Messaggi del 21/09/2011

Il vecchio Sultano

Post n°791 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un contadino aveva un cane fedele di nome Sultano, che era diventato vecchio e non era più in grado di acchiappare nulla. Un giorno il contadino si trovava in cortile con la moglie e diceva -Domani ucciderò il vecchio Sultano: non è più buono a nulla- La donna ebbe compassione della povera bestia e rispose: -Ci ha serviti fedelmente per tanti anni! Potremmo continuare a mantenerlo per carità-. -Ma che dici?- replicò l'uomo -sei matta: non ha più un dente in bocca, e nessun ladro potrebbe averne paura; ci ha serviti e in cambio ha avuto buoni pranzetti. Adesso che non è più buono a nulla è ora che se ne vada.- Il cane, che era disteso lì vicino e aveva sentito tutto, si spaventò ed era triste che l'indomani fosse il suo ultimo giorno. Sultano aveva un buon amico, il lupo. La sera, di nascosto, andò a trovarlo nel bosco e gli raccontò il triste destino che lo attendeva. -Non preoccuparti- disse il lupo -ho un'idea. Domani, allo spuntar del giorno, il tuo padrone e sua moglie vanno a prendere il fieno e portano con s‚ il loro piccino. Mentre lavorano lo mettono all'ombra dietro la siepe: sdraiati vicino a lui, come se volessi fargli la guardia. In quel momento io uscirò dal bosco e lo rapirò; tu corrimi dietro più in fretta che puoi, come se me lo volessi strappar via. Poi lo lascerò cadere e tu lo riporterai indietro, così crederanno che l'abbia salvato tu e te ne saranno troppo grati per farti del male; anzi tornerai a essere nelle loro grazie e non ti faranno mai mancare nulla.- La proposta piacque al cane, e tutto andò secondo le previsioni. Il contadino si mise a gridare vedendo il lupo correr via per il campo con il suo bambino, ma quando il vecchio Sultano glielo riportò, tutto felice lo accarezzò e disse: -Non ti farò alcun male, ti manterrò gratuitamente finché‚ vivrai-. Poi disse alla moglie: -Va' subito a casa e prepara una zuppa che non sia da masticare per il vecchio Sultano; dagli anche il mio guanciale, glielo regalo per la sua cuccia-. Da quel giorno in poi, il vecchio cane fu trattato con ogni riguardo, ed egli non avrebbe potuto desiderare di meglio. Il lupo venne a fargli visita e si rallegrò che tutto fosse andato secondo il loro disegno. -Senti compare- disse poi -chiuderai un occhio se per caso rubassi al tuo padrone una bella pecora. Oggigiorno è difficile tirare a campare!- -No- rispose il cane -io sono fedele al mio padrone; non posso concedertelo!- Ma il lupo pensò che il cane non facesse sul serio e, di notte, venne a prendersi il buon bocconcino. Invece il fedele Sultano aveva avvertito il suo padrone, e questi aspettò il lupo nel granaio e lo conciò per le feste. Il lupo dovette darsela a gambe, ma gridò al cane: -Questa me la pagherai, cattivo compagno!-. La mattina dopo il lupo mandò il cinghiale a chiamare il cane nel bosco, per risolvere la questione. Ma il cane non pot‚ trovare nessun padrino, all'infuori di un gatto con tre zampe. Quando si misero in cammino insieme, il povero gatto zoppicava e rizzava la coda per il dolore. Il lupo e il suo padrino si trovavano già sul posto ma, quando videro arrivare l'avversario, pensarono che portasse con s‚ una sciabola, mentre non si trattava che della coda del gatto. E vedendo la povera bestia saltellare su tre gambe, credettero che stesse raccogliendo pietre per lanciarle addosso a loro. Allora s'impaurirono tutti e due: il cinghiale si nascose nel fogliame, mentre il lupo saltò su di un albero. Avvicinandosi, il cane e il gatto si stupirono di non vedere nessuno. Ma il cinghiale non aveva potuto nascondersi del tutto nel fogliame: le orecchie sporgevano un po' fuori. Mentre il gatto si guardava attorno, il cinghiale mosse le orecchie: il gatto, credendo che si trattasse di un sorcio, vi si buttò sopra azzannandole per bene. Allora il cinghiale saltò su strepitando e fuggì gridando: -Là, sull'albero c'è il colpevole!-. Il cane e il gatto alzarono gli occhi e scorsero il lupo che si vergognò di avere avuto tanta paura e accettò di fare la pace con il cane.

FINE



Classificazione (Aarne-T

 
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L'ondina

Post n°790 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un fratellino e una sorellina giocavano accanto a una fontana e, mentre giocavano, vi finirono dentro. Là dentro vi era un'ondina che disse: -Adesso che siete in mio potere, vi toccherà servirmi per bene!-. Così alla fanciulla diede da filare del brutto lino tutto aggrovigliato e la costrinse a portare acqua in una botte forata, mentre il ragazzo doveva abbattere un albero con una scure senza più il filo; e da mangiare non ricevevano altro che gnocchi duri come pietre. Alla fine i bambini persero la pazienza, aspettarono una domenica e, mentre l'ondina era in chiesa, fuggirono. Finita la messa, l'ondina si accorse che gli uccellini avevano preso il volo e li inseguì a grandi balzi. Ma i bambini la scorsero da lontano e la fanciulla si gettò una spazzola dietro le spalle; e ne venne una montagna di spazzole con mille e mille setole pungenti, sulle quali l'ondina dovette arrampicarsi a gran fatica; ma alla fine riuscì a oltrepassarle. I bambini la videro e il ragazzo si buttò dietro le spalle un pettine; e ne venne fuori una montagna di pettini con mille e mille denti, ma l'ondina vi si aggrappò saldamente e riuscì a passare anche stavolta. Allora, la fanciulla gettò dietro di s‚ uno specchio e ne venne fuori una montagna di specchio, così liscia, ma così liscia che l'ondina non poteva arrampicarvisi. Allora pensò: "Andrò in fretta a casa a prendere la mia ascia e spaccherò il monte di specchio". Ma prima che tornasse e l'avesse spaccato, i bambini erano già fuggiti da un pezzo e l'ondina dovette andare di nuovo nella sua fonte.

FINE



Classificazione (Aarne-Thompson):
AT 0313-A - The Girl Helps the Hero Flee

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L'insalata magica

Post n°789 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un giovane cacciatore dall'indole allegra e vivace. Un giorno si recò nel bosco alla posta e, mentre camminava fischiettando con una foglia, incontrò una brutta vecchietta, che gli rivolse la parola e disse: -Buon giorno, cacciatore! Tu sei di buon umore, ma io soffro la fame e la sete: fammi la carità-. Il cacciatore ebbe pietà della povera vecchina, così mise la mano in tasca e le diede quello che aveva. Poi fece per proseguire, ma la vecchia lo trattenne e disse: -Caro cacciatore, ascolta quello che ti dico; voglio farti un regalo per il tuo buon cuore: continua dritto per la tua strada, dopo un po' arriverai a un albero, sul quale ci saranno nove uccelli che si azzufferanno per un mantello. Allora prendi la mira e spara nel mucchio: lasceranno cadere il mantello, ma anche uno degli uccelli sarà colpito e cadrà a terra. Prendi il mantello, è magico: se te lo getti sulle spalle e desideri di trovarti in qualche luogo, in un baleno ci sarai. L'uccello morto, invece, devi aprirlo, togliergli il cuore e ingoiarlo intero; ogni mattina, alzandoti, troverai una moneta d'oro sotto il guanciale, e ciò grazie all'uccello-. Il cacciatore ringraziò l'indovina e pensò fra s‚: "Belle cose, se solo si avverassero!-. Ma dopo aver fatto un cento passi, udì delle strida e dei cinguettii fra i rami, sopra la sua testa; alzò gli occhi e vide un mucchio d'uccelli che si disputavano un panno con i becchi e con le zampe, e strillavano, tiravano e si azzuffavano, come se ciascuno lo volesse per s‚ solo. -Che strano!- disse il cacciatore -è proprio come ha detto la nonnina.- Si tolse di spalla il fucile, prese la mira e sparò nel mucchio, facendo volare le piume all'intorno. Subito gli uccelli presero la fuga levando alte strida, uno però cadde a terra morto, e scese pure il mantello. Allora il cacciatore fece quello che gli aveva ordinato la vecchia, aprì l'uccello, cercò il cuore, lo ingoiò e si portò a casa il mantello. Il mattino dopo, quando si svegliò, gli venne in mente la promessa, e volle vedere se si era avverata. Alzò il cuscino, ed ecco una moneta d'oro sfavillante; il mattino dopo ne trovò un'altra, e così via ogni giorno, al risveglio. Raccolse un bel gruzzolo d'oro, e alla fine pensò: "A che mi serve tutto quest'oro, se resto a casa? Me ne andrò a girare il mondo". Prese congedo dai suoi genitori, si mise a tracolla il carniere e il fucile, e se ne andò. Un giorno gli accadde di attraversare un fitto bosco, e quando terminò, ecco davanti a lui, in una pianura, uno splendido castello. A una finestra era affacciata una vecchia con una bellissima fanciulla, e guardava giù. La vecchia però era una strega, e disse alla fanciulla: -Dal bosco sta arrivando uno che ha in corpo un gran tesoro; perciò dobbiamo abbindolarlo, mia cara, quella è roba che si addice più a noi che a lui. Ha in un corpo un cuore d'uccello, e per questo ogni mattina c'è una moneta d'oro sotto il suo guanciale-. E le raccontò tutta la faccenda e che parte ella dovesse fare; poi alla fine le disse, facendole gli occhiacci: -Se non mi ubbidisci, guai a te!-. Il cacciatore avvicinandosi, scorse la fanciulla e pensò: "Ho girato tanto che voglio riposarmi in questo bel castello; denaro ne ho in abbondanza". Ma, in realtà, egli aveva gettato gli occhi su quella bellezza. Entrò nella casa e fu accolto con cordialità e gentilmente ospitato. Non tardò molto a innamorarsi della figlia della strega, tanto che non pensava più ad altro, vedeva soltanto i suoi occhi e faceva tutto ciò ch'ella desiderava. Allora la vecchia disse: -Adesso dobbiamo prendere il cuore dell'uccello, non si accorgerà neppure che gli manca-. Preparò un decotto e, quando fu pronto, lo mise in un bicchiere e lo diede alla fanciulla, che dovette portarlo al cacciatore. Ella disse: -Orsù, mio caro, bevi alla mia salute!-. Egli prese il bicchiere, e non appena ebbe ingoiato il decotto, vomitò il cuore dell'uccello. La fanciulla dovette portarlo via di nascosto, e inghiottirlo lei stessa, poiché‚ la vecchia lo voleva. Da quel giorno egli non trovò più sotto il guanciale la moneta d'oro, che si trovava invece sotto il cuscino della fanciulla, dove la vecchia la prendeva ogni mattina. Ma egli era così follemente innamorato, che pensava solo a passare il suo tempo con lei. Allora la vecchia strega disse: -Il cuore d'uccello l'abbiamo, ma dobbiamo ancora prendergli il mantello magico-. La fanciulla rispose: -Quello lasciamoglielo! Ha già perso la sua ricchezza-. La vecchia s'infuriò e disse: -Un mantello come quello è una cosa straordinaria, che si trova raramente a questo mondo: perciò devo assolutamente averlo-. Disse alla fanciulla quel che doveva fare e aggiunse che se non avesse obbedito, sarebbe stata punita. Allora la fanciulla, assecondando la vecchia, si mise alla finestra e guardò lontano, fingendo una gran tristezza. Il cacciatore le domandò: -Perché‚ sei così triste?-. -Ah, tesoro mio!- ella rispose -là di fronte c'è il monte dei granati, dove crescono le pietre più preziose. Le desidero tanto che, se ci penso, divento tutta triste. Ma chi può andare a prenderle? Soltanto gli uccelli che volano possono arrivarci, non certo un uomo!- -Se il tuo dolore è tutto qui- disse il cacciatore -si fa in fretta a scacciarlo.- La prese sotto il suo mantello e desiderò di essere sul monte dei granati; e all'istante vi si trovarono tutti e due. Le pietre preziose brillavano da ogni parte, ch'era una gioia vederle, ed essi raccolsero le più belle e le più preziose. Ma la vecchia, con le sue arti, aveva fatto in modo che al cacciatore si appesantissero le palpebre, sicché‚ questi disse alla fanciulla: -Sediamoci un poco a riposare, sono così stanco che non mi reggo più in piedi-. Si sedettero ed egli le posò la testa in grembo e si addormentò. Quando fu addormentato, ella gli tolse il mantello dalle spalle, se lo mise, raccolse i granati e le gemme e desiderò di essere a casa. Ma quando il cacciatore si svegliò, vide che la sua diletta lo aveva ingannato e lo aveva abbandonato su quel monte selvaggio. -Ah!- esclamò -quanta perfidia c'è a questo mondo!- e se ne stette là triste e addolorato senza sapere che fare. Ma la montagna apparteneva a dei feroci, terribili giganti, che abitavano lassù, facendone di tutti i colori. Mentre il cacciatore se ne stava seduto là, ne vide tre avvicinarsi a grandi passi. Allora pensò: "L'unico modo per salvarmi è fingere di dormire" e, in fretta, si sdraiò per terra, come se fosse immerso in un sonno profondo. I giganti si avvicinarono, e il primo gli diede una pedata e disse: -Che razza di vermiciattolo se ne sta qui a guardarsi la pancia?-. Il secondo disse: -Calpestalo!-. Ma il terzo disse, superbamente: -Non ne vale la pena! Lasciatelo stare, tanto se sale in cima al monte le nubi lo afferrano e lo portano via-. Così dicendo se ne andarono, ma il cacciatore aveva prestato attenzione alle loro parole e, come si furono allontanati, si arrampicò sulla cima del monte. Poco dopo, si avvicinò una nube, librandosi nell'aria, lo afferrò, lo portò via, vagò qua e là per il cielo, poi si abbassò su un grande orto circondato da mura, sicché‚ egli si posò dolcemente fra i cavoli e gli ortaggi. Il cacciatore si guardò attorno e disse: -Se solo avessi qualcosa da mangiare! Ho tanta fame che sarà difficile proseguire; ma qui non vedo n‚ mele, n‚ pere, n‚ altri frutti: non vi sono che ortaggi-. Alla fine pensò: "In mancanza d'altro, mangerò dell'insalata: mi rinfrescherà e mi irrobustirà". Si cercò un bel cespo d'insalata e si mise a mangiare, ma non appena ebbe inghiottito un paio di bocconi, si sentì molto strano, gli pareva di essere cambiato, e vide con spavento che si era trasformato in un asino. Tuttavia, poiché‚ aveva ancora tanta fame, e l'insalata fresca gli piaceva tanto, continuò a mangiarla avidamente, finché‚ giunse a un'altra specie d'insalata, e come ne ebbe mangiata qualche foglia, sentì un nuovo mutamento e riacquistò fortunatamente il suo aspetto umano. Allora il cacciatore si sdraiò e fece una bella dormita. Il mattino dopo, al risveglio, colse un cespo di insalata cattiva e uno di quella buona e pensò: "Mi serviranno a tornare in possesso di ciò che era mio, e a punire l'infedeltà". Li mise nel carniere, scavalcò il muro e si avviò alla ricerca del castello della sua amata. Dopo aver girato un paio di giorni, ebbe la fortuna di trovarlo. Si scurì in fretta il viso, che neanche sua madre lo avrebbe riconosciuto, entrò nel castello e chiese ospitalità. -Sono così stanco- disse -che non posso proseguire.- La strega gli domandò: -Campagnolo, chi siete, e che mestiere fate?-. Egli rispose: -Sono un messaggero del re, che mi ha mandato a cercare l'insalata migliore che vi sia al mondo. Ho avuto la fortuna di trovarla e ce l'ho con me; il sole però scotta troppo e rischia di farmi appassire le foglie più tenere, perciò non so se la porterò più lontano-. La vecchia, sentendo parlare dell'insalata tanto buona, ebbe voglia di assaggiarla e disse: -Caro campagnolo, lasciatemi mangiare un po' di quell'insalata straordinaria-. -Perché‚ no?- rispose egli -ne ho presi due cespi, ve ne darò uno.- Aprì il carniere e le porse quello cattivo. La vecchia non pensò a un tranello, e la nuova pietanza le faceva venire l'acquolina in bocca, tanto che andò di persona in cucina a prepararla. Quando fu pronta, non pot‚ aspettare che fosse in tavola, ma ne prese subito qualche foglia, e se la mise in bocca. Ma non appena l'ebbe inghiottita, perse l'aspetto umano e corse giù in cortile, trasformata in asina. In cucina, intanto, arrivò la serva, vide l'insalata pronta e volle portarla in tavola, ma per strada, secondo la sua vecchia abitudine, fu presa dalla voglia di assaggiarla e ne mangiò due foglie. Quelle mostrarono all'istante il loro potere magico: diventò un'asina anche la serva e corse fuori dalla vecchia, mentre il piatto d'insalata cadde a terra. Nel frattempo il messaggero se ne stava con la bella fanciulla e, siccome non veniva mai nessuno con l'insalata, e anche lei ne aveva voglia, ella disse: -Chissà che fine ha fatto l'insalata!-. Il cacciatore pensò: -Avrà già prodotto il suo effetto!" e disse: -Andrò in cucina a vedere-. Quando scese, vide le due asine che correvano in cortile, e l'insalata per terra. -Bene, bene- disse -quelle due hanno avuto ciò che meritavano!- Raccolse le foglie avanzate, le mise nel piatto e le portò alla fanciulla. -Vi porto io stesso questa delizia- disse -perché‚ non dobbiate aspettare ancora.- Ella ne mangiò e subito perse il suo aspetto umano come le altre due, e corse in cortile, trasformata in asina. Poi il cacciatore si lavò la faccia, perché‚ le trasformate potessero riconoscerlo, scese in cortile e disse: -Adesso riceverete la ricompensa per la vostra infedeltà-. Le legò tutte e tre a una corda, e le condusse via, finché‚ giunse a un mulino, e bussò alla finestra del mugnaio. -Che cosa c'è?- domandò il mugnaio. Egli rispose: -Ho qui tre bestiacce. Se volete prenderle voi, procurar loro lo strame e il foraggio, e trattarle come vi dico io, vi pagherò quel che volete-. -Perché‚ no?- disse il mugnaio. -Ma come devo trattarle?- Allora il cacciatore disse che l'asina vecchia, cioè la strega, doveva bastonarla tre volte al giorno e non darle mai da mangiare; quella un po' più giovane, cioè la serva, doveva bastonarla una volta al giorno e darle tre razioni di foraggio; quella più giovane di tutte, cioè la fanciulla, non doveva bastonarla mai, e doveva darle tre razioni di foraggio al giorno, perché‚ non poteva sopportare che la bastonassero. Poi tornò al castello e trovò tutto ciò che gli occorreva. Dopo qualche giorno arrivò il mugnaio e disse che, a ricevere solo bastonate e neanche una razione di foraggio, la vecchia asina era morta. -Le altre due- proseguì -non sono morte, e ricevono ogni giorno da mangiare, ma sono così tristi, che non andranno avanti per molto.- Allora il cacciatore s'impietosì, scordò la sua collera e disse al mugnaio di riportarle indietro. Quando giunsero al castello, diede loro da mangiare l'insalata buona, sicché‚ ridiventarono esseri umani. La bella fanciulla cadde allora in ginocchio davanti a lui e disse: -Ah, amor mio! Perdonatemi il male che vi ho fatto: mia madre mi ci ha costretta, ma l'ho fatto contro la mia volontà, perché‚ io vi amo con tutto il cuore. Il vostro mantello magico è appeso in un armadio, e prenderò qualcosa per vomitare il cuore d'uccello-. Allora egli cambiò idea e disse: -Tienilo pure, è lo stesso, perché‚ diventerai la mia sposa fedele-. Così furono celebrate le nozze ed essi vissero felici insieme fino alla morte.

FINE



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Il contadinello

Post n°788 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era un villaggio dove tutti i contadini erano ricchi, meno uno che chiamavano il contadinello. Egli non aveva neanche una mucca e men che meno denaro per comprarla; e dire che lui e sua moglie avrebbero tanto desiderato averla! Un giorno egli le disse: “Ascolta, ho una bell'idea: il nostro compare falegname ci farà un vitello di legno, verniciato di scuro, che sembri un vitello come gli altri; con il tempo crescerà e diventerà una mucca.” Alla donna piacque l'idea, e il compare falegname formò e piallò per bene il vitello, lo verniciò come si conveniva e lo fece con la testa abbassata come se stesse mangiando.

Il mattino dopo, quando condussero le mucche al pascolo, il contadinello chiamò il pastore e gli disse: “Vedete, ho qui un vitellino, ma è ancora troppo piccolo e bisogna portarlo.” - “Sta bene!” disse il pastore; lo prese in braccio, lo portò al pascolo e lo lasciò sul prato. Il vitellino stette sempre fermo come se mangiasse, e il pastore disse: “Ben presto sarà in grado di correr da solo: guarda come mangia!” La sera, quando fu ora di ricondurre il branco, disse al vitello: “Se sai stare qui a rimpinzarti, puoi anche andar con le tue gambe; non ho più voglia di portarti a casa in braccio.” Ma il contadinello se ne stava sulla porta ad aspettare il suo vitellino; quando vide il pastore attraversare il villaggio senza il vitellino, gliene chiese notizie. Il pastore rispose: “E ancora là che mangia; non ha voluto smetterla per venire con noi.” Ma il contadinello disse: “Storie! Io devo riavere la mia bestia.” Ritornarono insieme nel prato, ma qualcuno doveva aver rubato il vitello perché‚ non c'era più. Disse il pastore: “Se ne sarà andato.” Ma il contadinello disse: “Non la bevo!” e condusse davanti al sindaco il pastore che fu condannato per la sua negligenza e dovette dare al contadinello una mucca a risarcimento del vitello smarrito.

Finalmente il contadinello e sua moglie avevano la mucca tanto desiderata; si rallegrarono di cuore, ma non avevano mangime e non potevano nutrirla, perciò decisero di macellarla. Salarono la carne e il contadinello andò in città a vendere la pelle, per comperare con il ricavato un altro vitellino. Strada facendo giunse a un mulino dove trovò un corvo senz'ali; per pietà lo raccolse e lo avvolse nella pelle. Ma il tempo era tanto brutto, tirava vento e la bufera imperversava, sicché‚ egli, non potendo proseguire, tornò al mulino e chiese alloggio.

La mugnaia era sola in casa e disse al contadinello: “Sdraiati sulla paglia,” e gli diede un po' di pane e formaggio. Il contadinello mangiò e si coricò con la sua pelle vicino; la mugnaia pensò: "Costui è stanco e dorme." In quella arrivò il prete, e la donna, accogliendolo con cortesia, disse: “Mio marito non c'è, possiamo far baldoria.” Il contadinello tese le orecchie e, sentendo parlare di ristoro, si seccò che avesse dovuto accontentarsi di pane e formaggio. La donna intanto mise in tavola ogni ben di Dio: arrosto, insalata, focaccia e vino. Si erano appena seduti a tavola e stavano per mettersi a mangiare, quando da fuori bussarono alla porta. “Ah, Dio, è mio marito!” e in fretta nascose l'arrosto nel tegame, il vino sotto il guanciale, l'insalata nel letto, la focaccia sotto il letto e il prete nell'armadio. Poi aprì al marito e disse: “Dio sia lodato, sei qui!” Il mugnaio vide il contadinello disteso sulla paglia e domandò: “Che cosa vuole costui?” - “Ah,” disse la moglie, “è arrivato durante la tempesta e ha chiesto ricovero; allora gli ho dato del pane e formaggio e gli ho detto di sdraiarsi sulla paglia.” L'uomo disse: “Non ho nulla in contrario, dammi solo qualcosa da mangiare.” La donna rispose: “Ho soltanto del pane e del formaggio.” - “Da' pure,” rispose l'uomo. Guardò il contadinello e disse: “Vieni a mangiare con me!” Il contadinello non se lo fece dire due volte, si alzò e mangiò con lui. Poi il mugnaio gli chiese: “Cos'hai lì nella pelle?” Il contadinello rispose: “C'è dentro un indovino.” - “Può indovinare anche per me?” domandò il mugnaio. “Perché‚ no?” rispose il contadinello, “ma dice solo quattro cose e la quinta la tiene per se.” Il mugnaio, incuriosito disse: “Fallo indovinare.” Allora il contadinello premette il corvo sulla testa e quello gracchiò facendo ‘crr, crr’. “Che ha detto?” domandò il mugnaio. Il contadinello rispose: “Per prima cosa ha detto che c'è del vino sotto il guanciale.” - “Sarà roba del diavolo!” esclamò il mugnaio, andò e trovò il vino. “Continua!” soggiunse. Il contadinello fece di nuovo gracchiare il corvo e disse: “Secondo: ha detto che c'è dell'arrosto nel tegame.” - “Sarà roba del diavolo!” esclamò il mugnaio, andò e trovò l'arrosto. Il contadinello interrogò ancora l'indovino e disse: -Terzo: ha detto che c'è dell'insalata nel letto-. -Sarà roba del diavolo!- esclamò il mugnaio, andò e trovò l'insalata. Infine il contadinello premette ancora una volta il corvo, facendolo gracchiare e disse: -Quarto: ha detto che c'è della focaccia sotto il letto-. -Sarà roba del diavolo!- esclamò il mugnaio, andò e trovò la focaccia. I due si sedettero insieme a tavola, ma la mugnaia aveva una gran paura; andò a letto e prese con s‚ tutte le chiavi. Il mugnaio avrebbe saputo volentieri anche la quinta cosa, ma il contadinello disse: -Prima mangiamo tranquillamente le altre quattro, perché‚ la quinta è sgradevole-. Mangiarono e poi contrattarono quanto dovesse pagare il mugnaio per il quinto pronostico, finché‚ si accordarono su trecento scudi. Allora il contadinello premette ancora una volta la testa del corvo che gracchiò forte. Il mugnaio domandò: -Che ha detto?-. Il contadinello rispose: -Ha detto che fuori, nell'armadio del corridoio c'è nascosto il diavolo-. Il mugnaio disse: -Il diavolo deve uscire!-. Spalancò la porta di casa, si fece dare le chiavi dalla moglie e il contadinello aprì l'armadio. Allora il prete corse fuori più in fretta che pot‚ e il mugnaio disse: -Ho visto una figura tutta nera!-. All'alba il contadinello se la svignò con i trecento scudi. Al villaggio il contadinello a poco a poco s'ingrandì costruendosi una bella casa, e i contadini dicevano: -Il contadinello è sicuramente stato dove nevica l'oro e lo si porta a casa a palate- Allora fu chiamato dal sindaco a render conto della sua ricchezza. Egli rispose: -In città ho venduto la pelle della mucca per trecento scudi-. Udendo questo i contadini vollero anch'essi approfittarne: corsero a casa, ammazzarono tutte le mucche e le scuoiarono per venderne la pelle in città a caro prezzo. Il sindaco disse: -Per prima andrà la mia serva- Quando questa giunse in città dal mercante, non ricavò più di tre scudi per una pelle e, quando arrivarono gli altri, il mercante diede loro ancora di meno dicendo: -Che cosa me ne faccio di tutte queste pelli?-. Allora i contadini si arrabbiarono, perché‚ il contadinello li aveva presi in giro; vollero vendicarsi e lo denunciarono per truffa davanti al sindaco.

Questi condannò il contadinello a morte: doveva essere gettato in acqua in una botte forata. Il contadinello fu condotto fuori e gli portarono un prete che doveva leggergli l'uffizio dei morti. Gli altri dovettero allontanarsi tutti e quando il contadinello guardò il prete riconobbe in lui quello che era stato dalla mugnaia. Così gli disse: -Io vi ho liberato dall'armadio, voi liberatemi dalla botte-. In quella passò di lì un pastore con le sue pecore; il contadinello, sapendo da un pezzo che egli desiderava diventare sindaco, gridò forte: -No, non lo faccio! Anche se tutto il mondo lo volesse, non lo faccio, no!-. All'udirlo, il pastore si avvicinò e chiese: -Che intendi dire, cos'è che non vuoi fare?-. Il contadinello rispose: -Vogliono farmi sindaco se entro nella botte, ma io non lo faccio!-. Il pecoraio disse: -E' tutto qui? Per diventare sindaco io ci entrerei subito-. Il contadinello disse: -Se ci entri diventi anche sindaco-. Il pastore acconsentì soddisfatto, entrò nella botte e il contadinello chiuse il coperchio; poi prese il gregge e lo condusse via. Il prete andò in municipio a dire che l'uffizio funebre era terminato. Allora andarono e rotolarono la botte in acqua. Quando la botte incominciò a rotolare, il pastore gridò: -Sono contento di diventare sindaco! Sono contento di diventare sindaco!-. Tutti credettero che si trattasse del contadinello e risposero: -Lo crediamo anche noi, ma prima devi dare un'occhiata là sotto!-. E gettarono la botte in acqua. Poi i contadini se ne andarono a casa e, quando giunsero al villaggio, videro arrivare il contadinello che, tutto contento, menava tranquillamente un branco di pecore. I contadini allibirono e dissero: -Contadinello da dove vieni? Dall'acqua forse?-. -Certo- rispose il contadinello -sono andato giù giù, finché‚ ho toccato il fondo. Ho sfondato la botte con un calcio e sono sgusciato fuori: c'erano dei bellissimi prati, dove pascolavano tanti agnelli, e ho portato il gregge con me.- I contadini dissero: -Ce ne sono ancora?-. -Oh sì- rispose il contadinello -più del vostro fabbisogno.- Andarono tutti insieme al fiume e nel cielo azzurro c'erano quelle nuvolette che si chiamano pecorelle e si specchiavano in acqua. I contadini gridarono: -Vediamo già le pecore sul fondo!-. Il sindaco si fece avanti e disse: -Scenderò per primo a dare un'occhiata; se tutto va bene vi chiamerò-. Si tuffò e l'acqua fece "plump!". Essi credettero che egli li chiamasse gridando: -Giù!- e tutti quanti si precipitarono dietro in gran fretta. Così il villaggio rimase disabitato e il contadinello, unico erede, divenne un uomo ricco.

FINE


 
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La fedeltà (Pirandello)

Post n°787 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

In quell'umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto e vaporante in un pulviscolo d'oro il rettangolo di sole della finestra con l'ombra precisa delle tendine trapunte e lì come stampate e perfino quella della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giú nel cortiletto era venuto ad alitare caldo e a fondersi con quello umido dell'incenso della chiesetta vicina e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell'antico canterano.
Pareva che ormai non potesse avvenire piú nulla in quella cameretta. Immobile, quella luce di sole; immobile, quella pace; come, ad affacciarsi alla finestra, immobili giú tra i ciottoli grigi del cortiletto i fili di erba, i fili di paglia caduti dalla mangiatoja, sotto il tettuccio in un angolo, dalle tegole sanguigne e coi tanti sassolini scivolati dalla ripa che si stendeva scabra lassú.
Dentro, le piccole antiche sedie verniciate di nero, pulite pulite, di qua e di là dal canterano, avevano tutte una crocettina argentata sulla spalliera, che dava loro un'aria di monacelle attempate, contente di starsene lì ben custodite, al riparo, non toccate mai da nessuno; e con piacere pareva stessero a guardare il modesto lettino di ferro del prete, che aveva a capezzale, su la parete imbiancata, una croce nera col vecchio Crocefisso d'avorio, gracile e ingiallito.
Ma soprattutto un grosso Bambino Gesú di cera in un cestello imbottito di seta celeste, sul canterano, riparato dalle mosche da un tenue velo anche esso celeste, pareva profittasse del silenzio, in quella luce di sole, per dormire con una manina sotto la guancia paffuta il suo roseo sonno tra quegli odori misti d'incenso, di spigo e di caldo pane di casa.
Dormiva anche, su la poltroncina di iuta a piè del letto, col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente sulla spalliera, don Pietro. Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le pàlpebre esili pareva non avessero piú forza neanche di chiudesi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s'affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l'infermità del cuore.
Il viso giallo, scavato, aguzzo, aveva assunto in quel sonno, e pareva a tradimento, un'espressione cattiva e sguajata, come se, nella momentanea assenza, il corpo volesse vendicarsi dello spirito che per tanti anni l'austera volontà lo aveva martoriato e ridotto in servitú, così disperatamente estenuato e miserabile. Con quello sguajato abbandono, con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente, voleva dimostrare che non ne poteva piú. E quasi oscenamente rappresentava la sua sofferenza di bestia.
Don Angelino, entrato di furia nella cameretta, s'era subito arrestato e poi era venuto avanti in punta di piedi. Ora da una decina di minuti stava a contemplare il dormente, in silenzio, ma con un'angoscia che di punto in punto, esasperandosi, gli si cangiava in rabbia; per cui apriva e serrava le mani fino ad affondarsi le unghie nella carne. Avrebbe voluto gridare per svegliarlo:

– Ho deciso, don Pietro: mi spoglio!

Ma si sforzava di trattenere perfino il respiro per paura che, svegliandosi, quel santo vecchio se lo trovasse davanti all'improvviso con quell'angoscia rabbiosa che certo doveva trasparirgli dagli occhi e da tutto il viso disgustato; e anzi aveva la tentazione di far saltare con una manata fuori della finestra quella gabbiola che pendeva dal palchetto, tanta irritazione gli cagionava, nella paura che il vecchio si svegliasse, il raspìo delle zampine di quel canarino su lo zinco del fondo.
Il giorno avanti, per piú di quattr'ore, andando su e giú per quella cameretta, dimenandosi, storcendosi tutto, come per staccare e respingere dal contatto col suo corpicciuolo ribelle l'abito talare, e movendo sott'esso le gambe come se volesse prenderlo a calci, aveva discusso accanitamente con don Pietro sulla sua risoluzione d'abbandonare il sacerdozio, non perché avesse perduto la fede, no, ma perché con gli studii e la meditazione era sinceramente convinto d'averne acquistata un'altra, piú viva e piú libera, per cui ormai non poteva accettare né sopportare i dommi, i vincoli, le mortificazioni che l'antica gli imponeva. La discussione s'era fatta, da parte sua soltanto, sempre piú violenta, non tanto per le risposte che gli aveva dato don Pietro, quanto per un dispetto man mano crescente contro se stesso, per il bisogno che aveva sentito, invincibile e assurdo, d'andarsi a confidare con quel santo vecchio, già suo primo precettore e poi confessore per tanti anni, pur riconoscendolo incapace d'intendere i suoi tormenti, la sua angoscia, la sua disperazione.
E infatti don Pietro lo aveva lasciato sfogare, socchiudendo Su tanto gli occhi e accennando con le labbra bianche un lieve sorrisino, a cui non parevano neppure piú adatte quelle sue labbra, un sorrisino bonariamente ironico, o mormorando, senza sdegno, con indulgenza:

– Vanità... vanità...

Un'altra fede? Ma quale, se non ce n'è che una? Piú viva? piú libera? Ecco appunto dov'era la vanità; e se ne sarebbe accorto bene quando, caduto quell'impeto giovanile, spento quel fervore diabolico, intepidito il sangue nelle vene, non avrebbe piú avuto tutto quel fuoco negli occhietti arditi e, coi capelli canuti o calvo, non sarebbe stato piú così bellino e fiero. Insomma, lo aveva trattato come un ragazzo, ecco, un buon ragazzo che sicuramente non avrebbe fatto lo scandalo che minacciava, anche in considerazione del cordoglio che avrebbe cagionato alla sua vecchia mamma, che aveva fatto tanti sacrifici per lui.
E veramente, al ricordo della mamma, di nuovo ora don Angelino si sentì salire le lagrime agli occhi. Ma intanto, proprio per lei, proprio per la sua vecchia mamma era venuto a quella risoluzione; per non ingannarla più; e anche per lo strazio che gli dava il vedersi venerato da lei come un piccolo santo. Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la dimostrazione piú chiara delle verità nuove che gli s'erano rivelate.
Ma in quel punto si schiuse l'uscio della cameretta ed entrò la vecchia sorella di don Pietro, piccola, cerea, vestita di nero, con un fazzoletto nero di lana in capo, piú curva e piú tremula del fratello. Parve a don Angelino che – chiamata dalle sue lagrime – entrasse nella cameretta la sua mamma, piccola, cerea e vestita di nero come quella. E alzò gli occhi a guardarla, quasi con sgomento, senza comprendere in prima il cenno con cui gli domandava:

– Che fa, dorme?

Don Angelino fece di sì col capo.

– E tu perché piangi?

Ma ecco che il vecchio schiude gli occhi imbambolati e con la bocca ancora aperta solleva il capo dalla spalliera della poltroncina.

– Ah, tu Angelino? che c'è?

La sorella gli s'accostò e, curvandosi sulla poltrona, gli disse piano qualche parola all'orecchio. Allora don Pietro si alzò a stento e, strascicando i piedi, venne a posare una mano sulla spalla di don Angelino, e gli domandò:

– Vuoi farmi una grazia, figliuolo mio? È arrivata dalla campagna una povera vecchia, che chiede di me. Vedi che mi reggo appena in piedi. Vorresti andare in vece mia? È giú in sagrestia. Puoi scendere di qua, dalla scaletta interna. Va', va', che tu sei sempre il mio buon figliuolo. E Dio ti benedica!

Don Angelino, senza dir nulla, andò. Forse non aveva neanche compreso bene. Per la scaletta interna della cura, buja, angustissima, a chiocciola, si fermò; appoggiò il capo alla mano che, scendendo, faceva scorrere lungo il muro, e si rimise a piangere, come un bambino. Un pianto che gli bruciava gli occhi e lo strozzava. Pianto d'avvilimento, pianto di rabbia e di pietà insieme. Quando alla fine giunse alla sagrestia, si sentì improvvisamente come alienato da tutto. La sagrestia gli parve un'altra, come se vi entrasse per la prima volta. Frigida, squallida e luminosa. E trovandovi seduta la vecchia, quasi non comprese che cosa vi stesse ad aspettare, e quasi non gli parve vera.
Era una decrepita contadina, tutta infagottata e lercia, dalle palpebre sanguigne orribilmente arrovesciate. Biasciando, faceva di continuo balzare il mento aguzzo fin sotto il naso. Reggeva in una mano due galletti per le zampe, e mostrava nel palmo dell'altra mano tre lire d'argento, chi sa da quanto tempo conservate. Per terra, davanti ai piedi imbarcati in due logore enormi scarpacce da uomo, aveva una sudicia bisaccia piena di mandorle secche e di noci.

Don Angelino la guatò con ribrezzo.

– Che volete?

La vecchia, sforzandosi di sbirciarlo, barbugliò qualcosa con la lingua imbrogliata entro le gote flosce e cave, tra le gengive sdentate.

– Come dite? Non sento. Vi chiamate zia Croce?

Sì, zia Croce. Era la zia Croce. Don Pietro la conosceva bene. La zia Croce Scoma; che il marito le era morto tant'anni fa, nel fiume di Naro, annegato. Veniva a piedi, con quella bisaccia sulle spalle, dalle pianure del Cannatello. Piú di sette miglia di cammino. E con quell'offerta di due galletti e di quella bisaccia di mandorle e di noci e con le tre lire della messa doveva placare (don Pietro lo sapeva) San Calògero, il santo di tutte le grazie, che le aveva fatto guarire il figlio d'una malattia mortale. Appena guarito, però, quel figlio se n'era andato in America. Le aveva promesso che di là le avrebbe scritto e mandato ogni mese tanto da mantenersi. Erano passati sedici mesi; non ne aveva piú notizia; non sapeva neppure se fosse vivo o morto. Lo avesse almeno saputo vivo, pazienza per lei, se non le mandava niente. Neanche un rigo di lettera! Niente. Ma ora tutti in campagna le avevano detto che questo dipendeva perché lei, appena guarito il figlio, non aveva adempiuto il voto a San Calògero. E certo doveva essere così: lo riconosceva anche lei. Il voto però non lo aveva adempiuto (don Pietro lo sapeva) perché s'era spogliata di tutto per quella malattia del figlio e le erano rimasti appena gli occhi per piangere: piangere sangue! ecco, sangue! Poi, andato via il figlio, vecchia com'era e senz'ajuto di nessuno, come trovare da mettere insieme l'offerta e quelle tre lire della messa, se guadagnava appena tanto ogni giorno da non morire di fame? Sedici mesi le ci eran voluti, e con quali stenti, Dio solo lo sapeva! Ma ora, ecco qua i due galletti, ed ecco le tre lire e le mandorle e le noci. San Calògero misericordioso si sarebbe placato e tra poco, senza dubbio, le sarebbe arrivata dall'America la notizia che il figlio era vivo e prosperava.
Don Angelino, mentre la vecchia parlava così, andava su e giú per la sagrestia, volgendo di qua e di là occhiate feroci e aprendo e chiudendo le mani, perché aveva la tentazione d'afferrare per le spalle quella vecchia e scrollarla furiosamente, urlandole in faccia:

– Questa è la tua fede?

Ma no: altri, altri, non quella povera vecchia; altri, i suoi colleghi sacerdoti avrebbe voluto afferrare per le spalle e scrollare, i suoi colleghi sacerdoti che tenevano in quell'abiezione di fede tanta povera gente, e su quell'abiezione facevano bottega. Ah Dio, come potevano prendersi per una messa le tre lire di quella vecchia, i galletti, le mandorle e le noci?

– Riprendete codesta bisaccia e andatevene! – le gridò, tutto fremente.

Quella lo guardò, sbalordita.

– Potete andarvene, ve lo dico io! – aggiunse don Angelino, infuriandosi vieppiú. – San Calògero non ha bisogno né di galletti né di fichi secchi! Se vostro figlio ha da scrivervi, state sicura che vi scriverà. Quanto alla messa, vi dico che don Pietro è malato. Andatevene! Andatevene!

Come intronata da quelle parole furiose, la vecchia gli domandò:

– Ma che dice? Non ha capito che questo è un voto? È un voto!

E c'era nella parola, pur ferma, un tale sbalordimento per l'incomprensione di lui, quasi incredibile, che don Angelino fu costretto a fermarvi l'attenzione. Pensò che era lì in vece di don Pietro, e si frenò. Con parole meno furiose cercò di persuadere la vecchia a riportarsi i galletti e le mandorle e le noci, e le disse che, quanto alla messa, ecco, se proprio la voleva, magari gliel'avrebbe detta lui, invece di don Pietro, ma a patto che lei si tenesse le tre lire.
La vecchia tornò a guardarlo, quasi atterrita, e ripeté:

– Ma come! Che dice? E allora che voto è? Se non do quello che ho promesso, che vale? Ma scusi, a chi parlo? Non parlo forse a un sacerdote? E perché allora mi tratta così? O che forse crede che non do a San Calògero miracoloso con tutto il cuore quello che gli ho promesso? Oh Dio! oh Dio! Forse perché le ho parlato di quanto ho penato per raccoglierlo?

E così dicendo, si mise a piangere perdutamente, con quegli orribili occhi insanguati.
Commosso e pieno di rimorso per quel pianto, don Angelino si pentì della sua durezza, sopraffatto all'improvviso da un rispetto, che quasi lo avviliva di vergogna, per quella vecchia che piangeva innanzi a lui per la sua fede offesa. Le s'accostò, la confortò, le disse che non aveva pensato quello che lei sospettava, e che lasciasse lì tutto; anche le tre lire, sì; e intanto entrasse in chiesa, che or ora le avrebbe detto la messa.
Chiamò il sagrestano; corse al lavabo; e mentre quello lo ajutava a pararsi, pensò che avrebbe trovato modo di ridare alla vecchia, dopo la messa, le tre lire e i galletti e quell'altra offerta della bisaccia. Ma ecco, questa carità perché avesse il valore che potesse renderla accetta a quella povera vecchia, non richiedeva forse qualcosa ch'egli non sentiva piú d'avere in sè? Che carità sarebbe stata il prezzo d'una messa, se per tutti gli stenti e i sacrifizi durati da quella vecchia per adempiere il voto, egli non avesse celebrato quella messa col piú sincero e acceso fervore? Una finzione indegna, per una elemosina di tre lire?
E don Angelino, già parato, col calice in mano, si fermò un istante, incerto e oppresso d'angoscia, su la soglia della sagrestia a guardare nella chiesetta deserta; se gli conveniva, così senza fede, salire all'altare. Ma vide davanti a quell'altare prosternata con la fronte a terra la vecchia, e si sentì come da un respiro non suo sollevare tutto il petto, e fendere la schiena da un brivido nuovo. O perché se l'era immaginata bella e radiosa come un sole, finora, la fede? Eccola lì, eccola lì, nella miseria di quel dolore inginocchiato, nella squallida angustia di quella paura prosternata, la fede!
E don Angelino salì come sospinto all'altare, esaltato di tanta carità, che le mani gli tremavano e tutta l'anima gli tremava, come la prima volta che vi si era accostato.
E per quella fede pregò, a occhi chiusi, entrando nell'anima di quella vecchia come in un oscuro e angusto tempio, dov'essa ardeva; pregò il Dio di quel tempio, qual esso era, quale poteva essere: unico bene, comunque, conforto unico per quella miseria.
E finita la messa, si tenne l'offerta e le tre lire, per non scemare con una piccola carità la carità grande di quella fede.

 

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La vecchia nel bosco

Post n°786 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una povera servetta che attraversava un gran bosco con i suoi padroni; e quando vi si trovarono in mezzo, dal fitto della boscaglia sbucarono dei briganti e uccisero tutti quelli che trovarono. Così perirono tutti quanti, meno la fanciulla, che era saltata fuori dalla carrozza e si era nascosta dietro un albero. Quando i briganti se ne furono andati con il bottino, ella si avvicinò e vide quella grande sventura. Allora si mise a piangere amaramente e disse: "Misera me, che farò mai? Non so come fare a uscire dal bosco, qui non ci sono case, e io morirò certo di fame!". Andò qua e là cercando una via, ma non riuscì a trovarla. Quando fu sera, si sedette sotto un albero, si raccomandò a Dio e pensò di rimanere là e di non muoversi più, qualunque cosa accadesse. Dopo un po', venne in volo un piccolo colombo tutto bianco che portava nel becco una piccola chiave d'oro. Gliela mise in mano e disse: "Vedi laggiù quel grande albero? Ha una piccola serratura; aprila con la chiavetta: troverai cibo a sufficienza e non patirai più la fame". Ella si avvicinò all'albero, lo aprì e trovò una scodellina di latte e pane bianco da inzuppare; così poté mangiare a sazietà. Quando si fu sfamata, disse: "Questa è l'ora in cui i polli, a casa, vanno a dormire. Io sono così stanca! Potessi coricarmi anch'io nel mio letto!". Allora ritornò il colombo, portando nel becco un'altra chiavetta d'oro e disse: "Apri quell'albero laggiù, e troverai un letto". Ella lo aprì e trovò un bel lettino bianco; pregò il buon Dio di proteggerla durante la notte, si coricò e si addormentò. Al mattino tornò il colombo per la terza volta, portò un'altra chiavetta e disse: "Apri quell'albero laggiù: troverai dei vestiti". Quando ella aprì, trovò dei vestiti ornati di oro e pietre preziose, così belli che neanche la figlia del reli aveva. Così visse per qualche tempo, e tutti i giorni veniva il colombo e le procurava tutto il necessario; ed era una vita tranquilla e felice.

Un giorno però il colombo venne e disse: "Vorresti farmi un piacere?". "Con tutto il cuore" rispose la fanciulla. Allora il colombo disse: "Ti condurrò a una casetta; entrerai e in mezzo, accanto al focolare, ci sarà una vecchia seduta che ti dirà: 'Buon giorno'. Ma tu guardati bene dal darle risposta, qualunque cosa faccia, e prosegui alla sua destra: c'è una porta, aprila e ti troverai in una stanza dove sul tavolo ci saranno ammucchiati anelli d'ogni tipo; ve ne saranno di splendidi con gemme scintillanti, ma tu lasciali stare, cercane uno liscio che dev'essere là in mezzo e portamelo più in fretta che puoi".

La fanciulla andò così alla casetta ed entrò; là c'era una vecchia che fece tanto d'occhi al vederla e disse: "Buon giorno, bimba mia". Ma ella non le diede risposta e andò verso la porta. "Ehi, dove vai?" gridò quella e l'afferrò per la sottana, cercando di trattenerla. "Questa è casa mia, e nessuno può entrarci se io non voglio!" Ma la fanciulla continuava a tacere, si liberò e andò difilata nella stanza. Là, sul tavolo, c'era una grande quantità di anelli che splendevano e luccicavano sotto i suoi occhi; ella li sparpagliò cercando quello liscio, ma non riusciva a trovarlo. Mentre cercava vide la vecchia che tentava di andarsene di soppiatto, con una gabbietta in mano. Allora la fanciulla le si avvicinò, le prese di mano la gabbia, e come la sollevò e vi guardò dentro, vide un uccello che aveva l'anello liscio nel becco. Lo prese e, tutta felice, corse via pensando che il colombo sarebbe venuto a prenderselo; e invece non veniva mai. La fanciulla si appoggiò a un albero per aspettarlo; ed ecco le parve che l'albero diventasse morbido e flessuoso, e chinasse i suoi rami. E, d'un tratto, i rami la strinsero, ed erano due braccia; e quando ella si guardò attorno, l'albero era un bell'uomo, che l'abbracciava e la baciava teneramente e diceva: "Tu mi hai liberato dall'incantesimo: la vecchia è una strega che mi aveva trasformato in un albero, e tutti i giorni ero per qualche ora un colombo bianco; e finché‚ ella possedeva l'anello, non potevo riacquistare il mio aspetto umano". Anche i suoi servi e i suoi cavalli furono liberati dall'incantesimo, non erano più degli alberi e gli stavano accanto. Poi se ne andarono tutti insieme nel suo regno, poiché‚ egli era il figlio di un re; si sposarono e vissero felici.

FINE


 
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L'Ermione in collegio

Post n°785 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,non sbagliavo!L'Ermione è di nuovo qui,dopo aver fatto passare una settimana di passione alle sue del collegio "S.Basilio scalcagnato",che si trova a due passi dal Vaticano.
Volete saperne di più?Continuate a leggermi
LUNEDI'- Il collegio è diretto da una nostra vecchia conoscenza,suor Hildegard Asinonen detta "Adolf".Inutile dire che lei e l'Ermione si sono odiate a prima vista.
Oggi la perfidissima ha piazzato un pattino sulle scale mentre Adolf le scendeva.Dopo un volo acrobatico la suora è atterrata sui fichi d'india del giardino.
Le hanno estratto,finora, 44 lunghissime spine dal posteriore.
Dal Vaticano hanno telefonato che le sue urla di dolore disturbavano la pennichella papale.
MARTEDI'- L'Ermione ha introdotto nella cappella dove le suore recitano il mattutino una pantegana del Tevere,di quelle maxi,poi ha sbarrato la porta.Le reazioni sono state varie:Suor Adelaide Maria (anni 98)è finita sul lampadario;la suora più grassa,Suor Mariaermenegilda,è rimasta incastrata nel confessionale;Adolf è schizzata sull'altare urlando e improvvisando un balletto che è un incrocio fra l'hullygully e il flamenco;Suor Ernestina,miopissma,scambiata la pantegana per un gattino randagio l'ha adottata seduta stante.
Le suore sono state liberate dopo due ore.
Dal Vaticano hanno telefonato:le urla avevano fatto venire l'emicrania al papa.
MERCOLEDI'-Procuratasi Dio sa come 400 pulci,l'Ermione le ha buttate addosso ad Adolf,che ha cominicato a gridare e saltabeccare.
Hanno telefonato dal Vaticano:il barbiere papale,impaurito dalle urla, sobbalzando mentre radeva il Santo Padre gli ha tagliato il mento e si è beccato tutti i peggiori cancheri polacchi esistenti e non.
GIOVEDI'- La diabolica ha disseminato la camera di Adolf di bigattini (sapete quegli schifosi vermetti da pesca?)
Le bestiole erano circa 5743.
Non vi dico i berci dell'Asinonen
Hanno telefonato dal Vaticano:il papa,svegliato di soprassalto,era caduto dal letto,battendo una sederata terrificante.
VENERDI'- Adolf oggi ha fatto il bagno...in compagnia di 4 grossi rospi!
Schizzando dalla vasca,è scivolata urlante sulla saponetta e la sua testa è finita incastrata nel water.
Per liberarla ci sono volute tre ore.
Hanno telefonato dal Vaticano:al papa era andato un boccone di traverso e per poco non lo aveva spedito all'altro mondo.
SABATO- L'inenarrabile ha sabotato il sistema elettronico che regola il suono delle campane,che hanno suonato a stormo senza interruzione dalle 2 di notte alle 2 del pomeriggio.
Stavolta hanno telefonato dal Vaticano,dal Quirinale,dal Campidoglio ( e non parliamo poi delle telefonate di comuni cittadini imbufaliti)
DOMENICA- Il collegio è stato chiuso d'urgenza.
Quando Geremia e la Fidalma lo hanno saputo,sono stati colti da malore.
Sono passati dieci giorni.
Adolf è stata spedita nella sperduta missione africana di Tukambakabalodisotto,dimenticata da Dio e dagli uomini,
L'Ermione èdi nuovo qua,e con questo ho detto tutto.
Stretta lafoglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia



 
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Non abbandonarti (Tagore)

Post n°784 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Non abbandonarti, tienti stretto,
e vincerai.
Vedo che la notte se ne va:
coraggio, non aver paura.
Guarda, sul fronte dell'oriente
di tra l'intrico della foresta
si è levata la stella del mattino.
Coraggio, non aver paura.

Son figli della notte, che del buio battono le strade
la disperazione, la pigrizia, il dubbio:
sono fuori d'ogni certezza, non son figli
dell'aurora.
Corri, vieni fuori;
guarda, leva lo sguardo in alto,
il cielo s'è fatto chiaro.
Coraggio, non aver più paura.

 
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Libri dimenticati:Vestivamo alla marinara

Post n°783 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

"Don't forget that you are an Agnelli!"
Questa frase scandisce l'infanzia della giovane Suni e dei suoi fratelli,li segna per sempre.
Susanna Agnelli ci prende e per mano e ci porta nella sua vita di ragazza ricca e privilegiata,e scopriamo i dolori che la segnano:la morte prematura del padre,la guerra fra nonno e madre per l'affidamento dei ragazzi,la morte del fratello Giorgio...
E' un libro tenero,avvincente,scritto con un garbo e una delicatezza unica.

 
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Frase del giorno

Post n°782 pubblicato il 21 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Dio ci scampi dalle ire di una donna respinta

 
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