Messaggi del 17/09/2011

Violetta

Post n°759 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un pover'uomo che si chiamava Nicolino e aveva tre figlie, Zinia, Rosina e Violetta, e l'ultima era tanto bella che se ne era innamorato Pierone, figlio del re.
Ogni volta che passava dalla casina dove lavoravano le tre sorelle, levandosi il cappello diceva:
"Buondì, buondì Violetta".
E lei rispondeva: "Buondì figlio del re, io ne so più di te".
Su queste parole le sue sorelle avevano molto da dire, e la sgridavano:
"Sei una maleducata e farai arrabbiare il figlio del re, vedrai così ti farà!".
Siccome a Violetta i loro rimproveri non facevano né caldo né freddo, Zinia e Rosina fecero la spia al loro babbo, dicendogli che era una screanzata presuntuosa e rispondeva senza rispetto al principe come se fosse un pari suo; prima o poi lui si sarebbe arrabbiato e allora l'avrebbe fatta pagare anche a quelle che non avevano colpa.
Nicolino ci pensò bene e decise di mandare Violetta da una sua zia che si chiamava Cucirina, perché imparasse a lavorare. Ma il principe, che passando davanti a quella casina non vedeva più la sua preferita, per un po' di giorni andò un po' in qua e un po' in là rammaricandosi perché l'aveva persa di vista, e aprendo bene le orecchie sentì dire dov'era andata a stare. Allora andò a trovare quella zia e le disse:
"Signora, tu sai chi sono io, e sai anche che posso comandare quello che mi pare, quindi dammi retta, fammi un piacere e sarai ricompensata".
"Se è una cosa che posso", rispose la vecchia, "son pronta a obbedirti".
E il principe: "Voglio solo questo: che tu mi faccia dare un bacio a Violetta, e poi chiedimi quello che ti pare".
La vecchia rispose:
"Per servirti ti reggerò il moccolo, ma non voglio che lei si accorga che ci siamo messi d'accordo e sparga la voce che faccio la ruffiana; perché tu possa avere questo piacere ti puoi nascondere nella mia camera che dà sull'orto, io manderò giù Violetta con qualche scusa, e a quel punto sono fatti tuoi, se con la canna e l'amo non ti riesce pescare non dare la colpa a me".
Il principe la ringraziò del favore che gli faceva e s'infilò subito in quella stanza, e la vecchia, con la scusa che voleva tagliare un vestito, disse alla nipote:
"O Violetta, se mi vuoi bene, vai giù a prendermi il metro".
Ma Violetta, entrando in quella stanza per obbedire alla zia, si accorse del tranello, e afferrato il metro, agile come una gatta saltò fuori dalla camera, lasciando il principe rosso di rabbia e con un palmo di naso per la vergogna.
La vecchia, che la vide arrivare così alla svelta, pensò che il principe non ce l'aveva fatta, e dopo un po' le disse:
"Dovresti andare, cara nipote, nella stanza dell'orto a prendermi il rocchetto di filoforte su quel comodino".
E Violetta, corse, prese il filo, e sgusciò come un'anguilla tra le mani di Pierone. Dopo un po' la zia tornò a dirle:
"Violetta mia, se non mi prendi le forbici giù non posso fare più nulla".
Violetta scese giù e subì il terzo assalto, ma come un cane preso dalla tagliola con tutte le sue forze diede uno strattone e scappò.
Quando arrivò su con le forbici tagliò le orecchie alla zia, dicendole:
"Questa è la ricompensa che meriti, e se non ti taglio anche il naso è perché tu possa sentire la puzza della tua reputazione, donnaccia imbrogliona e ruffianaccia, che mi volevi far disonorare!".
E subito se ne tornò di corsa a casa sua, lasciando la zia a medicarsi le orecchie e il principe che a tutti quelli che incontrava diceva solo:
"Lasciatemi stare, lasciatemi stare, lasciatemi stare".
Ma ripassando davanti alla sua casina e vedendola dove era sempre stata, ricominciò la solita musica:
"Buondì, buondì Violetta", disse Pierone, e lei subito:
"Buondì figlio del re, io ne so più di te".
Le sorelle, non potendo più sopportare questa spregiudicata, si misero d'accordo per levarla di mezzo. Avendo una finestra che dava sul giardino di un orco, pensarono di sistemarla per le feste da quella parte, così, dopo aver lasciato cadere una matassina di filo col quale lavoravano una tenda per la regina, cominciarono a dire:
"Oh! povere noi, siamo rovinate e non possiamo finire il lavoro in tempo se Violetta, che essendo la più piccina è più leggera di noi, non si fa calare con una fune e per andare a riprendere il filo che abbiamo perduto!".
Violetta, per non vederle così tristi, si offrì subito di andarci; così la legarono con una fune e la calarono dalla finestra, e poi, appena sentirono che era arrivata in fondo, mollarono la fune.
Proprio in quel momento arrivava l'orco per dare un'occhiata al giardino, e siccome aveva preso umidità sentiva un gran dolore alla pancia: credendosi solo lasciò andare una scorreggia così esagerata, tanto forte e rumorosa, che Violetta, per la paura, strillò:
"Oh, mamma mia, aiutami!".
L'orco allora si girò, e appena vide la bella fanciulla proprio dove aveva lasciato partire la scorreggiona, si ricordò che uno studioso gli aveva rivelato che le cavalle di Spagna s'ingravidano col vento, e fu certo che il soffio del suo deretano avesse ingravidato un albero, e così ne era nata questa splendida creatura. E perciò, abbracciandola con grande tenerezza, le disse:
"Figlia, figlia mia, parte di questo corpo, alito dello spirito mio, e chi me l'avrebbe mai detto che a causa del freddo che ho preso avrei generato te, bel fuoco d'amore?".
Dicendo queste e altre parole tenere e zuccherose, la affidò a tre fate di sua fiducia, perché avessero cura di lei e la crescessero con quanto di meglio esisteva al mondo.

Il principe che non vide più Violetta, e per quanto domandasse da una parte e dall'altra non riusciva a sapere nulla di cosa le poteva essere successo, ne pativa tanto che gli vennero le occhiaie, impallidì fino ad avere un pallore cadaverico, le labbra divennero esangui, quando mangiava non digeriva e quando andava a letto non dormiva. Ma continuando la sua indagine e promettendo ricompense, tanto disse e tanto fece che finalmente ebbe l'informazione che cercava.
Allora convocò l'orco e gli chiese, siccome era malato, come si poteva ben vedere, il piacere di lasciagli trascorrere almeno un giorno e una notte nel suo giardino, gli bastava solo una stanza per vedere se lo faceva stare un po' meglio.
L'orco, che era un suddito del re suo padre, non avrebbe mai potuto negargli un piacere così da nulla, e gli offrì, se una non bastava, tutte le sue stanze, e la sua stessa persona per servirlo. Il principe, dopo averlo ringraziato, si mise in una camera che per sua fortuna era proprio vicina a quella dell'orco, che dormiva insieme a Violetta che considerava sua figlia a tutti gli effetti.
Quando venne la notte il principe si alzò, e trovò aperta la porta dell'orco, che, non avendo paura di nessuno, amava così godersi il fresco: allora entrò piano piano e accostandosi al letto dalla parte di Violetta, le diede due pizzichi. Lei si svegliò di soprassalto e cominciò a dire: "Babbo, babbo, quante pulci!". L'orco fece subito passare la figlia in un altro letto, e siccome il principe tornò a pizzicarla e Violetta gridò la stessa cosa, l'orco le fece cambiare il materasso, e poi le lenzuola, e questo traffico continuò per tutta la notte, fino alle prime luci del giorno. Appena nella casa si fece giorno e scorse la fanciulla sulla porta, Pierone le disse come al solito:
"Buondì, buondì Violetta", e appena lei rispose come sempre: "Buondì figlio del re, io ne so più di te", il principe ribattè:
"Babbo, babbo, quante pulci!".
Appena sentì questa battuta, Violetta mangiò la foglia e, rendendosi conto che tutto il tormento della notte era stato uno scherzo del principe, andò a trovare le fate e raccontò il fatto.
"Se è così," dissero le tre fate, "con il pirata saremo pirati, e briganti con il brigante; e se questo cane ti ha dato un morso, vediamo di levargli il pelo, lui te ne ha fatta una e noi gliene faremo anche due! E per questo, devi chiedere all'orco di procurarti un paio di pantofole tutte guarnite di campanelli, e poi torna qua e lascia fare a noi, che lo vogliamo ripagare come si merita!".
Violetta, che voleva vendicarsi, si fece fare subito le pantofole dall'orco, tornò dalle fate, aspettarono che fosse buio, e poi andarono tutte e quattro insieme nella casa del principe, e senza essere viste sgattaiolarono in camera sua.
Dopo poco arrivò Pierone, si mise a letto, e cominciò a chiudere gli occhi: in quel momento le fate fecero un gran parapiglia e Violetta si mise a battere i piedi, così che al rumore dei calcagni e al tintinnio fragoroso dei campanelli il principe si svegliò di soprassalto, gridando:
"Mamma, mamma, aiuto!".
E dopo aver ripetuto questo fracasso appena Pierone si assopiva altre due o tre volte se la svignarono tornando a casa loro.
Il principe la mattina dopo bevette un bicchierone di succo di limone e semesanto, come rimedio per la paura, e poi andò a fare una passeggiata nel giardino dell'orco, perché non poteva stare neanche un minuto senza vedere quella Violetta, che gli piaceva troppo, e vedendola sulla porta, le disse:
"Buondì, buondì Violetta", e Violetta: "Buondì figlio del re, io ne so più di te", e il principe:
"Babbo, babbo, quante pulci!", e lei: "Mamma, mamma, aiuto!".
Sentendo queste parole il principe rimase stupefatto e disse:
"Me l'hai fatta, m'hai sistemato! Lo ammetto, hai vinto! E siccome devo riconoscere che ne sai davvero più di me, basta: ti voglio sposare!".
Violetta però pensando a tutti i dispetti che aveva fatto a Pierone non si sentiva tranquilla, e chiese alle tre fate di formare per lei una grande statua di zucchero che le somigliasse, la nascose in una cesta e la coprì con dei vestiti.
Si fece una grande festa per le nozze del principe Pierone e di Violetta, ma dopo i canti e i balli lei, fingendo un po’ di mal di testa, andò a letto prima di tutti, si fece portare la cesta in camera con la scusa di cambiarsi d’abito, e dopo aver messo la statua sotto le lenzuola, si nascose dietro i tendaggi per vedere come andava a finire.
Dopo poco Pierone arrivò in camera e, credendo che nel letto ci fosse Violetta, disse:
"Ora non mi scappi più, birbante maledetta, ora la paghi cara! Ora si vedrà come va a finire quando una femmina qualunque pretende di tener testa a un re come me!".
E così dicendo estrasse un pugnale e la passò da parte a parte, poi, non contento, disse ancora:
"E ora ti voglio anche succhiare il sangue!".
Ed estratto il pugnale dal petto lo leccò, e sentì un sapore dolcissimo e un profumo di muschio che faceva inebriare. Allora, pentito di aver pugnalato una fanciulla così dolce e profumata, cominciò a rammaricarsi della sua collera, dicendo parole che avrebbero commosso le pietre, accusandosi di avere il cuore crudele e il sangue velenoso, se aveva potuto far tanto male a una creatura così buona e dolce. Poi, dopo aver pianto ed essersi strappato i capelli, in preda alla nera disperazione, alzò la mano col pugnale per metter fine alla sua vita.
In quell'istante Violetta uscì da dietro le tende, gli prese la mano e disse:
"Fermati Pierone, abbassa questa mano, ecco qui la dolcezza che rimpiangi! eccomi sana e salva per stare con te vivo e vegeto, e non mi considerare dura come il muro se ti ho fatto patire con qualche dispetto, perché è stato solo per capire e sperimentare la tua costanza e la tua fedeltà".
Gli disse che aveva pensato all'ultimo trucco per trovare un rimedio adatto a un cuore orgoglioso come il suo, e infine gli chiese perdono per tutte le volte che lo aveva fatto soffrire. Lo sposo, abbracciandola con tanto amore, se la fece venire accanto nel letto, fecero la pace, e dopo tanti patimenti la dolcezza gli sembrò ancora più grande.




dal Pentamerone di Gianbattista Basile

 
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Ranocchino

Post n°758 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Questa è la bella storia di Ranocchino porgi il ditino, e sentirete qui appresso perché si dica così.
Si racconta dunque che c'era una volta un povero diavolo, il quale aveva sette figliuoli, che se lo rodevano vivo. Il maggiore contava dieci anni, e l'ultimo appena due.
Una sera il babbo se li fece venire tutti dinanzi.
- Figliuoli - disse - son due giorni che non gustiamo neppure un gocciolo d'acqua, ed io, dalla disperazione, non so più dove dar di capo. Sapete che ho pensato? Domani mi farò prestar l'asino dal nostro vicino, gli porrò le ceste e vi porterò attorno per vendervi. Se avete un po' di fortuna, si vedrà.
I bimbi si misero a strillare; non volevano esser venduti, no! Solo l'ultimo, quello di due anni, non strillava.
- E tu, Ranocchino? - gli domandò il babbo, che gli avea messo quel nomignolo perché era piccino quanto un ranocchio.
- Io son contento - rispose.
E la mattina quel povero diavolo se lo prese in collo, e cominciò a girare per la città.
- Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
S'affacciò alla finestra la figlia del Re.
- Che cosa vendete, quell'uomo?
- Vendo questo bimbo, chi lo vuol comprare.
La Reginotta lo guardò, fece una smorfia e gli sbatacchiò le imposte sul viso.
- Bella grazia! - disse quel povero diavolo. E riprese ad urlare:
- Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
Quel povero diavolo non avea coraggio di tornare a casa, dove gli altri figliuoli lo aspettavano come tant'anime del purgatorio, morti di fame.
Ranocchino intanto gli s'era addormentato addosso.
Allora lui pensò ch'era meglio ammazzarlo, piuttosto che vederlo patire: gli avrebbe ammazzati tutti, quei figliuoli, ad uno ad uno; e cominciava da questo!
Era già sera: e, uscito fuor di città, si ridusse in una grotta, dove non poteva esser veduto da nessuno. Adagiò per terra il bimbo che dormiva tranquillamente, e prima d'ammazzarlo si mise a piangerlo:
- Ah, coricino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Ah, Ranocchino mio!
E non ti vedrò più per la casa, non ti vedrò!
Ah, coricino mio!
E chi fu la strega che te lo cantò in culla, chi fu?
Ah, Ranocchino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Spezzava il cuore perfino ai sassi.
- Che cosa è stato, che piangi così?
Il povero diavolo si voltò e vide una vecchia seduta a traverso la bocca della grotta, con un bastoncello in mano.
- Che cosa è stato! Ho sette figliuoli piccini e moriamo tutti di fame. Per non vederli più patire, ho deliberato d'ammazzarli; e comincio da questo.
- Come si chiama?
- Si chiama Beppe; ma noi gli diciamo Ranocchino.
- E Ranocchino sia!
La vecchia toccava appena il bimbo col bastoncello, che quegli era già diventato un ranocchio e saltellava qua e là.
Il povero padre rimase spaventato.
- Fatti coraggio! - gli disse la vecchia - Fruga in quel canto; c'è del pane e del formaggio: mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna.
Quando i figliuoli lo videro tornare senza il fratellino, si misero a strillare.
- Zitti! Ecco del pane e del formaggio.
- Ma Ranocchino dov'è?
- È morto!
Disse così per non esser seccato.
E il giorno appresso, prima dell'ora fissata, andava ad appostarsi sotto le finestre del palazzo reale. Aspetta, aspetta, la vecchia non compariva. La figlia del Re era a una finestra, che si pettinava. Lo riconobbe e gli domandò, per canzonatura:
- O quell'uomo, e Ranocchino ve l'han comprato?
Ma prima che quello rispondesse, ecco la vecchia con una coda di gente dietro. La gente fece crocchio e la vecchia, nel mezzo, diceva:
- Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli: - Ranocchino, porgi il ditino -; non se ne dava per inteso. Una meraviglia non mai vista. E tutti pagavano un soldo.
La Reginotta fece chiamar la vecchia sotto la finestra; voleva veder anche lei.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Rimase ammaliata. E corse subito dal Re.
- Babbo, se mi vuoi bene, devi comprarmi quel Ranocchino.
- Che vorresti tu farne?
- Allevarlo nelle mie stanze: mi divertirò.
Il Re acconsentì.
- Buona donna, quanto volete di quel Ranocchino?
- Maestà, lo vendo a peso d'oro. È quel che vale.
- Voi canzonate, vecchia mia.
- Dico davvero. Domani varrà il doppio. Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli: - Ranocchino, porgi il ditino -; non se ne dava per inteso.
- Vedi? - disse il Re alla Reginotta. - Occorre anche la vecchia.
La Reginotta non s'era provata.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Ranocchino spiccò un salto, le fece una bella riverenza e le porse il ditino.
Allora bisognò comprarlo: se no, la Reginotta non si chetava.
Posero Ranocchino in un piatto della bilancia e un pezzettino d'oro nell'altro, ma la bilancia non lo levava. Possibile che quel Ranocchino pesasse tanto? Colmarono d'oro il piatto ma la bilancia non lo levava. La Reginotta e la Regina si tolsero gli orecchini, gli anelli, i braccialetti e li buttarono lì. Nulla! Il Re si tolse la cintura, ch'era d'oro massiccio, e la buttò lì. Nulla!
- Anche la corona! Vorrei ora vedere!...
Allora la bilancia levò esatta; non mancava un pelo.
La vecchia si rovesciò quel mucchio d'oro nel grembiule e andò via.
Quel povero diavolo l'attendeva all'uscita.
- Tieni!
E gli riempì le tasche.
- Però bada! Spendi tutto a tuo piacere; ma la corona reale, se tu la vendi o la perdi, guai a te!
La Reginotta si spassava, tutto il giorno, con Ranocchino.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Era una bellezza. Lo teneva sempre in mano, lo portava seco dovunque. A tavola, Ranocchino dovea mangiare nel piatto di lei.
- Una cosa sconcia! - diceva la Regina.
Ma quella era figlia unica, e le perdonavano tutti i capricci.
Arrivò il tempo che la Reginotta dovea andare a marito. L'avea chiesta il Reuccio del Portogallo, e il Re e la Regina n'eran contentissimi. Lei disse di no:
Voleva sposare Ranocchino!
Poteva darsi? Intanto non c'era verso di persuaderla.
- O Ranocchino, o nessuno!
- Te lo do io Ranocchino!
E il Re, afferratolo per una gambetta, stava per sbatacchiarlo sul pavimento; ma entrò un'aquila dalla finestra che glielo strappò di mano e sparì.
La Reginotta piangeva giorno e notte. Povera figliuola, faceva pena! E tutta la corte stava in lutto.
Intanto in casa di Ranocchino pareva tutti i giorni carnovale. Spendi e spandi; mezzo vicinato banchettava lì e i danari andavano via a fiumi. Finalmente non ci fu più il becco d'un quattrino.
- Babbo, vendiamo la corona reale.
- La corona reale non si tocca!
- Si dee crepar di fame? Vendiamola!
- La corona reale non si tocca.
Quel povero diavolo tornò nella grotta in cerca della vecchia, e si mise a piangere.
- Che cosa è stato?
- Mammina mia, i quattrini son finiti e quei figliuoli vorrebbero vendere la corona reale; ma io non l'ho permesso.
- Fruga in quel canto. C'è del pane e del formaggio; mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna.
Tornò a casa, e trovò una tragedia! Cinque figliuoli erano stesi morti per terra in un lago di sangue; uno respirava appena:
- Ah, babbo mio! È venuta un'aquila forte e picchiò alla finestra. «Ragazzi, fatemi vedere la corona reale.» «Il babbo la tiene sotto chiave.» «E dove l'ha riposta?» «In questa cassa.» Allora, a colpi di becco, cominciò a scassinarla; e siccome noi ci si opponeva, ci ha tutti ammazzati.
Detto questo, spirò.
Quel povero diavolo si sentì rizzare i capelli. I figliuoli morti e la corona sparita!
Il giorno dopo, quando vide la vecchia, le raccontò ogni cosa.
- Lascia fare a me! - rispose quella.
La Reginotta stava malissimo. I medici non sapevano più quali rimedi adoprare.
- Maestà, - dissero, all'ultimo - qui ci vuol Ranocchino, o la Reginotta è spacciata.
Il Re si disperava:
- Dove prenderlo quel maledetto Ranocchino? L'aquila lo avrà già digerito da un pezzo.
Si presentò la vecchia:
- Maestà, Ranocchino ve lo farei trovare io; ma ci vuole un gran coraggio.
- Mi lascerei anche fare a pezzi rispose il Re.
- Prendete un coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda lunga un miglio, e venite con me.
Il Re prese il coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda lunga un miglio, e partì insieme colla vecchia. Nessuno dovea seguirli.
Camminarono due giorni, e al terzo, verso il tramonto, giunsero in una pianura. Lì c'era la torre incantata, senza porte e senza finestre, alta un miglio.
- Ranocchino è qui! - disse la vecchia. - Quegli uccellacci che aliano attorno alla cima, sono i suoi carcerieri. Bisogna montare lassù.
- O come?
- Maestà, ammazzate il bue e vedrete.
Il Re ammazzò il bue.
- Maestà, scorticatelo e lasciate molta carne attaccata al cuoio.
Il Re lo scorticò e lasciò molta carne attorno al cuoio.
- Ora rivolteremo questo cuoio - disse la vecchia. - Io vi ci cucirò dentro. Scenderanno gli uccellacci e vi porteranno lassù. La notte, spaccherete il cuoio col coltello di diamante; e la mattina quando l'aquila e gli uccellacci saranno andati via per la caccia, attaccherete la corda alla cima, prenderete Ranocchino e la corona reale, metterete il coltello fra i denti e vi lascerete andar giù.
Il Re esitava.
- E se la corda si spezzasse?
- Tenendo il coltello fra i denti non si spezzerà.
Il Re, per amor della figliuola, si lasciò cucire dentro il cuoio. E, subito, ecco gli uccellacci di preda che lo afferrano cogli arti gli e se lo portano lassù. La notte, spaccò il cuoio col coltello di diamante e andò a nascondersi in fondo a uno stanzino. Quando fu giorno, aspettò che l'aquila e gli uccellacci di preda andassero a caccia, attaccò la corda alla cima della torre, prese Ranocchino e la corona reale, e si lasciò andar giù. E il coltello? L'aveva dimenticato.
Allora la corda cominciò a nicchiare:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Come rimediare? Il Re si morse una vena del braccio e ne fece schizzar il sangue. Intanto scivolava giù.
Ma poco dopo la corda da capo:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Il Re si morse la vena dell'altro braccio e ne fece schizzar il sangue. Intanto scivolava giù.
Ma la corda da capo:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Il Re, visto che ci voleva pochino a toccar terra:
- E spezzati! - rispose.
Infatti si spezzò; ma lui, per sua fortuna, se la cavò con qualche ammaccatura. Per le vene ferite delle braccia la vecchia cercò un'erba, e gliele medicò con essa, e gli sanarono a un tratto.
Appena visto Ranocchino, la Reginotta cominciò a riaversi.
- Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino porgeva il ditino, e a lei soltanto.
Il Re, per finirla, voleva far subito le nozze. Ma la vecchia gli disse:
- Bisogna aspettare ancora un mese. Intanto fate preparare una caldaia d'olio bollente.
- A che farne?
- Lo saprete poi.
Quando fu il giorno, l'olio bolliva nella caldaia. Venne la vecchia e dietro a lei quel povero diavolo con un carro, su cui erano distesi i cadaveri dei sei figliuoli.
- Reginotta, - disse la vecchia - volete sposare Ranocchino? Bisogna prenderlo per un piede e tuffarlo tre volte in quell'olio. La Reginotta esitava.
- Tuffami, tuffami! - le disse Ranocchino.
Allora lei lo tuffò. Uno, due! Ma la terza volta le scappa di mano e casca in fondo alla caldaia. La Reginotta si svenne. Il Re voleva far ammazzare la vecchia; ma questa, afferrati in fretta in fretta quei morticini e buttatili nell'olio bollente, cominciò a rimestare col suo bastone, e intanto cantava:

Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.


Infatti ecco il figlio maggiore che salta fuori vivo, il primo.

Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.


E rimestava. Ed ecco saltar fuori il secondo. Così tutti e sei i fratellini.

- Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.


E rimestava. Ma Ranocchino venne soltanto a galla e non saltò.
La Reginotta, appena lo scorse, tentò d'afferrarlo; la vecchia la trattenne.
- Voleva scottarsi? Doveva fare come al solito.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Ranocchino porse il ditino alla Reginotta..., e chi uscì fuori? Un bel giovane che pareva un Sole.
La Reginotta lo riconobbe pel bimbo che quel povero diavolo volea vendere, e gli domandò scusa d'avergli sbatacchiato le impòste sul viso. Ranocchino, si capisce, le aveva già perdonato.
Si fecer le nozze con magnifiche feste, e Ranocchino, a suo tempo, ebbe la corona reale.

Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta;
Chi non gli piace, me la riporti.



 

 

 
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La passeggiata di un distratto

Post n°757 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

- Mamma, vado a fare una passeggiata.
- Va' pure, Giovanni, ma sta' attento quando attraversi la strada.
- Va bene, mamma. Ciao, mamma.
- Sei sempre tanto distratto.
- Si', mamma. Ciao, mamma.
Giovannino esce allegramente e per il primo tratto di strada fa bene attenzione. Ogni tanto si ferma e si tocca.
- Ci sono tutto? Si, - e ride da solo.
E così' contento di stare attento che si mette a saltellare come un passero, ma poi s'incanta a guardaté le vetrine, le macchine, le nuvole, e per forza cominciano i guai.
Un signore, molto gentilmente, lo rimprovera:
- Ma che distratto, sei. Vedi? Hai già perso una mano.
- Uh, è proprio vero. Ma che distratto, sono.
Si mette a cercare la mano e invece trova un barattolo vuoto. Sarà proprio vuoto? Vediamo. E cosa c'era dentro prima che fosse vuoto? Non sarà mica stato sempre vuoto fin dal primo giorno...
Giovanni si dimentica di cercare la mano, poi si dimentica anche del barattolo, perché ha visto un cane zoppo, ed ecco per raggiungere il cane zoppo prima che volti l'angolo perde tutto un braccio. Ma non se ne accorge nemmeno, e continua a correre.
Una buona donna lo chiama: - Giovanni, Giovanni, il tuo braccio!
Macché, non sente.
Pazienza, - dice la buona donna. - Glielo porterò alla sua mamma.
E va a casa della mamma di Giovanni.
- Signora, ho qui il braccio del suo figliolo.
- Oh, quel distratto. Io non so piu' cosa fare e cosa dire.
- Eh, si sa, i bambini sono tutti cosi.
Dopo un po' arriva un'altra brava donna.
- Signora, ho trovato un piede. Non sarà mica del Giovanni?
- Ma si che è suo, lo riconosco dalla scarpa col buco. Oh, che figlio distratto mi è toccato. Non so piu' cosa fare e cosa dire.
- Eh, Si sa, i bambini sono tutti così.
Dopo un altro po' arriva una vecchietta, poi il garzone del fornaio. Poi un tranviere, e perfino una maestra in pensione, e tutti portano qualche pezzetto di Giovanni: una gamba, un orecchio, il naso.
Ma ci può essere un ragazzo piu' distratto del mio?
- Eh, signora, i bambini sono tutti così!
Finalmente arriva Giovanni, saltellando su una gamba sola, senza piu' orecchie nè braccia, ma allegro come sempre, allegro come un passero, e la sua mamma scuote la testa, lo rimette a posto e gli dà un bacio.
- Manca niente, mamma? Sono stato bravo, mamma?
- Sì Giovanni, sei stato proprio bravo!

 
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La bambola Poavola

Post n°756 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Tanto, tanto tempo fa, nel paese di Roccaraso, viveva una povera filatrice con le sue figlie che erano belle e gentili, la maggiore si chiamava Gina e la più piccola Gemma.
Un brutto giorno la filatrice sentì che era giunta la sua ora, e siccome possedeva soltanto una cassettina di stoppa, chiamò le figlie e diede loro quella misera eredità, raccomandando che si volessero sempre bene.
Dopo la morte della madre le due sorelle avevano bisogno di guadagnare qualcosa per comprare un po' di pane, e allora Gina prese una libbra di stoppa e svelta svelta si mise a filare; quando ebbe finito chiamò Gemma e la mandò al mercato perché vendesse il filo e con il ricavato comprasse del pane.
Gemma lo prese, se lo mise sotto il braccio e andò in piazza per venderlo come gli aveva detto Gina, ma mentre cercava un compratore incontrò una vecchina che aveva in grembo una bambola di pezza così bella e graziosa che non se ne era mai visto l'uguale.
Gemma si mise a guardarla, e non si muoveva più di lì, ma non sapeva come dire e come fare per averla. Alla fine si avvicinò alla vecchina e le disse:
"Nonnina, se siete contenta, mi piacerebbe cambiare il mio filo con la vostra bambola".
La vecchina, vedendo che la bella fanciulla aveva tanto desiderio della bambola, rispose:
"Voglio accontentarti perché sei così gentile", e gliela diede. Gemma prese la bambola, e, felice come non era mai stata, tornò a casa. Sua sorella le chiese:
"Hai venduto il filo che avevo filato?"
"Sì", rispose Gemma.
"E dov'è il pane che hai comprato?" continuò Gina, e allora Gemma aprì il suo grembiule bianco e le fece vedere la bambola Poavola che aveva avuto in cambio del filo.
Gina, che si sentiva morire di fame, a quella vista di arrabbiò tanto che perse la testa dalla collera, e prendendo sua sorella per le trecce le diede tante botte che la poverina dopo non riusciva quasi più a muoversi. Ma Gemma non disse nulla, sopportò le botte e andò in una camera, sola con la sua Poavola.
Quando venne la sera, Gemma andò vicino al focolare, e come facevano le mamme con i bambini appoggiò la Poavola su un pannicello di lana, la spogliò e con un po' d'olio della lucerna le unse lo stomaco e il pancino, massaggiandola pian pianino. Poi la vestì per la notte, la mise a letto e si distese accanto a lei.
Gemma non aveva ancora fatto il primo sonno quando la Poavola cominciò a chiamare: "Mamma, mamma, cacca!", lei si svegliò e le chiese: "Che cos'hai bambina mia?".
La Poavola rispose: "Mammina, io vorrei fare la cacca", e Gemma dicendo: "Aspetta, bambina mia", andò a prendere il suo grembiule bianco e glielo mise sotto dicendo: "Fa' la cacca, bambina mia". La bambola Poavola spinse un po' e riempì il grembiule di monete d'oro.
Gemma allora svegliò sua sorella e le fece vedere il tesoro fatto dalla bambola, e Gina, incantata da quelle monete d'oro, ringraziò la buona sorte che non le aveva dimenticate nella loro povertà, e chiese perdono a Gemma delle botte che le aveva dato il giorno prima; infine fece tante carezze alla Poavola, baciandola e cullandola tra le sue braccia.
Al mattino le due sorelle andarono a comprarsi pane, olio, vino, legna e tutto quello che ci vuole in una casa senza miseria, poi a sera unsero il pancino e lo stomaco alla Poavola e la misero a letto. E come la sera prima la Poavola chiese di fare i suoi bisogni e riempì il grembiule di monete d'oro. Così le due sorelle dedicavano alla Poavola tutte le cure, e quando le chiedevano se voleva fare la cacca la bambola rispondeva sempre di sì.

Ma un giorno una vicina andò a fare una visita alle due sorelle, e vedendo com'era piena la loro dispensa si accorse che in quella casa al posto della miseria era entrata molta ricchezza. Domandò alle sorelle:
"Bambine mie, come avete fatto a comprare tutte queste cose, voi che eravate così povere fino a poco tempo fa?"
E Gina le rispose: "Abbiamo scambiato una libbra di filo con la bambola Poavola, che ci fa tutte le monete d'oro che vogliamo".
La vicina a queste parole fu colpita da un feroce attacco d'invidia, ma fingendo di essere contenta per la loro fortuna salutò Gina e Gemma e se ne tornò a casa. Raccontò al marito la storia della bambola che faceva monete d'oro, e gli disse che doveva trovare il modo di rubarla. Il marito dapprima non voleva credere che una bambola facesse diventare ricchi, ma fu tentato dall'avidità e chiese alla moglie:
"Dì un po', come vorresti fare a prendergliela?".
"Faremo così," disse la vicina, "domani sera tu fai finta di essere ubriaco e mi rincorri con la spada sguainata urlando che mi vuoi ammazzare, io scappo di casa e busso alla loro porta supplicandole di darmi rifugio; Gina e Gemma sono gentili e non mi diranno di no. Mi inviteranno a dormire da loro e io troverò il modo di impadronirmi di quella bambola".
Così fecero, e quando la vicina bussò alla loro porta gridando: "Soccorso, soccorso, mio marito mi vuol uccidere!" le sorelle corsero ad aprire e la fecero entrare. Lei raccontò che il marito era ubriaco e che rischiava la vita se tornava in casa prima che gli fosse passata la sbronza, così fu invitata a cena, e dopo un po' andarono tutte a letto.
A una certa ora la Poavola cominciò a chiamare: "Mamma, mamma, cacca!", Gemma come al solito la mise sul suo grembiule bianco e la Poavola faceva monete d'oro con grande soddisfazione delle due sorelle. La vicina guardava tutta la ricchezza che usciva dal corpicino della bambola e non vedeva l'ora di rubarla e portarsela a casa. Così appena fece giorno prese la Poavola, se la nascose sotto il vestito, svegliò le sorelle dicendo che ormai il marito doveva aver digerito il vino e se ne andò.
Quando rientrò in casa disse al marito: "Ora siamo ricchi, guarda la bambola Poavola!". E appena fu sera massaggiò la pancia e lo stomaco alla bambola con l'olio caldo come aveva visto fare dalle sorelle, la mise a letto e si coricò accanto a lei. Dopo il primo sonno la Poavola chiamò: "Signora, signora, cacca!", la vicina prese un bel grembiule bianco, e ce la mise sopra dicendo: "Caca, caca pure, bambina mia!". La bambola spinse e riempì il grembiule di tanta popò che tutta la casa si riempì di puzzo.
Allora il marito disse: "Sei ben sistemata, credulona! e io sciocco che avevo creduto a questa storia fantastica!".
La moglie protestò che l'aveva vista con i suoi occhi fare tante monete d'oro, ma il marito continuava a prenderla in giro, lei voleva riprovare a fargliela fare la notte dopo, ma il marito si arrabbiò, e siccome non sopportava più quella puzza prese la bambola e la buttò dalla finestra.
La Poavola finì su un mucchio di spazzatura e dopo un po' passarono dei contadini che caricarono quella spazzatura su un carro e la portarono in campagna.
Da quelle parti qualche giorno dopo passò il re che andava a caccia, e siccome gli venne voglia di fare un bisogno scese da cavallo e si mise dietro il mucchio di spazzatura. Non avendo nulla per pulirsi, ordinò a un servitore di trovargli qualcosa che facesse al caso suo, e quello vedendo una vecchia bambola di pezza gliela diede. Il re prese la bambola senza pensarci, ma appena se la accostò tra le natiche fece un urlo fortissimo, perché la Poavola gli si era attaccata dietro con i denti, e continuava a morderlo facendolo piangere dal dolore.
Tutti i cortigiani accorsero, e videro che il re giaceva a terra come colpito a morte, allora guardarono cos'aveva, e vista la Poavola provarono a staccargliela, ma non c'era nulla da fare, perché più la tiravano, più lei stringeva i denti sulla natica del re, e anzi via via con le manine gli dava delle strizzate sul davanti che lo facevano urlare come se lo scannassero.
Così caricarono su un carro il re che si sentiva consumare dal dolore e lo portarono a palazzo, da dove lui fece pubblicare questo bando:

Chiunque, di qualunque età e condizione sociale,
riuscirà a liberare le natiche del re dalla bambola Poavola
avrà questa ricompensa:
se è maschio, un terzo del regno,
se è femmina, il re la prenderà in isposa.

Tanti si presentarono, attratti dalla ricompensa e convinti che il compito non fosse poi tanto difficile, ma nessuno riuscì a staccare la bambola, anzi ad ogni tentativo il povero re urlava di dolore perché la Poavola lo mordeva più forte e gli dava quelle strizzatine che gli facevano vedere le stelle.
Gina e Gemma, che stavano a piangere da quando la Poavola era scomparsa, un giorno seppero del bando e andarono dal re. Gina riconobbe la bambola, la salutò e le fece tanti complimenti e moine, ma la Poavola stringendo i denti e le manine continuava a tormentare il povero re. Allora Gemma, che era rimasta in disparte, si fece avanti e disse:
"Maestà, vorrei provare a liberarvi dalla bambola"; poi cominciò a carezzare la Poavola dicendo: "Bella bambina mia, lascia stare ora il mio signore, non vedi che gli fai tanto male? suvvia, non farlo più soffrire".
La Poavola, che aveva riconosciuto la sua mammina, quella che le aveva sempre voluto bene, si staccò dal re e le saltò tra le braccia.
Il re, pieno di meraviglia per tutto quello che era successo, finalmente potè riposarsi, perché erano giorni e giorni che non poteva chiudere occhio, poi, riprese le forze e guarito dai morsi della Poavola, fece chiamare Gemma, e visto che era una fanciulla molto bella e piena di cortesia fu ben contento di mantenere la sua promessa, facendo anche sposare Gina con uno dei suoi migliori cavalieri. Furono celebrate le nozze in grande allegria, con feste che durarono giorni e giorni in tutto il reame, e tutti vissero per sempre felici e contenti.
La Poavola, avendo visto questo bel matrimonio, e come tutto aveva avuto un lieto fine, disparve e nessuno ne ha più saputo nulla. Ma c'è chi crede che potrebbe riapparire, come un sogno o una fantasma

 
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L'ignorante

Post n°755 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un padre, ricco come il mare, ma, dato che non si può avere una felicità completa sul mondo, aveva un figlio così sciagurato e dappoco che non sapeva distinguere le carrube dai cetrioli: per questo, non riuscendo più a digerire le sue sciocchezze, gli diede un bel mucchio di denari e lo mandò a commerciare a Levante, sapendo che vedere vari paesi e praticare genti diverse sveglia l'ingegno, aguzza il giudizio e rende l'uomo capace.
Moscione, così si chiamava il figlio, salito a cavallo, cominciò a galoppare verso Venezia, arsenale delle meraviglie del mondo, per imbarcarsi su qualche vascello che andasse al Cairo. E, dopo aver viaggiato un intero giorno, trovò uno che stava fermo ai piedi di un pioppo e gli disse:
«Come ti chiami, giovane mio? di dove sei? e che arte conosci?».
E quello rispose: «Mi chiamo Furgolo, sono di Saetta, e so correre come un lampo».
«Vorrei averne una prova», replicò Moscione.
E Furgolo disse: «Aspetta un po' e vedrai se è polvere o farina!».
E aspettando un pochino ecco una cerva per la campagna e Furgolo, dopo aver lasciato che andasse un tratto avanti per darle più vantaggio, si mise a correre così velocemente e con piede così leggero che sarebbe passato su una distesa di farina senza lasciarci la forma della scarpa, tanto che in quattro salti la raggiunse. Per questo Moscione, meravigliato, gli disse se voleva restare con lui, l'avrebbe pagato profumatamente e, poiché Furgolo era d'accordo, continuarono il viaggio insieme.
Ma non avevano camminato per altre quattro miglia che incontrarono un altro giovane, a cui Moscione disse: «Come ti chiami amico? di che paese sei e che arte conosci?».
E quello rispose: «Mi chiamo Orecchie-di-Lepre, sono di Vallecuriosa e, mettendo le orecchie a terra, senza muovermi sento quello che succede al mondo, ascoltando gli accordi e gli intrighi che combinano gli artigiani per aumentare i prezzi delle merci, le malazioni dei cortigiani, i cattivi consigli dei ruffiani, gli appuntamenti degli innamorati, gli accordi dei ladri, le lamentele dei servi, i rapporti delle spie, i pissi-pissi delle vecchie, le bestemmie dei marinai, tanto che il gallo di Luciano e la lucerna di Franco non vedevano quanto vedono queste mie orecchie».
«Se questo è vero», rispose Moscione, «dimmi: che si dice a casa mia?».
E quello messe le orecchie a terra disse: «Un vecchio parla con la moglie e dice: - Sia lodato il Solleone, perché sono riuscito a togliermi dagli occhi quel Moscione, quella faccia di tasca vecchia, quel chiodo del mio cuore, che almeno, camminando per il mondo, diventerà un uomo e non sarà più così bestia come un asino, un falcaccio, un perdigiorno!-».
«Basta, basta », disse Moscione, «dici la verità e ti credo! perciò vieni con me, hai trovato la tua fortuna». «Vengo», disse il giovane.
E, così andandosene insieme, percorse altre dieci miglia trovarono un altro a cui Moscione disse: «Come ti fai chiamare, uomo dabbene mio? dove sei nato e che cosa sai fare su questo mondo?».
E quello rispose: «Mi chiamo Cecadritto, sono di Castello-tira-giusto e so colpire con tanta precisione con questa balestra che taglio a metà un giuggiolo».
«Vorrei vedere questa prova», replicò Moscione e quello, caricata la balestra, presa la mira fece saltare un cecio da sopra una pietra, per questo Moscione se lo prese come l'altro per sua compagnia.
E, dopo aver viaggiato per un altro giorno, incontrò certi uomini che costruivano un bel molo sotto la vampa del sole, che avrebbero potuto con ragione cantare: Parrella, aggiungi acqua al vino, perché mi brucia il cuore; gli fecero tanta compassione che gli disse:
«E come, mastri miei, avete la forza di restare in questa calcara, dove si potrebbe cuocere una placenta di bufala?».
Uno di quelli rispose: «Noi stiamo freschi come rose perché abbiamo un giovane che ci soffia da dietro tanto che sembra che soffi il vento di ponente».
E Moscione disse: «Lasciatemelo vedere, e dio vi guardi». E quando i muratori chiamarono il giovane, Moscione gli disse:
«Come ti fai chiamare, accidenti a mio padre? di che paese sei? e che sai fare?».
E quello rispose: «lo mi chiamo Soffiarello, sono di Terraventosa e so fare con la bocca tutti i venti: se vuoi zefiri ti faccio felice, se vuoi refoli faccio cadere le case».
«Non ci credo se non lo vedo», disse Moscione e Soffiarello soffiò dapprima dolcemente dolcemente, sembrava il vento che soffia a Posillipo verso sera e, voltatosi all'improvviso verso alcuni alberi, soffiò un tale vento furioso che sradicò tutto un filare di querce. Vedendo questo Moscione se lo prese per compagno.
E, dopo aver camminato per altrettanto tempo, incontrò un altro giovane e gli disse: «Come ti chiami, non prenderlo per un comando? di dove sei, se si può sapere? e che arte conosci, se è permessa la domanda?».
E quello rispose: «Mi chiamo Forteschiena, sono di Valentino e ho questa capacità: mi metto una montagna sulla schiena e mi sembra una piuma».
«Se cosi fosse», disse Moscione, «meriteresti di essere il re della dogana e porteresti il palio il primo di maggio, ma ne vorrei vedere la prova».
E Forteschiena cominciò a caricarsi di pezzoni di pietra, di tronchi d'albero e di tanti altri pesi che non li avrebbero portati mille grandi carri. Quando vide questo Moscione si accordò perché restasse con lui.

E cosi, camminando, arrivarono a Belfiore, dove c'era un re che aveva una figlia che correva come il vento e sarebbe stata capace di correre sui broccoli in fiore senza piegarne le cime e che aveva pubblicato un bando: a chi l'avesse vinta nella corsa l'avrebbe data in moglie e avrebbe tagliato il collo a chi fosse rimasto indietro.
Moscione, arrivato in questo paese e sentito questo bando, andò dal re e si offri di correre con la figlia e, fatti buoni patti: o muovere i piedi o lasciarci la zucca, la mattina fece capire al re che gli era preso un malanno e, non potendo correre lui stesso, avrebbe fatto correre al posto suo un altro giovane.
« Venga chi vuole », rispose Ciannetella, che era la figlia del re, «perché non me ne importa un fico secco e ce n'è per tutti».
Cosi, la piazza era piena di gente che voleva vedere la corsa, gli uomini si affollavano alle finestre come formiche e i terrazzi erano pieni come uova, comparve Furgolo, che si mise a un'estremità della piazza aspettando il segnale di partenza. Ed eccoti venire Ciannetella con una gonnella rimboccata: a mezza gamba e con una scarpetta a una suola bella e attillata, che non era di misura superiore al dieci. E, allineati spalla a spalla e sentito il tarantara e il tutù della trombetta, si misero a correre tanto che i talloni gli toccavano le spalle. Pensa che sembravano lepri inseguite dai levrieri, cavalli fuggiti dalla stalla, cani con le vesciche sulla coda, asini con un bastone infilato là dietro.
Ma Furgolo, che era tale di nome e di fatto, se la lasciò più di un palmo indietro e, arrivati al traguardo, avresti dovuto sentire le urla, i guarda là, il chiasso, gli strilli, i fischi, i battimani e piedi della gente che gridava: «Viva viva lo straniero!». Per questo Ciannetella arrossi come il culo di uno scolaro che ha preso la bastonatura, scornata e offesa nel vedersi vinta.
Ma, poiché la corsa doveva essere ripetuta due volte, pensò di vendicarsi di questo affronto e, andata a casa, fece subito un incantesimo a un anello: a chi lo teneva al dito si piegavano le gambe tanto che non avrebbe potuto camminare, non soltanto correre, e lo mandò in regalo a Furgolo, perché lo portasse al dito per amor suo.
Orecchie di-lepre, che senti di questa congiura tra la figlia e il padre, stette zitto e attese l'esito della faccenda e quando al trombettìo degli uccelli il Sole frustò la Notte sull'asino delle ombre ? tornarono in campo e, dato il solito segnale, cominciarono a muovere i talloni.
Ma non tanto Ciannetella sembrava un'altra Atlanta quanto Furgolo era diventato un asino slombato e un cavallo sfiancato, non riusciva a muovere un passo.
Ma Cecadritto, che vide il compagno in pericolo e sentito da Orecchie-di-Iepre come andava la faccenda, impugnò la balestra, tirò una freccia, colpendo giusto il dito di Furgolo, facendo saltare dall'anello la pietra dove era la potenza dell'incantesimo, per questo gli si sciolsero le gambe annodate e con quattro salti da capriolo oltrepassò Ciannetella e vinse la gara.
Il re, vedendo che aveva vinto un grullo, che la palma era in mano a un falcaccio, che il trionfo toccava a un pecorone, meditò se dovesse o no dargli la figlia e, fatta una riunione con i sapienti della sua corte, gli fu risposto che Ciannetella non era boccone per i denti di uno scalzacani e di un uccello perdigiorno e che, senza vergogna perché mancava alla parola data, avrebbe potuto commutare la promessa della figlia con un donativo in danari, che sarebbe stato più soddisfacente per questo bruttone miserabile di tutte le femmine del mondo.
Al re piacque questo parere e fece chiedere a Moscione quanto danaro volesse in luogo della moglie che gli era stata promessa e lui, consigliatosi con gli altri, rispose:
«Io voglio tanto oro e argento quanto ne può portare sulla schiena un mio compagno».
E, poiché il re fu d'accordo, fecero venire Forteschiena, sul quale cominciarono a caricare mucchi di bauli di soldoni, sacchi di patacche, borsoni di scudi, barili di monete di rame, scrigni di collane e anelli; ma, quanto più caricavano tanto più Forteschiena restava saldo, come una torre, tanto che, non bastando la tesoreria, le banche, gli usurai, i cambiavalute della città, il re mandò da tutti i cavalieri a chiedere in prestito candelieri, bacili, boccali, sottocoppe, piatti, guantiere, canestri e persino i vasi da notte d'argento e neanche bastarono a fare il peso giusto. Alla fine, non carichi ma soddisfatti e impazienti, se ne partirono.
Ma i consiglieri, che videro questo tesoro senza fondo che quei quattro scalzacani si portavano via, dissero al re che era una grande sciocchezza far portar via tutto il nerbo del suo regno e quindi sarebbe stato meglio mandare dietro le truppe per alleggerire di un cos1 grande carico quell'Atlante che portava sulle spalle un cielo di tesori.
Il re si adeguò a quel consiglio e spedì subito un poco di armati a piedi e a cavallo perché li raggiungessero.
Orecchie-di-lepre, che aveva sentito di questa decisione, avvertì i compagni; e, mentre arrivava al cielo la polvere di chi veniva a scaricare questa ricca soma, Soffiarello, che vide la faccenda male avviata, cominciò a soffiare in modo che non solo fece cadere a faccia a terra tutti i nemici, ma li mandò, come fanno i venti del settentrione a quelli che camminano per la campagna, più di un miglio lontano.
Per questo senza altri ostacoli arrivarono a casa del padre, dove, dividendo con i compagni il guadagno ? perché si dice: a chi ti fa vincere la ciambella danne un pezzo ? li congedò, soddisfatti e contenti, e lui restò con il padre ricco senza fondo e si vide così un asino carico d'oro, confermando la verità del motto:

"dio manda i biscotti a chi non ha denti".

 
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La mosca (Pirandello)

Post n°754 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Trafelati, ansanti, per far piú presto, quando furono sotto il borgo, – su, di qua, coraggio! – s'arrampicarono per la scabra ripa cretosa, ajutandosi anche con le mani – forza! forza! – poiché gli scarponi imbullettati – Dio sacrato! – scivolavano.
Appena s'affacciarono paonazzi sulla ripa, le donne, affollate e vocianti intorno alla fontanella all'uscita del paese, si voltarono tutte a guardare. O non erano i fratelli Tortorici, quei due là? Sì, Neli e Saro Tortorici. Oh poveretti! E perché correvano così?
Neli, il minore dei fratelli, non potendone piú, si fermò un momento per tirar fiato e rispondere a quelle donne; ma Saro se lo trascinò via, per un braccio.

– Giurlannu Zarú, nostro cugino! – disse allora Neli, voltandosi, e alzò una mano in atto di benedire.

Le donne proruppero in esclamazioni di compianto d'orrore: una domandò, forte:


– Chi è stato?



– Nessuno: Dio! – gridò Neli da lontano.




Voltarono, corsero alla piazzetta, ov'era la casa del medico condotto.
Il signor dottore, Sidoro Lopiccolo, scamiciato, spettorato, con una barbaccia di almeno dieci giorni su le guance flosce, e gli occhi gonfi e cisposi, s'aggirava per le stanze, strascicando le ciabatte e reggendo su le braccia una povera malatuccia ingiallita, pelle e ossa, di circa nove anni.La moglie, in un fondo di letto, da undici mesi; sei figliuoli per casa, oltre a quella che teneva in braccio, ch'era la maggiore, laceri, sudici, inselvaggiti; tutta la casa, sossopra, una rovina: cocci di piatti, bucce, l'immondizia a mucchi sui pavimenti; seggiole rotte, poltrone sfondate, letti non piú rifatti chi sa da quanto tempo, con le coperte a brandelli, perché i ragazzi si spassavano a far la guerra sui letti, a cuscinate; bellini!



Solo intatto, in una stanza ch'era stata salottino, un ritratto fotografico ingrandito, appeso alla parete; il ritratto di lui, del signor dottore Sidoro Lopiccolo, quand'era ancora giovincello, laureato di fresco: lindo, attillato e sorridente.
Davanti a questo ritratto egli si recava ora, ciabattando; gli mostrava i denti in un ghigno aggraziato, s'inchinava e gli presentava la figliuola malata, allungando le braccia.

– Sisiné, eccoti qua!

Perché così, Sisiné, lo chiamava per vezzeggiarlo sua madre, allora; sua madre che si riprometteva grandi cose da lui ch'era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa.

– Sisiné!

Accolse quei due contadini come un cane idrofobo.

– Che volete?

Parlò Saro Tortorici, ancora affannato, con la berretta in mano:

– Signor dottore, c'è un poverello, nostro cugino, che sta morendo...

– Beato lui! Sonate a festa le campane! – gridò il dottore.

– Ah nossignore! Sta morendo, tutt'a un tratto, non si sa di che. Nelle terre di Montelusa, in una stalla.

Il dottore si tirò un passo indietro e proruppe, inferocito:

– A Montelusa?

C'erano, dal paese, sette miglia buone di strada. E che strada!

– Presto presto, per carità – pregò il Tortorici. – È tutto nero, come un pezzo di fegato! gonfio, che fa paura. Per carità!

– Ma come, a piedi? – urlò il dottore. – Dieci miglia a piedi? Voi siete pazzi! La mula! Voglio la mula. L'avete portata?

– Corro subito a prenderla, – s'affrettò a rispondere il Tortorici. – Me la faccio prestare.

– Ed io allora, – disse Neli, il minore, – nel frattempo, scappo a farmi la barba.

Il dottore si voltò a guardarlo, come se lo volesse mangiar con gli occhi.

– È domenica, signorino, – si scusò Neli, sorridendo, smarrito. – Sono fidanzato.

– Ah, fidanzato sei? – sghignò allora il medico, fuori di sé. – E pigliati questa, allora!

Gli mise, così dicendo, sulle braccia la figlia malata; poi prese a uno a uno gli altri piccini che gli s'erano affollati attorno e glieli spinse di furia fra le gambe:

– E quest'altro! e quest'altro! e quest'altro! e quest'altro! Bestia! bestia! bestia!

Gli voltò le spalle, fece per andarsene, ma tornò indietro, si riprese la malatuccia e gridò ai due:

– Andate via! La mula! Vengo subito.

Neli Tortorici tornò a sorridere, scendendo la scala, dietro al fratello Aveva vent'anni, lui; la fidanzata, Luzza, sedici: una rosa! Sette figliuoli? Ma pochi! Dodici, ne voleva. E a mantenerli, si sarebbe ajutato con quel pajo di braccia sole, ma buone, che Dio gli aveva dato. Allegramente, sempre. Lavorare e cantare, tutto a regola d'arte Non per nulla lo chiamavano Liolà, il poeta. E sentendosi amato da tutti per la sua bontà servizievole e il buon umore costante, sorrideva finanche all'aria che respirava. Il sole non era ancora riuscito a cuocergli la pelle, a inaridirgli il bel biondo dorato dei capelli riccioluti che tante donne gli avrebbero invidiato; tante donne che arrossivano, turbate, se egli le guardava in un certo modo, con quegli occhi chiari, vivi vivi.
Piú che del caso del cugino Zarú, quel giorno, egli era afflitto in fondo del broncio che gli avrebbe tenuto la sua Luzza, che da sei giorni sospirava quella domenica per stare un po' con lui. Ma poteva, in coscienza, esimersi da quella carità di cristiano? Povero Giurlannu! Era fidanzato anche lui. Che guajo, così all'improvviso! Abbacchiava le mandorle, laggiú, nella tenuta del Lopes, a Montelusa. La mattina avanti, sabato, il tempo s'era messo all'acqua; ma non pareva ci fosse pericolo di pioggia imminente. Verso mezzogiorno, però, il Lopes dice: – In un'ora Dio lavora; non vorrei, figliuoli, che le mandorle mi rimanessero per terra, sotto la pioggia. – E aveva comandato alle donne che stavano a raccogliere, di andar su, nel magazzino, a smallare. – Voi, – dice, rivolto agli uomini che abbacchiavano (e c'erano anche loro, Neli e Saro Tortorici) – voi, se volete, andate anche su, con le donne a smallare. – Giurlannu Zarú: – Pronto, – dice, – – ma la giornata mi corre col mio salario, di venticinque soldi? – No, mezza giornata, – dice il Lopes, – te la conto col tuo salario; il resto, a mezza lira, come le donne. – Soperchieria! Perché, mancava forse per gli uomini di lavorare e di guadagnarsi la giornata intera? Non pioveva né piovve difatti per tutta la giornata, né la notte. – Mezza lira, come le donne – dice Giurlannu Zarú – Io porto calzoni. Mi paghi la mezza giornata in ragione di venticinque soldi, o vado via.
Non se n andò: rimase ad aspettare fino a sera i cugini che s'erano contentati di smallare, a mezza lira, con le donne. A un certo punto, però stanco di stare in ozio a guardare, s'era recato in una stalla lì vicino per buttarsi a dormire, raccomandando alla ciurma di svegliarlo quando sarebbe venuta l'ora d'andar via.
S'abbacchiava da un giorno e mezzo, e le mandorle raccolte erano poche. Le donne proposero di smallarle tutte quella sera stessa, lavorando fino a tardi e rimanendo a dormire lì il resto della notte, per risalire al paese la mattina dopo, levandosi al bujo. Così fecero. Il Lopes portò fave cotte e due fiaschi di vino. A mezzanotte, finito di smallare, si buttarono tutti, uomini e donne, a dormire al sereno su l'aja, dove la paglia rimasta era bagnata dall'umido, come se veramente fosse piovuto.

– Liolà, canta!

E lui, Neli, s'era messo a cantare all'improvviso. La luna entrava e usciva di tra un fitto intrico di nuvolette bianche e nere; e la luna era la faccia tonda della sua Luzza che sorrideva e s'oscurava alle vicende ora tristi e ora liete dell'amore.
Giurlannu Zarú era rimasto nella stalla. Prima dell'alba, Saro si era recato a svegliarlo e lo aveva trovato lì, gonfio e nero, con un febbrone da cavallo.
Questo raccontò Neli Tortorici, là dal barbiere, il quale, a un certo punto distraendosi, lo incicciò col rasojo. Una feritina, presso il mento, che non pareva nemmeno, via! Neli non ebbe neanche il tempo di risentirsene, perché alla porta del barbiere s'era affacciata Luzza con la madre e Mita Lumia, la povera fidanzata di Giurlannu Zarú, che gridava e piangeva, disperata.
Ci volle del bello e del buono per fare intendere a quella poveretta che non poteva andare fino a Montelusa, a vedere il fidanzato: lo avrebbe veduto prima di sera, appena lo avrebbero portato su, alla meglio. Sopravvenne Saro, sbraitando che il medico era già a cavallo e non voleva piú aspettare. Neli si tirò Luzza in disparte e la pregò che avesse pazienza: sarebbe ritornato prima di sera e le avrebbe raccontato tante belle cose.
Belle cose, difatti, sono anche queste, per due fidanzati che se le dicono stringendosi le mani e guardandosi negli occhi.
Stradaccia scellerata! Certi precipizi, che al dottor Lopiccolo facevano vedere la morte con gli occhi, non ostante che Saro di qua, Neli di là reggessero la mula per la capezza.
Dall'alto si scorgeva tutta la vasta campagna, a pianure e convalli; coltivata a biade, a oliveti, a mandorleti; gialla ora di stoppie e qua e là chiazzata di nero dai fuochi della debbiatura; in fondo, si scorgeva il mare, d'un aspro azzurro. Gelsi, carrubi, cipressi, olivi serbavano il loro vario verde, perenne; le corone dei mandorli s'erano già diradate.
Tutt'intorno, nell'ampio giro dell'orizzonte, c'era come un velo di vento. Ma la calura era estenuante; il sole spaccava le pietre. Arrivava or sì or no, di là dalle siepi polverose di fichidindia, qualche strillo di calandra o la risata d'una gazza, che faceva drizzar le orecchie alla mula del dottore

– Mula mala! mula mala! – si lamentava questi allora.

Per non perdere di vista quelle orecchie, non avvertiva neppure al sole che aveva davanti agli occhi, e lasciava l'ombrellaccio aperto foderato di verde, appoggiato su l'omero.

– Vossignoria non abbia paura, ci siamo qua noi, – lo esortavano i fratelli Tortorici.

Paura, veramente, il dottore non avrebbe dovuto averne. Ma diceva per i figliuoli. Se la doveva guardare per quei sette disgraziati, la pelle.
Per distrarlo, i Tortorici si misero a parlargli della mal'annata: scarso il frumento, scarso l'orzo, scarse le fave; per i mandorli, si sapeva: non raffermano sempre: carichi un anno e l'altro no; e delle ulive non parlavano: la nebbia le aveva imbozzacchite sul crescere; né c'era da rifarsi con la vendemmia, ché tutti i vigneti della contrada erano presi dal male.

– Bella consolazione! – andava dicendo ogni tanto il dottore, dimenando la testa.

In capo a due ore di cammino, tutti i discorsi furono esauriti. Lo stradone correva diritto per un lungo tratto, e su lo strato alto di polvere bianchiccia si misero a conversare adesso i quattro zoccoli della mula e gli scarponi imbullettati dei due contadini. Liolà, a un certo punto, si diede a canticchiare, svogliato, a mezza voce; smise presto. Non s'incontrava anima viva, poiché tutti i contadini, di domenica, erano su al paese, chi per la messa, chi per le spese, chi per sollievo. Forse laggiú, a Montelusa, non era rimasto nessuno accanto a Giurlannu Zarú, che moriva solo, seppure era vivo ancora.
Solo, difatti, lo trovarono, nella stallaccia intanfata, steso sul morello, come Saro e Neli Tortorici lo avevano lasciato: livido, enorme, irriconoscibile.
Rantolava.
Dalla finestra ferrata, presso la mangiatoja, entrava il sole a percuotergli la faccia che non pareva piú umana: il naso, nel gonfiore, sparito; le labbra, nere e orribilmente tumefatte. E il rantolo usciva da quelle labbra, esasperato, come un ringhio. Tra i capelli ricci da moro una festuca di paglia splendeva nel sole.
I tre si fermarono un tratto a guardarlo, sgomenti, e come trattenuti dall'orrore di quella vista. La mula scalpitò, sbruffando, su l'acciottolato della stalla. Allora Saro Tortorici s'accostò al moribondo e lo chiamò amorosamente:

– Giurlà, Giurlà, c'è il dottore.

Neli andò a legar la mula alla mangiatoja, presso alla quale, sul muro, era come l'ombra di un'altra bestia, l'orma dell'asino che abitava in quella stalla e vi s'era stampato a forza di stropicciarsi.
Giurlannu Zarú, a un nuovo richiamo, smise di rantolare; Si provò ad aprir gli occhi insanguati, anneriti, pieni di paura; aprì la bocca orrenda e gemette, come arso dentro:

– Muojo!

– No, no, – s'affrettò a dirgli Saro, angosciato. – C'è qua il medico. L'abbiamo condotto noi; lo vedi?

– Portatemi al paese! – pregò il Zarù, e con affanno, senza potere accostar le labbra: – Oh mamma mia!

– Sì, ecco, c'è qua la mula! – rispose subito Saro.

– Ma anche in braccio, Giurlà, ti ci porto io! – disse Neli, accorrendo e chinandosi su lui. – Non t'avvilire!

Giurlannu Zarú si voltò alla voce di Neli, lo guatò con quegli occhi insanguati come se in prima non lo riconoscesse, poi mosse un braccio e lo prese per la cintola.

– Tu, bello? Tu?

– Io, sì, coraggio! Piangi? Non piangere, Giurlà, non piangere. È nulla!

E gli posò una mano sul petto che sussultava dai singhiozzi che non potevano rompergli dalla gola. Soffocato, a un certo punto il Zarú scosse il capo rabbiosamente, poi alzò una mano, prese Neli per la nuca e l'attiro a sé:

– Insieme, noi, dovevamo sposare...

– E insieme sposeremo, non dubitare! – disse Neli, levandogli la mano che gli s'era avvinghiata alla nuca.

Intanto il medico osservava il moribondo. Era chiaro: un caso di carbonchio.

– Dite un po', non ricordate di qualche insetto che v'abbia pinzato?

– No, – fece col capo il Zarú.

– Insetto? – domandò Saro.

Il medico spiegò, come poteva a quei due ignoranti, il male. Qualche bestia doveva esser morta in quei dintorni, di carbonchio. Su la carogna, buttata in fondo a qualche burrone, chi sa quanti insetti s'erano posati; qualcuno poi, volando, aveva potuto inoculare il male al Zarú, in quella stalla.
Mentre il medico parlava così, il Zarù aveva voltato la faccia verso il muro
Nessuno lo sapeva, e la morte intanto era lì, ancora; così piccola, che si sarebbe appena potuta scorgere, se qualcuno ci avesse fatto caso.
C'era una mosca, lì sul muro, che pareva immobile; ma, a guardarla bene, ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampine anteriori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta.
Il Zarú la scorse e la fissò con gli occhi.
Una mosca.
Poteva essere stata quella o un'altra. Chi sa? Perché, ora, sentendo parlare il medico, gli pareva di ricordarsi. Sì, il giorno avanti, quando s'era buttato lì a dormire, aspettando che i cugini finissero di smallare le mandorle del Lopes, una mosca gli aveva dato fastidio. Poteva esser questa?
La vide a un tratto spiccare il volo e si voltò a seguirla con gli occhi.
Ecco era andata a posarsi sulla guancia di Neli. Dalla guancia, lieve lieve, essa ora scorreva in due tratti, sul mento, fino alla scalfittura del rasojo, e s'attaccava lì, vorace.

Giurlannu Zarú stette a mirarla un pezzo, intento, assorto. Poi, tra l'affanno catarroso, domandò con una voce da caverna:

– Una mosca, può essere?

– Una mosca? E perché no? – rispose il medico.

Giurlannu Zarú non disse altro: si rimise a mirare quella mosca che Neli, quasi imbalordito dalle parole del medico non cacciava via. Egli, il Zarú, non badava piú al discorso del medico, ma godeva che questi, parlando, assorbisse così l'attenzione del cugino da farlo stare immobile come una statua, da non fargli avvertire il fastidio di quella mosca lì sulla guancia. Oh fosse la stessa! Allora sì, davvero, avrebbero sposato insieme! Una cupa invidia, una sorda gelosia feroce lo avevano preso di quel giovane cugino così bello e florido, per cui piena di promesse rimaneva la vita che a lui, ecco, veniva irnprovvisamente a mancare.
A un tratto Neli, come se finalmente si sentisse pinzato, alzò una mano, cacciò via la mosca e con le dita cominciò a premersi il mento, sul taglietto. Si voltò a Zarú che lo guardava e restò un po' sconcertato vedendo che questi aveva aperto le labbra orrende, a un sorriso mostruoso. Si guardarono un po' così. Poi il Zarú disse, quasi senza volerlo:

– La mosca.

Neli non comprese e chinò l'orecchio:

– Che dici?

– La mosca, – ripeté quello.

– Che mosca? Dove? – chiese Neli, costernato, guardando il medico.

– Lì, dove ti gratti. Lo so sicuro! – disse il Zarú.

Neli mostrò al dottore la feritina sul mento:

– Che ci ho? Mi prude.

Il medico lo guardò, accigliato; poi, come se volesse osservarlo meglio, lo condusse fuori della stalla. Saro li seguì.
Che avvenne poi? Giurlannu Zarú attese, attese a lungo, con un'ansia che gl'irritava dentro tutte le viscere. Udiva parlare, là fuori, confusamente. A un tratto, Saro rientrò di furia nella stalla, prese la mula e, senza neanche voltarsi a guardarlo, uscì, gemendo:

– Ah, Neluccio mio! ah, Neluccio mio!

Dunque, era vero? Ed ecco, lo abbandonavano lì, come un cane. Provò a rizzarsi su un gomito, chiamò due volte:

– Saro! Saro!

Silenzio. Nessuno. Non si resse piú sul gomito, ricadde a giacere e si mise per un pezzo come a grufare, per non sentire il silenzio della campagna, che lo atterriva. A un tratto gli nacque il dubbio che avesse sognato, che avesse fatto quel sogno cattivo, nella febbre; ma, nel rivoltarsi verso il muro, rivide la mosca, lì di nuovo.
Eccola.
Ora cacciava fuori la piccola proboscide e pompava, ora si nettava celermente le due esili zampine anteriori, stropicciandole fra loro, come soddisfatta.

 
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Pietà (Teasdale)

Post n°753 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Non hanno mai visto il viso del mio amante,
Sanno solo che il nostro amore è stato breve,
Indossando per poco una grazia ventosa
E passando come una foglia d'autunno.
Si chiedono perché non piango,
Credono che sia strano che io riesca a cantare,
Dicono, " Il suo amore era scarsamente intenso
Poiché ha lasciato una puntura così leggera".
Non hanno mai visto il mio amore, né hanno saputo
Che il più segreto luogo del mio cuore
Io ho pietà di loro come gli angeli
Degli uomini che non hanno mai visto il viso di
Dio.

 
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Libri dimenticati:La somma dei giorni

Post n°752 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cosa succede alla famiglia di Paula dopo la sua morte?A questa domanda risponde questo bel libro di Isabel Allende,da leggere di un fiato come "Paula"

 
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Frase del giorno

Post n°751 pubblicato il 17 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Prima di uscire,anche se sei disperato,indossa un sorriso (Robert)

 
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