Messaggi del 19/09/2011

I sette colombini

Post n°781 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta nel paese di Arzano una buona donna, che ogni anno partoriva un figlio maschio, e ne aveva già sette, così belli che quando si mettevano in fila sembravano le canne del flauto di Pan. Quando anche il settimo cominciò a bere il vino, quella donna rimase incinta per l'ottava volta, e i fratelli le dissero:
"Devi sapere, cara mamma, che se dopo tanti maschi non fai una femmina noi siamo proprio decisi a lasciare questa casa e a viaggiare per il mondo, soli e spersi".
La mamma, sentendoli parlare così, pregava il Cielo che levasse questa idea dalla loro testa, per non levare a lei i suoi sette tesori.
Quando venne il giorno del parto, i figli dissero:
"Noi ora ce ne andiamo su quella collina là davanti; se ti nasce un maschio metti sulla finestra una penna e un calamaio, se fai una femmina mettici un cucchiaio e una conocchia, perché se vedremo il segno della femmina torneremo a casa e resteremo accanto a te tutta la vita, ma se vediamo il segno del maschio ti puoi anche dimenticare di noi, perché non saremo più figli di nessuno".
Poco dopo, come il Cielo volle, la donna partorì una bella femminuccia, e disse alla levatrice di darne il segno ai fratelli, ma quella fu così rintronata e distratta che ci mise penna e calamaio.
Avendo visto questo segno i sette fratelli si misero per via e camminarono tanto che arrivarono dopo tre anni in un bosco fitto senza sentieri, dentro il quale c'era la casa di un orco. All'orco mentre era addormentato erano stati rubati gli occhi da una femmina, e per questo era tanto nemico di questo sesso che quante gliene capitavano, tante ne mangiava.
I fratelli, stanchi per il lungo cammino e indeboliti per la fame, gli chiesero se per carità poteva dar loro un boccone di pane. L'orco rispose che gli avrebbe dato anche da vivere se volevano servirlo, e non avrebbero avuto altro da fare che guidarlo un giorno per ciascuno, portandolo come un cagnolino. Sentendo questo ai giovani sembrò di aver trovato mamma e babbo, e dopo essersi messi d'accordo restarono a servizio dall'orco, che avendo imparato a mente i loro nomi ora chiamava Giannino, ora Cecco, ora Pino, ora Nuccio, ora Peppe, ora Ciccio e ora Tino, perché questi erano i nomi dei fratelli, e li manteneva e li faceva vivere.
Dopo che era passato molto tempo la loro sorella era cresciuta, e avendo sentito dire che i suoi sette fratelli per una distrazione della levatrice erano andati in giro per il mondo e non se ne era saputo più nulla, sentì un desiderio irresistibile di andarli a cercare, e tanto fece e tanto disse che la mamma, confusa da tutte le sue preghiere, la vestì da pellegrina e la lasciò andare.

E lei, cammina e cammina, domandando sempre a tutti quelli che incontrava se avevano visto sette fratelli, viaggiò in tanti paesi che alla fine in una locanda le dissero di sì, e lei si fece insegnare la strada per quel bosco. Così una mattina arrivò alla casa dell'orco, dove si fece riconoscere e abbracciò i suoi fratelli, che maledirono il calamaio e la penna che erano stati causa della loro disgrazia. E dopo averle fatto tante carezze, le raccomandarono di non uscire mai dalla loro camera, perché non la vedesse l'orco, e oltre a questo dissero:
"Sta' ben attenta, nella camera c'è una gatta, e tutte le volte che avrai in mano una cosa da mangiare devi dargliene mezza, se non vuoi che ti combini un brutto guaio".
Nina, così si chiamava la sorella, si impresse nel cuore questi consigli, e quello che aveva lo divideva con la gatta come si fa con una buona amica, tagliando tutto in due parti uguali e dicendo:

questo a me,
questo a te,
questo alla
figlia del re,

le dava la sua parte fino all'ultimo bocconcino.
Dopo un po' di tempo successe che i fratelli andarono a caccia per conto dell'orco, lasciandole un panierino di ceci da cuocere. Disgraziatamente mentre li sceglieva ci trovò una nocciola, che causò la fine della sua pace, perché appena se la mise in bocca senza darne mezza alla gatta, quella per dispetto corse sul camino e fece tanta pipì sul fuoco che lo spense. Nina vedendo cos'era successo non sapeva come fare, così uscì dalla camera, entrò nell'appartamento dell'orco e chiese un po' di fuoco.
L'orco, appena sentì la voce di una femmina, gridò:
"Vieni vieni, che te lo do io! aspetta un po' che hai trovato proprio quello che ti ci vuole!", e così dicendo prese l'affilacoltelli e cominciò ad affilarsi le zanne.
Appena Nina vide questo terribile spettacolo, raccolse un tizzone ardente, scappò nella sua stanza e si barricò dietro la porta, puntellandola con pezzi di legno, seggiole, comodini, cassette, pietre e tutto quello che trovava.
L'orco, appena si fu affilato i denti, corse alla sua porta e, trovandola chiusa, cominciò a prenderla a calci per sfondarla. A questo fracasso accorsero i fratelli e videro questo macello con l'orco che li accusava di essere sette traditori, perché quella stanza era diventata il rifugio delle sue nemiche mortali. Giannino, che era il maggiore e aveva più cervello degli altri, visto che la cosa si metteva male, disse all'orco:
"Noi non ne sappiamo nulla di questa faccenda, può darsi che questa maledetta femmina sia entrata per caso nella stanza mentre noi eravamo a caccia. Ma siccome si è barricata dentro, vieni con me, che ti porto in un posto da dove possiamo passare per saltarle addosso senza che si possa difendere".
Così, preso per mano l'orco, lo portò sull'orlo di un fosso molto profondo, e dandogli una spinta lo fece cascare di sotto, poi i sette fratelli presero una pala che era lì vicino e lo coprirono di terra. Allora si fecero aprire da Nina e la sgridarono bene bene per l'errore che aveva fatto e il pericolo in cui si era messa, dicendo che in futuro doveva avere più cervello e stare ben attenta a non cogliere mai nulla intorno a quel posto dov'era sotterrato l'orco, sennò si sarebbero trasformati in colombini.
"Il Cielo non voglia!", disse Nina, "che io vi faccia tanto male!".
E così, preso possesso della casa e di tutta la roba dell'orco, vivevano allegramente aspettando che passasse l'inverno, perché quando la terra sarebbe tornata a fiorire avrebbero potuto finalmente mettersi in cammino per tornare ad Arzano.
Dopo un po' di tempo successe che, mentre i fratelli erano andati in montagna a far legna per difendersi dal freddo che aumentava di giorno in giorno, arrivò in quel bosco un vecchio pellegrino che piangeva a vita tagliata, perché un gatto mammone che aveva svegliato per sbaglio gli aveva tirato in capo una pigna. Nina sentendo il pianto uscì di casa, e avendo pietà del povero pellegrino andò a cogliere una bella rama di rosmarino da un cespuglio che era cresciuto sulla fossa dell'orco, e col pane biascicato e il sale gli preparò un impiastro per il bernoccolo, poi gli diede qualcosa da mangiare e lo rimandò per la sua strada.
Ma quando apparecchiava la tavola per i suoi fratelli, vide arrivare sette colombini, che dissero:
"Oh, se ti si fossero spezzate le mani prima che cogliessi quel rosmarino maledetto! O principio di tutte le nostre disgrazie, che ci fai volare sulla marina! Hai perso il cervello per trascurare il nostro avvertimento? Eccoci trasformati in uccelli, soggetti agli artigli del falco, dello sparviero e dell'astore, eccoci compagni di capinere, pivieri, cardellini, cinciallegre, fringuelli, pigliamosche, picchi, quaglie, lucherini, rigogoli e pavoncelle! L'hai fatta bella! Ora torniamo ad Arzano, per finire nelle reti e nelle panie dei cacciatori! Per accomodare il capo a un pellegrino hai disfatto i corpi dei tuoi sette fratelli, e non c'è nessun modo per rompere questo incantesimo, a meno che tu non trovi la mamma del Tempo, che ti insegni il modo per farci uscire da questa disperazione".
Nina aveva la pelle d'oca e le si erano rizzati tutti i peli per l'errore che aveva fatto, chiese perdono ai fratelli e promise che sarebbe andata per tutto il mondo finché non avesse trovato dove stava questa vecchia. E pregandoli di restare sempre in casa perché non incappassero in qualche disgrazia fino a che non tornava, si mise per via, e cammina cammina andava senza stancarsi mai, perché nonostante andasse sempre a piedi il desiderio di salvare i suoi fratelli le faceva fare più strada che se avesse avuto un cavallo.

Finalmente arrivò a una spiaggia, dove le onde battevano incessantemente gli scogli, vide una grande balena, che le domandò:
"Bella fanciulla, che stai facendo?".
Nina rispose: "Sto cercando la casa della mamma del Tempo".
"Sai come fare?" le disse la balena, "va' sempre a diritto per questa marina, e al primo fiume che trovi risali il suo corso, poi troverai chi ti indicherà il cammino; ma ti prego, quando incontrerai questa buona vecchia chiedile per piacere da parte mia se mi insegna un rimedio per nuotare tranquilla senza sbattere sugli scogli e senza finire tante volte sulla spiaggia".
"Lascia fare a me", disse Nina, e ringraziandola per la via che le aveva indicato si mise a camminare di buon passo su quella spiaggia, e dopo aver tanto camminato arrivò al fiume che si buttava nel mare e cominciò a risalirlo. Giunse in una bella campagna verdeggiante e trapunta di fiori, dove trovò un topo che le chiese:
"Dove vai sola sola, bella fanciulla?".
Nina rispose: "Cerco la mamma del Tempo".
"Hai una strada lunghissima da fare," disse allora il topo, "ma non ti perdere d'animo, tutto finisce prima o poi: cammina pure verso quelle montagne, che sovrastano questa campagna con le loro altezze, e avrai migliori indicazioni per la via. Ma fammi un piacere: quando avrai raggiunto quello che cerchi, fatti dire da questa buona vecchietta che rimedio possiamo trovare noi topi per liberarci dalla tirannia del gatto, e poi chiedimi quello che vuoi, perché ti obbedirò a puntino".
Nina, dopo aver promesso di accontentarlo, s'incamminò verso le montagne, che per quanto sembrassero vicine non si raggiungevano mai, eppure in qualche modo riuscì ad arrivarci, e si sedette su una pietra perché era stanchissima. Allora vide un esercito di formiche che trasportavano una grande provvista di grano.
Una formica chiese a Nina: "Chi sei? e dove vai?", e Nina, che era gentile con tutti, le disse:
"Io sono una sfortunata fanciulla, e per una cosa che mi sta molto a cuore cerco la casa della mamma del Tempo".
"Cammina, va' più avanti," disse la formica, "che dove le montagne si aprono in una vasta pianura te ne sarà data notizia. Ma fammi un gran piacere, vedi se ti riesce sapere da questa vecchia cosa possiamo fare noi formiche per vivere un po' di più, perché mi pare una gran pazzia della Natura farci accumulare tante provviste di roba da mangiare per una vita così corta, che quando si potrebbe vivere bene si spenge come una candela al primo soffio di vento".
"Sta' tranquilla," disse Nina, "che voglio restituirti il piacere che mi hai fatto", e cammina cammina attraversò quelle montagne, poi si trovò in una bella pianura, e dopo aver fatto tanta strada trovò una quercia immensa, testimone delle epoche antiche, quando forniva la dolce ricompensa della gloria, che raramente si ottiene in questi tristi tempi.
La quercia con labbra di scorza e lingua di midollo chiese a Nina: "Dove vai così affannata, fanciulla mia? vieni sotto la mia ombra e riposati!".
E lei dicendole 'mille grazie' si scusò perché andava di fretta a trovare la mamma del Tempo.
Sentendo questo la quercia le disse: "Ne sei tanto poco lontana che prima di aver camminato una giornata intera vedrai su una montagna una casa, dove troverai quello che cerchi; ma se tu sei gentile quanto sei bella, cerca di sapere cosa potrei fare per recuperare l'onore perduto, perché da corona per i grandi uomini sono ridotta a cibo per i porci".
"Lascia questo pensiero a Nina," rispose lei, "che cercherò di accontentarti". E dopo aver detto queste parole partì, e camminando senza mai fermarsi a riposare arrivò ai piedi di una ripida montagna, che con la cima andava a toccare le nuvole, dove trovò un vecchietto che, stanco per il cammino, si era buttato su un mucchio di fieno. E lui, vedendo Nina, riconobbe subito la fanciulla che gli aveva medicato il bernoccolo, e dopo aver saputo cosa stava cercando, le disse che lui era venuto a pagare il suo debito al Tempo, che è un tiranno e domina tutte le cose del mondo, e da tutti riscuote una tassa, specialmente dagli uomini vecchi come lui. E siccome Nina gli aveva fatto un piacere, voleva renderglielo moltiplicato per cento, dandole qualche buon consiglio su come salire sulla cima, dove gli dispiaceva non poterla accompagnare, perché la sua età, più adatta per scendere che per salire, lo costringeva a restare alla falde della montagna per fare i conti con i segretari del tempo, che sono le vicissitudini, i dispiaceri e i dolori della vita, e pagare il debito alla Natura.
Allora le disse: "Ora ascoltami bene, bella fanciulla mia senza peccato, devi sapere come e in che modo sulla cima di quella montagna troverai un rudere di casa, che non si può sapere quando fu costruita, larghe crepe traversano le sue mura, le fondamenta sono marce, le porte divorate dai tarli, i mobili ammuffiti, tutto è consumato e distrutto: di qua vedi colonne spezzate, di là statue mutilate, l'unica cosa intera è uno stemma scolpito sul portone, che rappresenta un serpente che si morde la coda, un cervo, un corvo e una fenice, che come sai è quell'uccello meraviglioso che rinasce dalle sue ceneri. Appena entrata vedrai sparse per terra lime sorde, seghe, falci, cesoie e cento e cento pentolini di cenere, sui quali sono scritti i nomi come sui vasi degli speziali, dove si legge: Corinto, Sagunto, Cartagine, Troia e mille altri nomi di città morte e scomparse, il Tempo ne conserva le ceneri per ricordo delle sue imprese. Ora, appena sei vicino a questa casa nasconditi da qualche parte finché non esce il Tempo, e appena lui è uscito tu entri. Là troverai una donna così vecchia che con la barba tocca terra e con la gobba arriva al cielo, i capelli come la coda del cavallo storno le coprono i talloni, la faccia sembra un collare pieghettato e inteccherito per l'amido degli anni; sta sempre seduta su un orologio infilato nel muro, e siccome ha le palpebre tanto grandi e pesanti che le chiudono gli occhi, non ti potrà vedere. Appena sei entrata leva i contrappesi all'orologio e poi chiama la vecchia e pregala di soddisfare le tue richieste: lei si metterà a chiamare suo figlio perché venga subito a mangiarti, ma siccome all'orologio sotto di lei mancano i contrappesi, il Tempo non potrà camminare, e così sarà costretta a darti quello che chiedi. Ma non credere a nessun giuramento che ti farà, finché non giura per le ali di suo figlio: allora credile e fa' quello che ti dice, che sarai contenta".
Dette queste parole il poverello si dissolse come un corpo in un sepolcro quando vede la luce dell'aria. Nina prese le sue ceneri e dopo averle bagnate di lacrime scavò una buchina e le sotterrò, pregando che il Cielo desse pace e riposo all'anima del pellegrino. E salita sulla montagna, che le fece venire il fiatone, aspettò che uscisse il Tempo, che era un vecchio con una lunghissima barba, indossava un vecchissimo mantello tutto pieno di cartellini attaccati col nome di questo e di quello, aveva grandi ali e correva così veloce che Nina lo perse subito di vista.

Entrata nella casa della mamma, rabbrividì per la paura vedendo quella brutta pellaccia, e presi subito i contrappesi, disse alla vecchia quello che desiderava. Quella fece un urlo e chiamò il figlio, ma Nina le disse:
"Puoi anche battere il capo nel muro, perché di certo non vedrai tuo figlio finché io tengo in mano questi contrappesi!".
La vecchia, vedendosi sbarrata la strada, cominciò a lusingarla, dicendole:
"Lasciali andare, tesoro mio, non fermare la corsa di mio figlio, cosa che nessun uomo vivente ha mai fatto da che mondo è mondo! Lasciali andare, che Dio ti protegga, e io ti prometto per l'acquaforte di mio figlio, con la quale corrode tutte le cose, che non ti farò del male".
"Non perdere il tuo tempo," le rispose Nina, "devi dire ben altro se vuoi che li lasci andare!".
"Ti giuro per quei denti che rosicchiano tutte le cose mortali, che ti farò sapere quanto desideri".
"Non mi fai né caldo né freddo," disse Nina, "perché so che tu mi prendi in giro!".
E la vecchia: "E allora sia! Io ti giuro per quelle ali che volano dappertutto che ti voglio accontentare più di quanto ti immagini!".
Allora Nina, lasciati i contrappesi, baciò la mano alla vecchia, che sapeva di muffa e puzzava di rancido, e lei, vedendo la sua garbata cortesia, le disse:
"Nasconditi dietro a quella porta, che appena sarà venuto il Tempo mi farò dire quello che vuoi sapere. E appena torna a uscire, perché lui non sta mai fermo in un posto, puoi svignartela: ma non ti far sentire, perché lui è così vorace che mangia anche i suoi figli, e quando non resta più nulla divora se stesso, e poi torna a germogliare".
Appena Nina si fu nascosta come le aveva detto la vecchia, ecco arrivare il Tempo, che svelto svelto, veloce e lieve rosicchiò tutto quello che gli capitava sottomano, perfino la calce sui muri, e quando voleva partire la mamma gli disse tutto quello che aveva sentito da Nina, pregandolo, per il latte che gli aveva dato, di rispondere una per una alle domande che gli aveva posto.
E il figlio dopo mille preghiere le rispose:
"All'albero si può rispondere che non potrà mai essere caro alle genti, finché tiene sotterrato un tesoro tra le sue radici; al topo che non saranno mai al sicuro dal gatto, se non gli attaccano un campanello alla gamba per sentirlo quando viene; alla formica che camperanno fino a cent'anni, se possono evitare di volare, perché quando la formica vuol morire mette le ali; alla balena che sia gentile e si tenga il pesce pilota come amico, che le farà da guida e non la manderà di traverso; e ai colombini, che quando si annideranno sulla colonna dell'abbondanza ritroveranno la loro forma umana".
Dopo aver detto queste parole, il Tempo riprese la sua solita corsa; Nina, dopo aver salutato la vecchia, scese dalla montagna, e giunse in piano nello stesso momento in cui arrivavano i sette colombini seguendo le sue tracce, e loro, stanchi per il lungo volo, andarono tutti a posarsi sulle corna di un bue che era morto.

Appena l'ebbero toccato tornarono i giovani belli che erano prima, e meravigliati da quello che era successo ascoltarono la risposta del Tempo, e capirono che il corno, come simbolo della capra, era la cornucopia, e quindi la colonna dell'abbondanza; poi, dopo aver fatto tante feste a Nina, si avviarono tutti insieme per lo stesso cammino che aveva fatto lei.
Quando trovarono la quercia le riferirono la risposta del Tempo, e la quercia li pregò di toglierle il tesoro di sotto, perché era quella la causa che aveva fatto perdere la buona reputazione alla ghianda.
I sette fratelli, presa una zappa in mezzo a un orto, scavarono tanto finché trovarono una grossa giara ricolma di monete d'oro, che divisero in otto sacchetti per poterle portare comodamente.
Ma dopo un po' erano tanto stanchi per il viaggio e per il peso che si misero a dormire accanto a una siepe, da dove passarono dei ladroni, che vedendo i poveri giovani addormentati col capo sui sacchetti di monete d'oro, dopo averli legati mani e piedi a degli alberi si presero il tesoro, lasciandoli a disperarsi, non solo per la ricchezza, che appena trovata era sfuggita dalle loro mani, ma per la loro vita, perché, senza speranza di aiuto, correvano il rischio di morire di fame o di sfamare qualche animale feroce. Mentre si lamentavano della loro maledetta sfortuna, ecco che arrivò il topo, che dopo aver sentito la risposta del Tempo, per ricompensarli del servizio che gli avevano reso rosicchiò le funi con le quali erano legati e li rimise in libertà.
Dopo aver camminato per un bel pezzo, trovarono la formica lungo la via, che dopo aver sentito il consiglio del Tempo chiese a Nina perché era così triste e abbattuta. Quando la fanciulla le ebbe raccontato della disgrazia che era successa e del brutto incontro con i ladri, la formica disse:
"Aspettate, che mi capita proprio l'occasione buona per ricambiare il piacere che ho ricevuto! Sappiate dunque che, mentre portavo un carico di grano sottoterra, ho visto un posto dove questi maledetti birbanti rimpiattano la loro refurtiva, perché sotto a una vecchia costruzione hanno fatto dei nascondigli dove stipano tutte le cose rubate, e ora che se ne sono andati a combinare qualche altro imbroglio io voglio accompagnarvi là e farvi vedere il posto, perché possiate recuperare quello che è vostro".
Dette queste parole si mise in cammino dirigendosi verso alcune case diroccate e mostrò ai sette fratelli la bocca di un fosso, dove si calò dentro Giannino, che era più coraggioso degli altri, e trovò tutte le monete che gli erano state rubate, le riprese e si misero a camminare verso la marina.
Là trovarono la balena, le riferirono le parole del Tempo, che è padre dei consigli, e mentre raccontavano del loro viaggio e di tutto quello che era successo, ecco che videro spuntare i ladroni armati fino ai denti, che avevano seguito le loro impronte.
Allora dissero:
"Ah, poveri noi! Questa è la volta che di noi si perde anche la memoria, perché ora arrivano i malandrini, ci acchiappano e ci tagliano a pezzetti!".
"Non dubitate," disse la balena, "che sono capace di salvarvi anche dal fuoco per ricompensarvi di tutto l'affetto che mi avete dimostrato! salite sulla mia schiena, vi porterò subito in un posto sicuro".
I poveri fratelli, vedendosi i nemici alle spalle e l'acqua alla gola, salirono sulla balena, che prendendo il largo dagli scogli li portò davanti a Napoli, dove, non azzardandosi a sbarcarli perché il mare era piuttosto basso, disse:
"Dove volete che vi lasci, lungo questa costiera Amalfitana?".
E Giannino rispose: "Vedi se puoi fare in un altro modo, bel pesciolone mio, perché a Massa si dice 'saluta e passa', a Sorrento 'stringi i denti', a Vico 'porta il pane con tico', a Castellammare 'né amico né compare'.
E la balena per accontentarlo si rigirò e si diresse allo Scoglio del Sale, dove li lasciò, e dalla prima barca di pescatori che passava si fecero portare a terra, e tornati al loro paese salvi, belli e ricchi, colmando di gioia la mamma e il babbo si godettero felicemente la vita, per merito di Nina, che ricordava sempre quelle antiche parole:

quando puoi, fa' il bene, e scordalo.

 

 

 
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La barca che va per mare e per terra

Post n°780 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Una volta un Re mandò fuori quest'editto:

Chi sarà buono di fabbricare una barca che va per mare e per terra avrà mia figlia in sposa.

In quel paese ci stava un padre di tre figli, e tutto quel che possedeva era un cavallo, un asino e un porchetto. Inteso l'edítto, il figlio maggiore disse al padre:
- Papà, vendi il cavallo, e coi soldi del cavallo comprami i ferri per fabbricare barche, e coi ferri per fabbricare barche, fabbricherò una barca che va per mare e per terra e sposerò la figlia del Re.
Dillo oggi dillo domani, il padre, per aver pace, vendette il cavallo e gli comprò i ferri. Il figlio s'alzò di buonora, prese i ferri e andò nella macchia a tagliare la legna per fabbricare la barca.
Aveva già mezzo costruita la barca, quando passò un vecchietto.
- Che fai di bello, figlio mio?
E lui: - Quel che mi pare.
E il vecchietto: - E cos'è che ti pare?
E lui: - Doghe da botte!
- E doghe da botte tu possa trovar fatte, - e se n'andò.
L'indomani mattina tornando al bosco dove aveva lasciato la barca a mezzo con la legna ed i ferri, non trovò altro che un mucchio di doghe da botte. Tornò a casa piangendo come un disperato e raccontò al padre la disgrazia che gli era successa. Il padre che per scapricciarlo s'era spropriato del cavallo, figuratevi che lune lo presero! Un altro po' e lo scannava!
Non era passato un mese, ed ecco che quest'idea di provarsi a costruire la barca gli venne al figlio mezzano. Si mise intorno al padre, e pigola e sospira finché il padre non fu costretto a disfarsi del somaro per comprargli i ferri adatti. E anche lui prese i ferri e se n'andò nel bosco a tagliar la legna. Aveva mezzo costruito la barca, quando passò quel vecchietto e disse:
- Che stai facendo, bel figliolo?
E lui: - Faccio quel che mi garba.
E il vecchietto: - E cos'è che ti garba?
- Manici da scope!
-E manici da scope tu possa trovar fatti! - disse il vecchietto, e voltò strada.
Lui la sera va a casa, mangia, dorme, e la mattina all'alba torna nella macchia. Lo stesso com'era successo al fratello: ci trovò solo un mucchio di manici da scope.
Il padre, quando gli arrivò anche lui disperato a raccontargliela, - Ti sta bene! - gridò. - Vi sta bene a tutti, con queste idee! E sta bene anche a me che vi do retta!
Allora, il piú piccolo, che era lí presente, disse:
- Be', visto che abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno: tata mio, fatemici provare anche a me. Vendiamo il porchetto e rifacciamoci i ferri. Chissà che quel che non è riuscito a loro riesca a me.
A farla breve, fu venduto il porchetto; e il figlio piú piccolo ebbe i ferri per andarsene alla macchia. Aveva fatto già mezza barca, quando si presentò il vecchietto delle altre volte.
- Figlio bello, cosa fai?
E lui: - Sto facendo una barca che cammini per mare e per terra.
Disse allora il vecchietto: - E una barca che cammini per mare e per terra tu possa trovar fatta, - e se n'andò.
Il ragazzo a sera va a casa, mangia, dorme, e all'alba ritorna. Trovò la barca finita tutta a puntino, con le vele spiegate, ci montò su, disse:
- Barca, cammina per terra, - e la barca, liscia come sull'acqua, si mise ad andare per il bosco, prese la via di casa e si presentò al padre e ai fratelli che restarono li di pietra pomice, restarono.
Il figlio piú piccolo, sempre dicendo: - Barca, cammina per terra, - prese la via del palazzo del Re. Quando c'era un fiume da passare la barca galleggiava, quando c'era da passare pianure o montagne, la barca filava leggera sulla terra.
Ormai la barca ce l'aveva ma gli mancava l'equipaggio. Arrivò a un fiume, nel punto in cui ci sfociava un fiumetto piú piccolo. Ma l'acqua del fiumetto non arrivava al fiume, perché poco piú sopra, inginocchiato sulla riva, c'era un omone che se la beveva tutta.
-Accidempoli che gargarozzo che hai, buon uomo! - gli fa il ragazzo. - Ci verresti con me, che ti porto al palazzo del Re?
L'omone dette ancora una sorsata, fece glu-glu, e disse: - Volentieri, ora che mi son tolto un po' di sete, - e montò sulla barca.
La barca va per acqua e va per terra, e arriva dove c'era un omone che girava sul fuoco un bastone e su questo bastone c'era infilata una bufala sana sana.
-Ahò, - gli fece il ragazzo dalla barca, - ci vuoi venire con me che ti porto al palazzo del Re?
-Volentieri, - gli rispose quello. - Aspetta solo che mi mangi quest'uccelletto.
- Fa' pure.
E l'omone prese la bufala infilzata allo stecco e se la succhiò come fosse stata un tordo. Poi s'imbarcò, e ripresero il viaggio.
La barca andò per laghi e per campagne, e arrivò da un altro omone che stava appoggiato con le spalle a una montagna.
-Ahò! - gli fece il padrone della barca. - Ci vuoi venire con me al palazzo del Re?
E l'omone: - Non mi posso muovere.
- Perché non ti puoi muovere?
- Perché reggo la montagna con le spalle, se no casca.
- E tu lasciala cascare.
L'omone tenne scostata la montagna con la mano e saltò dentro la barca; la barca era appena ripartita che si senti: bum!, un boato: la montagna era cascata giú.
La barca andò per strade e per colline e arrivò davanti al palazzo del Re; il ragazzo smonta e dice:
- Io, Sacra Corona, sono stato buono a fabbricare questa barca che va per acqua e per terra: conseguentemente adesso voi mantenete la promessa col darmi vostra figlia in sposa.
Il Re, che non se l'aspettava, ci rimase male, e si pentí d'aver messo fuori quell'editto. Adesso gli toccava di dare sua figlia a un morto di fame qualunque, che nemmeno conosceva.
-La figlia ve la do, - rispose il Re, - a patto che voi e il vostro seguito riusciate a mangiare il pranzo che v'offrirò, senza lasciar nemmeno un'ala di pollo o un chicco d'uva passa.
- E va bene. A quando, questo pranzo?
-A domani -. E fece preparare un pranzo d'un migliaio di pietanze. " Questo straccione, - pensava, - non ci avrà certo un seguito tale da consumare tutta questa roba ".
Il padrone della barca si presentò con una persona sola di seguito: quell'omone che mangiava le bufale come fossero tordi. Mangia e rimangia, si masticò dieci pietanze, una dopo l'altra, poi ne deglutí cento, ne spolverò mille; e il Re, che era stato a vederlo senza parola, si riscosse per dire ai camerieri:
- Non c'è rimasto altro in cucina?
- C'è ancora qualche avanzo.
Furono portati in tavola gli avanzi; e quello ebbe lo stomaco di mangiarsi anche le briciole.
-Ben inteso che sposerete mia figlia, si capisce. Però prima volevo offrire al vostro seguito tutto il vino della mia cantina; ma bisogna che lo beviate tutto, senza lasciarne neanche un fondo di bicchiere.
Venne quello che si beveva i fiumi e cominciò a scolarsi una botte, poi un barile, poi una damigiana; finí per mettere le mani anche su due botticelle di malvasía che il Re aveva nascosto per serbarsele per sé e mandò giú anche quelle.
-Sia ben chiaro, - disse il Re, - che io non ho niente in contrario a darti mia figlia. Ma, insieme a mia figlia c'è la dote: comò, credenze, il letto, il lavamano, la biancheria, le casse dei tesori e tutto quel che c'è in casa. Bisogna che porti via tutto in una volta sola, immantinenti, con mia figlia in cima a tutto questo.
-Te la senti di fare uno sforzetto? - disse il ragazzo all'omone che reggeva le montagne.
- Magari! - fece lui. - È la mia passione!
Vanno sotto al palazzo,. - Siete pronti? - dicono ai facchini. - Si? Allora cominciamo a caricare la roba sulle spalle.
Cominciarono a metterci armadi, tavole, casse di gioielli, gli fecero una montagna sulla schiena che arrivava fino al tetto; e la figlia del Re per montarci in cima dovette salire sulla torre. Quando la figlia del Re fu lassú, l'omone disse:
- Si tenga forte, Princípessa -.
Prese la corsa, arrivò con tutta la catasta alla barca e saltò a bordo.
Il ragazzo disse: - Adesso vola, barca mia.
E la barca si mette a filare per la piazza, per le vie, per la campagna.
Il Re che guardava dalla sua loggia, grida:
- Lesti, miei fidí, inseguiteli, agguantateli, riportatemeli in catene!
Parte l'esercito alla carica ma non riusciva che a mangiare il polverone sollevato dalla barca, e restò a mezza strada con la lingua fuori.
Il padre del ragazzo, a veder tornare il figlio píú piccolo con la barca piena di ricchezze e la figlia del Re vestita da sposa, si sentí il cuore pieno di consolazione.
Il ragazzo fece fabbricare un palazzo che era le sette bellezze, ne diede un piano al padre e ai fratelli, e uno a ciascuno dei suoi compagni, e tutto il resto per lui e la figlia del Re sua sposa.

(Roma)

 
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Topolino

Post n°779 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un Re, che più non viveva tranquillo, dal giorno in cui una vecchia indovina gli aveva detto:
- Maestà, ascoltate bene:

Topolino non vuol ricotta;
vuol sposare la Reginotta;
E se il Re non gliela dà,
Topolino lo ammazzerà.


Il Re consultò subito i suoi ministri; ed uno di loro disse:
- Maestà, è mai possibile che un topolino voglia sposare la Reginotta? Io credo che quella donna si sia beffata di voi.
Ma gli altri non furono dello stesso parere.
- Per evitare la disgrazia, bisogna distruggere tutti i topi del regno, mentre la Reginotta trovasi ancora nelle fasce.
Perciò il Re messe fuori un decreto:
- Pena la vita a chi non teneva uno o più gatti, secondo che avesse casa o palazzo. Chi ammazzava cento topi diventava barone.
Il Re diè l'esempio egli il primo; e il palazzo reale fu pieno di gatti, tenuti assai meglio dei cortigiani e anche dei ministri. Inoltre, a tutti gli usci venivano appostate guardie con una granata in mano, invece di sciabola, che dovevano gridare all'armi appena visto un topo.
Sulle prime, con quella caccia ai topi per diventare barone, fu uno spasso per tutto il regno.
Il Re, ogni volta che gli portavano al palazzo un centinaio di topi uccisi, traeva un respiro dal profondo del petto.
- Voi siete barone!
- Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare? - disse una volta un contadino, che, invece di cento, ne aveva portati un mezzo migliaio.
- È giusto - rispose il Re.
E gli fece un bel regalo.
Saputasi la cosa, tutti quelli che accorrevano al palazzo reale, ripetevano la stessa storia:
- Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare?
Ma il Re, ch'era un po' tirchio, si seccò presto a dover far tanti regali; e all'ultimo rispose:
- Il decreto dice soltanto: sarete baroni.
E il popolo ne fu scontento; molto più che, con tutti quei gatti per la casa, i quali miagolavano da mattina a sera, si viveva una vitaccia d'inferno. Ma Sua Maestà ordinava così; era forza ubbidirgli!
Da lì a qualche anno, non si trovava un topo in tutto il regno, neppure a pagarlo un milione.
Il Re già cominciava a rassicurarsi; e siccome la Reginotta era cresciuta, egli pensava di darle marito. Parecchi Principi l'avevano chiesta. Ma la Reginotta, quasi lo facesse a posta, a ogni domanda di matrimonio, rispondeva:
- Maestà, chiedo un altr'anno di tempo.
Intanto era accaduto questo: in un paesotto del regno, nascosto fra le montagne, una povera donna aveva partorito un bambino mostruoso, col viso d'uomo e il resto del corpo di vero topolino, con le sue zampine e con la sua codina.
Al vederlo, la mamma e la levatrice rimasero trasecolate: e la levatrice, che provava ribrezzo a toccare quel mostricino, aveva consigliato di soffocarlo.
La mamma non n'ebbe il cuore, e pregò:
- Non ne fiatare con anima viva, comare!
Infatti nessuno ne seppe nulla; e il bambino crebbe vegeto e vispo da quel topolino ch'egli era. Camminava su due gambe, come un uomo; solamente la mamma lo vestiva in maniera, che del suo corpo non si potesse vedere altro che il volto. Alle zampine anteriori gli metteva sempre i guanti.
Gli aveva posto nome Beppe, e così lo chiamavano tutti; ma quando non c'era nessuno, ella, per tenerezza, lo chiamava Topolino.
- Topolino, fa' questo; Topolino, fa' quest'altro!
E Topolino non le dava mai il menomo dispiacere, e faceva questo e faceva quello.
- Dio t'aiuterà, Topolino!
E un giorno Topolino disse:
- Mamma, voglio fare il soldato.
La poveretta che gli voleva bene, piangendo rispose:
- Ed io, come rimango sola sola? Ora sono vecchia, e non posso più lavorare.
- Vi lascerò la mia coda. Quando avrete bisogno di qualcosa, direte:

Codina, codina
Servi la tua mammina!


Ed essa vi servirà, come se fossi io stesso in persona. Se non v'ubbidirà, vorrà dire che in quel momento io corro un gran pericolo. Allora, lasciatevi guidare da essa e venite a trovarmi.
Così fece, e partì. Quella coda era fatata.
Al Re era stata mossa guerra da un altro Re, offeso dal rifiuto della Reginotta. Uscito, con tutto l'esercito a combattere, in ogni battaglia ne toccava.
Mutava generali, chiamava nuova gente sotto le armi, veniva alle mani, faceva prodezze straordinarie, ma rimaneva vinto sempre; e una volta poté salvarsi, scappando sul suo cavallo a rotta di collo.
Si presentò Topolino, ch'era alla guerra anche lui:
- Maestà, se mi date il comando in capo, vi faccio uscire vittorioso.
- E tu chi sei?
- Mi chiamo Niente-con-Nulla; ma non vuol dire. Mettetemi alla prova.
- Niente-con-Nulla sia comandante!
I generali dell'esercito credettero che Sua Maestà fosse ammattito:
- Affidare il comando in capo a quel cosino, ch'era davvero Niente-con-Nulla!
Non rinvenivano dallo stupore. Ma quando fu l'ora della battaglia, Topolino impartì gli ordini, fece sonare le trombe, e in un batter d'occhio l'esercito nemico fu spazzato via.
- Viva Niente-con-Nulla! Viva Niente-con-Nulla.
Non si sentiva acclamare altro. Nessuno più gridava: "Viva il Re!", tanto che Sua Maestà cominciò a esserne seccato, e pensava di levarsi di torno Niente-con-Nulla, che ci mancava poco non contasse più di lui.
- Come fare per levarselo di torno? Occorreva un pretesto.
Il pretesto lo trovò una mattina, che la Reginotta venne a dirgli:
- Maestà, volete ch'io sposi? Datemi Niente-con-Nulla per marito.
Il Re montò sulle furie. Ma, per far la cosa zitto e queto, deliberò di sbarazzarsi di Niente-con-Nulla per mezzo del veleno.
Invitatolo a pranzo, verso la fine gli fece porre davanti un piatto d'oro con su una torta di ricotta avvelenata.
- Questo piatto è per voi solo, per farvi onore. Niente-con-Nulla, mangiate.
Ma Niente-con-Nulla, levatosi da tavola e fatto un inchino a Sua Maestà, rispose:

- Topolino non vuol ricotta;
Vuol sposare la Reginotta!


E andò via.
Il Re e i Ministri rimasero strabiliati:
- Giacché Topolino è lui, - disse un Ministro - facciamolo arrestare, rinchiudiamolo in una stanza con tutti i gatti del palazzo reale, e così sarà divorato vivo vivo.
Lo fecero arrestare, lo spogliarono, lo rinchiusero in uno stanzone insieme con un centinaio di gatti affamati, e stettero ad aspettare. Quando riapersero la stanza, Topolino non c'era più. E i gatti si leccavano i baffi, come se avessero desinato saporitamente.
Il Re, dalla contentezza, ordinò una festa di ballo.
Va per indossare il manto reale, e lo trova interamente rosicchiato dai topi. I generali, le dame di corte, gl'invitati, nel momento d'abbigliarsi per la festa, tutti avevano trovato le loro uniformi e gli abiti rosicchiati dai topi!
Ma questo non fu nulla. I Ministri portavano al Re i decreti da firmare; e, il giorno dopo, le carte trovavansi rosicchiate proprio dov'era la firma. A poco a poco, nel palazzo reale, delle materasse, delle lenzuola, delle coperte, della biancheria, degli arnesi, dei mobili non rimase più intatto un solo capo; pareva che un esercito di topi fosse stato a divertirvisi coi suoi dentini distruttori. Né valeva il rinnovare ogni cosa; quello che oggi compravano, domani era bell'e rosicchiato.
Centinaia di gatti, intanto, passeggiavano su e giù per le stanze, miagolando, o si stendevano al sole facendo le fusa. Soltanto i vestiti e i mobili della Reginotta non erano rosi.
Il Re, i Ministri, tutta la corte non sapevano dove dare il capo.
- Questa è opera di Topolino!
- Maestà, - disse il Ministro che aveva suggerito di far divorare Topolino dai gatti - si costruisca una gran trappola, che abbia l'aspetto della camera della Reginotta, e cerchisi un Mago capace di fare una bambola grande al naturale, somigliantissima a lei, con un congegno da poter chiamare: "Topolino! Topolino!" con lo stesso tono della voce di lei. Sono sicuro che Topolino cascherà nell'inganno. Quando l'avremo in mano penseremo al da farsi.
L'idea parve eccellente. Senza che ne trapelasse nulla, i magnagni di corte costruirono una trappola, che simulava la camera della Reginotta; e un famoso Mago fece una bambola grande al naturale, da scambiarsi colla Reginotta in carne e ossa, e che diceva: "Topolino! Topolino!" con lo stesso tono della voce di questa. Collocarono la trappola nel giardino reale, ed aspettarono fino alla dimane.
Tutta la notte, il congegno della bambola chiamò: "Topolino! Topolino!". Ma chi sa dove lucevano gli occhi di Topolino in quel punto?
Per sei notti l'inganno non giovò. Alla settima, il povero Topolino, lusingato dalla somiglianza, era accorso alla trappola e c'era rimasto.
Figuriamoci il tripudio del Re e dei Ministri, la mattina quando lo trovarono acquattato in un cantuccio presso la bambola!
- Rosicchia, Topolino! Sposa la Reginotta, Topolino!
Lo beffeggiavano senza pietà; e Topolino, acquattato nel suo cantuccio, li guardava e non rispondeva nulla.
Giusto in quel giorno, la sua mamma, avendo bisogno d'un servigio, aveva detto:

- Codina, codina,
Servi la tua mammina!


Ma la codina non si era mossa.
- Ah, codina, codina! - esclamò quella mamma desolata: - Topolino è in pericolo; andiamo a soccorrerlo, presto!
E si avviarono, la codina avanti, e lei dietro, finché non giunsero alla capitale del regno e non entrarono nel giardino reale, mischiati alla folla che accorreva per la curiosità di osservare Topolino dentro la trappola. Quel giorno Topolino doveva esser bruciato. La trappola era stata unta tutta d'olio e di grasso; s'aspettava il Re e la corte per appiccargli fuoco.
La codina spiccò un salto e andò ad appiccicarsi al codone di Topolino.
- Topolino ha la coda! Lascia vedere la coda, Topolino!
E Topolino, che si era subito ringalluzzato, si voltava compiacente e dimenava la coda come se non avesse capito la condanna che gli stava sul capo. La gente rideva e batteva le mani. Ora che Topolino era cascato in disgrazia, nessuno più si rammentava del bene ch'egli aveva fatto, quando si chiamava Niente-con-Nulla: il mondo è così! Al suono delle trombe, ecco il Re e i Ministri e la corte, tutti vestiti in gran gala, preceduti dal carnefice, con una torcia accesa in pugno. La Reginotta era rimasta al palazzo.
Il Re, per scherno, allora disse:
- Topolino, prima di morire, che grazia chiedi?
E Topolino, senza scomporsi, rispose:
- Maestà:

Topolino non vuol ricotta;
Vuol sposare la Reginotta;
E se il Re non gliela dà.
Topolino lo ammazzerà.


E si lisciava la coda.
- Date fuoco! - ordinò il Re inviperito.
Ma non appena il carnefice ebbe accostata la torcia alla trappola, ecco che insieme con la trappola scoppia in fiamme il trono reale. Le vampe avvolsero il Re e i Ministri, che non trovarono scampo.
La gente fuggiva, atterrita; ma Topolino, trasformato in bellissimo giovane, usciva fuori sano e salvo.
Agli urli, alle strida, accorse subito la Reginotta; e, visto il disastro, si mise a piangere:
- Topolino, se mi vuoi bene, risuscita mio padre!
Topolino esitava. Allora si fece avanti sua madre:
- Topolino, te ne prego anch'io, risuscita il Re!
Poteva dire di no alla mamma e alla sua cara Reginotta?
Toccò colle mani il cadavere mezzo carbonizzato del Re, e lo fece risuscitare. Ma il Re era diventato un altro. Domandò umilmente perdono del male che gli aveva fatto, e conchiuse:
- Giacché questo è il volere di Dio, sposatevi e siate felici!
Il popolo fece grandi feste. Dei Ministri bruciati nessuno si diè pensiero.


di Luigi Capuana

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Giochi proibiti

Post n°778 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Lettori,non pensate male! Questa non è una cronaca a luci rosse,ma il fedele resoconto delle malefatte dell'Ermione,figlia minore di Fidalma e Geremia che,col pretesto che i soliti giochi l'annoiavano,ne ha fatte più di Carlo in Francia,
Non mi credete?Prego,leggete!
LUNEDI'- Visto in Tv uno spettacolo circense,Ermione è rimasta affascinata dal lanciatore di coltelli.Senza pensarci più di tanto,ha deciso di ripeterlo col cuginetto Erode.Ecco i risultati
Un coltello è finito nel posteriore del Piripicchi,che potava la siepe di casa
Uno in testa a Berengario,che stava entrando in macchina.
Uno sulla coda del cane dello Sgozzaloca
Uno ha ucciso una lucertola.
Per fortuna è arrivata la Fidalma col fido battipanni
MARTEDI'- Fabbricatasi una liana coi lenzuoli,l'Ermione faceva Tarzan in cima al fico.Altruista,ha concesso a Ercolino di provare.
Il ragazzino è finito dentor una finestra aperta,per la precisione quella del bagno della Clementina che era nella vasca.
Sono svenuti entrambi-
MERCOLEDI'- L'Ermione ha convinto Leopoldo Pollacchioni a giocare alle mummie.
Fasciatolo con nastro da imballaggio,lo ha poi spennellato col supermastice.
Leopoldo,liberato dopo mezza giornata,è completamente calvo.
GIOVEDI'-Volendo giocare a Rambo e non trovando un bazooka,la pestifera ha fregato la fiamma ossidrica paterna
Ha incenerito un'arnia del nonno Teobaldo,lasciando 759 api senza casa e in cazzate nere.
Il postino,oggetto della loro ira,pare un colabrodo
Ha bruciato il posteriore a Cesarone
Per colpa sua i cani di Geppo detengono il record di salto sul campanile
VENERDI'- Di notte Ermione si è messa a giocare al lupo mannaro.
Melchiorre ha raggiunto i cani e tutti i cani del circondario si sono uniti ai suoi ululati
SABATO- L'Ermione ha deciso di giocare ai banditi sardi.Ha sequestrato Belva ed ha chiesto a Ireneo un miliardo di riscatto se non voleva riaverlo a pezzettini.
Cuccurullo ha ritrovato il cagnazzo chiuso dentor una bara.
DOMENICA-Ermione è stata iscritta con procedura d'urgenza nel collegio romano "S.Basilio scalcagnato",che si trova davanti al Vaticano ed è diretto da suor Hildegard Asinonen (per gli intimi Adolf)
E' passata una settimana.
Il Piripicchi.Berengario e il cane si sono ripresi,mentre Ercolino e la Clementina sono ancora in stato catatonico.
Leopoldo sembra il figlio di Kojak e non parla.
Il postino gira con l'armatura in pieno agosto
I cani e Melchiorre sono sul campanile:ancora due giorni ed entreranno nel Guinness.
Ireneo ha scomunicato l'Ermione,che sta a Roma,anche se qualcosa mi dice che la rivedremo presto qua.
Sperando di sbagliarmi,passo e chiudo




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I dodici cacciatori

Post n°777 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un principe che aveva una fidanzata e l'amava teneramente. Un giorno che si trovava insieme a lei, tutto felice, giunse la notizia che il padre stava per morire e desiderava vederlo ancora una volta. Allora egli disse alla sua amata: "Devo partire e lasciarti, ma ti do quest'anello in mio ricordo. Quando sarò re, tornerò a prenderti". Poi partì a cavallo e, quando arrivò, il padre era in fin di vita e gli disse: "Figlio diletto, ho voluto vederti ancora una volta; promettimi di sposarti secondo la mia volontà". E gli nominò una certa principessa che doveva diventare sua sposa. Il figlio era così afflitto che rispose, senza riflettere: "Sì, caro padre, sarà fatta la vostra volontà". Il re chiuse gli occhi e morì. Il principe fu proclamato re e, quando fu trascorso il periodo di lutto, dovette mantenere la promessa fatta al padre: fece perciò chiedere la mano della principessa e gli fu concessa.

Lo venne a sapere la sua prima fidanzata, e si addolorò tanto dell'infedeltà che quasi ne morì. Allora il padre le disse: "Figliola cara, perché sei tanto infelice? Avrai tutto ciò che desideri". Ella rifletté‚ un momento, poi disse: "Caro padre, desidero undici fanciulle che mi somiglino nelle fattezze e nel volto". Il re rispose: "Se è possibile, sarà fatto". E fece cercare in tutto il regno, finché si trovarono undici fanciulle simili a sua figlia nelle fattezze e nel volto. Quando si presentarono alla principessa, ordinò dodici abiti da cacciatore, tutti uguali, e le undici fanciulle dovettero indossarli, mentre ella indossò il dodicesimo. Poi prese congedo da suo padre e se ne andò con loro, cavalcando fino alla corte del suo fidanzato di un tempo, che tanto amava.

Ella gli domandò se avesse bisogno di cacciatori e se non volesse prenderli tutti al suo servizio. Il re la guardò senza riconoscerla e, trattandosi di gente dal bell'aspetto, disse che li avrebbe presi volentieri: così diventarono i dodici cacciatori del re. Ma il re aveva un leone che era una strana bestia: sapeva tutto ciò che era nascosto e segreto. Una sera disse al re: "Pensi di avere dodici cacciatori?". "Sì" rispose il re, "sono dodici cacciatori." "Ti sbagli," replicò il leone "sono dodici fanciulle." Rispose il re: "Non è possibile! Come puoi provarlo?". "Oh, fa' spargere dei piselli nell'anticamera" rispose il leone, "e lo vedrai subito: gli uomini hanno un passo fermo e se calpestano i piselli non se ne muove neanche uno; ma le fanciulle trotterellano, zampettano, camminano strisciando i piedi e fanno rotolare i piselli." Al re piacque l'idea e fece spargere i piselli. Ma c'era un servo del re che proteggeva i cacciatori, e quando udì che volevano metterli alla prova, andò e raccontò loro tutto quanto, dicendo: "Il leone vuole dimostrare al re che siete fanciulle". La principessa lo ringraziò e poi disse alle sue ancelle: "Controllatevi e camminate sui piselli con passo deciso". Quando la mattina dopo il re fece chiamare i dodici cacciatori, ed essi entrarono nell'anticamera dov'erano sparsi i piselli, ci camminarono sopra con tanta sicurezza e avevano un passo così fermo e deciso, che neanche uno rotolò e non si mosse. Se ne andarono e il re disse al leone: "Mi hai ingannato, camminano proprio come uomini". Il leone rispose: "Sapevano che sarebbero state messe alla prova, e hanno controllato la loro andatura. Ma fai portare nell'anticamera dodici filatoi: ci si avvicineranno con gioia, e questo nessun uomo lo fa". Al re piacque l'idea e fece disporre i filatoi nell'anticamera. Ma il servo che proteggeva i cacciatori andò da loro e rivelò il tranello. Come furono sole, la principessa disse alle sue undici fanciulle: "Controllatevi e non guardate mai i filatoi". La mattina dopo, quando il re fece chiamare i suoi dodici cacciatori, questi attraversarono l'anticamera senza guardarli affatto. Allora il re disse nuovamente al leone: "Mi hai ingannato, sono uomini: non hanno guardato i filatoi". Il leone rispose: "Ancora una volta, sapevano che sarebbero state messe alla prova e si sono controllate". Ma il re disse: "Non voglio più crederti". Così i dodici cacciatori seguivano sempre il re durante la caccia, ed egli li amava sempre di più. Ma un giorno, mentre si trovavano a caccia, annunciarono che stava giungendo la sposa del re. La notizia afflisse a tal punto la vera fidanzata, che le parve di morire e cadde a terra priva di sensi. Il re pensò che fosse successa una disgrazia al suo caro cacciatore, corse a soccorrerlo e gli tolse il guanto. Ed ecco egli scorse l'anello che aveva dato alla sua prima fidanzata e, guardandola bene in viso, la riconobbe. Tutto commosso, la baciò, e quand'ella aprì gli occhi, le disse: "Tu sei mia e io sono tuo, e questo nessun uomo al mondo potrà cambiarlo". Inviò un messo all'altra sposa pregandola di ritornare nel suo regno, poiché‚ egli aveva già una fidanzata, e chi ritrova la vecchia chiave, non ha bisogno di una nuova. Poi furono celebrate le nozze, e anche il leone ritornò in grazia, perché‚ aveva pur detto la verità.

 
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Faccia di capra

Post n°776 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un contadino aveva dodici figlie e l'una non riusciva a prendere in braccio l'altra perché ogni anno quella buona massaia di Ceccuzza, la mamma, gli faceva una spernacchiatina, così che il poveruomo, per far vivere onoratamente la famiglia, andava ogni mattina a zappare a giornata e non avresti saputo dire se era più il sudore che gli colava a terra o la saliva che si sputava sulle mani: basta dire che con il poco delle sue fatiche riusciva a mantenere tutte quelle ranocchie bambinocchie, giusto che non morissero di fame.

Ora, mentre questo si trovava un giorno a zappare ai piedi di una montagna, vedetta degli altri monti, che metteva la testa sopra le nuvole per vedere cosa si combinava nell'aria, dove c'era una grotta così profonda e buia che il Sole aveva paura ad entrarci, da questa uscì un lucertolone verde grande quanto un coccodrillo e il povero contadino restò così spaventato che non ebbe la forza di squagliarsela e da un'apertura di bocca di quella brutta bestia aspettava la chiusura dei suoi giorni. Ma il lucertolone si fece più vicino e disse: "Non avere paura, uomo dabbene mio, perché non sono qui per farti alcun dispiacere, ma vengo soltanto per il tuo bene". Sentendo questo Masaniello, così si chiamava il contadino, le s'inginocchiò dinanzi, dicendole: "Signora come-ti-chiami, io sono nelle tue mani: agisci da persona dabbene e abbi compassione di questo poveruomo, che ha dodici piagnucolone da far vivere". "Per questo", rispose la lucertola, "io sono venuta ad aiutarti; perciò portami domani mattina la più piccola delle tue figlie, perché me la voglio crescere come una figlia e tenermela cara quanto la vita". Lo sventurato padre, sentendo questo, restò più confuso di un ladro quando gli viene trovata la refurtiva addosso, perché, sentendosi chiedere la figlia dalla lucertolona e anche la più piccolina, ne dedusse che la faccenda puzzava e che la voleva come pillola purgativa per evacuare la fame.

E disse fra sé: "Se io le do questa figlia, le do l'anima mia; se gliela rifiuto, si prenderà questo corpo; se non gliela concedo, mi toglie le ciliegine; se la contraddico, si succhia il mio sangue; se acconsento, mi toglie una parte di me stesso; se rifiuto, si prende me tutto intero. Che decido? che scelgo? che scusa trovo? oh che malagiornata mi è capitata! che disgrazia mi è caduta dal cielo! ". Mentre diceva questo la lucertolona aggiunse: "Deciditi, presto e fai quello che ti ho detto, altrimenti ci lasci le penne, perché così voglio e così zia fatto!".

Masaniello, sentita questa sentenza e non avendo come fare ricorso, tornò a casa tutto malinconico, così ingiallito in faccia che sembrava avesse preso l'itterizia, e Ceccuzza, vedendolo così smorto istupidito con il nodo alla gola e imbronciato, gli disse: "Che ti è successo, marito mio? hai litigato con qualcuno? ti hanno chiesto soldi? o ci è morto l'asino?". "Niente di tutto questo", rispose Masaniello, "ma una lucertola cornuta mi ha messo sottosopra, mi ha minacciato che se non gli porto la nostra figlia più piccolina, ne farà di cose che puzzano: la testa mi gira come un arcolaio, non so che pesci pigliare! da una parte mi spinge l'amore e dall'altra l'affitto della casa! amo straordinariamente la mia Renzolla, amo straordinariamente la vita mia! se non gli consegno questo resto dei miei fianchi quella si prende tutta la misura di questo mio povero corpo. Perciò dammi un consiglio, Ceccuzza mia, altrimenti sono finito". Sentendo questo la moglie gli disse: "Chi sa, marito mio, se questa lucertola porterà fortuna alla nostra famiglia? chi sa se questa lucertola porterà la luce sulle nostre miserie? guarda che il più delle volte ci diamo noi stessi l'accetta sul piede e quando dovremmo avere la vista d'aquila per scorgere il bene che ci capita abbiamo gli occhi appannati e il crampo alle mani per afferrarla. Perciò vai, portagliela, il cuore mi dice che potrebbe essere un buon destino per questa povera bambina".

Queste parole convinsero Masaniello e la mattina - appena il Sole con il pennello dei raggi imbiancò il cielo che era annerito dalle ombre della Notte - prese la bambina per mano e la portò fino alla grotta. La lucertolona, che stava di vedetta per vedere quando arrivava il contadino, appena lo vide uscì fuori dalla tana e, presa la ragazza, diede al padre un sacchetto di monetacce dicendogli: "Vai, marita con questi spiccioli le altre figlie e vivi in allegria, perché Renzolla ha trovato il padre e la madre. Oh beata lei, che ha incontrato questa buona ventura!".

Masaniello tutto contento ringraziò la lucertola e se ne tornò saltellando dalla moglie, raccontandole l'accaduto e mostrandole i soldini, con cui maritarono tutte le altre figlie, e gli rimase anche la salsa per inghiottire piacevolmente le difficoltà della vita. Ma la lucertola, avuta Renzolla, dopo aver fatto apparire un bellissimo palazzo ce la mise dentro, allevandola con tanti lussi e regali degni di una regina. Fai conto che non le mancava il latte di formica, il mangiare era da conte, il vestire da principe, aveva cento damigelle attente ed esperte che la servivano. Con questo buon trattamento in quattro pizzichi si fece come una quercia.

Capitò che, andando a caccia per quei boschi, il re incontrò la notte cammin facendo e, non sapendo dove sbattere la testa, vide brillare una candela dentro quel palazzo, per questo mandò da quella parte un servo perché pregasse il padrone di dargli ospitalità. Arrivato il servo, si fece avanti la lucertola sotto forma di una bellissima ragazza, che, sentita l'ambasciata, disse che era mille volte il benvenuto, perché non gli sarebbero mancati né il pane né i coltelli. Sentita la risposta, il re venne e fu ricevuto da cavaliere, gli uscirono incontro cento paggi con le torce accese, sembrava il gran funerale di un uomo ricco; altri cento paggi portarono le bevande in tavola, sembravano tanti garzoni di speziali che portassero i piattini ai malati; cento altri con strumenti e stordimenti facevano musica; ma soprattutto Renzolla servì da bere al re con tanta grazia che bevve più amore che vino. Ma, finito il masticatorio e sparecchiate le tavole, il re andò a coricarsi e Renzolla stessa gli tolse le calze dai piedi e il cuore dal petto, con tanta buona grazia che il re sentì dalle ossa piccoline toccate da quella bella mano salire il veleno amoroso ad avvelenargli l'anima, tanto che, per porre rimedio alla sua morte, cercò di avere il contravveleno di quelle bellezze e, chiamando la fata che la proteggeva, gliela chiese in moglie. E lei, non desiderando altro che il bene di Renzolla, non solo gliela diede volentieri, ma le diede anche una dote di sette pezzi d'oro.

Il re, tutto felice di questa fortuna, se ne partì con Renzolla, che, sprezzante e ingrata per quanto le aveva dato la fata, se ne andò con il marito senza rivolgerle una sola maledetta parola di ringraziamento. E la maga, vedendo tanta ingratitudine, le lanciò una maledizione, che la sua faccia si trasformasse in quella di una capra e, appena dette queste parole, le si allungò il muso con un palmo di barba, le si strinsero le ascelle, le si indurì la pelle, la faccia le si coprì di peli e le trecce a canestrino diventarono corna puntute. Il povero re, visto questo, si fece piccino piccino, non riusciva a capire cosa gli fosse capitato, perché una bellezza che ne valeva due si fosse trasformata così e, sospirando e piangendo a tutto spiano, diceva: "Dove sono i capelli che mi legavano? dove gli occhi che mi trafiggevano? dove la bocca che è stata la tagliola di quest'anima, la trappola di questi spiriti e il laccio di questo cuore? ma che? devo essere marito di una capra e acquistare il titolo di caprone? devo essere ridotto in questa foggia a iscrivermi alla dogana di Foggia? no no, non voglio che questo cuore crepi per una faccia di capra, una capra che mi porterà guerra cacando olive". Dicendo così, arrivato al suo palazzo, mise Renzolla con una cameriera in una cucina dando all'una e all'altra quattro rotoli di lino perché li filassero, dandogli il limite di una settimana per finire questo cottimo. La cameriera, obbedendo al re, cominciò a pettinare il lino, a fare i lucignoli, ad avvolgerli sulla rocca, a torcere il fuso, a finire le matasse e a faticare come una cagna, tanto che il sabato sera si trovò il lavoro finito.

Ma Renzolla, credendo di essere la stessa che era stata a casa della fata, perché non si era guardata allo specchio, gettò il lino dalla finestra, dicendo: "Il re perde tempo a darmi questi fastidi! se vuole camicie che se ne compri! e non creda di avermi trovata nel torrente, ma si ricordi che gli ho portato sette pezzi d'oro in casa e che gli sono moglie e non serva e mi pare che si comporti da asino a trattarmi in questo modo". Nonostante questo, quando fu sabato mattina, vedendo che la cameriera aveva filato tutta la sua parte di lino, ebbe una gran paura di qualche bastonatura e per questo si avviò al palazzo della fata e le raccontò la sua disgrazia. E lei, abbracciandola con grande affetto, le diede un sacco pieno di filato perché lo desse al re e dimostrasse di essere stata una brava massaia e una femmina da casa. Ma Renzolla, preso il sacco senza dire mille grazie per il servizio, se ne andò al palazzo reale, mentre la fata tirava pietre per le cattive maniere di questa disamorata. Ma il re, avuto il filato consegnò due cani, uno a lei e uno alla cameriera, ordinando che li nutrissero e li crescessero. La cameriera allevò il suo a mollichine e lo trattava come fosse un figlio, ma Renzolla diceva: "Questa eredità mi ha lasciato il nonno! sono già arrivati i turchi? devo pettinare cani e portare cani a fare la cacca?", e così dicendo scaraventò il cane dalla finestra, altro che farlo saltare attraverso il cerchio.

Ma, dopo alcuni mesi, il re chiese dei cani e Renzolla, vedendosela brutta, corse di nuovo dalla fata e un vecchietto incontrato sulla porta, che era il portiere, le chiese: "Chi sei e che vuoi? ". E Renzolla, sentita questa strana domanda, gli disse: "Non mi riconosci, barba di capra?". "A me con il coltello?", rispose il vecchio, "il ladro insegue lo sbirro! stai lontano che mi sporchi, disse il calderaio! gettati avanti, per non cadere! io barba di capra? tu sei barba di capra e mezza, perché per la tua presunzione ti meriti questo e anche peggio; e aspetta un poco, sfacciata presuntuosa, che adesso ti illumino e vedrai come ti hanno ridotto la tua boria e le tue pretese". Dicendo così corse in una cameretta e, preso uno specchio, lo mise davanti a Renzolla, e lei, quando vide quella brutta faccia pelosa, stava per crepare di spasimi, neanche Rinaldo aveva provato tanta angoscia vedendosi nello scudo incantato così trasformato da com'era, quanto dolore provò lei vedendosi tanto contraffatta al punto di non riconoscersi. Il vecchio le disse: "Ti devi ricordare, Renzolla, che sei figlia di un contadino e che la fata ti aveva portato al punto di essere regina, ma tu sciocca, tu scortese e ingrata, non ringraziandola affatto di tanti favori, l'hai considerata un cesso senza mostrarle un solo segno di affetto. Per questo prendi e spendi, afferra questo e torna per il resto! sei ridotta come meriti, guarda che faccia hai, guarda dove sei finita per la tua ingratitudine, per la maledizione della fata hai non solo cambiato faccia ma anche condizione. Ma, se vuoi fare come ti dice questa mia barba bianca, entra a trovare la fata, gettati a suoi piedi, strappati queste ciocche, graffiati questa faccia, battiti questo petto e chiedile perdono delle tue cattive maniere verso di lei, perché lei, che è di polmone tenerello, si muoverà a compassione delle tue sciagure".

Renzolla, che si sentì toccare e colpire nel centro, fece come diceva il vecchio e la fata, abbracciandola e baciandola, la fece tornare come era prima e, fattole indossare un vestito carico d'oro, dentro una stupefacente carrozza accompagnata da un branco di servi, la portò al re. E lui, vedendola così bella e lussuosa, l'ebbe cara quanto la vita, dandosi pugni in petto per quanti strazi le aveva fatto sopportare e chiedendole perdono se per quella maledetta faccia di capra l'aveva tenuta in poco conto. Così Renzolla visse contenta, amando il marito, onorando la fata, e mostrandosi grata al vecchio, avendo imparato a proprie spese che

"è stato sempre utile essere cortese".

 
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Cagliuso

Post n°775 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta nella mia città, Napoli mia, un vecchio poverissimo così senza niente, senza un soldo, misero, pezzente, di tasca vuota, senza un gonfiore in fondo al borsellino, che se ne andava nudo come un pidocchio. E, sul punto di vuotare i sacchi della vita, chiamò Oraziello e Pippo, i suoi figli, dicendogli: «Già sono stato citato a norma di contratto per il debito che ho con la Natura; e credetemi, se siete cristiani, che proverei un gran piacere ad uscirmene da questo Mandracchio di affanni, da questo porcile di sofferenze, se non fosse che vi lascio in rovina, poveri come Santa Chiara, incerti sulle cinque vie di Melito e senza uno spicciolo, puliti come un bacile di barbiere, leggeri come serventi, secchi come un osso di prugna, che non avete neanche quanto porta su un piede una mosca e se correte cento miglia non vi cade uno spicciolo, perché il mio destino mi ha portato dove cacano i tre cani non mi è rimasta neanche la vita e come mi vedi così puoi scrivere di me, perché sempre, come sapete, ho fatto sbadigli e segni di croce e sono andato a letto senza candela. Con tutto questo, pure voglio alla mia morte lasciarvi qualche segno d'amore; perciò tu, Oraziello, che sei il mio primogenito, prenditi quel crivello che sta attaccato al muro, con cui puoi guadagnarti il pane; e tu, che sei il cucciolo, prenditi la gatta; e ricordatevi del vostro tata». Dicendo così si mise a piangere e dopo un poco disse Addio, è notte.

Oraziello, seppellito il padre con qualche elemosina, prese il crivello e andò correndo di qua e di là per guadagnarsi la vita, così che quanto più setacciava tanto più guadagnava. E Pippo, presa la gatta, disse: «Ma guarda che brutta eredità mi ha lasciato mio padre! non ho da mangiare io e adesso dovrei spendere per due! ma si è mai visto un'eredità così disgraziata? meglio se non ci fosse stata! ».

Ma la gatta, che sentì questo piagnisteo, gli disse: «Tu ti lamenti troppo e hai più fortuna che senno, ma non conosci il tuo destino perché io sono capace di farti ricco se mi ci metto». Pippo, sentendo questo, ringraziò Sua Gatteria e, facendogli tre o quattro carezze sulla schiena, le si raccomandò vivamente, tanto che la gatta, impietosita per lo sfortunato Cagliuso, ogni mattina - quando il Sole con l'esca della luce messa sull'amo d'oro pesca le ombre della Notte - se ne andava sulla spiaggia di Chiaia o alla Pietra del pesce e, avvistando qualche grosso cefalo o una buona orata, l'acchiappava e la portava al re, dicendo: «Il signor Cagliuso, schiavo di Vostra Altezza fino al terrazzo, vi. manda questo pesce con i suoi omaggi e dice: a gran signore piccolo dono ». Il re, con la faccia lieta che di solito si fa a chi porta roba, rispondeva alla gatta: «Dì a questo signore che non conosco che lo ringrazio moltissimo ».

Altre volte questa gatta correva dove si andava a caccia, nelle paludi o agli Astroni, e, quando i cacciatori avevano fatto cadere o un rigogolo o una cinciallegra o una capinera, li prelevava e li presentava al re con la stessa ambasciata. E tante volte ricorse a questo trucco finché il re una mattina le disse: «Io mi sento così obbligato verso questo signor Cagliuso che desidero conoscerlo per ricambiargli l'affetto che mi ha mostrato». La gatta gli rispose: «Il desiderio del signor Cagliuso è dare la vita e il sangue per la vostra corona; e domani mattina senz'altro - quando il Sole avrà dato fuoco alle stoppie dei campi dell'aria - verrà a rendervi omaggio».

Venuta così la mattina, la gatta andò dal re dicendogli: « Signore mio, il signor Cagliuso mi manda a scusarlo, non può venire: perché questa notte se ne sono scappati certi servi e non gli hanno lasciato neanche la camicia». Il re, sentendo questo, fece subito prendere dal suo guardaroba un poco di vestiti e di biancheria e li mandò a Cagliuso e non passarono due ore che lui venne a palazzo guidato dalla gatta, dove ebbe dal re mille complimenti; e, fattolo sedere accanto a lui, gli fece preparare un banchetto da sbalordire.

Ma, mentre si mangiava, Cagliuso di tanto in tanto si voltava verso la gatta dicendole: «Gattina mia, ti raccomando quei quattro stracci, che non vadano perduti». E la gatta rispondeva: «Stai zitto, chiudi la bocca, non parlare di queste miserie! ». E, volendo sapere il re cosa gli occorresse, la gatta rispondeva che gli era venuta voglia di un piccolo limone e il re mandò subito qualcuno in giardino a prenderne un cestello. E Cagliuso tornò alla stessa musica dei suoi stracci e pezze e la gatta tornò a dirgli di chiudere la bocca e il re chiese di nuovo che cosa gli servisse e la gatta con un'altra scusa fu pronta a rimediare alle paure di Cagliuso.

Alla fine, dopo aver mangiato e chiacchierato a lungo di questo e di quello, Cagliuso si congedò e quella volpe rimase col re descrivendo il valore, l'ingegno, il giudizio di Cagliuso e soprattutto le grandi ricchezze che si ritrovava nelle campagne romane e lombarde, cosa per la quale avrebbe meritato d'imparentarsi con un re di corona. E, chiedendo il re quanto potesse avere, la gatta rispose che non si poteva neanche tenere il conto dei mobili, stabili e suppellettili di questo riccone, che non sapeva lui stesso quanto aveva e che se il re avesse voluto informarsene poteva mandare gente con lei fuori dal regno, gli avrebbe fatto toccare con mano che non c'era ricchezza al mondo come la sua.

Il re, chiamati certi suoi fedeli, gli ordinò di informarsi attentamente su questo e loro seguirono la gatta, che, con la scusa di fargli trovare rinfreschi lungo la strada, passo dopo passo, appena uscita dai confini del regno, correva avanti e quante greggi di pecore, mandrie di vacche, allevamenti di cavalli e branchi di porci trovava, diceva ai pastori e ai guardiani: «Olà, state attenti, perché un pugno di banditi vuole saccheggiare tutto quello che si trova in questa contrada! perciò, se volete evitare questa furia e che le vostre cose siano rispettate, dite che sono cose del signor Cagliuso e non vi sarà torto un capello».

La stessa cosa diceva nelle fattorie che trovava sul cammino: in modo che dovunque arrivava la gente del re trovava la zampogna accordata, tutte le cose che vedeva gli veniva detto che erano del signor Cagliuso, tanto che, stanchi di domandare di più, se ne ritornarono dal re, raccontando mari e monti della ricchezza del signor Cagliuso. Sentendo questo il re promise un buon compenso alla gatta se avesse combinato questo matrimonio e la gatta, fatta la spola di qua e di là, alla fine concluse l'affare.

E, venuto Cagliuso e avuta dal re una grossa dote e la figlia, dopo un mese di feste disse che voleva portare la sposa nelle sue terre e, accompagnati dal re sino ai confini, se ne andò in Lombardia, dove su consiglio della gatta comprò un poco di paesi e terreni e diventò barone.

Ora Cagliuso, vedendosi ricco sfondato, ringraziò la gatta a più non posso dicendo che a lei doveva la vita e la sua grandezza ai suoi buoni uffici, che gli aveva fatto più bene il trucco di una gatta che l'ingegno del padre e quindi poteva fare e disfare della roba e della vita sua come le pareva e piaceva, e che le dava la sua parola che quando fosse morta, da là a cent'anni, l'avrebbe fatta imbalsamare e mettere dentro una gabbia d'oro nella sua stessa camera, per avere sempre davanti agli occhi il suo ricordo.

La gatta, che sentì questa sparata, dopo neanche tre giorni si finse morta stendendosi lunga lunga nel giardino. Nel vedere questo la moglie di Cagliuso gridò: «O marito mio, e che gran disgrazia! è morta la gatta!». «E si porti appresso tutti i malanni», rispose Cagliuso, «meglio lei che noi! ». «Che ne facciamo?», chiese la moglie. E lui: «Prendila per un piede e gettala dalla finestra!».

La gatta, sentendo questa bella ricompensa che non si sarebbe neanche immaginata, cominciò a dire: «Questo è il a buon rendere per i pidocchi che ti ho tolto da dosso? queste sono le mille grazie per gli stracci che ti ho fatto gettare via, che avresti potuto appenderci i fusi? questo ho in cambio dopo averti vestito elegante come un ragno e averti sfamato quando eri affamato, miserabile, straccione, che eri uno sbrindellato, pezzente, cencioso, sdrucito, scalzacane? così finisce chi lava la testa all'asino! vai, che cada la maledizione su quello che ti ho fatto, perché non meriti che ti sia sputato in gola! bella gabbia d'oro mi avevi preparata, che bel sepolcro mi avevi destinato! vai, servi, fatica, stenta per poi avere questo bel premio! disgraziato chi mette su la pentola per le speranze altrui! disse bene quel filosofo: chi si addormenta asino asino si sveglia! insomma chi più fa meno aspetta, ma buone parole e tristi fatti ingannano i saggi e i matti! ».

Dicendo così e scuotendo la testa se ne andò e, per quanto Cagliuso con il polmone dell'umiltà cercasse di ingraziarsela, non ci fu verso che tornasse indietro, ma, correndo senza mai voltare la testa, diceva:

"Dio ti guardi dai ricchi impoveriti
e dai miserabili che sono arricchiti".

 
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Al valor civile (Pirandello)

Post n°774 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Dicendo agli uomini: tigri, jene, lupi, serpi, scimmie o conigli, Bruno Celèsia temeva di fare a quelle bestie un’ingiuria che non si meritavano, perché ciascuna, conforme e obbediente alla propria natura; mentre l’uomo! falso, l’uomo. E dunque, sputi in faccia, all’uomo, e possibilmente calci in un altro posto!

— Lo so io che ci ho qua dentro! — diceva, aggrondato, ponendosi una mano sul ventre.

— Un figliuolo?

— L’inferno, canaglia!

E un cratere di vulcano avrebbe voluto avere per bocca, parola d’onore! Il cratere dell’Etna, per vomitare addosso all’umanità tutto quel fuoco che gli ruggiva dentro.
Pur non di meno, assistendo quel giorno dalla Piazza del Municipio alla solenne distribuzione delle onorificenze al valor civile, Bruno Celèsia, fra sé e sé non poteva non riconoscere sinceramente ch’era una bella e degna festa.
Matricolato imbroglione, quel sindaco, oh! Ma oratore nato. E più volte, durante il magnifico discorso che esaltava le virtù native della gente siciliana, ricordando gli atti eroici da essa compiuti, Bruno Celèsia s’era sentito correre per la schiena un brivido elettrico. Con le dita irrequiete, intanto, si cacciava in bocca e mordicchiava i peli dei baffoni o la punta della ruvida barba crespa. A quando a quando, poi, rapidamente si passava l’altra mano su la falda del farsetto lustro e inverdito. Perché? Ma perché l’umanità è porca, ecco perché! Fatta tutti di figli di cane, ecco perché! Era venuto in voga da alcuni giorni lo stupido scherzo d’attaccar dietro alla gente con uno spillo un pezzetto di carta con un motto sconcio o con uno sgorbio sguaiato. Già due volte, a lui, una testa di cervo, e una mano che faceva le corna.

— Porci! Bravissimo!

La seconda esclamazione era per il sindaco, che ricordava in quel momento ciò che il popolo di Palermo aveva saputo fare nelle storiche giornate del suo glorioso riscatto.
Finito fra strepitosi applausi il discorso del sindaco, a cui il Celèsia, infiammato, non aveva saputo tenersi dal tributare anche i suoi, cominciò la premiazione.
Su l’ampio balcone marmoreo del palazzo municipale, ove col sindaco tutto in sudore stavano placidi, coi ventaglini in mano, i consiglieri comunali e le loro signore e i maggiorenti del paese, si presentò dapprima un giovinetto bruno, vigoroso, dagli occhi arditi, bellissimo, che due volte s’era cacciato in una casa in fiamme per salvare una vecchia e un bambino.
La folla lo accolse entusiasticamente.

— Viva Sghembri! Viva Carluccio Sghembri!

Qualcuno osservò che quei signori del municipio avrebbero fatto meglio a istituire un corpo di pompieri, di cui il paese ancora difettava, e a far pompiere Carluccio che se l’era meritato, invece di dargli quella medaglia al valor civile, della quale, in fin dei conti, non avrebbe saputo che farsi, povero facchino di porto che si rompeva la schiena tutto il giorno allo scarico o agli imbarchi, sotto le balle di carbone e i pani di zolfo.

«Sei bello,» borbottava fra sè Bruno Celèsia, ammirandolo, «ma cresci, caro, e vedrai che fior di canaglia diventerai anche tu! Viva! Viva!»

Applaudiva intanto con gli altri e si passava la mano su la falda del farsetto.
A uno a uno si presentarono agli evviva della folla, per ricevere la loro medaglia, gli altri quattro eroi della giornata.

— D’un momento, — commentava sotto, tra la folla, il Celèsia. — Birbaccioni prima, birbaccioni dopo... Tutta l’umanità... puàh! schifosa... Viva! Viva!

Terminata la premiazione, la folla cominciò a sparpagliarsi. Bruno Celèsia vagò ancora un pezzo, guardingo e sdegnoso, tra quel rimescolio di gente. Ammirava i lampioncini variopinti, preparati per la luminaria della sera e di tratto in tratto storceva la bocca.

— Se si mette lo scirocco!

E alzava gli occhi al cielo minaccioso, che a mano a mano s’infoscava di più.

«Torniamocene a casa,» disse a un certo punto, risolutamente, a se stesso, «perché questo paese di cani, se no, è capace di credere e di proclamare che la festa sarà guastata dalla pioggia, solo perché io oggi mi son fatto vedere in piazza.»

Scorse da lontano quella mala zeppa di suo padre che tante amarezze gli aveva cagionate e che forse, per la terza volta, cercava lì, dentro le tasche del prossimo, la via per tornarsene in catorbia donde era uscito da pochi mesi: voltò sdegnosamente le spalle e s’avviò di fretta per rincasare.

«Dicono che le ranocchie,» pensava andando, «usano di passar l’inverno nel fango dei fossati. Mio padre, peggio: nel fango della vita, tutt’e quattro le stagioni...»

S’era impegnati fino gli occhi della testa per salvarlo, la prima volta. Ora non voleva più vederlo neanche da lontano. Quel nome sporcato che portava da lui gli bruciava la fronte come una bollatura di fuoco.

— Ma, del resto, non l’ho svergognato soltanto io il tuo bel nome! — aveva pure avuto il coraggio di buttargli in faccia il padre una volta. — Pensa a tua moglie, piuttosto, che ne fa strazio da tanti anni pubblicamente.

E Bruno Celèsia s’era morso a sangue una mano per non rispondere. Poiché sua moglie...
Ma, pubblicamente, no: con uno solo.
Non l’aveva uccisa, perché sicurissimo che peggio della morte sarebbe stato per lei l’amante, il quale prima o poi l’avrebbe abbandonata, gettata in mezzo a una strada, come un sacco d’immondizie. Che! Vivevano felici, maritalmente, quei due, da tanti anni, e rispettati e riveriti da tutto il paese. E tre figliuoli avevano, tanto carini... poveri innocenti: bastardelli! A lui, quella buona femmina non aveva saputo dargliene neanche uno, legittimo... Non si sarebbe sentito così solo, adesso... non avrebbe invidiato nessuno... Sia, dopo tutto, forse meglio così. Nessuna cosa gli era andata a verso, mai, nella vita: e fors’anche dai figli, se ne avesse avuti, chi sa quali dispiaceri, quali e quanti dolori.
Destino. Eh via, sì, destino: come non crederci? Che aveva fatto, lui, per essere così il bersaglio di tutte le frecce, figlio, marito, cittadino; malvisto e sfuggito da tutti, perché in fama di iettatore, e deriso, anziché compianto, per le sue domestiche sventure?
Non s’era mai gettato in imprese arrischiate: eppure, da quelle poche, sicure, che aveva tentate era sempre uscito col danno e le beffe. Tanti s’erano arricchiti prendendo in appalto la manutenzione dell’antemurale del porto: ci s’era messo lui, e a botte di mare mezza scogliera, appena appena costruita, volata via. Gli scogli gettati dagli altri appaltatori, il mare, sì, se li era pigliati in santa pace, come tozzi di pane.

— Da Bruno Celèsia, no; non me ne piglio.

Si poteva lottare con quel bestione del mare? E s’era ridotto povero in canna. Per carità aveva trovato un posticino di scritturale in un banco; ma ci voleva tutta la sua pazienza per resistervi. Perché al principale non piaceva la sua mano di scrittura; e a lui veniva proprio in punta in punta alla lingua di rispondergli, che una vera porcheria era farle, certe cose, e non come lui gliele scriveva sul registro.
Così riflettendo su le sue sciagure, Bruno Celèsia si ridusse a casa.
Abitava all’estremità del paese, dalla parte di ponente, dove la spiaggia svoltava sotto l’altipiano marnoso per descrivere un’altra lunga lunata. Le poche case che si allineavano lì, addossate all’altipiano, vicinissime al mare, erano escluse dalla vista del paese, disposto a semicerchio, nell’altra insenatura della spiaggia. E lì era pace, una gran pace quasi stupefatta dall’infinito spettacolo del mare.
Dovette affrettare gli ultimi passi, perché già la pioggia cominciava a cadere, e infittiva. Il mare era inquieto, torbido, e gonfiava di punto in punto sotto l’incombente minaccia del cielo gravido d’enormi nuvole nere. I marosi, intumidendo, cominciavano a cozzare gli uni negli altri e non riuscivano ancora a frangersi. Solo una breve spuma rabbiosa ferveva un tratto, a strisce, su per le creste irte, qua e là.

— Vuol darci dentro bene! — sospirò il Celèsia guardando dietro i vetri del balconcino.

Poco dopo, infatti, il cielo incavernò, e fu per qualche momento una tetraggine attonita, spaventevole. Di tratto in tratto, una raffica strisciava rapidissima su la spiaggia e sollevava un turbine di rena. Il primo tuono finalmente scoppiò, formidabile, e fu come il segnale della tempesta.
Bruno Celèsia chiuse gli scuri, accese il lumetto a petrolio e andò a sedere alla vecchia scrivania per riprendere, secondo il solito suo, la lettura d’un grosso libraccio, ove era narrata la storia della scoperta dell’America. A ogni nuovo scoppio di tuono si stringeva nelle spalle e stirava il collo:

— Forza, Domineddio! Bombardiamo.

Gli s’affacciavano alla mente quei poveri lampioncini variopinti, preparati per la luminaria, e sogghignava.
Leggeva da circa un’ora, quando gli parve di sentire, tra il fragorìo incessante del mare, urli su la spiaggia. Si recò al balcone, schiuse uno scuro e, a prima giunta... un lampo che l’accecò! Tremendo spettacolo! Sì, sì... laggiù... che era accaduto? C’era gente, tanta gente che si riparava alla meglio dalle ondate che avventava il mare furibondo. Ecco, sì: urlavano! Che era accaduto? Prese il cappello e corse a vedere.
Nell’orrendo tenebrore fragoroso tremava qua e là su la spiaggia qualche lumino spaventato di lanterna riparata da un mantello, da uno scialle: una gran folla era accorsa laggiù, uomini e donne, i quali aspettavano trepidanti, ansiosi, l’improvvisa luce d’un lampo per intravedere sul mare una barca assaltata orribilmente dai flutti e dal vento. Alcuni intanto s’affannavano a ripetere che sulla barca non c’era nessuno, che il mare se l’era strappata dalla spiaggia, di là dall’antemurale, ov’era tirata a secco; altri invece giuravano e spergiuravano di avervi scorto un uomo che gestiva così... così... e rifacevano i gesti disperati; e altri riferivano che molte lance erano uscite quel giorno dal porto, dirette ai bagni di San Leone, fra le quali qualcuna poteva essere stata sorpresa dalla tempesta, sul ritorno.

— Eccola! Eccola! - si gridò a un tratto, da tutte le parti, a un ampio palpito repentino di livida luce.

Ma subito il tuono rimbombò tremendo, e coprì gli urli della folla. Nella cresciuta oscurità la tempesta convolse animi e cose più spaventosamente di prima di tra la furia del vento e del mare.
Cessato il rimbombo, i commenti ripresero come sperduti, lontani:

— Sì, sì! C’era, c’era un uomo sulla barca... chiedeva aiuto, aiuto! — Tutti questa volta lo avevano veduto.

— E chi va? — gridò Bruno Celèsia. — Gli eroi di quest’oggi dove sono?

Ma quanto più ciascuno sentiva il bisogno di far qualcosa, tanto più l’animo sul punto mancava, e tutti gridavano aiuto, quanto loro usciva dalla gola, come se l’aiuto non dovesse partire da loro. Al sarcastico richiamo del Celèsia, qualcuno infine gridò tra la folla:

— Eccomi! A me una barca!

E, facendosi largo, quasi rabbiosamente, si fece avanti, risoluto e pronto al nuovo cimento, Carluccio Sghembri.
Subito il Celèsia, in un impeto d’ammirazione, gli buttò le braccia al collo e lo baciò in fronte, piangendo, esclamando:

— Figlio di Dio! Ma no! tu no! tu non devi andare! Qua a me la barca! Vado io!

E cominciò a spogliarsi di furia. Lo Sghembri si opponeva.

— Vado io — incalzò imponendosi alla folla, Bruno Celèsia. — Nessuno s’arrischi d’impedirmelo... Vattene tu! La tua medaglia te la sei guadagnata! Tocca a me! Lasciatemi, vi dico! Nuoto benissimo! Vado io! La vita per me non ha più prezzo! Lasciatemi andare!

Un vecchio marinaio recò di corsa un salvagente legato a una gomena; altri intanto avevano spinto su la spiaggia una barchetta Bruno Celèsia vi saltò dentro, nudo. Subito il mare con un’ondata furiosa si rapì la barchetta. Fu un grido d’orrore. Ingoiato dalla tenebra, Bruno Celèsia era sparito sul mare.

— Molla! Molla! — si gridò al marinaio che reggeva la gomena.

Più viva, più smaniosa, ora, nell’angoscia, si fece l’attesa d’un nuovo baleno. Pareva intanto che il cielo lo facesse apposta: tenebra e fragore che toglievano il respiro! Tutti, per sottrarsi in qualche modo a quell’orrenda trepidazione, avrebbero voluto attendere alla gomena che si svolgeva man mano da sè, lì, come cosa viva, al lume tremolante delle lumiere riparate dai mantelli.

— Largo! Largo! Lasciatela libera!

Un lampo.

— Eccolo! Eccolo! — si gridò di nuovo; e subito le voci furono come ingoiate dalla tenebra sopravvenuta più fitta.

Ma lo avevano scorto, lì, presso l’altra barchetta. L’ansia divenne angosciosa.

— Lo salva! Lo salva!

E le donne singhiozzavano, e gli uomini irrequieti, tremanti, nell’angosciosa sospensione, imponevano silenzio, come se potesse giovare. A un certo punto, parve che la gomena, lì per terra, non si movesse più. Il marinaio la prese in mano; attese un tratto; poi gridò, piangendo al colmo della gioia:

— Ecco, tira! Fa leva! fa leva!

Tutti allora si precipitarono ad afferrar la gòmena, giubilanti, esultanti.
Un altro lampo...

— Eccolo! Forza! Forza! Viene! Evviva! Evviva!

E, poco dopo, Bruno Celèsia venne ad urtare con la barchetta contro la spiaggia.

— Salvo! Salvo! Qua dentro la barca! Tirate! Respira ancora!

Un trionfo. Ma quando la folla poté riconoscere il naufrago...
Ecco. Non basta tante volte alla sorte perseguitare un pover’uomo fino a rendergli la vita impossibile; vuole anche apporre a ogni persecuzione come un suggello di scherno.
Bruno Celèsia aveva salvato l’amante di sua moglie.

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Cadrà dolce la pioggia (Teasdale)

Post n°773 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cadrà dolce la pioggia e si diffonderà il profumo della terra,
le rondini voleranno in cerchio stridendo;
canteranno le rane negli stagni a notte alta,
e i pruni selvatici biancheggeranno tremuli;
i pettirossi si vestiranno di penne di fuoco,
fischiando le loro ariette sugli steccati;
e nessuno saprà della guerra, nessuno
si curerà infine quando tutto sarà compiuto,
né albero, né uccello
farà caso all'umanità morente;
e la stessa primavera, quando si leva all'alba
appena s'accorgerà che ce ne siamo andati.

 
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Libri dimenticati:Un delitto al giorno

Post n°772 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Alessandro Riva e Lorenzo Viganò ricostruiscono 365 delitti ,alcuni noti altri meno,uno per ogni giorno dell'anno.Particolare

 
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Frase del giorno

Post n°771 pubblicato il 19 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Di sera leoni ,la mattina coglioni! (Mia nonna)

 
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questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
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