Messaggi del 18/09/2011

Leggete che merita!

Post n°770 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un giorno, un non vedente era seduto sul gradino di un marciapiede con un

cappello ai suoi piedi e un pezzo di cartone con su scritto: "Sono cieco, aiutatemi per favore". Un pubblicitario che passava di lì si fermò e notò che vi erano solo alcuni centesimi nel cappello. Si chinò e versò della moneta, poi, senza chiedere il permesso al cieco, prese il cartone, lo girò e vi scrisse sopra un'altra frase.

Al pomeriggio, il pubblicitario ripassò dal cieco e notò che il suo cappello era pieno di monete e di banconote.

Il non vedente riconobbe il passo dell'uomo e gli domandò se era stato lui che aveva scritto sul suo pezzo di cartone e soprattutto che cosa vi avesse annotato.

Il pubblicitario rispose: "Nulla che non sia vero, ho solamente riscritto la tua frase in un altro modo".

Sorrise e se ne andò.

Il non vedente non seppe mai che sul suo pezzo di cartone vi era scritto:

"Oggi è primavera e io non posso vederla".

Morale n° 5: Cambia la tua strategia quando le cose non vanno molto bene e vedrai che poi andrà meglio.

 

Se un giorno ti verrà rimproverato che il tuo lavoro non è stato fatto con professionalità, rispondi che l'Arca di Noè è stata costruita da dilettanti e il Titanic da professionisti....

Per scoprire il valore di un anno, chiedilo ad uno studente che è stato bocciato all'esame finale.

Per scoprire il valore di un mese, chiedilo ad una madre che ha messo al mondo un bambino troppo presto.

Per scoprire il valore di una settimana, chiedilo all'editore di una rivista settimanale.

Per scoprire il valore di un'ora, chiedilo agli innamorati che stanno aspettando di vedersi.

Per scoprire il valore di un minuto, chiedilo a qualcuno che ha appena perso il treno, il bus o l'aereo.

Per scoprire il valore di un secondo, chiedilo a qualcuno che è sopravvissuto a un incidente.

Per scoprire il valore di un millisecondo, chiedilo ad un atleta che alle Olimpiadi ha vinto la medaglia d'argento.

Il tempo non aspetta nessuno. Raccogli ogni momento che ti rimane, perché ha un

grande valore. Condividilo con una persona speciale, e diventerà ancora più importante.

L'origine di questi racconti è sconosciuta, pare portino buonumore e fortuna a chi li manda e a chi li dice, quindi non tenerli per te.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

I tre musicanti

Post n°769 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’erano una volta tre musicanti che sonavano il violino, il flauto e la tromba, e giravano di paese in paese a sonare i loro strumenti divertendo la gente. Così guadagnavano un po’ di soldi , e avevano anche spesso l’occasione di stare allegri.
Un giorno arrivarono in un villaggio dove si teneva una festa, e furono subito inviati a parteciparvi per far ballare la compagnia e allietare tutti con le loro musiche. Quando ebbero finito, il padrone di casa li invitò a sedere a tavola con gli altri a mangiare e a bere, e i tre non se lo fecero dire due volte.
Mentre mangiavano chiacchierando coi loro commensali, udirono uno degli ospiti che diceva:
- In mezzo alla foresta c’è un castello incantato dove succedono cose stranissime. È deserto, eppure le finestre sono illuminate le tavole sempre imbandite. Inoltre si dice che là dentro siamo racchiusi tesori immensi.
- E perché nessuno va a prenderli? – chiese uno dei tre.
L’altro lo guardò con gli occhi sgranati.
- Sei matto? – esclamò – ti ho detto che quel castello è incantato e vi hanno preso alloggio spiriti terribili. Chi si è azzardato ad entrare ne è uscito mezzo morto e non ha mai voluto dire che cosa vi avesse veduto. No, no, io penso proprio che sia meglio girare al largo!
Quando furono rientrati nella loro camera alla locanda, dove dormivano tutti e tre insieme, i musicanti incominciarono a discutere animatamente.
- Perché non proviamo? – diceva uno. – Se i tesori esistono davvero, e noi riusciamo a impadronircene, sarebbe la fortuna per tutti e tre.
- D’accordo – replicava un altro. – Proviamo. Ma io proporrei di non andare tutti e tre insieme; tentiamo uno per volta, così abbiamo tre possibilità di riuscita. Incomincerà il più vecchio di noi.
Convenuto così, finalmente si addormentarono.
Il mattino dopo il maggiore dei tre, che suonava il violino, prese il suo strumento e s'avviò da solo in mezzo alla foresta. Giunto proprio nel folto vide finalmente il castello, che era circondato da un muro, aveva torri e fossati, ma il ponte levatoio era abbassato e il portone spalancato come se egli fosse atteso.
Sebbene avesse molta paura, si decise a entrare, ma non appena fu nel cortile il portone si chiuse alle sue spalle con grande fracasso. Allora la paura gli aumentò, ma oramai non poteva più tornare indietro. Perciò andò avanti cautamente guardandosi intorno. Salì un grande scalone di marmo, quindi attraversò una fila di saloni, ma non incontrò anima viva.
Ovunque regnava il più assoluto silenzio.
Finalmente giunse in una cucina dove un bel fuoco scoppiettava nel camino e sulle fiamme era disposta una gratella. Mentre guardava con occhi sgranati, una fetta di carne finissima uscì dalla dispensa e andò direttamente a posarsi sulla gratella. “Il servizio è proprio completo” pensò il giovane. E istintivamente prese ad avviarsi verso una delle sale da pranzo.
Subito mani invisibili stesero sulla tavola una tovaglia candidissima e disposero piatti e posate per due persone. Poi dalla cucina, volando nell’aria, entrarono in processione piatti colmi di cibi prelibati che vennero a posarsi sulla tavola.
Allora il giovane mise lo strumento alla spalla e suonò una delle sue più belle arie: poi disse inchinandosi:
- Buon appetito.
Quindi sedette e incominciò a mangiare. In quel momento una porta si aprì silenziosamente e nella sala entrò un omino piccolissimo, vestito di rosso, con una barba bianca lunga fino ai piedi e una faccina grinzosa. L’omino ricambiò con un cenno l’inchino del giovanotto, poi sedette a tavola senza dire una parola.
Quando si posò sulla tavola il vassoio con l’arrosto, il violinista lo prese e lo presentò gentilmente al vecchietto; questi sorrise e si tagliò una fetta di carne; ma mentre stava per metterla nel patto, la carne gli sfuggì e cadde sotto la tavola. Subito il giovane si chinò per raccoglierla, ma in quel preciso momento l’omino scattò e gli balzò sulla schiena. Con un bastone nocchieruto incominciò a suonare botte da orbi; infine con un poderoso calcio in fondo alle reni lo fece addirittura volare fuori dal castello.
Quando si riebbe, il violinista si rialzò a fatica e, barcollando, raggiunse la locanda.
Al mattino dopo i compagni lo tempestarono di domande, ma egli, ancora indolenzito, si limitò a dire:
- Be, sì qualcosa c’è: qualcosa di duro…ma andate a vedere voi!
La stessa sorte tocco anche al secondo musicante, quello che suonava la tromba.
Infine venne il turno del terzo, che era un flautista. Anch’egli arrivò nel castello e si sedette a tavola. Ma, vista la sorte dei suoi compagni, aveva deciso di star molto attento a quel che faceva.
Venne l’omino e fu servito l’arrosto. Il giovane gli porse il piatto, e quando la fetta di carne dell’omino cadde sotto il tavolo, anch’egli si chinò per raccoglierla, però si accorse della mossa che il vecchietto faceva per saltargli addosso. Allora si voltò di scatto, gli afferrò la barba e la tirò così forte che si stacco e gli rimase in mano. L’omino disperato lo supplicò:
- Ti prego, ridammi la barba! In cambio ti rivelerò ogni incantesimo e sarai ricco e felice.
Ma il giovane, che nello stringere quella barba si sentiva pieno di forze, rispose:
- Prima rivelami gli incantesimi e poi ti darò la barba.
- Vieni con me – disse infine il vecchietto rassegnato, e cominciò a scendere scale strettissime, che si aprivano fra le pareti della roccia, fino a quando non giunsero in una vasta spianata. L’attraversarono e si trovarono sulla sponda di un fiume.
L’omino levò di tasca una bacchetta e con quella toccò le acque, che come per incanto si fermarono a monte, mentre quelle a valle scivolarono via lasciando il fondo asciutto. I due lo attraversarono, e non appena ebbero raggiunta l’altra riva il torrente riprese a scorrere con un terribile scroscio tra mulinelli vorticosi. Dall’altra parte c’era un giardino meraviglioso, talmente bello che il flautista credette di essere nel paradiso terrestre: prati d’erba verdissima, ruscelli dove guizzavano pesci rossi, dorati, argentei; dappertutto fiori, uccelli dalle penne d’oro, farfalle multicolori, percolatati, siepi fiorite.
Gli uccelli trillavano festosamente, le farfalle gli svolazzavano intorno come per dargli il benvenuto.
Il giovane cercava di persuadersi che non stava sognando, e seguiva sempre il vecchietto, il quale si diresse verso un grande e magnifico castello che sorgeva proprio in mezzo al giardino. Entrarono e anche qui attraversarono saloni sfarzosi e ammobiliati splendidamente, ma tutti deserti e silenziosi.
Infine giunsero in una camera dove, proprio nel centro, stava un grande letto con le cortine abbassate.
L’omino le sollevò e il flautista vide una fanciulla bella come un angelo, ma immersa in un sonno profondo come la morte. Era vestita di bianco e aveva i capelli neri sciolti sulle spalle. Accanto a lei, in una gabbietta, trillava un uccellino, ed era questo l’unico segno di vita in quel silenzio pauroso.
- Ecco – disse l’omino – questa è una principessa che con un incantesimo ho fatto addormentare così. Il castello e il giardino le appartengono, ma non potrà goderli fino a quando non si sveglierà. E non si sveglia da secoli, perché nessuno, fino ad oggi, era riuscito a trovare la strada per giungere fin qui. C’ero io, che facevo buona guardia! Non appena qualche importuno si avvicinava e ardiva entrare in casa mia, lo accoglievo a bastonate e poi lo buttavo fuori. La barba mi dava tanta forza che sarei riuscito a picchiare anche un gigante. Ma adesso tu me l’ hai strappata e io non posso nulla contro di te. Devo cederti tutto: il castello, il giardino, e anche la principessa.
- Va bene, va bene, ma adesso fammi il piacere di svegliarla! – impose il giovane che teneva sempre ben stretta la barba nel pugno.
- Non posso – replicò il vecchietto. – Puoi farlo solo tu. Prendi l’uccellino che sta nella gabbia e strappargli la penna rossa che ha sul petto, proprio sopra il cuore. Poi bruciala, raccogli la cenere e mettila sulle labbra della principessa.
Il giovane fece ciò che gli era stato detto: strappò la penna rossa all’uccellino, la bruciò, e delicatamente mise la cenere sulle labbra della fanciulla addormentata. La principessa sospirò profondamente mentre le sue palpebre palpitavano: infine spalancò gli occhi. Vide il giovane e gli sorrise, poi scese dal letto fresca e vivace.
- Grazie, mio liberatore – disse con una voce musicale. – Tu sarai il mio sposo e da questo momento tutte le mie ricchezze ti appartengono.
- Adesso che tutto è finito bene, ridammi la mia barba! – ingiunse l’omino.
- Riavrai la tua barba, non dubitare – disse – ma soltanto quando ci saluteremo. Io e la principessa ti accompagneremo per un tratto.
Arrivati sulla riva del torrente, il musicante disse:
- Dammi la tua bacchetta, perché debbo dividere le acque per passare.
Il vecchietto scosse la testa. Allora il giovane fece l’atto di gettare la barba nel fiume.
- Ferma, ferma! – gridò il vecchietto disperato. – Tieni!
Il giovane prese la bacchetta e con quella toccò le acque che si aprirono, poi disse:
- Prego, và avanti tu. Ma non appena l’omino fu sull’altra riva, egli toccò di nuovo le acque che ripresero a scorrere.
La disperazione del vecchietto fu immensa: correva sulla riva piangendo e strillando.
Allora il giovane toccò la barba con la bacchetta e la barba volò dall’altra parte. Ma quando l’omino chiese anche la bacchetta rispose:
- Questa la tengo io, così non potrai ripassare il fiume mai più. Tu di là e noi di qua; vedrai che straremo benone.
In quanto agli due musicanti, dopo aver atteso invano il loro compagno, conclusero:
- Ne ha prese troppe e non ha più il coraggio di farsi vedere.




 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

I tre cani

Post n°768 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un povero pastore che aveva un figlio e una figlia. Quando fu in punto di morte li chiamò accanto a sé e disse:
- Vi lascio una casetta e tre pecore. Dividetele fra di voi e vogliatevi sempre bene.
Detto questo spirò e i figli lo piansero a lungo, poi il fratello chiese alla sorella:
- Che cosa preferisci? La casetta o le tre pecore?
La ragazza scelse la casetta e il giovane le disse:
- Hai scelto bene, e spero che tu possa vivere tranquilla. Io invece me ne andrò per il mondo in cerca di fortuna, ma mi ricorderò sempre di te.
L’abbracciò e partì, ma la fortuna tardava a farsi vedere. Un giorno in cui stava sdraiato sul ciglio della strada insieme alle sue pecore, passò di là un uomo che teneva al guinzaglio tre enormi cani, ciascuno dei quali era più grosso degli altri. L’uomo si fermò e disse:
- Amico, non vorreste darmi le vostre pecore in cambio dei miei cani?
- Fossi matto! – rispose il pastore. – Le pecore mangiano da sole, mentre ai cani bisogna procurare il cibo!
- Vi avverto – replicò lo sconosciuto – che i miei cani hanno nomi strani. Che corrispondono esattamente alle loro qualità. Si chiamano “Porta da mangiare”, “Strappalo” e “Rompi ferro e acciaio”.
A quelle parole il pastore provò un impulso irresistibile: cedette le pecore e prese i tre cani al guinzaglio. Rimasto solo, volle subito fare l’esperimento e comandò al primo cane:
- Porta da mangiare!
Il cane partì di corsa e ritornò un attimo dopo tenendo fra i denti pieno di vivande prelibate. Allora il pastore fu proprio convinto di aver fatto un buon baratto e si rimise in viaggio contento.
Qualche giorno dopo incontrò un funerale: o meglio, sembrava un funerale, perché c’era una carrozza ricoperta di drappi neri. Ma dentro la carrozza sedeva una bellissima fanciulla bionda e rosea come la primavera, che piangeva disperata.
- Che cosa succede? - Chiese il pastorello.- Perché fate il funerale a una persona viva?
- Voi siete foresterie e non sapete queste cose – rispose un uomo. – Sulla montagna laggiù abita un terribile drago, il quale minaccia di sterminare tutti gli abitanti della città, se noi ogni anno non gli conduciamo una fanciulla, il cui nome viene estratto a sorte. Quest’anno è toccato alla figlia del re e tra poco il drago la divorerà. Perciò le facciamo il funerale fin d’ora.
Il giovane fu molto commosso e si mise a seguire la carrozza. Non appena il corteo giunse ai piedi della montagna, la giovinetta scese e s' incamminò lungo un sentiero; egli la seguì, ma il cocchiere incominciò a gridare:
- Tornate indietro, altrimenti il drago vi divorerà in un solo boccone!
Ma il giovane non se ne dette per inteso e proseguì il cammino. Poco dopo vide una caverna nera e da quella sbucò un terribile drago che aveva il corpo ricoperto di scaglie, come un coccodrillo e gettava fuoco e fiamme da un’enorme bocca armata di denti aguzzi. Subito fece per lanciarsi sulla giovinetta, ma il pastore comandò al suo secondo cane:
- Strappalo!
Il cane partì come un razzo e diede tanti morsi al drago che in poco tempo lo fece a pezzi, poi lo divorò tutto, sputando solo qualche dente. La principessa piangeva, ma questa volta erano lacrime di gioia, e disse al suo salvatore:
- Venite alla reggia con me: mio padre vi compenserà come meritate.
- Verrò fra tre anni – rispose il pastorello. – Prima voglio viaggiare e vedere il un po’ di mondo.
- Vi aspetterò – promise la fanciulla, e tornò indietro felice.
Il cocchiere fu assai meravigliato vedendola ricomparire e ascoltando tutta la storia: subito tolse i drappi neri alla carrozza e ai cavalli e si diresse verso la reggia a gran galoppo, ma, mentre attraversava un ponte sopra un fiume tumultuoso, gli venne in mente un piano malvagio. Fermò la carrozza e disse:
- Quel giovanotto se n’è andato senza chiedere compensi: perciò vi sarà facile rendermi felice. Direte a vostro padre che il salvatore sono io: altrimenti vi getterò nel fiume.
La principessa si sdegnò, si spaventò, pianse e supplicò; ma tutto fu inutile: dovette giurare. Poco dopo giunsero in città. Figurarsi la gioia del popolo! Tutti ballavano per le strade e il re abbracciò il falso salvatore.
- Figliolo mio – gli disse – mia figlia è molto giovane, ma fra un anno te la darò in moglie. Intanto sarai fatto nobile e ti farò diventare ricco.
Così fu: la principessa pianse molto, ma ottenne soltanto che suo padre rimandasse le nozze di in secondo anno e poi un terzo. Infine il re le disse:
- Ti concedo ancora un anno; poi sposerai quell’uomo, perché la parola del re è sacra.
Passato anche il terzo anno, giunse finalmente il giorno delle nozze. Proprio quel mattino arrivò in città il pastorello coi suoi tre cani a guinzaglio. Vedendo addobbi a festa chiese che cosa fosse successo.
- La figlia del re sposa il suo salvatore, che era il cocchiere – gli risposero.
- Ah si? Quel furfante matricolato? – gridò il giovane pieno di sdegno.
Udendo insultare l’uomo che tutti credevano un eroe, la folla si getto sul pastore e lo condusse in prigione. Poco dopo egli udì guaire, fuori, i suoi tre cani.
- Rompi ferro e acciaio! – chiamò.
E subito il terzo cane entrò sbriciolando l’inferriata della finestra, e con un morso spezzò anche le catene. Quando fu libero, il giovane comandò:
- Porta da mangiare!
E il cane volò a palazzo reale e posò la testa sulle ginocchia della principessa. La principessa, vedendo il cane, cominciò a ridere di gioia, mentre il cocchiere impallidiva e tremava. Il re, insospettito, comandò ai suoi servi:
- Seguite questo cane e conducetemi qui il suo padrone.
Poco dopo il giovane pastore era alla presenza del re, e tutto fu spiegato. Il malvagio cocchiere venne gettato in prigione, in mezzo ai topi e la principessa potè sposare il vero salvatore.
- E adesso – le disse il pastore – voglio mandare a prendere mia sorella perché sia felice con noi.
- Bravo! – esclamò allora uno dei cani. – Noi volevamo vedere se ti saresti ricordato di lei anche nella fortuna. Ora possiamo andarcene tranquilli.
Così dicendo si trasformarono in tre uccelli, aprirono le ali e volarono via.



di Ludwig Bechstein

ti è piaciuta? scrivimi



 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

La gobba del cammello

Post n°767 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Narrerò ora, come spuntò la gobba al Cammello.
All'inizio del mondo, quando tutto era ancora nuovo, e gli Animali avevano appena incominciato a lavorare per l'Uomo, viveva, in mezzo al Deserto Ululante, un Cammello, che era proprio un gran fannullone, tanto che mangiava rametti e pruni, tamarischi e altre erbe, che poteva trovare nel deserto senza scomodarsi troppo; e quando Qualcuno gli rivolgeva la parola, rispondeva: - Bah! - solo: - Bah! - e nient'altro.
Perciò, un lunedì mattina, il Cavallo andò da lui, con la sella sulla schiena e il morso in bocca, e disse:
- Cammello, ehi, Cammello, vieni fuori a trottare come tutti noi.
- Bah! - fece il Cammello; e il Cavallo se ne andò e lo riferì all'Uomo.
Poi andò da lui il Cane, con un pezzo di legno in bocca; e disse: - Cammello, ehi, Cammello, vieni a stanare la selvaggina come tutti noi.
- Bah! - fece il Cammello; e il Cane se ne andò e lo riferì all'Uomo.
Poi andò da lui il Bue, con il giogo sul collo, e disse: - Cammello, ehi, Cammello, vieni ad arare come tutti noi.
- Bah! - fece il Cammello, e il Bue se ne andò e lo riferì all'Uomo.
Sul finire del giorno l'Uomo chiamò a raccolta il Cavallo, il Cane e il Bue e tenne loro questo discorsetto:
- O miei Tre, sono molto spiacente per voi (con il mondo ancora tutto nuovo); quel Fannullone nel deserto non vuol proprio lavorare, mentre ormai dovrebbe già essere qui come voi; per cui sono costretto lasciarlo solo, e voi dovrete lavorare il doppio per supplirlo.
Ciò irritò molto i Tre (con il mondo ancora tutto nuovo); ed essi si riunirono al confine del Deserto a congiurare; e venne anche il Cammello, più indolente che mai, ruminando erba, e rise loro in faccia. Poi fece: - Bah! - e se ne andò.
Allora arrivò il Genio che ha in custodia Tutti i Deserti, avvolto in una nube di polvere (i Geni viaggiano sempre in questo modo, perché è Magia), e si fermò a parlare coi Tre.
- Genio di Tutti i Deserti, - disse il Cavallo, - è giusto che qualcuno se ne stia in ozio con il mondo tutto nuovo?
- No di certo, - rispose il Genio.
- Ebbene, - soggiunse il Cavallo, - c'è un animale in mezzo al tuo Deserto Ululante, con lungo collo e lunghe gambe che non ha fatto ancora niente da lunedì mattina. Non vuole trottare.
- Ohibò! - esclamò il Genio; - per tutto l'oro dell'Arabia, ma questo è il mio Cammello! e che scusa trova?
- Dice: "Bah!" - disse il Cane; - e non vuole andare a stanare la selvaggina.
- Dice qualcos'altro?
- Solo: "Bah!" e non vuole arare, - disse il Bue.
- Benissimo, - fece il Genio; - se avete la pazienza di aspettare un minuto lo farò sgobbare io.
Il Genio si avvolse nel suo mantello di polvere, andò nel deserto, e trovò il Cammello più indolente che mai, che rimirava la sua immagine riflessa in una pozza d'acqua.
- Mio lungo e indolente amico, - disse il Genio, - ho sentito sul tuo conto cose che ti fanno poco onore. È vero che non vuoi lavorare?
- Bah! - rispose il Cammello.
Il Genio si sedette, col mento fra le mani, e si accinse ad escogitare qualche grande incantesimo, mentre il Cammello continuava a rimirare la sua immagine riflessa nell'acqua.
- Tu hai costretto i Tre a lavorare il doppio da lunedì mattina, e tutto per colpa della tua insopportabile pigrizia - disse il Genio, e continuò a pensare incantesimi col mento fra le mani.
- Bah! - fece il Cammello.
- Non lo ripeterei più se fossi in te, - disse il Genio; - potresti dirlo una volta di troppo. Fannullone, voglio che tu lavori.
E il Cammello ripeté ancora: - Bah! - ma non aveva ancora finito di dirlo, che vide il suo dorso, del quale era così orgoglioso, gonfiarsi e gonfiarsi finché si formò su di esso una grande, immensa, traballante gob-bah.
- Vedi cosa ti è successo? - disse il Genio; - questa gobba te la sei voluta proprio tu, con la tua pigrizia. Oggi è giovedì, e tu non hai fatto ancora nulla, mentre il lavoro ha avuto inizio lunedì. Ora devi andare a lavorare.
- Come è possibile, - protestò il Cammello, - con questa gobbah sulla schiena?
- Anzi, è fatta apposta, - replicò il Genio, - perché hai perso quei tre giorni. Ora potrai lavorare per tre giorni senza mangiare, perché puoi vivere a spese della tua gobbah; e non ti venga in mente di dire che non ho fatto niente per te. Esci dal deserto, vai a raggiungere i Tre, e comportati bene. E sgobba!
E il Cammello andò a raggiungere i Tre, e sgobbò, nonostante la gobba. E da quel giorno in poi il Cammello ebbe sempre la gobbah (noi, ora, la chiamiamo gobba per non offenderlo); ma non è ancora riuscito a recuperare i tre giorni che ha perso all'inizio del mondo, e non ha ancora imparato a comportarsi come si deve.


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Russare humanum est

Post n°766 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ancora una volta protagonista della mia cronaca è Teseo Scozzagalli e ancora una volta vi devo parlare del suo vizio di russare,emettendo un suono che è un incrocio fra il nitrito di un cavallo imbizzarrito e il fischio di una locomotiva.
Stavolta èandato a far danno a Viareggio,dove si èrecato al ritorno da Cuba,facendo passare a tutti quanti una settimana di passione che ora vi narro nei minimi particolari.
LUNEDI'-Installatosi nella famosa pensione "Mare e cielo",Teseo,recatosi in spiaggia,si è addormentato al sole.
Per la paura tutti i pesci nel raggio di 50 miglia marine si sono suicidati gettandosi sulla spiaggia,con gran gioia dei pescatori.
MARTEDI'- All'alba,Teseo ha fatto la conoscenza del povero crtisto che dorme nella stanza alla sua sinistra.
Era il ragioniere milanese Ambrogio Cotoletti,in convalescenza a Viareggio dopo il disastroso viaggio a Cuba.
Alla vista di Teseo,è scappato via ululando
MERCOLEDI'- Da anni la celebre giallista Pandora Strombazzoni-Bon,quando deve scrivere,si reca nella rinomata pensione.
Stavolta le hanno assegnato la camera a destra di quella di Teseo.
Dopo due notti insonni,la poveretta,in preda a una crisi isterica,ha spaccato la macchina da scrivere in testa al direttore della pensione ed è scappata a razzo.
GIOVEDI'- Di fronte alla camera dello Scozzagalli stavano in coniugi Gualberto e Camilla Pennacchioni,in seconda luna di miele dopo 60 anni di matrimonio felice.
dopo tre notti,la Camilla ,del tutto fuori di sè,ha accusato il marito di aver ingaggiato Teseo per farla impazzire,divorziare e risposarsi con sua sorella Radegonda,e lo ha quasi ucciso a colpi di abatjour.
VENERDI'- Oggi tutto il personale si è licenziato in massa ,clienti se ne sono andati tutti e Teseo è stato costretto a lasciare la pensione dal proprietario armato di lupara.
E' andato a dormire al camping "Pino blu"
SABATO- Ieri al camping c'erano 400 persone.Stamattina alle 8 era rimasto solo Teseo.
Sbattuto fuori pure di lì,è andato a dormire in spiaggia col sacco a pelo.
DOMENICA- All'alba i poliziotti,subissati da centinaia di chiamate di viareggini imbufaliti,hanno preso Teseo e l'hanno schiaffato sul primo treno per S.Tobia,
Sono passati dieci giorni.
Il Cotoletti è di nuovo in clinica.
La Pandora ha citato a Forum lo Scozzagalli:vuole i danni biologici perchè non riesce più a scrivere.
La Camilla è in prigione per tentato omicidio e il marito ha chiesto la separazione.
L'artefice di tanto scompiglio è sparito dalla circolazione.
Si rifarà vivo?Per il nostro bene,spero dino!




 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Saltacavalla

Post n°765 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta due carbonai, marito e moglie, che vivevano in mezzo a un bosco, in una capanna di legno. Lui abbatteva gli alberi, li scheggiava, e la moglie raccoglieva la legna, la portava nel posto e preparava la catasta, con la rocchina attorno per tenerla ben legata, e vi stendeva su la pelliccia con piote o piallacci. Il marito l'aiutava a far la bocca in alto alla catasta e i buchi per darle sfogo, e appiccava il foco.
Lavoravano così tutta l'annata, contenti di guadagnarsi il pane onestamente. Sarebbero stati felici se avessero avuto un figliolo.
E mentre la catasta ardeva, sdraiati per terra, essi facevano tanti bei castelli in aria:
- Quando avremo un bambino...
- O una bambina...
- Tu prenderai un garzone.
- E tu starai in bottega, in città.
- Tu condurrai il carbone...
- E tu lo venderai...
- Se sarà un bambino, gli faremo apprendere un altro mestiere.
- Se sarà una bambina...

Carbonaia, carbonaina,
Sotto il nero, pelle fina.
Tra piallacci e tra piote,
Voi ci avete una bella dote;
Ne faremo una Regina,
Carbonaia, carbonaina!


La moglie cantava cosi; le parole erano allegre, ma la cantilena era triste. E il marito ripigliava:

Carbonaio, carbonaino,
Sotto il nero, viso fino.
Tra piallacci e tra piote,
Tu ci avrai una bella dote;
Ne faremo un Principino,
Carbonaio, carbonaino!


Le parole erano allegre ma la cantilena era triste.
Di tanto in tanto, egli si alzava per osservare l'andamento del loco, e soggiungeva:
- La catasta arde bene.
Otto giorni dopo, tornando dalla città dov'era andato a vendere il carbone, il marito portava un grosso involto sotto il braccio.
- Che bel regalo mi hai comprato, marito mio?
- Indovina, moglie mia.
- Una veste di mussola?
- Ma che!
- Un coscetto di abbacchio?
- Ma che!
Lasciami vedere. Che sarà mai, se lo posi con tanta cautela sul letto?
- Ti ho portato un figliolino.
- Di cenci?
- Di carne e ossa. Guarda!
Era davvero un bel bambino roseo, biondo, che dormiva saporitamente, avvolto in pannilini finissimi, orlati di trine.
- E chi te l'ha dato?
- L'ho trovato tra l'erba, su l'orlo di un fosso.
- Sarà la nostra fortuna.
- Gli vorremo bene come a vero figliolo.
- Ma, per allattarlo?...
- Compreremo una capra.
La capra, in poco tempo, si affezionò talmente al bambino, che andava a porgergli i capezzoli assai meglio di una nutrice. La carbonaia glielo posava per terra su una coperta di lana e quella, appena lo sentiva vagire, accorreva e sceglieva la posizione più comoda perché il bambino poppasse. Ciò pareva un miracolo al marito e alla moglie, che, al veder crescere quella creaturina sana, vispa e bella, ripetevano ogni giorno:
- Sarà la nostra fortuna!
La donna ora, dovendo badare al bambino, non poteva più aiutare, come prima, il marito nel far la catasta, la rocchina per tenerla ben legata, né a stendervi su la pelliccia con piote e piallacci. Avevano preso un garzone.
Il bambino, cresciuto, era diventato un frugoletto. Correva qua, montava là, si arrampicava agli alberi, non stava cheto un momento. E spiccava certi salti, come una cavalletta; per questo, col nome di una di esse, lo chiamarono Saltacavalla. Più cresceva e più frugolo diventava.
- Dov'è Saltacavalla?
- Era qui un momento fa. - Tu non lo tieni d'occhio abbastanza!
- E tu lo vizi con le carezze!
- È così buono!
- È così buffo certe volte!
- Ora appicco foco alla catasta.
- Ehi! Ehi| Adagino, ci sono io!
Dov'era andato ad accovacciarsi? In cima alla catasta, dentro la buca. Aveva preso di mira il garzone e gliene faceva di ogni specie. Gli nascondeva le scarpe nei mucchi di carbone; gli faceva sparire la camicia o i calzoni, che andava ad appendere in cima a un albero, dove non poteva arrampicarsi altri che lui. E dopo averlo fatto ammattire un bel pezzo, esclamava:
- Toh! Hanno messo bandiera bianca lassù!
La camicia sventolava proprio come una bandiera.
- Toh! C'è là, in alto, lo spauracchio pei passeri!
Erano i calzoni infilati a due rami. I carbonai, mal trattenendo le risa, non riuscivano a sgridarlo.
E Saltacavalla si faceva pregare un po' prima di arrampicarsi lassù, e di restituire al garzone calzoni e camicia.
La donna gli lavava mani e faccia due, tre volte al giorno; ma dopo pochi minuti Saltacavalla era nero, mani e faccia, peggio di un piccolo carbonaio.
E se la mamma e il babbo - egli non sapeva che non fosse loro figlio - lo sgridavano, Saltacavalla faceva smorfie e gesti così strani, torcendo il muso, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, che non era possibile rimanere seri; e tutto finiva in una grande risata. Rideva anche il garzone.
- È il nostro divertimento; lasciamolo fare.
- Poverino, non ha altri svaghi!
- Tieni, è la colazione. Sta' là cheto, almeno mangiando.
Saltacavalla prendeva la fetta di pane e il companatico, un pezzetto di cacio o una mezza cipolla, e cominciava a masticare di mala voglia, quasi non avesse appetito. Tutt'a un tratto, dava un balzo, da quel Saltacavalla che era, e in un attimo eccolo in cima a una quercia, a dondolarsi su un ramo così sottile, che pareva gli si dovesse spezzar sotto. - Quassù, sì, si mangia bene!
E faceva bocconi grossi, con tanti forti scoppiettii delle labbra, per mostrare che pappava di gusto.
- Scendi giù, ti può accadere una disgrazia!
- Intanto schiaccio un sonnellino!
Si stendeva tra i rami, incrociando le gambe, tenendosi aggrappato con le mani, e si addormentava. E la povera donna stava a vegliarlo a piè dell'albero, atterrita. Alla discesa, lo prendeva per un braccino, voleva sgridarlo, ma Saltacavalla le faceva una strana smorfia di scusa e la sgridata si mutava in uno scoppio di risa.
Or accadde che un giorno si trovò a passare nel bosco il Re con due persone del suo séguito. Avevano smarrito la strada. Vedendo che i carbonai stavano per dar fuoco alla catasta, scese da cavallo e volle assistere all'operazione.
Il Re era triste, cupo e non diceva una parola. Non dicevano una parola neppure quelli del séguito, mentre il carbonaio appiccava il foco.
Marito e moglie avevano capito che quei signori, vestiti così bene e con quei bei cavalli, dovevano essere personaggi di gran conto; la donna per ciò si teneva in disparte e tratteneva a sé Saltacavalla per impedirgli di farne qualcuna delle sue.
A un tratto, Saltacavalla scappa e va a piantarsi a gambe larghe, con le braccia dietro la schiena, in faccia al Re, squadrandolo da capo a piedi:
- Tu non sei carbonaio, è vero? Che cos'hai con quel viso scuro?
Il Re stese una mano per fargli una carezza.
Saltacavalla allungò il muso, cacciò fuori la lingua, sgranò tanto di occhi, e torse il collo a destra e a sinistra.
Un lieve sorriso spuntò su le labbra del Re, ma disparve subito.
- Me lo dài quel bastone lustro che porti al fianco?
Intendeva di dire la spada. Saltacavalla non aveva mai visto spade, e non sapeva come si chiamassero, né a che uso servissero. Il Re tirò fuori del fodero la spada e gliela mostrò per fargli capire che non era un bastone.
- È un coltello? Troppo lungo per affettare il pane! Non serve. Guarda il mio: costa due soldi.
E cavato di tasca il coltellino, Saltacavalla lo aperse e cominciò a far l'atto di tagliare una, due, tre fette di pane da una pagnotta, accompagnando il gesto con tali smorfie delle labbra, di tutto il viso, torcendo gli occhi, cacciando fuori a più riprese la lingua, che il Re sorrise e stese di nuovo la mano per fargli una carezza.
La povera donna era su le spine e accennava a Saltacavalla di smettere, minacciando di picchiarlo.
Come se gli avesse detto: - Fai peggio!
- È tuo quel cavallo bianco? Me lo dài?
E prima che il Re rispondesse, Saltacavalla era in sella, e picchiava con le calcagna sui fianchi dell'animale legato per le briglia al tronco di un albero. L'animale, abituato agli speroni, non si dava per inteso di quei colpettini e rimaneva tranquillo. Saltacavalla si arrabbiava, gridando: - Arri là! Arri là! - E faceva gesti così scomposti, così buffi, cacciando fuori la lingua, agitando le braccia e le gambe, che il Re, non ostante la sua serietà e il suo cattivo umore, fu preso da una vera convulsione di risa; non aveva mai riso tanto da un gran pezzo.
Quando poté frenarsi e parlare, disse ai carbonai:
- Affidatemi questo ragazzo. Lo porto via con me; ne farò un gran signore. Neppure al Re in persona! risposero insieme marito e moglie. - Lo abbiamo allevato col nostro sangue.
- Non è vero! - gridò Saltacavalla. - Mi hanno detto loro stessi che mi ha allattato una capra.
Il Re fu preso da un nuovo accesso di risa. E quando poté frenarsi e parlare, disse.
- Vi farò ricchi, lui e voialtri. Questo bambino è stato per me il più gran medico del mondo: mi ha fatto ridere, ed erano anni ed anni che non ridevo. Verrète ad abitare nel mio palazzo. Sono il Re.
Marito e moglie sbalordirono. Si confondevano in iscuse.
- Perdono, Maestà! Chi poteva immaginare?
Ma tutto fini in una gran risata, perché Saltacavalla, sceso giù di sella, si buttava ai piedi del Re, ripetendo in modo buffo, stralunando gli occhi, cacciando fuori la lingua, picchiandosi il petto:
- Perdono, Maestà!... Chi poteva immaginare?
Cosi Saltacavalla e i carbonai, marito e moglie, furono accolti nel palazzo reale; i creduti genitori in un appartamentino a pian terreno, che aveva un orto; Saltacavalla in una camera vicina a quella del Re, che lo voleva davanti quasi in tutte le ore della giornata, anche quando teneva consiglio coi Ministri.
Gli aveva fatto cucire dal sarto di Corte un bel vestito da paggetto, e dal calzolaio di Corte un paio di borzacchini, che erano gli stivaletti allora in uso. Ma Saltacavalla vi si trovava dentro impacciato, quasi vestito e borzacchini gli impedissero i movimenti. A volte accadeva che il Re lo cercasse per le sale del palazzo senza riuscire a trovarlo. Fruga, chiama, all'ultimo scoprivano Saltacavalla in una terrazza, con indosso i vecchi cenci, scalzo, che correva da un punto all'altro, facendo salti, capriole, mosse buffe... E siccome lo cercava perché voleva divertirsi con lui, lo lasciava fare e rideva, rideva!
Un altro giorno, cerca, chiama: Saltacavalla era sparito. Scorrazzava in fondo al giardino, calpestando aiuole, stroncando rami di piante a cui si afferrava con balzi, riducendo tutto strappi il bel vestitino da paggetto, sgualcendo i borzacchini, facendosi beffe dei giardinieri che avrebbero voluto impedirgli di guastare le aiuole, di sciupare le piante... Saltacavalla si arrampicava lesto lesto in cima a un grand'albero e rispondeva impertinentemente:
- Se non viene qui Sua Maestà, non mi movo! Non mi movo!
E manteneva la parola. Ma prima di scendere faceva certe mosse, certe smorfie sempre nuove, che il Re si sbellicava dalle risa, e gli perdonava volentieri l'impertinenza.
Avanti dell'arrivo di Saltacavalla, il palazzo reale era triste, silenzioso come un cimitero. Il Re, oppresso da grave malinconia, viveva solitario, appartato nelle sue stanze, dove, a lunghi intervalli, riceveva i Ministri.
- Maestà, c'è da far questo, c'è da fare quest'altro. Vostra Maestà permetta...
Il Re accennava di sì col capo e non vedeva l'ora di levarseli di torno. I Ministri per ciò facevano quel che a loro pareva e piaceva. Da che il Re era divenuto un altro per virtù di Saltacavaila, spandeva il buon umore per tutto il palazzo e fuori. Si occupava di ogni cosa, e più non lasciava libertà ai Ministri di fare quel che a loro pareva e piaceva. Dava grandi feste, prendeva parte alle pubbliche cerimonie, accordava udienze anche alle più umili persone. E tutti, meno i Ministri, benedicevano Saltacavalla, che aveva operato quel miracolo.
I Ministri si riunirono un giorno segretamente:
- Saltacavalla è il nostro malanno!
- Quando sarà cresciuto con gli anni, il vero Ministro sarà lui.
- Il Re gli vuole così bene, che finirà col dichiararlo suo successore, vedrete!
- Non ci mancherebbe altro! Bisogna dar moglie a Sua Maestà!
- Dite bene, eccellenza!
E la prima volta che furono chiamati a Consiglio, il capo dei Ministri disse:
- Maestà, il popolo desidera l'erede del trono.
- Non sono vecchio, né malaticcio: ho ancora tempo da pensarci.
- Maestà, certe cose è meglio farle presto che tardi.
Picchia oggi, picchia domani, il Re si decise a dir di sì. Appena Saltacavalla seppe che il Re aveva mandato a chiedere in isposa la figlia del Re di Francia, si fece avanti stropicciandosi le mani dall'allegrezza:
- Maestà, il Re di Francia avrà certamente un'altra figlia anche per me.
- Che cosa vorresti farne.
- Oh bella!... Sposarla.
- Sei troppo ragazzo per ora. Bada a crescere. Dopo...
Saltacavalla rimase pensoso, e in tutta la giornata non fece nessuna smorfia da fare ridere il Re.
Maestà, son cresciuto di un giorno!
- È pochino, Saltacavalla.
- Maestà, son cresciuto di otto giorni.
- È poco ancora, Saltacavalla!
Si avvicinava il mese in cui dovevano aver luogo le nozze del Re, e intanto nel palazzo reale non si faceva nessun preparativo.
Il Re, di giorno in giorno, ridiventava di cattivo umore.
- Perché non mi fai ridere più, Saltacavalla?
- Quando non rido io, non deve ridere nessuno.
- E perché tu non ridi più.
- Perché non mi volete dar in moglie una figlia del Re di Francia.
- Bada a crescere... Dopo... Sono già cresciuto di due mesi!
E andava via, triste, a capo chino, più triste di lui.
Venne un ambasciatore del Re di Francia per stabilire, d'accordo, il giorno preciso delle nozze.
- Non sposo più! - rispose il Re.
- Maestà, questo è un affronto; ce ne darete ragione!
Non sposo più; prendetela come volete.
Il Re di Francia la prese malissimo: mandò a intimargli guerra, e invase subito il regno con numeroso esercito.
- Maestà, i nostri soldati sono stati disfatti!
- Mandate un altro esercito incontro al nemico.
Maestà, i nostri soldati sono stati nuovamente disfatti! Mandate un altro esercito!
Si presentò tutt'a un tratto Saltacavalla:
- Maestà, date il comando a me! Vi farò vedere io!
E faceva gesti di menar la sciabola in tondo e di tagliar teste:
- Ziff! Zaff! Ziff! Zaff!
Saltava da un punto all'altro della sala, menando pugni e calci, facendo smorfiacce, cavando la lingua in faccia ai Ministri, e tornando a far finta di sciabolare in tondo, di tagliar teste e d'infilare nemici:
- Ziff! Zaff! Ziff! Zaff!
Il Re cominciò a ridere a ridere... cominciarono a ridere a ridere anche i Ministri, mentre Saltacavalla continuava:
-Ziff! Zaff! Ziff! Zaff!
Tutt'a un tratto il Re disse:
- Saltacavalla sia generalissimo.
- Maestà! Maestà! Con l'esercito nemico non si scherza!
Saltacavalla sia generalissimo!
Di fronte agli ordini del Re, i Ministri non fiatarono più.
- Tanto meglio! -- pensarono.
- È l'unico mezzo di levarci Saltacavalla di torno!
Saltacavalla, tutto ringalluzzito, disse:
- Grazie, Maestà!
E rivolto ai Ministri, con aria spavalda, soggiunse:
- Mi si mandi subito il sarto di Corte!
Il sarto, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò che qualcuno si fosse fatto beffa di lui. E stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re, e gli ordinò di eseguire ,quel che Saltacavalla desiderava.
- Voglio un paio di calzoni con la gamba destra metà bianca e metà nera, e la sinistra metà rossa e metà gialla...
- Sarà obbedito!
- Voglio una divisa metà azzurra e metà verde, con la manica verde dai lato azzurro e la manica azzurra dai lato verde.
- Sarà obbedito!
- Voglio un berretto a spicchi gialli, rossi, verdi, bianchi, azzurri, e un gran gallone d'oro dattorno.
- Sarà obbedito!
- Chiamatemi il calzolaio di Corte.
Il calzolaio, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò anch'esso che qualcuno si fosse fatto beffa di lui, e stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re e gli ordinò di eseguire quel che Saltacavalla desiderava.
- Voglio un paio di borzacchini, quello di destra metà di pelle rossa e metà di pelle gialla; quello di sinistra, metà di pelle bianca e metà di pelle nera.
- Sarà obbedito!
- E che abbiano la punta aguzza, lunga così...
- Sarà obbedito!
Saltacavalla aveva pensato alla divisa, ai calzoni, ai berretto, ai borzacchini, ma né a spada, né a lancia, né ad arma di sorta alcuna. L'esercito era pronto a partire. Saltacavalla aveva già calzato i borzacchini, indossato la divisa, si era messo in capo il berretto a spicchi.
- Dove vai, Saltacavalla?
- Maestà, vado in cucina.
- Per far cosa, Saltacavaila?
- Vado a prendere una padella per scudo e uno spiedo per spada.
- Come ti piace, Saltacavalla.
E si mise a capo dell'esercito con la padella e lo spiedo in ispalla. Cosa strana! Nessuno rideva vedendolo vestito ed armato a quel modo.
Prima di mettersi in marcia, egli disse ai soldati:
- Quando darò un colpo sul fondo della padella, voi dovete fermarvi; quando ne darò due, precipitatevi all'assalto; quando ne darò tre, cessate di combattere. Chi non mi obbedisce, peggio per lui.
Cammina, cammina, arrivarono in faccia al nemico. Saltacavalla diè un colpo sul fondo della padella, e i suoi soldati si fermarono. Egli invece andò avanti con certe mosse così buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, al suo solito, che i nemici cominciarono a ridere, a ridere, a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra...
Allora Saltacavalla dà due colpi sui fondo della padella
tan! tan! - e i suoi soldati si precipitano all'assalto e fanno strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza.
Quando Saltacavaila diè i tre colpi:
tan! tan! tan! dei soldati nemici non ne rimaneva vivo neppure uno.
Ma essi erano l'avanguardia. Saltacavalla ordinò di rimettersi in marcia, e, dopo poche ore di cammino, ecco il grosso dell'esercito nemico che non s'aspettava di vedersi arrivare addosso l'avversario.
Tan!
E i soldati di Saltacavalla si fermarono. E lui si fece avanti con mosse buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua a riprese. E i nemici lo guardano stupiti e poi cominciano a ridere a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra...
Tan! tan!
I soldati di Saltacavalla si precipitano all'assalto, e fanno un'altra strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza.
Tan! tan! tan!
Rimanevano appena un centinaio di uomini che Saltacavalla voleva far prigionieri, e condurli, legati a due a due, al cospetto del suo Re. Ma parecchi dei suoi, inebriati dalla vittoria, non cessarono di combattere dopo i tre colpi, e n'ebbero la peggio. Quell'ultimo centinaio di uomini non rise più, si diè a menar le mani, e fece pagar cara la disobbedienza a coloro.
Dovette intervenire Saltacavalla, e fece prodigi di valore. Accoppava con la padella, infilzava con lo spiedo, e in pochi minuti di quel centinaio di nemici non ne rimaneva in piedi neppure uno. Quando si sparse la notizia che Saltacavalla tornava vittorioso, il popolo si rovesciò per le vie, e migliaia di persone gli uscirono incontro fuori le porte della città.
Il Re gongolava dalla gioia; ma i Ministri, diventati in viso più verdi di limoni, doverono fingere letizia. Se, col ritorno di Saltacavalla sano e salvo, Sua Maestà riprendeva a ridere e a star di buon umore, la loro cuccagna era finita!
Affacciati a un balcone del palazzo reale, ai lati di Sua Maestà, essi si stupivano di non sentire applausi o gridi di evviva ma un rumore indefinibile che diveniva più forte, di mano in mano che pareva si venisse accostando.
Erano risate. Alla vista di Saltacavalla, vestito e armato a quel modo, che, dall'alto del suo cavallo di generalissimo, faceva smorfie, stralunava gli occhi, allungava le labbra, cacciava fuori la lingua, e dondolava la testa come un burattino, per ringraziare della festosa accoglienza, il popolo aveva dovuto cessare di applaudire, e rideva, rideva, rideva; e l'onda della risata si propagava rumorosa di mano in mano che Saltacavalla si avanzava alla testa dell'esercito vittorioso. Al clamore delle risate del popolo sotto il palazzo reale si unì ben tosto lo scoppio di quelle del Re e dei Ministri.
I Ministri, specialmente, si contorcevano, si davano gomitate e spintoni, si buttavano gli uni addosso agli altri, senza punto riguardo alla presenza del Re.
Il Re rideva, si, ma non con quella violenza. I Ministri erano diventati paonazzi in viso, non ne potevano più, soffocavano, e, rientrati nel salone, si buttarono per terra, rotolandosi in convulsioni di risa, poi giacquero. Erano morti!
Il Re, paventando che accadesse qualcosa di simile tra la folla, scese incontro a Saltacavalla, che saltò giù di sella, gli depose ai piedi la padella e lo spiedo, e piegò un ginocchio, ma con un gesto così buffo, che le risate della gente raddoppiarono.
- Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Vuoi tu farli morire dalle risa, come sono morti i Ministri?
- Ah! - fece Saltacavalla. - Poverini! Poverini!
E finse di scoppiare in pianto dirotto.
Allora, in un attimo, tutta la folla stipata davanti al palazzo reale passò dal riso al pianto. Si udivano singhiozzi ed esclamazioni:
- Poverini! Poverini! - E le lacrime venivano giù a torrenti. Scoppiò a piangere anche il Re.
-Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re.
Saltacavalla fece un gesto di stizza.
- Basta, se faccio ridere!... Basta, se faccio piangere! Il meglio è che me ne vada!
- No, Saltacavalla! No!
Ma il Re ebbe un bel gridare - No! No! -
Saltacavalla, in quattro salti, era già sparito.
Il Re capì troppo tardi che quel pianto era anche esso una specie di risata.
Attese, attese che Saltacavalla ritornasse; ma Saltacavalla non si fece più vedere.
Il Re mandò a chiamare i carbonai marito e moglie che vivevano tranquillamente nell'appartamento a pian terreno, loro assegnato:
- Sapete niente di vostro figlio?
Quei due credettero che Saltacavalla avesse fatto qualche cattiva azione e che il Re volesse prendersela con loro.
- Maestà, perdono!... - disse il marito. - Ma Saltacavalla non era nostro figlio! Io lo trovai un giorno tra l'erba su l'orlo di un fosso, e lo facemmo allattare da una capra!
- Era involtato - soggiunse la moglie - in pannilini finissimi, orlati di trine.
Il Re volle vederli. Non aveva mai visto niente di così fine e di così bello. Ma non poté capire altro.
E nessuno ha mai saputo chi era Saltacavalla, e da quel giorno in poi non se n'è avuto più notizia! Peccato! Se tornasse ora che si ride tanto di rado

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Il sale

Post n°764 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

n una bellissima città della Russia viveva un tempo un ricco mercante che aveva tre figlioli: Fedor, Vassilij e Ivan. I primi due erano abili e svelti negli affari, ma il minore non rivelava alcuna inclinazione per questo genere di attività, perciò il padre aveva ben poca stima di lui, e i fratelli ancor meno.
Un giorno il vecchio mercante chiamò i due figli maggiori e disse:
- E' tempo che mi diate un aiuto e dimostriate che cosa sapete fare. Ho allestito per voi due navi cariche di mercanzie preziose: tappeti, pellicce, essenze odorose, legni pregiati. Fate vela per qualche porto lontano e commerciate: vedrò, al vostro ritorno, chi di voi due avrà saputo far fruttare meglio la sua ricchezza. Vi do un anno di tempo.
I due fratelli furono contentissimi e si prepararono a partire; ma il terzo, poiché non gli era stato affidato alcun incarico, incominciò a lamentarsi:
- Padre mio, perché mai non avete fatto allestire una nave anche per me?
- Perché tu non hai il bernoccolo degli affari. Sciuperesti la roba e torneresti a mani vuote.
- Forse no! Lasciatemi provare, come i miei fratelli.
Ivan tanto pregò e supplicò che finalmente il padre si decise ad affidargli una nave; ma non volendo metter in gioco mercanzie rare, convinto di non rivederle più, fece caricare la nave di pali, assi e tavole di legno di infimo valore.
Così anche Ivan poté partire e il vento gli fu tanto favorevole che in tre giorni raggiunse i suoi fratelli. Veleggiarono per un po' l'uno dietro l'altro, ma a un tratto li colse una burrasca che sconvolse il mare e scatenò un vento furioso: le tre navi si dispersero, e quando ritornò il sereno, Ivan si accorse di essere rimasto solo.
Senza sgomentarsi, il giovane continuò il suo viaggio, e dopo qualche tempo approdò a un'isola sconosciuta. "Chissà che non possa fare buoni affari, qui?" pensò; e scese a terra accompagnato dai marinai. Ma l'isola sembrava deserta e non si vedeva in giro né una capanna né un uomo.
La spiaggia, tutta la terra e anche un'alta montagna erano ricoperte di una polvere bianca e scintillante. "Forse sbaglio, ma questo è sale" pensò Ivan. Ne raccolse un pizzico e l'assaggiò. Era sale davvero, e il giovane, assai contento pensando ai guadagni che avrebbe potuto ricavarne, ordinò:
- Gettate in acqua assi e pali e fate, invece, un carico di sale.
Così fu fatto; il bastimento riprese il mare e veleggiò per molto tempo fino a quando giunse al porto di una grande e ricca città. Sceso a terra, Ivan seppe che proprio in quel luogo viveva lo zar. Allora, dopo aver riempito un sacchetto di sale, si fece indicare il palazzo reale e chiese di essere ricevuto.
- Che cosa vuoi straniero? - gli chiese lo zar - Vedo che arrivi da lontano: hai qualcosa da mostrarmi?
- Maestà, io vendo sale - rispose Ivan - vorrei venderne a voi e a tutti gli abitanti della città.
- Sale? Non so cosa sia. Mostrami questa tua strana merce.
Subito il giovane aprì il sacchetto, ma il sovrano scoppiò a ridere:
- Questa è soltanto sabbia molto bianca! Mi dispiace per te, straniero, ma da noi questa roba non si vende: si regala! Vattene in pace e torna soltanto quando potrai mostrarmi qualcosa di meglio.
Ivan uscì dal palazzo molto deluso, e pensò "Aveva ragione mio padre: ho fatto soltanto un cattivo affare! Tuttavia voglio entrare nelle cucine reali per vedere che specie di sale mettono nelle vivande". Si presentò al capocuoco e chiese di potersi sedere accanto al fuoco per riscaldarsi e riposare.
- Entra, fratello, e riposati quanto vuoi - rispose il capocuoco, e Ivan, dalla sua panca, poté osservare il personale di cucina che preparava le pietanze dello zar.
Chi manipolava la pasta, chi rimestava, chi puliva i pesci, che faceva rosolare l'arrosto: cuochi e cuoche aggiungevano nelle vivande erbe aromatiche e spezie di ogni genere: ma di sale neanche l'ombra. Quando il pranzo fu pronto, tutti uscirono per imbandire la mensa, e Ivan, rimasto solo, aperse il suo sacchetto e gettò rapidamente un pizzico di sale nelle pentole e nei tegami. Poi sgattaiolò fuori e tornò alla sua nave. Quel giorno, a tavola, lo zar ebbe una serie di sorprese: la minestra era squisita, il pesce aveva un sapore delicato e persino il dolce era più buono del solito. Allora chiamò i cuochi.
- E' la prima volta che assaggio cibi così gustosi! Come li avete cucinati?
- Come al solito, maestà - risposero i cuochi - Non riusciamo a capire neppure noi perché oggi il pranzo sia riuscito così bene.
- Però - esclamò ad un tratto il capocuoco - in cucina c'era uno straniero, che, adesso, è tornato alla sua nave. Forse egli ne sa qualcosa.
- Venga subito alla mia presenza - comandò lo zar; e non appena Ivan si presentò, gli chiese con voce irata:
- Che cosa hai aggiunto nelle mie vivande?
Ivan si gettò in ginocchio: - Perdonatemi, maestà: ho messo nei cibi un pizzico di sale. Dalle nostre parti si usa così.
- E' meraviglioso! - esclamò lo zar - Comprerò io, tutto il tuo sale. Quanto chiedi?
- Poco: per ogni misura di sale, voglio una misura d'oro e una misura d'argento.
- E' un prezzo conveniente. Fa scaricare la nave mentre io preparerò il compenso.
Così fu fatto. Per scaricare il sale occorsero tre giorni, e altrettanti per caricare l'oro e l'argento. La stiva fu tanto piena che non ne sarebbe entrato un grammo di più. Il giovane Ivan era già pronto a spiegare le vele, quando al porto giunse la figlia dello zar accompagnata dalle damigelle.
- Straniero, non ho mai visitato una nave - disse la fanciulla - posso veder questa?
Ivan fu ben contento di fare da guida alla bella principessa, ma mentre la conduceva sul ponte, il cielo si oscurò e sul mare scoppiò una violenta burrasca. Trascinata dal vento, la nave ruppe gli ormeggi e fu spinta a tale distanza che quando ritornò il sereno, la terra non si vedeva più.
La principessa si mise a piangere, e Ivan cercò di consolarla:
- E' il destino che vuole così: ti farò conoscere il mio paese, e se vorrai ci sposeremo.
Ivan era un bel giovane: la principessa sorrise.
Il viaggio continuò allegramente, e dopo molti giorni furono avvistate altre due navi. Erano i fratelli di Ivan che facevano ritorno in patria. Ivan li salutò con gioia, e ingenuo e semplice com'era, presentò loro la bella principessa e mostrò le sue ricchezze, convinto che i fratelli ne avrebbero gioito con lui.
Ma i fratelli invece divennero verdi per l'invidia e il dispetto e guardarono il giovane con occhi cattivi: poi presero a confabulare tra loro.
Quella notte, mentre Ivan dormiva, Vassilij e Fedor lo afferrarono e lo gettarono in mare. Poi comandarono minacciosamente alla principessa di non fiatare e ripresero il viaggio verso casa.
Intanto Ivan, toccato il fondo marino, era svenuto. Quando riaperse gli occhi si trovò seduto sopra uno scoglio, vicino a un gigante che toccava il fondo del mare con i piedi, e usciva dall'acqua fino ai gomiti.
- Ti ho salvato io - spiegò il gigante che aveva i baffi lunghi due metri - e se vuoi sapere anche il resto, ti dirò che la tua principessa sposerà Fedor, mentre Vassilij si prenderà le tue ricchezze.
- Ti prego - implorò Ivan - fammi ritornare a casa! Aiutami!
- Avrei voluto tenerti con me - borbottò il gigante - ma non sarebbe stato giusto. Perciò ti accompagnerò a casa, ma, prima di lasciarti andare vorrei che tu rispondessi a questa domanda: qual è la cosa più preziosa che ci sia in terra e in mare?
- Il sale - rispose Ivan.
Allora il gigante si mise il giovane sulle spalle, e lo trasportò fino alla soglia di casa: poi scomparve. Ivan fece per entrare quando udì suo padre che diceva:
- Siete stati molto bravi, figli miei! Ma dove sarà finito Ivan?
- Nella taverna di qualche porto - risero i fratelli.
In quel momento Ivan spalancò la porta. La principessa lo vide e gli corse incontro, buttandogli le braccia al collo. Il padre guardò i figli maggiori e chiese tutto sorpreso:
- Che cosa significa questo?
Ma i figli non diedero spiegazioni: balzarono fuori dall'uscio e corsero fino alle navi, spiegarono le vele e si allontanarono al più presto.
Ivan e la bella principessa si sposarono e vissero felici per moltissimi anni.

di Hans Christian Andersen

ti è piaciuta? scrivimi
 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Fine maggio di un pazzo

Post n°763 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ladislao Robustiniani, pazzo tranquillo. La sua vita è stata un continuo prendere posizione di fronte a se stesso, un tormento di squadrare il suo spirito, scinderlo nei suoi elementi, analizzarlo, disegnarlo a linee rette e linee curve, trovarne il principio, il mezzo, la fine.
L'hanno ritirato in questa piccola casa di salute provinciale da cui si può ammirare il lago Maggiore, il grande Verbano dalle acque azzurre, come uno specchio ove il tempo abbia scavato rughe e solchi mutabili.
Pazzo tranquillo. Alto, magro, lo sguardo assente e la smorfia cinica. Attraverso i suoi calcoli è venuto alla convinzione d'essere Dio, l'Alfa e l'Omega di cui parla Giovanni nell'Apocalisse.
Questa è l'ultima sera di maggio: le nubi distendono fantasie bizzarre sui monti bruni ed illimitati.
Ladislao Robustiniani sta seduto sulla terrazza belvedere. Guarda malinconicamente il lago tranquillo e le policromie del tramonto.
Gli sembra che il sole stia per precipitare in un mare di sangue, rosso dell'orgia d'un popolo oltreumano che beva l'oblio della notte.
Guarda le bizzarre nubi che si raccolgono meste attorno al sole.
Fin da ragazzo Ladislao Robustiniani ha avuto una mania geometrica delle posizioni chiare, delineate, sicure, che si potessero abbracciare d'un colpo solo.
Avvertiva nella sua anima un tumulto di aspirazioni e di passioni che lo trascinava e gli dava quasi un senso di sgomento. Sentiva in sé qualche cosa di cui aveva paura, che gli sfuggiva, che non rientrava nel suo sguardo di osservazione. Si ripiegava su se stesso, si studiava, si diceva:
«lo sono così, così e così!».
Con frenesia. Con ira. Voleva scoprire tutto se stesso ai propri occhi: poter esprimere la propria essenza, con una frase sola. Gli pareva, a volte, di conoscersi molto bene e di avere ciononostante una opinione errata di se stesso.
Sentiva in sé un secondo essere, un paradossale doppio-io su cui con curiosità e con avidità sperimentava la sua psicologia geometrica.
Professore di matematica in una scuola milanese, stimato assai dai colleghi per la chiarezza delle sue sintesi e delle sue risposte a teoremi complicati; e l'immenso desiderio di conoscersi, crebbe in lui spaventosamente.
La follia incominciò sui venticinque anni.
Vegliava le notti intere, la testa fra le mani, cercando la proposizione che gli desse in modo esatto ed elementare il suo tormento d'uomo.
S'era innamorato d'una giovane donna di dubbia moralità e studiava il suo amore come un anatomico studia il suo pezzo.
Tormento delle piccole cose; rimorso di desideri soddisfatti e di piaceri ottenuti; rabbioso lavoro pel pane quotidiano; continuo contatto con l'umanità che gli pareva stupida ed equivoca.
Ma sotto tutto questo egli sentiva qualche cosa di diverso, d'indefinito, d'indefinibile, d'infinito. Si sorprendeva talvolta a meditare su linee rette tracciate a caso o su un calamaio rovesciato.
Ebbe paura dell'incipiente follia. Divenne strano e cupo. L'anormalità del suo contegno lo fece oggetto di sospetti e di leggende. Si diceva che avesse ucciso, che il suo passato fosse una tragedia continuata: lo si guardava come si guardano i geni o i pazzi.
Tuttavia a trent'anni si sposò. A trentuno ebbe dalla donna sua un figlio che chiamò Giovanni, dal nome del profeta di Patmos di cui conosceva il libro a memoria, di cui leggeva le pagine fremendo ed esaltandosi.
Avrebbe potuto rinascere alla semplicità in quel piccolo fardello di carne che gli veniva di lontano. Avrebbe potuto annientarsi in quella vita nuova: invece con la nascita di Giovanni si fece più cupo e selvatico. Considerò per un anno se avesse fatto bene o male a mettere al mondo il ragazzo. Ora due elementi nuovi d'ignoto erano entrati nella sua anima: la donna ed il bimbo. Egli si sentiva ora triplice: uomo, marito, padre.
Ebbe fretta di tirare delle conclusioni. Per semplificare le cose, le confuse, le ingrandì, le spinse ai limiti. Ora non sapeva più nemmeno a che cosa pensasse.
Ben presto la sua passione per la moglie si spense. Si separarono tranquillamente, la donna tenne con sé Giovanni.
Cos'era ormai, del resto, Giovanni per lui? Carne. Non anima. Come poteva aver dato vita ad un'anima egli che non sapeva definire la propria?
Si sentì più libero quando fu solo.
Pensò che se indefinibile era la sua anima, essa non esisteva. Od era qualche cosa di più di un'anima umana: Dio?
La lenta evoluzione della sua follia lo portava ormai a considerarsi diverso, sostanzialmente dal resto dell'umanità.
Matematicamente doveva concludere d'essere Dio.
Lo scoperse una notte che dopo lunghe ore di meditazione aveva tracciato inconsciamente una retta.
La fissò, stupefatto come se non avesse fatto altro che tracciar rette e curve nella sua vita.
La fissò impaurito come davanti a qualche cosa di misterioso, d'inconcepibile, d'assoluto. Questo egli era dunque! Una linea retta, senza principio né fine, di cui né le sue meditazioni avevano potuto fissare le dimensioni, né l'amor famigliare era riuscito a fare un cerchio chiuso senza espansioni: Dio! «L'Alfa e l'Omega» dell'Apocalisse, «il principio e la fine Colui che è, che era e che ha da venire, l'Onnipotente».
Nel delirio si alzò, si guardò le mani, sfissò nello specchio gli occhi sbarrati come l'ultima luce nel l'abisso della morte, mormorando: «Dio!... Dio!». Poi cadde pazzo per sempre.
Il pazzo contempla il crepuscolo. Vaghe ombre si sono abbassate sul lago, sui villaggi, sui monti bruni ed illimitati.
Nel suo cuore vaga stasera un desiderio, indefinibile, perché ormai il suo destino è di non potersi più definire. Uno sconfinato desiderio nuovo. Egli sta seduto, osservando con lo sguardo melanconico.
Ha quarant'anni e ne dimostra sessanta.
La sua melanconia è tragica. Lo divora senza ch'egli se ne possa rendere conto.
Ora sale dalla vallata vicina un lento rintoccare di campane. I villaggi cantano in quelle pure voci di bronzo la loro pace feconda.
Giungono quassù profumi d'incenso ed echi di canti.
L'ultima sera di maggio il popolo si raduna nelle chiese a cantare le glorie di Maria. Dicono le litanie e suonano le campane. Un patriarcale inno d'amore sale da tutte le valli a questo pazzo tranquillo che ascolta le voci della sera.
Egli si scuote. Aveva forse bisogno della dolcezza inesprimibile di questo suono? …Don…don…don.
Egli che non ha amato mai nessuno all'infuori di se stesso. È forse questa la sua colpa? Non avere amato e sentire il bisogno dell'amore nel fondo dell'anima.
Si scuote. Si lascia cullare a lungo da questa musi­ca che gli potrebbe richiamare la prima - Ave Maria! - e non gli può richiamare più nulla, ma lo culla e lo accarezza come una mano stanca.
Quando le campane tacciono e l'infermiere, venu­to tacitamente a farlo rientrare, gli posa una mano sulla spalla e si china piano piano su di lui, nei suoi occhi è una lacrima.
La prima.
L'ultima.
Domani Ladislao Robustiniani tornerà a credere d'avere creato Adamo, Napoleone e Dante.

Illustrazione di Marilena Maglio


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

No non è una parola (Teasdale)

Post n°762 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Oh no che non è una parola,
ben poco da dire ci resta:
e non è nemmeno una sola
occhiata, né un cenno di testa.
È solo un silenzio del cuore
che ha un carico troppo pesante,
è solo il risveglio di tante
memorie dal tenue sopore.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Libri dimenticati:Disonora il padre

Post n°761 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Romanzo autobiografico di Enzo Biagi,da leggere

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Frase del giorno

Post n°760 pubblicato il 18 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Una volta arrivati alla greppia tutti mangiano (Mia nonna riferendosi ai politici)

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

Archivio messaggi

 
 << Settembre 2011 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
      1 2 3 4
5 6 7 8 9 10 11
12 13 14 15 16 17 18
19 20 21 22 23 24 25
26 27 28 29 30    
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 4
 

Ultime visite al Blog

giovirocSOCRATE85comagiusdott.marino.parodisgnudidavidamoreeva0012lutorrelliDUCEtipregotornacrescenzopinadiamond770cdilas0RosaDiMaggioSpinosamaurinofitnessAppaliumador
 

Ultimi commenti

Ciao, serena serata
Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
 
Ciao per passare le tue vacanze vi consigliamo Lampedusa...
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
 
Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
 
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
 
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963