il custode dei maiali furono banditi da tutto l'impero.
Lei si mise a piangere , mentre il custode dei maiali la sgridava, e pioveva a catinelle.
"Povera me!", diceva la principessa. "Se mi fossi sposata quel bel principe! Come sono infelice".
Il custode dei maiali andò dietro a un albero, si tolse la tinta nera dalla faccia, si tolse gli stracci e si rimise il suo vestito da principe, talmente bello che la principessa fece un profondo inchino davanti a lui.
"Cara mia!", disse lui; "Lo sai? Ormai non ti voglio più bene, anzi! Non hai voluto un principe onorato, non sai nulla di rose e usignoli, ma per un sonaglio hai baciato un custode di maiali: ben ti sta!"
E se ne tornò nel suo regno, chiudendo la porta col catenaccio: e così a lei non rimase altro da fare che restare fuori a cantare:

"O mio povero Agostino,
Tutto è andato, andato, andato..."


di Hans Christian Andersen

 
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La fanciulla che calpestò il pane

Post n°745 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Hai certamente sentito parlare di quella fanciulla che calpestò il pane per non sporcarsi le scarpe, e delle sofferenze che dovette subire. È una storia scritta e stampata.
Era una bambina povera, orgogliosa e superba; c'era in lei un fondo cattivo, come si dice. Da piccolina aveva come divertimento quello di catturare le mosche e di strappar loro le ali riducendole a animaletti striscianti. Prendeva il maggiolino e lo scarabeo, li infilzava con uno spillo e poi metteva una fogliolina verde o un pezzetto di carta tra i loro piedi, così il povero animale vi si afferrava e si rigirava senza posa per cercare di liberarsi dall'ago.
«Adesso il maggiolino legge!» esclamava la piccola Inger «guarda come gira il foglio!»
Crescendo diventò ancora peggio, invece di migliorare; ma era bella e questa fu la sua sfortuna, perché altrimenti sarebbe stata castigata ben diversamente da come in realtà avvenne.
«Bisogna trovare un buon rimedio per questa testa!» diceva la sua stessa madre. «Spesso da bambina mi calpestavi il grembiule, ho paura che da grande mi calpesterai il cuore.»
E così infatti fece.
Andò in campagna a servire in una famiglia molto distinta; la trattavano come se fosse stata una loro figlia, e venne anche rivestita di begli abiti; era graziosa e divenne superba.
Era in campagna da circa un anno quando la sua padrona le disse: «Dovresti andare a trovare i tuoi genitori almeno una volta, piccola Inger!».
Lei ci andò, ma per mettersi in mostra, per far vedere come era diventata distinta; quando giunse all'ingresso del paese, dove le ragazze e i giovanotti erano riuniti a chiacchierare intorno all'abbeveratoio, vide sua madre seduta su una pietra che si riposava, con davanti a sé un fascio di legna raccolta nel bosco. Inger se ne tornò indietro, vergognandosi, così ben vestita, di avere una madre stracciona che andava a raccogliere la legna.
Non le dispiacque affatto essere tornata indietro, era solo irritata.
Passarono poi altri sei mesi.
«Dovresti tornare a casa a visitare i tuoi vecchi genitori, piccola Inger!» le disse la padrona di casa.
«Eccoti un grosso pane bianco che puoi portare per loro; saranno certo contenti di vederti.»
Inger si mise il vestito migliore e le scarpe nuove, poi sollevò un poco la gonna e si incamminò, con attenzione, per non sporcarsi i piedi, e per questo era da lodare. Ma quando arrivò dove il sentiero passava tra la palude e dove c'era acqua e fango per un bel pezzo di strada, gettò il pane sul fango con l'intenzione di camminarci sopra e attraversare il fango senza bagnare le scarpe; ma mentre stava con un piede sul pane e con l'altro sollevato, il pane affondò sempre più, con lei sopra, e così scomparve, rimase solo il fango nero e gorgogliante.
Questa è la storia.
Dove arrivò? Scese dalla donna della palude che fa la birra. La donna della palude è la zia delle fanciulle degli elfi, e questi sono molto noti perché hanno scritto ballate su di loro, e sono stati anche dipinti; della donna della palude invece si sa solo che quando in estate i campi sono pieni di vapore è perché lei sta facendo la birra. Proprio nel luogo dove si fa la birra cadde Inger, e quello non è un posto da starci a lungo. La cloaca in confronto è una luminosa e bellissima stanza.
Ogni vasca puzza tanto da far svenire, e le vasche sono molto vicine tra loro, se poi nel mezzo ci fosse lo spazio dove poter passare, non sarebbe utilizzabile a causa dei fradici rospi e delle grosse bisce che si attorcigliano l'una all'altra. Proprio qui finì la piccola Inger; tutto quel ripugnante groviglio vivente era così gelato che lei rabbrividì e si fece sempre più rigida. Rimase attaccata al pane, che la tirava come un bottone d'ambra tira un filo di paglia.
La donna della palude era a casa, aveva in visita il diavolo e la sua bisnonna, una donna molto vecchia e molto velenosa che non stava mai in ozio: non usciva mai senza avere con sé il lavoro, e lo aveva anche quella volta. Cuciva solette di cuoio da mettere nelle scarpe degli uomini, in modo che non avessero mai pace, tesseva menzogne e lavorava all'uncinetto parole avventate che cadevano sulla terra portando danni e rovina. E con quanto zelo cuciva, tesseva e lavorava all'uncinetto, la vecchia bisnonna!
Vide Inger e si mise l'occhialino davanti agli occhi per guardarla meglio. «È una ragazza che ha attitudine!» disse. «Vorrei averla come ricordo di questa visita! Potrebbe essere messa come statua nell'ingresso del mio pronipote!» Così l'ottenne. Inger arrivò all'inferno. La gente non ci arriva sempre dritta dritta, si possono anche percorrere strade traverse, quando si ha l'attitudine.

Era un ingresso senza fine; venivano le vertigini sia a guardare avanti che a guardare indietro; lì si trovava una schiera di persone sofferenti in attesa che la porta della Grazia venisse aperta: ma avrebbero aspettato a lungo! Giganteschi ragni, grossi e barcollanti, tessevano da millenni sopra i loro piedi, e la tela li stringeva come stivaletti e penetrava nella carne come una catena di rame, inoltre c'era un'eterna inquietudine in ogni anima, un'inquietudine piena di tormento. C'era l'avaro che aveva dimenticato la chiave della cassaforte, e sapeva che era rimasta dentro la cassaforte stessa. Sarebbe lungo nominare tutti i tipi di sofferenze e di tormenti che venivano patiti. Inger visse il suo tormento nello stare dritta come una statua, e le sembrava di essere fissata al pane.
"Questo succede a chi vuol avere i piedi puliti!" disse a se stessa. "Guarda come tutti mi osservano!" e infatti tutti la guardavano. I loro cattivi desideri venivano espressi con gli occhi, e venivano letti sulle labbra, senza che venisse emesso alcun suono; era una cosa terribile.
"Dev'essere un piacere guardarmi!" pensò la piccola Inger "ho un bel viso e dei bei vestiti!" e ruotò gli occhi, dato che il collo era ormai rigido.
Oh, come s'era conciata nella birreria della donna della palude! Non l'aveva notato! I vestiti erano come coperti da un'unica grande macchia unta, e da ogni piega della gonna si affacciava un rospo, che guaiva come un cagnolino asmatico. Era proprio una cosa imbarazzante! "Ma anche gli altri che si trovano qui hanno un aspetto terribile!" si consolò.
La cosa peggiore per lei era però la fame che sentiva. Ma non poteva dunque piegarsi per prendere un pezzetto del pane su cui si trovava? No! La schiena era rigida, e lo erano anche le braccia e le mani; tutto il corpo era come una statua di pietra. Poteva solo girare gli occhi, e li girava del tutto, così da vedere anche dietro, e era proprio una brutta vista! Poi arrivarono le mosche; le strisciarono sugli occhi, avanti e indietro, e lei sbatté le palpebre, ma le mosche non se ne andarono, non potevano perché le loro ali erano state strappate, erano diventate animaletti striscianti. Era un vero tormento, e poi quella fame; alla fine le sembrò che il suo intestino divorasse se stesso e si sentì così vuota, terribilmente vuota. "Se dura ancora a lungo, non lo sopporterò" disse, ma dovette sopportarlo, e le cose non cambiarono.
Allora le cadde una lacrima ardente sulla testa, le scivolò lungo il viso e il petto fino a raggiungere il pane, poi ne cadde un'altra, e molte ancora.
Chi piangeva per la piccola Inger? Aveva una madre sulla terra. Le lacrime di dolore che una madre piange per il proprio figlio arrivano dappertutto, ma non aiutano, bruciano e rendono il tormento ancora più grande. E poi quella insopportabile fame, e non poter arrivare al pane che calpestava coi piedi! Alla fine, ebbe la sensazione di aver consumato tutto quello che era in lei, era come una canna cava e sottile in cui rimbombava ogni suono, poteva sentire chiaramente dalla terra tutto quel che la riguardava, e erano solo parole cattive e severe quelle che sentiva. Sua madre piangeva molto e era addolorata, ma diceva anche:
«La superbia fa cadere! E stata la tua disgrazia, Inger! Come hai addolorato tua madre!».
Sua madre e tutti gli altri lassù sapevano del suo peccato, sapevano che aveva calpestato il pane e era affondata. L'aveva raccontato il vaccaro perché l'aveva visto personalmente dalla collina.
«Come hai addolorato tua madre, Inger!» disse la madre «già, ma me l'aspettavo!»
"Se solo non fossi mai nata!" pensò Inger "sarebbe stato molto meglio! Adesso non serve a nulla che mia madre pianga."
Sentì anche che cosa dicevano i suoi padroni, quella brava gente che era stata per lei come una nuova famiglia. «Era una bambina peccatrice!» dissero «non ha rispettato i doni del Signore, ma li ha calpestati: la porta della Grazia non verrà forse mai aperta per lei.»
"Avreste dovuto castigarmi di più!" pensò Inger "togliermi i grilli dalla testa, se ne avevo!"
Sentì che veniva scritta una canzone su di lei: "La fanciulla superba che calpestò il pane, per avere le scarpe belle" e che veniva cantata in tutto il paese.
"Che si debbano sentire tante cose su questo, e che si debba soffrire tanto per questo!" pensò Inger "anche gli altri dovrebbero venire puniti per i loro peccati. Certo, così ci sarebbero molte cose da punire. Oh, come mi tormento!"
E la sua anima diventò ancora più rigida del corpo.
"Quaggiù con questa compagnia non si può certo diventare migliori! e non lo voglio neppure! Guarda come mi osservano!"
La sua anima era piena di ira e di cattiveria verso tutti gli uomini.
"Adesso hanno qualcosa di cui parlare, lassù! Oh, come mi tormento!"
E sentì che raccontavano la sua storia ai bambini, i più piccoli la chiamavano "Inger la scellerata": era così cattiva, dicevano, così malvagia, e era giusto che patisse.
C'erano sempre parole dure per lei da parte dei bambini.
Ma un giorno in cui l'ira e la fame le mordevano il corpo ormai vuoto, sentì il suo nome; la sua storia veniva raccontata a una bambina innocente che scoppiò a piangere sentendo la storia della Inger superba e smaniosa di eleganza.
«Non tornerà mai più su?» chiese la bambina. E le fu risposto: «No, non verrà mai più su».
«E se chiedesse perdono e non lo facesse più?»
«Ma non chiederà certo perdono!» dissero.
«Vorrei tanto che lo facesse!» concluse la bambina, inconsolabile. «Darei il mio armadio delle bambole, se lei potesse tornare su. È terribile per la povera Inger!»
Quelle parole toccarono il cuore di Inger e le fecero bene; era la prima volta che qualcuno diceva: "povera Inger!" senza parlare della sua colpa; una bambina innocente aveva pianto e pregato per lei: ne fu così commossa che avrebbe pianto, ma non poteva, e anche questo era un tormento.
Passarono gli anni sulla terra, ma laggiù non ci fu nessun cambiamento: solo sentiva più raramente i suoni di lassù, si parlava sempre meno di lei.
Un giorno sentì un singhiozzo: «Inger! Inger! Come mi hai addolorata. L'avevo detto!». Era sua madre che moriva.
Ogni tanto sentiva il suo nome nominato dai suoi vecchi padroni e le parole più dolci della padrona erano:
«Chissà se ti rivedrò mai, Inger! non si sa mai dove si va a finire!».
Ma Inger sapeva bene che la sua brava padrona non sarebbe mai arrivata dov'era lei.
Così passò dell'altro tempo, lungo e amaro.
Poi Inger sentì di nuovo il suo nome e vide sopra di sé brillare due stelle luminose; erano due dolcissimi occhi che si chiudevano sulla terra. Erano passati tanti anni da quella volta in cui una bambina aveva pianto in modo inconsolabile per la "povera Inger": quella bambina era ora una vecchia che il Signore voleva chiamare a sé; proprio in quel momento, quando i pensieri di tutta la vita si ripresentavano a lei, ricordò di come aveva pianto amaramente da piccola nel sentire la storia di Inger. Quel momento e quell'impressione erano ancora così chiari nella sua mente nell'ora della morte che lei esclamò a voce alta:
«Signore, mio Dio, forse anch'io come Inger ho spesso calpestato i doni della tua benedizione senza pensarci, forse anch'io ho peccato di superbia, ma tu, con la tua grazia, non mi hai lasciato sprofondare, mi hai sostenuto. Non lasciarmi nella mia ultima ora!».
Gli occhi della vecchia si chiusero e quelli dell'anima si aprirono davanti all'ignoto, e poiché Inger era così viva nei suoi ultimi pensieri, potè vederla e vide com'era sprofondata in basso, e a quella vista quell'anima pia scoppiò in lacrime, nel regno dei cieli piangeva come una bambina per la povera Inger.
Quelle lacrime e quelle preghiere risuonarono come un'eco nel corpo vuoto e consumato che racchiudeva l'anima prigioniera; questa venne sopraffatta da tanto inimmaginato amore che veniva dall'alto.
Un angelo del Signore piangeva per lei!
Perché era capitato a lei? L'anima tormentata ripensò a ogni azione compiuta sulla terra e scoppiò a piangere, come Inger non aveva mai potuto fare; la pietà per se stessa ebbe il sopravvento, pensò che la porta della Grazia non si sarebbe mai potuta aprire per lei e proprio mentre nella contrizione lo riconosceva, un raggio di luce brillò nell'abisso, un raggio molto più potente di quelli del sole che sciolgono gli uomini di neve costruiti dai ragazzi nei cortili; allora, molto più in fretta di un fiocco di neve che cade sulla bocca tiepida di un fanciullo e si scioglie in acqua, la figura pietrificata di Inger si dissolse, e un minuscolo uccello si alzò in volo, con lo zigzag del fulmine, verso il mondo degli uomini.
Era però intimorito e impaurito per tutto quello che lo circondava, si vergognava di se stesso e di tutte le creature viventi e si rifugiò immediatamente in un buco che si trovava in un muro diroccato.
Si posò lì e si piegò su se stesso, tremando in tutto il corpo; non riuscì a emettere alcun suono, perché non aveva voce, restò lì a lungo, prima di riuscire a vedere e ammirare con tranquillità tutte le bellezze che c'erano là fuori. Sì, era proprio una meraviglia: l'aria era fresca e mite, la luna splendeva luminosa, gli alberi e i cespugli profumavano, e poi era così bello il luogo dove si trovava e le sue piume erano così pulite e delicate. Come si mostravano belle tutte le cose create nell'amore e nella bellezza! Tutti i pensieri che si trovavano nel petto dell'uccello volevano essere cantati, ma l'uccello non riusciva a farlo, eppure avrebbe cantato così volentieri come fanno in primavera gli usignoli e i cuculi. Il Signore, che sente anche il silenzioso canto di ringraziamento del verme, sentì quell'inno di lode che si alzava in accordi di pensiero, così come il salmo risuonava nel petto di Davide prima di trasformarsi in parole e musica.
Per molte settimane quei canti silenziosi crebbero e s'ingrossarono; ormai dovevano esprimersi, al primo battito d'ala di una buona azione: era indispensabile!
Vennero le feste di Natale. Il contadino eresse vicino al muro un palo e vi legò un fascio di avena piena di chicchi, così che anche gli uccelli del cielo avessero un buon Natale e un buon pranzo in quel giorno di salvezza.
Il sole si alzò la mattina di Natale e illuminò l'avena, così tutti gli uccelli volarono cinguettando intorno al palo del cibo; allora anche dal muro risuonò "cip, cip", quei pensieri silenziosi divennero suono, quel debole cip si trasformò in un inno di gioia, si cominciava a delineare l'immagine di una buona azione, e l'uccello uscì dal suo rifugio.
Nel regno dei cieli sapevano bene chi fosse quell'uccellino.
L'inverno si fece sentire davvero, l'acqua ghiacciò fino in profondità, gli uccelli e gli animali del bosco ebbero difficoltà a trovare cibo.
Quell'uccellino volò lungo la strada maestra e cercò, trovandolo qua e là nelle impronte delle slitte, qualche granello di grano; nei luoghi di sosta trovò briciole di pane, ma ne mangiò una sola e poi chiamò tutti gli altri passeri affamati, affinché potessero trovare qualcosa da mangiare. Volò fino alla città, controllò tutt'intorno, e dove una mano amorosa aveva sparso sul davanzale pane per gli uccelli, ne mangiò un po' e diede tutto il resto agli altri.
Per tutto l'inverno l'uccello raccolse e distribuì così tante briciole di pane che, tutte insieme, pesavano come l'intera pagnotta che la piccola Inger aveva calpestato per non sporcarsi le scarpe; quando l'ultima briciola fu trovata e data via, le ali grigie dell'uccello diventarono bianche e si allargarono.
«Una rondinella marina sta volando sul lago!» gridarono i bambini, vedendo quell'uccello bianco. Si tuffò nel lago, si sollevò nella chiara luce solare e luccicò; fu poi impossibile vedere che fine fece, ma si dice che sia volato fino al sole.


Hans Christian Andersen



 
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La disdetta di Pitagora(Pirandello)

Post n°744 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

 

— Perbacco!


E, rimettendomi il cappello, mi voltai a guardare la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre.

Dri dri dri... — ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata, nel mattino domenicale, le scarpe nuove dell’amico mio! E la fidanzata, con l’anima tutta ridente nell’azzurro infantile degli occhietti irrequieti, nelle guance invermigliate, nei dentini lucenti, sotto l’ombrellino sgargiante di seta rossa, si faceva vento, vento, vento, quasi a smorzar le vampe della gioia e del pudore, la prima volta che si mostrava così per via, bambina, alla gente, con a fianco — dri dri dri quel pezzo di promesso sposo, esageratamente nuovo, pettinato, profumato e soddisfatto.
Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse), si voltò anche lui, l’amico mio, a guardarmi. O che c’entrava? Mi vide ferreo in mezzo alla piazza, e chinò il capo, con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso e un vivace gesto della mano che voleva dire: «Mi rallegro! mi rallegro!».
E, fatti pochi passi, mi voltai di nuovo. Non m’aveva fatto tanto piacere quella vispa figurina tutt’accesa della piccola fidanzata, quanto l’aria di lui, dell’amico mio, che non vedevo da circa tre anni. O non si voltò anche lui a guardarmi una seconda volta?

«Che sia geloso?» pensai, incamminandomi a capo chino. «N’avrebbe ragione in fin dei conti! È proprio carina, perbacco. Ma lui, lui!»

Non so; m’era sembrato anche più alto di statura. Prodigi dell’amore! E poi, tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona così evidentemente carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti intimi e curiosissimi che ogni giovinetto suole avere con la propria immagine per ore e ore davanti a uno specchio. Prodigi dell’amore!
Dov’era stato in questi tre ultimi anni? Qua a Roma, prima, abitava in casa di Quirino Renzi, suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiamava più «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlì due anni prima che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo più riveduto. Ora, rieccolo a Roma e fidanzato.

— Ah, caro mio, — seguitai a pensare, — tu non fai più, certamente, il pittore. Dri dri dri: le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, che ti deve fruttar bene. E io te ne lodo, non ostante che cotesto nuovo mestiere t’abbia persuaso a prender moglie.

Lo rividi due o tre giorni dopo, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina, questa volta.
Da quel sorriso argomentai che Tito le aveva certo parlato a lungo di me, delle mie famose distrazioni di mente, ed anche detto che Quirino Renzi, suo cognato, mi chiama Pitagora perché non mangio fagiuoli; e spiegato anche perché, a mo’ d’ingiuria scherzosa, si può chiamar Pitagora chi non mangi fagiuoli, ecc. ecc. Cose che fanno tanto piacere.
M’accorsi che segnatamente alla suocera questa faccenda dei fagiuoli e di Pitagora aveva dovuto fare una buffissima impressione, perché, incontrandoli in seguito, non so più quant’altre volte, sempre tutt’e tre insieme, quella vecchia marmotta sbruffava proprio a ridere, senza neppur curarsi di nascondere la risata, dopo aver risposto al mio saluto, e si voltava anche a guardarmi, ridendo ancora.
Avrei voluto ripigliar Tito qualche giorno da solo a solo per domandargli se la presente felicità non offrisse a lui, alla sposina e alla futura suocera alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compiangerlo; ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della moglie.
Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlì questo telegramma:

 

«Brutti guaj, Pitagora. Sarò a Roma domattina. Trovati stazione ore 8,20. - Renzi».

O come! - pensai, - ci ha qui il cognato, e vuol essere accolto da me alla stazione? Feci su quel «brutti guaj» un mondo di supposizioni, tra le quali la più ragionevole mi sembrò questa: che Tito stesse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarglielo a monte. Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi, confesso che nutrivo già per quella bambola di sposina un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la madre.
Il giorno appresso, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non sono davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito... ma le gambe all’improvviso mi si piegano; mi cascano le braccia.

— Ho con me il povero Tito, — mi fa Renzi, additandomi pietosamente il cognato.

Tito Bindi, quello lì? Come! E chi avevo io dunque salutato per tre mesi, lungo le vie di Roma? Eccolo là, Tito... Ah Dio mio, in quale stato ridotto!

—Tito, Tito... ma come?... tu... — balbetto.

Tito mi butta le braccia al collo e scoppia in un pianto dirotto. Guardo Renzi a bocca aperta. Ma come? Perché? Mi sento impazzire. Renzi allora m’accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi. — Chi? lui, io o Tito? — Chi è il pazzo?

— Su via, Tito, — esorta Renzi il cognato, — calmati! calmati! Aspetta un po’ qua, tieni d’occhio queste valige. Io vado con Pitagora a ritirare il baule.

E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlì: gli eran nati due bambini, uno dei quali, dopo quattro mesi, era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la suocera e con la moglie sciocca ed egoista, gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’.
Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi, come tant’altre volte, volesse farsi beffe di me. Tra lo stordimento e la pena, gli confesso allora l’equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito, promesso sposo, per le vie di Roma. Renzi, non ostante la costernazione per il cognato, non può tenersi di ridere.

— T’assicuro! — gli dico io. — Tal e quale! Proprio lui in persona! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo venuti amiconi! Ora sì, ora noto la differenza. Ma perché Tito, poverino, sfido! non si riconosce più. Io saluto ogni giorno, invece, Tito qual era prima che partisse per Forlì, tre anni or sono. Ma proprio lui, sai? Tito, Tito che guarda, Tito che parla, Tito che sorride, Tito che cammina, Tito che mi riconosce e mi saluta... Proprio lui! proprio lui! Figurati che impressione m’ha fatto rivederlo così, ora, dopo averlo veduto ieri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto.

La mia disdetta vuole, che di tutto quello che io sento nessuno mai debba o voglia tener conto. Renzi, com’ho detto, rideva, e, poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare questa bella avventura. Sentite ora che ne seguì.
Quel poveretto rimase in prima stranamente stupito del mio abbaglio; ci lavorò su un pezzo con la fantasia, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e, alla fine, afferrandomi per un braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò:

— Pitagora, hai ragione!

Mi spaventai; mi provai a sorridergli:

— Che vuoi dire, caro Tito?

— Dico che hai ragione! — ripeté egli senza lasciarmi, con un brio di luce terribile negli occhi sempre più sbarrati. — Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io. Proprio io, Pitagora, che non ho mai lasciato Roma! mai! mai! Chi dice il contrario, è mio nemico! Qua, qua, tu hai ragione, io sto qua, sempre, a Roma, giovane, libero, felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti. Caro mio Pitagora, ah, respiro! respiro! Che peso m’hai levato dal petto! Grazie, caro, grazie, grazie... Sono felice! felice!

E, rivolgendosi al cognato:

— Abbiamo fatto un brutto sogno, Quirino mio! Dammi, dammi un bacio! Sento il gallo cantare di nuovo nel mio vecchio studio di Roma! Pitagora qui presente te lo dice. È vero, Pitagora? è vero? ogni giorno tu m’incontri qua a Roma... E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino. Faccio il pittore! il pittore! E vendo, no? Se mi vedi che rido, vuol dire che vendo! Ah... Va benone... Viva la gioventù! Scapolo, libero, felice...

— E la sposina? — mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo pericoloso particolare.

Il volto di Tito s’abbuiò a un tratto. Mi riafferrò questa volta per tutt’e due le braccia:

— Che hai detto? Come! Prendo moglie?

E guardò sbigottito il cognato.

— Ma che! — gli faccio io, subito, per rimediare, a un cenno di Renzi. — Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella marmottina!

— Scherzo? Ah, scherzo, dici? — incalzò Tito, infuriandosi, stravolgendo gli occhi, agitando le pugna. — Dove sono? dove sto? dove mi vedi? Bastonami come un cane, se mi vedi scherzare con una donna! Non si scherza con le donne... Si comincia sempre così, Pitagora mio! E poi... e poi...

Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo.

— No, no! — ci rispondeva. — Se prendo moglie anche qui a Roma, sono rovinato! rovinato! Vedi come mi sono ridotto a Forlì, caro Pitagora? Salvami, salvami, per carità! A ogni costo bisogna impedirmelo! subito! Anche lì ho cominciato scherzando.

E tremava tutto, come per brividi di febbre.

— Ma se noi siamo qui per pochi giorni soltanto! — gli disse Renzi. — Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlì.

— E non gioverà a nulla! — rispose Tito, con un gesto disperato delle braccia. — Ce ne torneremo a Forlì, e Pitagora seguiterà pur sempre a vedermi qua a Roma! come vuoi che sia altrimenti? Vivo qua sempre a Roma, Quirino mio, anche standomene lì. Sempre a Roma, sempre a Roma, negli anni miei belli, scapolo, libero, felice, come appunto m’ha visto Pitagora ieri stesso, non è vero? Eppure ieri noi eravamo a Forlì: vedi che non dico bugie?

Commosso, esasperato, Quirino Renzi scosse rabbiosamente la testa e strizzò gli occhi per frenar le lagrime. Finora la pazzia del cognato non gli s’era palesata in così disperate proporzioni.

— Via, via, — riprese Tito, rivolgendosi a me: - andiamo, conducimi subito dove tu mi suoli vedere. Andiamo al mio studio, in via Sardegna! A quest’ora ci sarò, voglio sperare che a quest’ora non sarò dalla sposina!

— Ma come! se sei qui con noi, Tito mio! — esclamai io sorridendo, con la speranza di richiamarlo in sé. — Dici sul serio?

Non sai che io ho la specialità degli equivoci? Ho scambiato per te un signore che ti somiglia.

— Sono io! Infame! Traditore! — mi gridò allora il povero pazzo, con gli occhi lampeggianti e con un gesto di minaccia.

 

— Vedi questo pover’uomo? Io l’ho ingannato. Ho sposato senza dirgliene nulla. Ora tu vorresti forse ingannare anche me? Di’ la verità, sei d’accordo con lui? gli tieni mano? Vuoi farmi sposare di nascosto? Conducimi in via Sardegna... Già, so la via; ci vado da me!

Per non farlo andar solo, fummo costretti ad accompagnarlo. Via facendo, gli dissi:

— Scusa, ma non ricordi che non ci stai più in via Sardegna?

S’arrestò, perplesso, a questa mia osservazione; mi guardò un tratto, accigliato; poi disse:

— E dove sto? Questo tu puoi saperlo meglio di me.

— Io? Oh bella! Come voi che lo sappia, se non lo sai neanche tu?

La risposta mi parve convincentissima, e tale da tenerlo fermo e inchiodato lì. Non sapevo che i così detti pazzi posseggono anch’essi quella complicatissima macchinetta cavapensieri che si chiama logica, in perfetta funzione, forse più della nostra, in quanto, come la nostra, non si arresta mai, neppur di fronte alle più inammissibili deduzioni.

— Io? Se non so neppure che stia per prender moglie! Che vuoi che sappia io da Forlì ciò che faccio qua, solo, a Roma, libero come un tempo? Lo saprai tu che mi vedi tutti i giorni! Andiamo, andiamo: conducimi; mi affido a te.

E, andando, di tratto in tratto, si voltava a guardarmi, con una muta supplichevole interrogazione negli occhi, che mi passava il cuore; perché con quegli occhi mi diceva che andava in cerca di se stesso per le vie di Roma, in cerca di quell’altro sé, libero e felice, del buon tempo andato; e mi domandava se io lo scorgessi in qualche parte, poiché egli lo cercava con gli occhi miei, che fino a jeri lo avevano veduto. Un’inquietudine angosciosa s’era impadronita di me. Se per disgrazia - pensavo - ci avvenisse d’imbatterci in quell’altro! Lo riconoscerebbe senza dubbio: la somiglianza è così evidente e perfetta! E poi, con quelle scarpe che strillano a ogni passo, quell’animale fa voltare tutta la gente! — E mi pareva di sentire da un momento all’altro, dietro di me, il dri dri dri di quelle scarpe maledette.
Poteva non darsi il caso? Ma neanche a dirlo!
Renzi era entrato in un negozio a comperar non so che cosa: io e Tito lo aspettavamo sulla via. Era già quasi sera. Guardavo impaziente il negozio da cui Renzi doveva uscire, e ogni minuto d’attesa, lì fermi, mi sapeva un’ora, quando a un tratto mi sento tirare per la giacca e vedo Tito con la bocca aperta a un sorriso muto di beatitudine, povero figliuolo! e con due grosse lagrime che gli gocciolavano dagli occhi chiari, ilari, parlanti. Lo aveva scorto; me lo additava lì, a due passi da noi, solo, fermo su lo stesso marciapiede.

Mettetevi un po’, una sola volta almeno, ne’ panni miei, senza ridere! Quel signore, nel vedersi guardato e additato a quel modo, si turbò; ma poi, accorgendosi di me, mi salutò al solito - tanto garbato, poverino! Io mi provai a fargli un cenno di nascosto, mentre con l’altra mano cercavo di trascinarmi via Tito. Non ci fu verso!
Per fortuna, colui aveva compreso il mio cenno e sorrideva; aveva però compreso soltanto che il mio compagno era pazzo; non s’era affatto riconosciuto nelle fattezze di Tito; mentre questi sì, subito, in quelle di lui. Sfido! Erano le sue di tre anni fa... Era lui stesso, che finalmente s’incontrava, qual era stato non più di tre anni fa. E gli s’era accostato e lo contemplava estatico e lo accarezzava nelle braccia e nel petto, pian piano, sussurrandogli:

—Come sei bello... come sei bello... Questo è il nostro caro Pitagora, vedi?

Quel signore mi guardava e sorrideva, imbarazzato e timoroso. Io, per tranquillarlo, gli sorrisi, addolorato. Non l’avessi mai fatto! Tito notò quel nostro sorriso, e sospettando subito qualche intesa fra noi due, si rivolse, minaccioso, a colui:

—Non prender moglie, imbecille: mi rovini! Vuoi ridurti come me? Straccione e disperato? Lascia quella ragazza! Non ci scherzare, stupido! mascalzone! Senza esperienza...

— Ma insomma! — gridò quel poveretto, rivolto a me, vedendo la gente accorrere curiosa, stupita, tutt’intorno a noi.

Io ebbi appena il tempo di dire: — Lo compatisca... — Tito mi fu sopra:

— Taci, traditore!

E mi diede uno spintone; poi si rivolse di nuovo a colui, con tono dimesso, persuasivo:

— No, calmati, per carità! Ascoltami... Sei focoso, lo so Ma io debbo impedirti di trarmi alla rovina una seconda volta

A questo punto Renzi accorse, cacciandosi tra la ressa, chiamando forte:

— Tito! Tito! Che è accaduto?

— Che? — gli rispose il povero Bindi. — Guardalo: eccolo là! Vuole riprender moglie! Diglielo tu che gli nascerà un bambino cieco... diglielo che...

Renzi a viva forza se lo trascinò via.
Poco dopo, io dovetti spiegare ogni cosa a quel signore. M’aspettavo che ne dovesse sorridere, ma non fu così. Mi domandò, costernato:

— Ma mi somiglia dunque tanto veramente?

— Ah, ora no! — gli risposi. — Ma se lo avesse veduto prima, tre anni fa, scapolo, qua a Roma... Lei in persona!

— Speriamo allora che fra tre anni, — disse, — io non debba ridurmi come lui...

Dopo tutto questo, avevo sì o no il diritto di credere che tutto fosse finito?
Ebbene, nossignori.
Ho ricevuto l’altro ieri - dopo circa due mesi dall’incontro che ho narrato - una cartolina firmata Ermanno Lèvera.
Dice così:

Caro Signore,
annunzii a quel tale Bindi che è stato obbedito. Non ho potuto più dimenticarlo. M’è rimasto davanti come lo spettro del mio destino imminente. Ho sconcluso il matrimonio e parto domani per l’America.
Suo
ERMANNO LÈVERA.

Ecco: se io non lo avessi salutato, povero giovine, scambiandolo per quell’altro, a quest’ora, chi sa! egli potrebbe essere un marito felice... chi sa! Tutto può darsi a questo mondo, anche certi miracoli.
Ma penso che se l’incontro con quell’altro poté su lui tanto, da produrre un tale effetto, anch’egli dovette credere d’incontrar nel Bindi se stesso, quale sarebbe stato fra tre anni. E fino a prova contraria non posso in coscienza asserire che questo signor Lèvera sia anche lui pazzo.
M’aspetto intanto che uno di questi giorni mi capiti la visita della sposina abbandonata e della mancata suocera. Le spedisco tutt’e due a Forlì, parola d’onore. Chi sa che non si riconosceranno anche loro nella moglie e nella suocera del povero Tito Bindi. Ormai pare anche a me, che siano tutti, realmente, una cosa sola, con soltanto quel bambino cieco in più, che qua, se Dio vuole, non nascerà, se è vero che questo signor Lèvera è partito jeri per l’America.

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Libera di amare (Teasdale)

Post n°743 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Sono libera d'amare come un uccello che vola verso
sud in autunno,
Rapido e deciso, non chiedendo alcuna gioia da un
altro,
Felice di dimenticare tutte le passioni di Aprile
Prima che fossi libera d'amare.
Sono libera d'amare, e ascolto la musica
leggermente,
Ma se lui tornasse, se mi guardasse profondamente,
Mi sveglierei, mi sveglierei e ricorderei
Che sono del mio amante.

 
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Ireneo al giubileo

Post n°742 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ebbene sì,lettori miei,anche Ireneo,come milioni di persone, si è recato a Roma per il giubileo,insieme ad altri 19 preti pistoiesi.
Trattandosi di lui vi assicuro che il suo soggiorno nella Città Eterna è stato movimentato e indimenticabile,come potrete verificare leggendo questa cronaca.
PRIMO GIORNO- Alle 6 del mattino Ireneo,salito sul pullmann,si è trovato davanti le due persone che detesta di più dopo il vescovo Orapronobis:i suoi ex compagni di seminario Giobbe Patacchi (detto "il ciuco del pentolaio"per tutti gli acciacchi che ha) ed Eufrosino Scodelloni (notorio burlone che potrebbe agevolmente dare dei punti al nostro Bernabò).I due gli si sono seduti uno accanto e l'altro dietro,Pert tre ore Ireneo si èdovuto sorbire il resoconto dettagliato di tutti gli acciacchi di Giobbe e ha dovuto difendersi dai tentativi di fargli il solletico dell'Eufrosino.
Il gruppo doveva alloggiare nel pensionato "S:Ermanno miserello"gestito da un ordine di suore teutoniche,la cui superiora è suor Hildegard Asinonen,sorella gemella del regista Ludwig e conosciuta col gentile nomignolo di "Adolf" (dice nulla?)
Più che un ostello sembrava un cambio di concentramento,con torrette,filo spinato,i rotweiler e telecamere ovunque,persino nel bagno.
La cena consisteva in pane raffermo,una foglia d'insalata e mezza mela. Dell'acqua non parlo,perchè il mio stomaco si ribella.
Alle 9 meno 10,gli ospiti sono stati spediti a letto e chiusi a chiave.
Manco a dirlo Ireneo si è ritrovato in camera col Giobbe (che per tutta la notte ha passeggiato avanti e indietro,perchè insonne cronico)e l'Eufrosino (che russava a tutto spiano)
SECONDO GIORNO - Alle 5 il campanone delll'ostello ha buttato tutti giù dal letto.
Il bagno era uno solo,quindi arrivarci si è rivelata un'impresa pressochè impossibile (anche perchè il solo Giobbe lo ha occupato per oltre un'ora e ne è uscito solo perchè Adolf lo ha stanato a calci)
Dopo una colazione su cui è molto meglio sorvolare,il gruppo si è recato in visita alle catacombe.
Lo Scodelloni ha fatto morire tutti d'infarto,facendo credere di essersi perso.Che era un oscehrzo si è capito 6 ore dopo,quando erano stati allertati polizia,118,vigili del fuoco,protezione civile e unità cinofile.
A Villa Borghese,tappa successiva,il Patacchi ha avuto la bella pensata di starnutire sul muso a un mastino napoletano.
Ireneo si è dovuto fiondare su un albero e si è beccato una salatissima multa.
Tornati all'ostello, Giobbe e il Cornacchioni hanno scoperto che lo Scodelloni aveva smontato i loro letti.
Adolf ha loro gentilmente concesso di dormire in una cuccia,stretta e piena di pulci,
Non vi dico che desio!
TERZO GIORNO- Il programma prevedeva visita in Piazza S.Pietro,pranzo e rientro.
Il Cornacchioni,il Patacchi e lo Scodelloni,dio solo sa come, si sono ritrovati su un pullmann di finlandesi diretto a Pompei.
Una volta là,hanno dovuto prendere un taxi che li ha riportati a Pistoia,dove ireneo ha potuto finalmente sbarazzarsi dei compagni di viaggio e tornarsene a S.Tobia.
Sono passate due settimane.
Da tre giorni Ireneo si trova nella clinica Luminaris:il vescovo Ildebrando gli ha comunicato che il nuovo parroco di S,Giosuè sarà il Patacchi,mentre quello di S.Pancrazio sarà lo Scodelloni!
Da allora il Croancchioni è in stato catatonico.
Riuscirà il nostro pretone a tornare quello di prima?
Con questo in terrogativo passo e chiudo


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Libri dimenticati: Moulin Rouge

Post n°741 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Biografia romanzata di Toulouse Lautrec,avvincente e toccante

 
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Frase del giorno

Post n°740 pubblicato il 16 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Chiamiamo libero colui che esiste per se stesso,non per un altro (Aristotele)

 
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