Messaggi del 22/09/2011

I sei che si fanno strada per il mondo

Post n°802 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un uomo che si intendeva di ogni arte; prestò servizio come soldato, comportandosi in modo valoroso; ma, terminata la guerra, fu congedato e gli dettero tre soldi di compenso. -Aspetta un po'- disse -non mi raggirate tanto facilmente: se trovo gli uomini giusti, il re dovrà darmi le ricchezze di tutto il paese.- Pieno di rabbia, andò nel bosco e vide un uomo che aveva sradicato sei alberi come se fossero state spighe di grano. Gli disse: -Vuoi diventare mio servitore e seguirmi?- -Sì- rispose quello -ma prima voglio portare a mia madre quel mucchietto di legna.- Afferrò allora uno degli alberi, lo legò intorno agli altri cinque e, presa la fascina sulle spalle, se la portò via. Poi ritornò e si mise in cammino con il suo padrone che disse: -Noi due dobbiamo farci strada nel mondo-. Quand'ebbero percorso un tratto di strada, incontrarono un cacciatore che, in ginocchio, aveva caricato il fucile e stava prendendo la mira. L'uomo gli disse: -A cosa vuoi sparare, cacciatore?-. Quello rispose: -A due miglia da qui c'è una mosca sul ramo di una quercia; voglio cavarle l'occhio sinistro-. -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi tre insieme ci faremo strada nel mondo.- Il cacciatore andò con loro ed essi arrivarono a sette mulini a vento, le cui ali giravano rapidamente anche se non c'era vento e non si muoveva neanche una foglia. Disse l'uomo: -Non capisco cosa faccia muovere i mulini, non c'è un filo d'aria!-. Proseguì il cammino con i suoi servi e, quand'ebbero fatto due miglia, videro un uomo, seduto su di un albero, che si teneva chiusa una narice e soffiava con l'altra. -Che stai facendo lassù?- chiese l'uomo. Quello rispose: -A due miglia da qui ci sono sette mulini a vento; vedete? io soffio per farli girare-. -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi quattro insieme ci faremo strada nel mondo.- Allora quello che soffiava scese dall'albero e andò con loro. Dopo un po' videro uno che se ne stava su di una gamba sola: aveva staccato l'altra e se l'era messa accanto. -Ti sei messo comodo per riposare!- esclamò l'uomo. -Sono un corridore- rispose quello -e per non correre troppo in fretta mi sono staccato una gamba; infatti se corro con tutt'e due, vado più veloce di un uccello che vola.- -Oh, vieni con me, noi cinque insieme ci faremo strada nel mondo.- Egli andò con loro e dopo un po' incontrarono uno che portava un cappellino che gli copriva tutto un orecchio. Allora l'uomo gli disse: -Che bellino! Ma metti a posto il tuo cappello: hai l'aria di uno sciocco!-. -Non posso- rispose quello -se lo raddrizzo, viene un gran freddo e gli uccelli che se ne stanno all'aria aperta gelano e cadono a terra morti.- -Oh, vieni con me- disse l'uomo -noi sei, tutti insieme, ci faremo strada nel mondo.- I sei arrivarono in una città dove il re aveva reso noto che colui che avesse voluto gareggiare con la figlia nella corsa, se vinceva la gara l'avrebbe sposata, ma se perdeva, ci avrebbe rimesso la testa. L'uomo si presentò e disse: -Farò correre il mio servo per me-. Il re rispose: -Allora devi impegnare anche la sua vita, sicché‚ le vostre due teste saranno il pegno della vittoria-. Dopo essersi accordati, l'uomo attaccò al corridore l'altra gamba e gli disse: -Adesso sii veloce e aiutami, che si possa vincere-. Si era deciso che avrebbe vinto colui che, per primo, avesse portato l'acqua da una lontana sorgente. Il corridore e la principessa ebbero entrambi una brocca e incominciarono a correre nello stesso momento; ma in un attimo, mentre la principessa aveva percorso solo un breve tratto, più nessuno riusciva a vedere il corridore, passato veloce come il vento. In breve tempo giunse alla fontana, attinse l'acqua riempiendo la brocca e tornò indietro. Ma a metà percorso lo prese la stanchezza, depose la brocca, si distese e si addormentò. Appoggiò, tuttavia, la testa su di un teschio di cavallo, per dormire sul duro e svegliarsi presto. Intanto la principessa, che correva bene anche lei, ma come una persona qualunque, era arrivata alla fonte, e se ne tornava indietro con la brocca piena d'acqua. Quando vide il corridore disteso a terra che dormiva, disse tutta contenta: -Il nemico è nelle mie mani-. Gli vuotò la brocca e riprese a correre. Tutto sarebbe stato perduto se il cacciatore, con i suoi occhi acuti, non avesse fortunatamente visto tutto dall'alto del castello. -La principessa non deve averla vinta- disse; poi caricò il fucile e sparò con tanta destrezza da portar via il teschio sotto la testa del corridore senza fargli alcun male. Il corridore così si svegliò, saltò su e vide che la sua brocca era vuota e la principessa già molto lontana. Ma non si perse d'animo, prese la brocca, tornò a riempirla alla fonte e riuscì ad arrivare ancora dieci minuti prima della principessa, vincendo la gara. -Vedete?- disse -finalmente ho adoperato le gambe, perché‚ prima non si poteva proprio parlare di corsa!- Ma il re era avvilito, e sua figlia ancora di più all'idea di essere portata via da un qualunque soldato in congedo, e tramarono insieme il modo di sbarazzarsi di lui e dei suoi compagni. Il re le disse: -Ho trovato il sistema; non aver paura, non torneranno più-. E disse loro: -Adesso dovete fare baldoria, mangiare e bere tutti insieme-. Li condusse in una stanza che aveva il pavimento e la porta di ferro e le finestre chiuse da sbarre di ferro. Nella stanza c'era una tavola sulla quale vi era ogni ben di Dio, e il re disse: -Entrate e godetevela!-. E, quando furono entrati, fece sprangare la porta. Poi chiamò il cuoco e gli ordinò di accendere un gran fuoco sotto la stanza affinché‚ il ferro si arroventasse. Il cuoco obbedì e i sei, mentre sedevano a tavola, incominciarono a sentire un gran caldo e pensarono che fosse effetto del cibo; ma il calore aumentava sempre di più e, quando vollero uscire, trovarono porta e finestra chiusi; allora capirono che il re aveva cattive intenzioni e voleva soffocarli. -Ma non l'avrà vinta!- disse quello con il cappellino -farò venire un freddo tale, che il fuoco dovrà vergognarsi e nascondersi.- Drizzò il suo cappellino e subito venne un tale freddo che estinse ogni calore e i cibi incominciarono a gelare nei piatti. Trascorse un paio d'ore il re, credendo che il calore li avesse soffocati, fece aprire la porta e andò a vedere di persona. Ma quando la porta si aprì, erano là tutti e sei freschi e sani; e dissero che erano ben contenti di poter uscire a scaldarsi, perché‚, con il gran freddo che faceva nella stanza, i cibi si congelavano nei piatti. Allora, pieno di collera, il re scese dal cuoco rimproverandolo aspramente e chiedendogli perché‚ non avesse eseguito con maggior attenzione ciò che gli era stato ordinato. Ma il cuoco rispose: -Di calore ce n'è abbastanza, andate a vedere voi stesso-. E il re vide che sotto la stanza di ferro ardeva un gran fuoco e capì che con quei sei non l'avrebbe spuntata. Allora si mise nuovamente a pensare a come liberarsi di quegli ospiti sgraditi; fece chiamare il loro capo e disse: -Se accetti dell'oro e, in cambio, rinunci ai diritti che hai su mia figlia, ti darò quanto vuoi-. -Sì, maestà- rispose egli -se mi date quanto può portare il mio servo, rinuncio a vostra figlia.- Il re era soddisfatto, e quello proseguì: -Tornerò a prenderlo fra quindici giorni-. Poi fece radunare tutti i sarti del regno, che per quindici giorni, dovettero starsene seduti a cucire un sacco. Quando il sacco fu pronto, quello che sradicava gli alberi dovette metterselo sulle spalle e recarsi insieme al capo dal re. Il re disse: -Che razza di energumeno è costui che porta sulle spalle quel sacco di tela gigantesco!- e inorridì pensando a quanto oro si sarebbe trascinato via. Allora fece portare una tonnellata d'oro, che dovettero portare sedici dei suoi uomini più forti; ma il forzuto la prese con una mano, la mise nel sacco e disse: -Perché‚ non ne fate portare subito di più? Questo copre appena il fondo-. Così, poco per volta, il re dovette far portare tutte le sue ricchezze; l'uomo le cacciò nel sacco che non era pieno neanche a metà. -Portatene di più- gridò -le briciole non riempiono.- Così furono costretti a radunare, in tutto il regno, altri settemila carri colmi d'oro; e quello li mise nel sacco insieme ai buoi che vi erano attaccati. -Non sto a fare il difficile- diss'egli -prendo quel che capita, pur di riempire il sacco.- Quanto tutto fu dentro, ci sarebbe stato ancora dell'altro, ma egli disse: -Basta così: si può legare un sacco anche se non è del tutto pieno-. Poi se lo caricò sulla schiena e se ne andò con i suoi compagni. Il re, vedendo quell'uomo portare via tutte le ricchezze del paese, andò in collera e ordinò alla cavalleria di montare in sella e di rincorrere i sei uomini per riprendere il sacco. Ben presto i due reggimenti li raggiunsero e gridarono: -Siete prigionieri: mettete giù quel sacco con l'oro o vi travolgeremo!-. -Che cosa?- esclamò quello che soffiava. -Noi prigionieri? Prima dovrete ballare in aria tutti quanti.- Si chiuse una narice, mentre con l'altra soffiò contro i due reggimenti che si dispersero nell'aria, oltre i monti, uno qua e l'altro là. Un furiere implorò grazia, dicendo che aveva nove ferite, che era stato coraggioso e che, perciò, non meritava di essere punito. Allora l'uomo soffiò un po' meno forte, sicché‚ il soldato cadde a terra senza farsi male; poi gli disse: -Adesso ritorna dal re e digli di mandare pure dell'altra cavalleria: soffierei anche quelli per aria!-. Il re, quando udì il messaggio, disse: -Lasciateli andare, hanno il diavolo in corpo!-. Così i sei portarono a casa tutta quella ricchezza, se la divisero fra loro e vissero felici fino alla morte.

 
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La pioggia di stelle

Post n°801 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una bambina, che non aveva più nè babbo nè mamma, ed era tanto povera, non aveva neanche una stanza dove abitare nè un lettino dove dormire; insomma, non aveva che gli abiti indosso e in mano un pezzetto di pane, che un'anima pietosa le aveva donato. Ma era buona e brava e siccome era abbandonata da tutti, vagabondò qua e là per i campi fidando nel buon Dio.

Un giorno incontrò un povero, che disse: “Ah, dammi qualcosa da mangiare! Ho tanta fame!” Ella gli porse tutto il suo pezzetto di pane e disse: “Ti faccia bene!” e continuò la sua strada. Poi venne una bambina, che si lamentava e le disse: “Ho tanto freddo alla testa! Regalami qualcosa per coprirla.” Ella si tolse il berretto e glielo diede. Dopo un pò ne venne un'altra bambina, che non aveva indosso neanche un giubbetto e gelava; ella le diede il suo. E un pò più in là un'altra le chiese una gonnellina, ella le diede la sua. Alla fine giunse in un bosco e si era già fatto buio, arrivò un'altra bimba e le chiese una camicina; la buona fanciulla pensò: “E' notte fonda nessuno ti vede puoi ben dare la tua camicia.” Se la tolse e diede anche la camicia.

E mentre se ne stava là, senza più niente indosso, d'un tratto caddero le stelle dal cielo, ed erano tanti scudi lucenti e benchè avesse dato via la sua camicina ecco che ella ne aveva una nuova, che era di finissimo lino. Vi mise dentro gli scudi e fù ricca per tutta la vita.


 

 
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Il ladro e il suo maestro

Post n°800 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un uomo che voleva far imparare un mestiere al figlio; va in chiesa a domandare a Nostro Signore che cosa fosse meglio. Dietro l'altare c'era il sagrestano che dice: -Il mestiere del ladro! Il mestiere del ladro!-. Allora egli va a casa e dice al figlio che deve imparare a fare il ladro: glielo ha suggerito Nostro Signore. E parte con lui per cercare qualcuno che conosca il mestiere. Cammina un'intera giornata e arriva in un gran bosco, dove c'è una casina e dentro una vecchietta. Dice il padre: -Non conoscete per caso qualcuno che sappia l'arte del ladro?-. -Potete imparare benissimo qui, mio figlio ne è maestro.- Allora egli parla con il figlio e gli chiede se davvero sa fare il ladro. Il maestro dice: -Istruirò vostro figlio. Tornate fra un anno, e se lo riconoscerete non voglio nessun compenso, ma se non lo riconoscerete, dovrete darmi duecento scudi-. Il padre torna a casa e il figlio impara bene l'arte degli stregoni e dei ladri. Trascorso l'anno, il padre si incammina e piange, perché‚ non sa come fare a riconoscere il figlio. Mentre va e piange, gli viene incontro un omino che dice: -Perché‚ piangete, siete così afflitto?-. -Oh- risponde -un anno fa ho lasciato mio figlio da un ladro perché‚ ne imparasse il mestiere; questi mi ha detto di tornare dopo un anno, e se non avessi riconosciuto mio figlio, avrei dovuto dargli duecento scudi, mentre se lo avessi riconosciuto non avrei dovuto dargli niente. Adesso ho tanta paura di non riconoscerlo e non so dove trovare il denaro.- Allora l'omino gli dice di prendere un pezzetto di pane e di andare a mettersi sotto il camino: -Là, sopra la spranga, c'è una gabbietta con dentro un uccellino che guarda fuori: è vostro figlio-. Il padre va e getta un pezzo di pane davanti alla gabbia, allora viene fuori l'uccellino e lo guarda. -Olà! sei qui, figlio mio?- dice il padre. Il figlio è tutto contento di rivedere il padre, ma il maestro dice: -Ve l'ha detto il diavolo, come riconoscere vostro figlio!-. -Andiamo, babbo!- dice il ragazzo. Il padre ritorna a casa con suo figlio; per strada passa una carrozza e il figlio dice: -Mi tramuterò in levriero grigio e vi farò guadagnare molto denaro-. Il signore grida dalla carrozza: -Buon uomo, volete forse vendere il cane?-. -Sì- dice il padre. -Quanto volete?- -Trenta scudi.- -Ehi, buon uomo, è una bella somma, ma è un cane così bello che lo prenderò ugualmente.- Il signore fa salire il cane in carrozza ma, dopo aver fatto un tratto di strada, il cane salta fuori dal finestrino: non era più un levriero ed era tornato da suo padre. Se ne vanno insieme a casa. Il giorno dopo c'è mercato nel villaggio vicino e il giovane dice a suo padre: -Mi muterò in cavallo; vendetemi, ma quando mi vendete toglietemi la cavezza, altrimenti non posso più riprendere l'aspetto umano-. Il padre porta il cavallo al mercato, ed ecco arrivare il maestro del figlio che compra il cavallo per cento scudi; ma il padre si scorda di togliergli la cavezza. L'uomo va a casa con il cavallo e lo mette nella stalla. Arriva la serva e il cavallo dice: -Toglimi la cavezza, toglimi la cavezza!-. La serva si ferma e borbotta: -Sai forse parlare?-. Va e gli toglie la cavezza; allora il cavallo diventa un passero e vola fuori dalla porta, e il maestro diventa anche lui un passero e gli vola dietro. S'incontrano e si sfidano, ma il maestro perde, si butta in acqua e diventa un pesce. Anche il giovane si tramuta in pesce, si sfidano di nuovo e il maestro perde. Si trasforma in pollo mentre il giovane diventa una volpe e con un morso stacca la testa al maestro. Così quello è morto e morto rimane.

 
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Gianni testa fina

Post n°799 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

La madre di Gianni domanda: -Dove vai, Gianni?-. Gianni risponde: -Da Ghita-. -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita gli regala un ago. Gianni dice: -Addio, Ghita-. -Addio, Gianni.- Gianni prende l'ago, lo ficca in un carro di fieno e, dietro al carro, torna a casa. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni, dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Ago, dato.- -Dove hai l'ago, Gianni?- -Ficcato in carro di fieno.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi infilarlo nella manica!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita regala a Gianni un coltello. -Addio, Ghita.- -Addio, Gianni.- Gianni prende il coltello, lo infila nella manica e va a casa. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato-. -Che cosa ti ha dato?- -Coltello, dato.- -Do ve hai il coltello, Gianni?- -Infilato nella manica.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi metterlo in tasca!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita gli regala una capretta. -Addio, Ghita.- -Addio, Gianni.- Gianni prende la capra, le lega le zampe e se la ficca in tasca. Quando arriva a casa è soffocata. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Capra, dato.- -Dove hai messo la capra, Gianni?- -Ficcata in tasca.- -Che sciocco, Gianni. Dovevi legarla a una corda!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita. -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita gli regala un pezzo di lardo. Gianni lo lega a una corda e se lo trascina dietro. Vengono i cani e mangiano il lardo. Quando arriva a casa, tiene in mano la corda e nient'altro. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Pezzo di lardo, dato.- -Dove hai messo il lardo, Gianni?- -Legato alla fune, menato a casa, rubato i cani.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi portarlo in testa!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non far sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- Gianni va da Ghita: -Buon giorno, Ghita-. -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita regala a Gianni un vitello. Gianni se lo mette in testa e il vitello gli pesta la faccia. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Che cosa le hai portato?- -Niente portato, lei dato.- -Cosa ti ha dato?- -Vitello dato.- -Dove hai il vitello, Gianni?- -Messo sulla testa, pestato la faccia.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi legarlo e condurlo alla greppia!- -Fa niente, un'altra volta.- -Dove vai, Gianni?- -Da Ghita.- -Non fare sciocchezze, Gianni.- -Niente sciocchezze. Addio, mamma.- -Buon giorno, Ghita.- -Buon giorno, Gianni. Cosa mi porti di buono?- -Niente porto, dare.- Ghita dice: -Voglio venire con te-. Gianni lega Ghita a una fune, la mena davanti alla greppia e l'attacca per bene. -Buona sera, mamma.- -Buona sera, Gianni. Dove sei stato?- -Da Ghita.- -Che cosa ti ha dato?- -Ghita venuta con me.- -E dove l'hai lasciata?- -Menata con la corda, legata alla greppia, messo l'erba davanti.- -Che sciocco, Gianni! Dovevi essere gentile e gettarle gli occhi addosso!- -Fa niente, un'altra volta.- Gianni va nella stalla, cava gli occhi a vitelli e pecore e li getta in faccia a Ghita. Allora Ghita s'infuria, strappa la corda, corre via, e addio sposa di Gianni!

FINE

Immagine: Gianni testa fina (Grimm)

 
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Gianni si sposa

Post n°798 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un contadinello di nome Gianni. Suo cugino avrebbe voluto trovargli una moglie ricca, perciò un giorno lo mise a sedere dietro la stufa e fece accendere un bel fuoco. Poi prese una caraffa piena di latte e un bel po' di pane bianco, gli diede un soldo luccicante e nuovo di zecca e disse: -Gianni, tieni stretto il soldo, e il pane inzuppalo nel latte; e stai seduto qui senza muoverti finché‚ torno-. -Sì, lo farò- rispose Gianni. Il cugino infilò un paio di vecchi calzoni rattoppati, andò nel villaggio vicino, dalla figlia di un ricco contadino, e disse: -Non vorreste sposare mio cugino Gianni? Vi prendereste un uomo valido e capace che vi piacerà-. Il padre, avaro, domandò: -Come sta a quattrini? Ha di che bollire in pentola?-. -Caro amico- rispose il cugino -Gianni se ne sta seduto al caldo, qualche bel quattrino ce l'ha, né gli manca la zuppa. Inoltre di pezze ("Pezze": con questo termine si designavano le proprietà. Nota dell'Autore.) non dovrebbe averne meno delle mie!- E, così dicendo, si batté‚ le mani sui calzoni rattoppati. -Se volete incomodarvi a venire con me, vi sarà provato all'istante che le cose stanno come dico.- L'avaraccio non volle lasciarsi sfuggire quella bella occasione e disse: -Se è vero, non ho nulla contro questo matrimonio-. Così furono celebrate le nozze al giorno stabilito e quando la giovane moglie volle andare nei campi a vedere i beni dello sposo, Gianni si tolse il vestito della festa, indossò il camiciotto pieno di toppe e disse: -Il vestito buono potrei rovinarlo!-. Poi se ne andarono insieme nei campi e, per via, quando si vedevano i confini di un vigneto, di un campo o di un prato, Gianni li indicava con il dito, e batteva poi con la mano su di una pezza grande o piccola del suo camiciotto, dicendo: -Questo è mio, tesoro, e quello pure, guarda qui!-. E intendeva dire che la moglie non stesse a guardare i campi a bocca aperta, ma guardasse piuttosto il suo camiciotto, che era proprio suo. -Sei stato anche tu alle nozze?- -Eccome se ci sono stato! L'acconciatura era di burro, è venuto il sole e si è sciolta; il mio vestito era di ragnatela e si strappò passando fra le spine; le scarpe erano di vetro, ho inciampato in una pietra, hanno fatto "clink" e si sono spezzate!-

FINE


 
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Umiltà e povertà portano in cielo

Post n°797 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un principe che un giorno se ne andava per i campi, triste e pensieroso. Guardò il cielo, così limpido e azzurro, sospirò e disse: "Come si deve stare bene lassù!" In quel mentre scorse un vecchio mendicante che passava di là, gli rivolse la parola e domandò: "Come posso andare in cielo?" L'uomo rispose: -Con umiltà e povertà. Mettiti i miei stracci, erra sette anni per il mondo e impara a conoscerne la miseria; non prendere denaro, e quando hai fame prega le persone pietose di darti un pezzetto di pane, e ti avvicinerai al cielo-. Il principe si tolse l'abito lussuoso, indossò quello del mendicante e se ne andò per il mondo sopportando la più nera miseria. Accettava soltanto un po' di cibo, non parlava e pregava il Signore che volesse accoglierlo un giorno in cielo. Quando furono trascorsi i sette anni, tornò al castello di suo padre, ma nessuno lo riconobbe. Disse ai servi: -Andate, e dite ai miei genitori che sono tornato-. Ma i servi non gli credettero, risero e non gli badarono. Allora egli disse: -Andate, e dite ai miei fratelli di scendere: desidero tanto rivederli!-. I servi non volevano fare neppure questo, ma alla fine uno di loro andò e lo disse ai figli del re; ma questi non ci credettero e non se ne curarono. Allora egli scrisse una lettera a sua madre e le raccontò tutta la sua miseria, ma non le disse di esser suo figlio. La regina, impietosita, gli fece dare un posto nel sottoscala, e ogni giorno dei servi dovevano portargli da mangiare. Ma uno dei due era cattivo e diceva: -Che se ne fa il mendicante di questi cibi prelibati!- e se li teneva per s‚ o li dava ai cani; e al principe, debole e consunto, non portava che acqua. L'altro invece era onesto e gli portava quel che gli davano per lui. Era poco, e tuttavia poté‚ tenerlo in vita per qualche tempo. Egli sopportava tutto con pazienza, ma s'indeboliva sempre di più. Quando la malattia si aggravò, chiese di ricevere il Viatico. Durante la messa, tutte le campane della città e dei dintorni incominciarono a suonare. Dopo la messa, il sacerdote si recò dal povero nel sottoscala, ed egli giaceva morto, con una rosa in una mano e un giglio nell'altra; e accanto a lui c'era un foglio di carta, dov'era scritta la sua storia. Quando fu sepolto, su un lato della tomba crebbe una rosa, sull'altro un giglio.

FINE

 
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Bernabò infermiere

Post n°796 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Avete letto bene,lettori! L'inenarrabile Bernabò ha preso il diploma di infermiere professionale (per corrispondenza,ma tant'è)ed ha deciso di rendersi utile al prossimo,ovvero ai nostri (disgraziati) paesani.
Secondo voi poteva andare tutto liscio?
Leggete.leggete!
LUNEDI'-Affettando il pane Berengario si è tagliato.Bernabò,che era presente,lo ha medicato e fascaito così bene che il Capricorni pareva il fratello della mummia e per poco non è morto soffocato
MARTEDI'- Melchiorre Scozzagalli aveva bisogno di un clistere ed è stato chiamato Bernabò.
Al pover'uomo è stato sì praticato un clistere,ma con l'antigelo.
MERCOLEDI'- L'Anatolio,costretto su una sedia a rotelle per un incidente sciistico,ha chiesto a Bernabò di assisterlo.
La sedia e l'Anatolio sono finiti nella concimaia.
GIOVEDI'- La Bradamante aveva un terribile tosse.
Bernabò le ha praticato un cataplasma così bollente che la madre è schizzata sul campanile e detiene il nuovo record
VENERDI'- Be'erino aveva bisogno di iniezioni.
Bernabò è arrivato armato di un pistolone sparasiringhe di sua invenzione,ed ha invitato Be'erino a porgergli il deretano.
Quello,ubriacone ma non scemo,si è dato alla fuga in mutande inseguito dal Trogoloni
Le risate omeriche dei paesani si sono sentite fino a Firenze.
SABATO- Geremia era al bar e un pezzo del tramezzino che stava mangiando gli è andato di traverso.
Il Trogoloni lo ha afferrato per i piedi,lo ha capovolto e ha cominciato a scuoterlo.
Geremia è salvo,ma le ripetute botte sul pavimento lo hanno incretinito.
DOMENICA-Cuccurullo ha notificato al Trogoloni il foglio di via obbligatorio.
Sono passate due settimane.
Berengario sogna di essere sepolto in una piramide ogni notte e si sveglia urlando,La Carolina è disperata.
Melchiorre crede di essere una Fiat 500.
Anatolio è in stato catatonico.
La Trogoloni ha ripudiato il figlio.
Be'erino non si trova.
Geremia canta a squarciagola "E' morto Bobi" e la Fidalma e le figlie girano coi tappi per le orecchie.
Bernabò fa l'infermiere nella missione africana di Tukambakabalodisotto.
Confesso che Adolf mi fa pena.
Il qui scrivente passa e chiude.



 

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La distruzione dell'uomo (Pirandello)

Post n°795 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Vorrei sapere soltanto se il signor giudice istruttore (* – Parliamo del delitto di Petix) ritiene in buona fede d'aver trovato una sola ragione che valga a spiegare in qualche modo questo ch'egli chiama assassinio premeditato (e sarebbe, se mai, doppio assassinio, perché la vittima stava per compire felicemente l'ultimo mese di gravidanza).
Si sa che Nicola Petix s'è barricato in un silenzio impenetrabile, prima davanti al commissario di polizia, appena arrestato, poi davanti a lui, voglio dire al signor giudice istruttore che inutilmente tante volte e in tutte le maniere s'è provato a interrogarlo, e infine anche davanti al giovane avvocato che gli hanno imposto d'ufficio, visto che fino all'ultimo non ha voluto incaricarne uno di sua fiducia per la difesa.
Di questo silenzio così ostinato si dovrebbe pur dare, mi sembra, una qualche interpretazione.
Dicono che in carcere Petix dimostra la smemorata indifferenza d'un gatto che, dopo aver fatto strazio d'un topo o d'un pulcino, si raccolga beato dentro un raggio di sole.
Ma è chiaro che questa voce, la quale vorrebbe dare a intendere che Petix consumò il delitto con l'incoscienza d'una bestia, non è stata accolta dal giudice istruttore, se egli ha creduto di dovere ammettere e sostenere la premeditazione nell'assassinio. Le bestie non premeditano. Se s'appostano, il loro agguato è parte istintiva e naturale della loro naturalissima caccia, che non le fa né ladre né assassine. La volpe è ladra per il padrone della gallina: ma per sè la volpe non è ladra: ha fame; e quand'ha fame, acchiappa la gallina e se la mangia. E dopo che se l'è mangiata, addio, non ci pensa piú.
Ora Petix non è una bestia. E bisogna vedere, prima di tutto, se questa indifferenza è vera. Perché, se vera, anche di questa indifferenza si dovrebbe tener conto, come di quel silenzio ostinato, di cui – a mio modo di vedere – sarebbe la conseguenza piú naturale; corroborati come sono l'una e l'altro dall'esplicito rifiuto d'un difensore.
Ma non voglio anticipar giudizi, né mettere avanti per ora la mia opinione.

Séguito a discutere col signor giudice istruttore.
Se il signor giudice istruttore crede che Petix sia da punire con tutti i rigori della legge, perché per lui non è uno scemo feroce da paragonare a una bestia, né un pazzo furioso che per nulla abbia ucciso una donna a poche settimane dal parto; la ragione del delitto, di quest'assassinio premeditato, quale può essere stata?
Una passione segreta per quella donna, no. Basterebbe che il giovane avvocato d'ufficio mettesse sotto gli occhi ai signori giurati, per un momento, un ritratto della povera morta. La signora Porrella aveva quarantasette anni e a tutto ormai poteva somigliare tranne che a una donna.
Ricordo d'averla veduta pochi giorni prima del delitto, sulla fine d'ottobre, a braccetto del marito cinquantenne, un pochino piú piccolino di lei, ma col suo bravo pancino anche lui, il signor Porrella, per il viale nomentano sul tramonto, non ostante il vento che sollevava in calde raffiche fragorose le foglie morte.
Posso assicurare sulla mia parola d'onore, ch era una provocazione la vista di quei due, fuori a passeggio in una giornata come quella, con tutto quel vento, tra il turbine di tutte quelle foglie morte, piccoli sotto gli alti platani nudi che armeggiavano nel cielo tempestoso con l'ispido intrico dei rami.
Buttavano i piedi allo stesso modo, nello stesso tempo, gravi, come per un compito assegnato.
Forse credevano che di quella passeggiata non si potesse assolutamente fare a meno, ora che la gravidanza era agli ultimi giorni. Prescritta dal medico; consigliata da tutte le amiche del vicinato.
Seccante forse, sì, ma naturalissimo per loro che quel vento insorgesse così di tratto in tratto e sbattesse furiosamente di qua e di là tutte quelle foglie accartocciate senza mai riuscire a spazzarle via; e che quei platani là, poiché a tempo avevano rimesso le foglie, ora a tempo se ne spogliassero per rimaner come morti fino alla ventura primavera; e che là quel cane randagio fosse condannato da ogni fiuto nel naso a fermarsi a tutti i tronchi di quei platani e ad alzare con esasperazione un'anca per non spremer che poche gocciole appena, dopo essersi rigirato piú e piú volte smaniosamente per cercare il verso.
Giuro che non a me soltanto, ma a quanti passavano quel giorno per il viale nomentano sembrava incredibile che quell'omino là potesse mostrarsi così soddisfatto di portarsi a spasso quella moglie in quello stato; e piú incredibile che quella moglie si lasciasse portare, con un'ostinazione che tanto piú appariva crudele contro se stessa, quanto piú lei sembrava rassegnata allo sforzo insopportabile che doveva costarle. Barellava, ansimava e aveva gli occhi come induriti nello spasimo, non già di quella sforzo disumano, ma dalla paura che non sarebbe riuscita a portare fino all'ultimo quel suo ingombro osceno nel ventre che le cascava. È vero che di tanto in tanto abbassava su quegli occhi le palpebre livide. Ma non tanto per vergogna le abbassava, quanto per il dispetto di vedersi obbligata a sentirla, quella vergogna, dagli occhi di chi la guardava e la vedeva in quello stato, alla sua età, vecchia ciabatta ancora in uso per una cosa che pareva tanto. Infatti, tenendo per il braccio il marito, avrebbe potuto con qualche strizzatina sotto sotto richiamarlo dalla soddisfazione a cui spesso e con troppa evidenza s'abbandonava, d'esser lui, pur così piccolino e calvo e cinquantenne, l'autore di tutto quel grosso guajo lì. Non lo richiamava, perché era anzi contenta che avesse il coraggio di mostrarla lui, quella soddisfazione, mentre a lei toccava di mostrarne vergogna.
Mi pare di vederla ancora, quando, a qualche raffica piú violenta che la investiva da dietro, si fermava su le tozze gambe larghe, a cui s'attaccava la veste che gliele disegnava sconciamente, mentre davanti le faceva pallone. Allora ella non sapeva a qual riparo correr prima col braccio libero; se abbassare cioè quel pallone della veste, che rischiava di scoprirla tutta davanti, o se tener per la falda il vecchio cappello di velluto viola, alle cui malinconiche piume nere nasceva col vento una disperata velleità di volo.

Ma veniamo al fatto.

Vi prego (se avete un po' di tempo) d'andar a visitare quel vecchio casone di Via Alessandria, dove abitavano i coniugi Porrella e anche, in due stanzette del piano di sotto, Nicola Petix.
È uno di quei tanti casoni, tutti brutti a un modo, come bollati col marchio della comune volgarità del tempo in cui furon levati in gran furia, nella previsione che poi si riconobbe errata d'un precipitoso e strabocchevole affluir di regnicoli a Roma subito dopo la proclamazione di essa a terza Capitale del regno.
Tante private fortune, non solo di nuovi arricchiti, ma anche d'illustri casati, e tutti i sussidiò prestati dalle banche di credito a quei costruttori, che parvero per piú anni in preda a una frenesia quasi fanatica, andarono allora travolti in un enorme fallimento, che ancor si ricorda.
E si videro, dov'erano antichi parchi patrizii, magnifiche ville e, di là dal fiume, orti e prati, sorger case e case e case, interi isolati, per vie eccentriche appena tracciate; e tante all'improvviso restare – ruderi nuovi – alzate fino ai quarti piani, a infracidar senza tetto, con tutti i vani delle finestre sguarniti, e fissato ancora in alto, ai buchi dei muri grezzi, qualche resto dell'impalcatura abbandonata, annerito e imporrito dalle piogge; e altri isolati, già compiuti, rimaner deserti lungo intere vie di quartieri nuovi, per cui non passava mai nessuno; e l'erba nel silenzio dei mesi rispuntare ai margini dei marciapiedi, rasente ai muri e poi, esile, tenerissima, abbrividente a ogni soffio d'aria, riprendersi tutto il battuto delle strade.
Parecchie di queste case poi, costruite con tutti i comodi per accogliere agiati inquilini, furono aperte, tanto per trarne qualche profitto, all'invasione della gente del popolo. La quale, come può bene immaginarsi, ne fece in poco tempo tale scempio, che quando alla fine, con l'andar degli anni, cominciò a Roma veramente la penuria degli alloggi, troppo presto temuta prima, troppo tardi rimediata poi per la paura che teneva tutti di far nuove costruzioni a causa di quella solenne scottatura, i nuovi proprietarii, che le avevano acquistate a poco prezzo dalle banche sussidiatrici degli antichi costruttori falliti, facendosi ora il conto di quanto avrebbero dovuto spendere a riattarle e rimetterle in uno stato di decenza per darle in affitto a inquilini disposti a pagare una piú alta pigione, stimarono piú conveniente non farne nulla e contentarsi di lasciar le scale con gli scalini smozzicati, i muri oscenamente imbrattati, le finestre dalle persiane cadenti e i vetri rotti imbandierate di cenci sporchi e rattoppati, stesi sui cordini ad asciugare.
Se non che, adesso, in qualcuna di queste grandi e miserabili case, pur tra cotali inquilini rimasti a compie l'opera di distruzione sulle pareti e sugli usci e sui pavimenti, qualche nobile famiglia decaduta o di ceto medio, d'impiegati o di professori, ha cominciato a cercar ricovero, o per non averlo trovato altrove o per bisogno o amor di risparmio, vincendo il ribrezzo di tutto quel lerciume e piú della mescolanza con quello che si, Dio mio, prossimo è, non si nega, ma che pur certamente, poco poco che si ami la pulizia e la buona creanza, dispiace aver troppo vicino; e non si può dire del resto che il dispiacere non sia contraccambiato; tanto vero che questi nuovi venuti sono stati in principio guardati in cagnesco, e poi, a poco a poco, se han voluto esser visti men male, han dovuto acconciarsi a certe confidenze piuttosto prese che accordate.
Ora in quel casone là di Via Alessandria, quando avvenne il delitto, i coniugi Porrella abitavano da circa quindici anni; Nicola Petix, da una decina. Ma mentre quelli da un pezzo erano entrati nelle grazie di tutti i piú antichi casigliani, Petix s'era attirato al contrario sempre piú l'antipatia generale, per il disprezzo con cui guardava, a cominciar dal portinajo ciabattino, tutti; senza mai voler degnare non che d'una parola, ma neppur d'un lieve cenno di saluto, nessuno.

Ho detto, veniamo al fatto. Ma un fatto è come un sacco che, vuoto, non si regge.

Se n'accorgerà bene il signor giudice istruttore, se come pare – vorrà provarsi a farlo reggere così, senza prima farci entrar dentro tutte quelle ragioni che certamente lo han determinato, e che lui forse non immagina neppure.
Petix ebbe per padre un ingegnere spatriato da gran tempo e morto in America, il quale tutta la fortuna raccolta in tanti anni laggiú con l'esercizio della professione lasciò in eredità a un altro figliuolo, maggiore di due anni di Petix e ingegnere anche lui, con l'obbligo di passare mensilmente al fratello minore, vita natural durante, un assegnino di poche centinaja di lire, quasi a titolo d'elemosina e non perché gli spettassero di diritto, essendosi già « mangiata », com'era detto nel testamento, « tutta la legittima a lui spettante in un ozio vergognoso ».
Quest'ozio di Petix sarà bene intanto che non venga considerato solamente dal lato del padre, ma un po' anche da quello di lui, perché Petix veramente frequentò per anni e anni le aule universitarie, passando da un ordine di studii all'altro, dalla medicina alla legge, dalla legge alle matematiche, da queste alle lettere e alla filosofia: non dando mai, è vero, nessun esame, perché non si sognò mai di fare il medico o l'avvocato, il matematico o il letterato o il filosofo: Petix non ha voluto fare in verità mai nulla; ma ciò non vuoi dire che se ne sia stato in ozio, e che quest'ozio sia stato vergognoso. Ha meditato sempre, studiando a suo modo, sui casi della vita e sui costumi degli uomini.
Frutto di queste continue meditazioni, un tedio infinito, un tedio insopportabile tanto della vita quanto degli uomini.
Fare per fare una cosa? Bisognerebbe star dentro alla cosa da fare, come un cieco, senza vederla da fuori; o se no, assegnarle uno scopo. Che scopo? Soltanto quello di farla? Ma sì, Dio mio: come si fa. Oggi questa e domani un'altra O anche la stessa cosa ogni giorno. Secondo le inclinazioni o le capacità, secondo le intenzioni, secondo i sentimenti o gl'istinti. Come si fa.
Il guajo viene, quando di quelle inclinazioni e capacità e intenzioni, di quei sentimenti e istinti, seguiti da dentro perché si hanno e si sentono, si vuoi vedere da fuori lo scopo, che appunto perché cercato così da fuori non si trova piú, come non si trova piú nulla.
Nicola Petix arrivò presto a questo nulla, che dovrebbe essere la quintessenza d'ogni filosofia.
La vista quotidiana dei cento e piú inquilini di quel casone lercio e tetro, gente che viveva per vivere, senza saper di vivere se non per quel poco che ogni giorno pareva condannata a fare: sempre le stesse cose; cominciò presto a dargli un'uggia, un'insofferenza smaniosa; che si esasperava sempre piú di giorno in giorno.
Soprattutto intollerabili gli erano la vista e il fracasso dei tanti ragazzini che brulicavano nel cortile e per le scale. Non poteva affacciarsi alla finestra su quel cortile, che non ne vedesse quattro o cinque in fila chinati a far lì i loro bisogni mentre addentavano qualche mela fradicia o un tozzo di pane; o sull'acciottolato sconnesso, ove stagnavano pozze di acqua putrida (seppure era acqua) tre maschietti buttati carponi a spiare donde e come faceva pipi una bambinuccia di tre anni che non se ne curava, grave, ignara e con un occhio fasciato. E gli sputi che si tiravano, i calci, gli sgraffi che si davano, le strappate di capelli, e gli strilli che ne seguivano, á cui partecipavano le mamme da tutte le finestre dei cinque piani; mentre, ecco, la signorina maestrina dalla faccetta sciupata e dai capelli cascanti attraversa il cortile con un grosso mazzo di fiori, dono del fidanzato che le sorride accanto.
Petix aveva la tentazione di correre al cassetto del comodino per tirare una rivoltellata a quella maestrina, tale e tanta furia d'indignazione gli provocavano quei fiori e quel sorriso del fidanzato, le lusinghe dell'amore in mezzo alla stomachevole oscenità di tutta quella sporca figliolanza, che tra poco quella maestrina si sarebbe anche lei adoperata ad accrescere.

Ora pensate che da dieci anni ogni giorno Nicola Petix assisteva in quel casone alle periodiche immancabili gravidanze di quella signora Porrella, la quale, arrivata fra nausee, trepidazioni e patimenti al settimo o l'ottavo mese, ogni volta rischiando di morire, abortiva In diciannove anni di matrimonio quella carcassa di donna contava già quindici aborti.
La cosa piú spaventevole per Nicola Petix era questa: che non si riusciva a vedere in quei due la ragione per cui, con un'ostinazione così cieca e feroce contro se stessi, volevano un figlio
Forse perché diciott'anni addietro, al tempo della prima gravidanza, la donna aveva preparato di tutto punto il corredino del nascituro: fasce, cuffiette, camicine, bavaglini, vestine lunghe infiocchettate, pedalini di lana, che aspettavano ancora di essere usati ormai ingialliti e stecchiti nella loro insaldatura, come cadaverini.
Ormai da dieci anni tra tutte quelle donne del casamento che figliavano a piú non posso e Nicola Petix che a piú non posso odiava questa loro sporca figliolanza, s'era impegnata come una sfida: quelle a sostenere che la signora Porrella avrebbe questa volta fatto il figlio e lui a dir di no, che neanche questa volta l'avrebbe fatto E quanto piú premurose, con infinite cure e consigli e attenzioni, quelle covavano il ventre della donna che di mese in mese ingrossava; tanto piú lui, vedendolo di mese in mese ingrossare, si sentiva crescere l'irritazione, la smania, il furore. Negli ultimi giorni d'ogni gravidanza, alla sua fantasia sovreccitata tutto quel casone si rappresentava come un ventre enorme travagliato disperatamente dalla gestazione dell'uomo che doveva nascere. Non si trattava piú per lui del parto imminente della signora Porrella, che doveva dargli una sconfitta; si trattava dell'uomo, dell'uomo che tutte quelle donne volevano che nascesse dal ventre di quella donna; dell'uomo quale può nascere dalla bruta necessità dei due sessi che si sono accoppiati.
Ebbene, l'uomo volle distruggere Petix quando fu certo che finalmente quella sedicesima gravidanza avrebbe avuto il suo compimento. L'uomo. Non uno dei tanti, ma tutti in quell'uomo; per fare in quell'uno la vendetta dei tanti che vedeva lì, piccoli bruti che vivevano per vivere, senza saper di vivere, se non per quel poco che ogni giorno parevano condannati a fare; sempre le stesse cose.
E avvenne pochi giorni dopo ch'io vidi i due coniugi Porrella per il viale nomentano, tra il turbine di quelle foglie morte, buttare i piedi allo stesso modo, nello stesso tempo, gravi, compunti, come per un compito assegnato.
La meta della quotidiana passeggiata era un pietrone oltre la Barriera, dove il viale, svoltando ancora una volta dopo Sant'Agnese e restringendosi un poco, declina verso la vallata dell'Aniene. Ogni giorno, seduti su quel pietrone, si riposavano della lunga e lenta camminata per una mezz'oretta, il signor Porrella guardando il ponte fosco e certamente pensando che di là erano passati gli antichi romani; la signora Porrella seguendo con gli occhi qualche vecchia cercatrice d'insalata tra l'erba del declivio lungo il corso del fiume, che appare Il sotto per un breve tratto dopo il ponte; o guardandosi le mani e rigirandosi Pian piano gli anelli attorno alle tozze dita.
Anche quel giorno vollero arrivare alla meta, non ostante che il fiume per le abbondanti piogge recenti fosse in piena e straripato minacciosamente sul declivio quasi fin sotto a quel loro pietrone; e non ostante che, seduto su questo, come se stesse ad aspettarli, scorgessero da lontano il loro coinquilino Nicola Petix: tutto aggruppato e raccolto in sè come un grosso gufo.

Si fermarono, scorgendolo, contrariati e perplessi per un istante, se andare a sedere altrove o tornare indietro. Ma quello stesso avvertimento di contrarietà e di diffidenza li spinse appunto ad accostarsi, perché sembrò loro irragionevole ammettere che la presenza invisa di quell'uomo e anche l'intenzione che pareva in lui evidente d'esser venuto lì per essi potessero rappresentare qualcosa di così grave, da rinunziare a quella sosta consueta, di cui la pregnante specialmente aveva bisogno.
Petix non disse nulla; e tutto si svolse in un attimo, quasi quietamente. Come la donna s'accostò al pietrone per mettervisi a sedere egli la afferrò per un braccio e la trasse con uno strappo fino all'orlo delle acque straripate; la le diede uno spintone e la mandò ad annegare nel fiume.

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Il delfino (Bambarèn)

Post n°794 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

sogni sono fatti di tanta fatica.
Forse, se cerchiamo di prendere delle scorciatoie,
perdiamo di vista la ragione
per cui abbiamo cominciato a sognare
e alla fine scopriamo
che il sogno non ci appartiene più.
Se ascoltiamo la saggezza del cuore
il tempo infallibile ci farà incontrare il
nostro destino.
Ricorda:
"Quando stai per rinunciare,
quando senti che la vita è stata
troppo dura con te,
ricordati chi sei.
Ricorda il tuo sogno".

 
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Libri dimenticati:Una grande famiglia dietro le spalle

Post n°793 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Paola Gassmann,lo sanno tutti,è la figlia maggiore di Vittorio,ma non solo questo.Sua madre,Nora Ricci,era la figlia di un grande attore di teatro quale Renzo Ricci e anche la nipote di Ermete Zacconi.Insomma,in Paola il teatro è parte integrante del DNA e della sua vita.In questo libro leggibilissimo lei ricostruisce per noi le figure indimenticabili dei bisnonni,del nonno e della madre,con un modo di scrivere leggero anche nella tragedia e molto coinvolgente

 
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Frase del giorno

Post n°792 pubblicato il 22 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Fai del bene?Scordatelo.
Non lo fai? Meglio ancora,tanto te lo tirano tutti in quel posto!

 
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