Messaggi del 23/09/2011

La rapa

Post n°810 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta due fratelli che erano entrambi soldati, ma l'uno era ricco e l'altro povero. Il povero, per superare il disagio, lasciò l'uniforme e si mise a fare il contadino. Dissodò e zappò il suo pezzetto di terra, e seminò delle rape. La semente germogliò e crebbe una rapa che diventò grande e florida. Ingrossava a vista d'occhio e non finiva mai di crescere, sicché‚ la si sarebbe potuta chiamare principessa delle rape; perché‚ mai se n'era vista una simile, n‚ mai la si rivedrà. Finì coll'essere così grossa che occupava da sola un intero carro, e ci volevano due buoi per tirarla. E il contadino non sapeva che cosa farsene, n‚ sapeva se la rapa fosse la sua fortuna o la sua disgrazia. Infine pensò: "Se la vendi, cosa vuoi mai ricavarne? Se invece vuoi mangiartela, quelle piccole vanno bene lo stesso; la cosa migliore è portarla al re e fargliene omaggio". Così la caricò sul carro, attaccò i due buoi, la portò a corte e la regalò al re. -Che razza di stranezza è questa?- disse il re. -Di cose bizzarre ne ho viste tante, ma un simile mostro non lo avevo ancora mai trovato: da che seme può esser nata? Oppure riesce soltanto a te, e tu sei un favorito della fortuna?- -Ah no!- disse il contadino -non sono un favorito della fortuna; sono un povero soldato che, non potendo più campare, ha attaccato al chiodo l'uniforme e si è messo a coltivare la terra. Ho anche un fratello che è ricco, e voi, Maestà, lo conoscete bene; io invece, poiché‚ non possiedo nulla, sono dimenticato da tutti.- Allora il re s'impietosì e disse: -Ti toglierò dalla miseria e ti farò dei doni che ti metteranno alla pari del tuo ricco fratello-. Così gli regalò un mucchio d'oro, campi, prati e greggi, e lo fece così ricco, che la ricchezza del fratello non era nulla a paragone della sua. Quando questi venne a sapere quello che il fratello aveva guadagnato con una sola rapa, l'invidiò e si mise a rimuginare come potesse procurarsi anche lui una simile fortuna. Ma egli volle fare le cose con maggiore avvedutezza, prese oro e cavalli e li portò al re, convinto di riceverne in cambio un dono molto più grande. Infatti se suo fratello aveva ottenuto tanto per una rapa, cosa non sarebbe toccato a lui per quelle belle cose! Il re accettò il dono e disse che, in cambio, non avrebbe saputo dargli cosa più rara e preziosa della grossa rapa. Così il ricco dovette caricare sul carro la rapa del fratello e portarsela a casa. E qui non sapeva su chi sfogare la sua ira e la sua collera, finché‚ gli vennero dei pensieri cattivi e decise di uccidere il fratello. Assoldò dei sicari che fece appostare in agguato, poi andò dal fratello e gli disse: -Caro fratello, so di un tesoro nascosto: andiamo a prenderlo insieme e dividiamocelo-. All'altro l'idea piacque, e lo accompagnò senza sospettare nulla. Ma come uscirono gli assassini gli si precipitarono addosso, lo legarono e volevano impiccarlo a un albero. In quel mentre risuonò da lontano un canto e uno scalpitio, sicché‚ essi, spaventati, ficcarono in tutta fretta il loro prigioniero nel sacco, lo issarono su di un ramo e fuggirono. Egli invece là dentro si diede da fare finché‚ riuscì a bucare il sacco e a mettere fuori la testa. Ma il viandante non era altri che un giovane scolaro, che cavalcava nel bosco cantando allegramente la sua canzone. Quando l'uomo in cima all'albero si accorse che sotto stava passando qualcuno, gridò: -Salute, alla buon'ora!-. Lo scolaro si guardò attorno, senza sapere donde venisse la voce, e alla fine disse: -Chi mi chiama?-. E quello rispose dalla cima dell'albero: -Alza gli occhi! Sono quassù nel sacco della sapienza; in poco tempo ho imparato tali cose, che a confronto qualsiasi scuola non val nulla; fra un po' avrò imparato tutto, e allora scenderò e sarò più sapiente degli altri uomini. Conosco le costellazioni e i segni celesti, lo spirare di tutti i venti, la sabbia del mare, la cura delle malattie, le proprietà delle erbe, gli uccelli e le pietre. Se tu fossi qui dentro, sentiresti che meraviglia viene da questo sacco!-. All'udire tutto questo, lo scolaro si meravigliò e disse: -Benedetta sia l'ora in cui ti ho incontrato! Non potrei entrarci anch'io per un po'?-. Ma quello in cima rispose quasi controvoglia: -Pagando e pregando ti lascerò venirci un pochino, ma devi aspettare un'ora: c'è ancora un pezzo che devo imparare-. Dopo avere atteso un po', lo scolaro si annoiò e lo pregò di lasciarlo entrare nel sacco: la sua sete di sapienza era troppo grande. Allora quello in cima finse di cedere e disse: -Perché‚ io possa uscire dalla casa della sapienza, devi allentare la fune per far venire giù il sacco, così ci entrerai tu-. Lo scolaro lo fece scendere, slegò il sacco, lo liberò e poi gridò: -Adesso tirami su in fretta!- e voleva entrare nel sacco dritto in piedi. -Alt!- disse l'altro -così non va!- Lo prese per la testa, lo mise nel sacco a gambe in su, lo legò e, con la fune, issò sull'albero il discepolo della sapienza, facendolo penzolare per aria; poi disse: -Come va, camerata? Ecco che ti senti già venire la sapienza: è un'ottima esperienza. Sta' lì tranquillo, finché‚ diventi più furbo-. Poi montò sul cavallo dello scolaro e se ne andò.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

La regina delle api

Post n°809 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Due principi se ne andarono in cerca di avventure e finirono col menare una vita viziosa e dissoluta, sicché‚ non fecero più ritorno a casa. Il più giovane, che era chiamato il Grullo, se ne andò alla ricerca dei fratelli, ma quando li trovò essi lo presero in giro perché‚ egli, con la sua dabbenaggine, voleva farsi strada nel mondo, mentre loro non ci erano riusciti pur essendo molto più avveduti. Si misero in cammino tutti e tre insieme e giunsero a un formicaio. I due maggiori volevano buttarlo all'aria, per vedere le formichine andare qua e là impaurite, e portare via le uova. Ma il Grullo disse: -Lasciatele in pace quelle bestie, non sopporto che le disturbiate-. Proseguirono e giunsero a un lago dove nuotavano tante tante anatre. I due fratelli volevano catturarne un paio per farle arrostire, ma il Grullo ripeté‚: -Lasciatele in pace quelle bestie, non tollero che le uccidiate-. Infine giunsero a un alveare, dove c'era tanto miele che colava sul tronco. I due volevano appiccare il fuoco all'albero per soffocare le api e prendere il miele. Ma il Grullo tornò a tenerli lontani dicendo: -Lasciate in pace quelle bestie, non tollero che le bruciate-. I tre fratelli arrivarono a un castello: nelle scuderie c'erano soltanto dei cavalli di pietra e non si vedeva anima viva. Attraversarono tutte le sale, finché‚ giunsero a una porta con tre serrature; ma in mezzo alla porta c'era uno spioncino attraverso il quale si poteva vedere nella stanza. Videro un omino grigio seduto a un tavolo. Lo chiamarono una, due volte, ma egli non sentì. Infine lo chiamarono per la terza volta, allora si alzò e uscì dalla stanza. Senza dire neanche una parola li condusse a una tavola riccamente imbandita e, quand'ebbero mangiato e bevuto, diede a ciascuno di loro una camera da letto. Il mattino dopo l'omino andò dal maggiore, gli fece un cenno con il capo e lo portò a una lapide, sulla quale erano scritte le tre imprese che si dovevano compiere per liberare il castello. La prima consisteva in questo: nel bosco, sotto il muschio, bisognava cercare le mille perle della principessa; ma se al tramonto ne mancava una sola, colui che le aveva cercate diventava di pietra. Il maggiore andò e cercò per tutto il giorno ma, al tramonto, ne aveva trovate soltanto cento; così accadde ciò che diceva la lapide ed egli fu tramutato in pietra. Il giorno seguente fu il secondo fratello a tentare l'avventura; ma non fu più fortunato del primo, trovò infatti solo duecento perle e anch'egli impietrì. Infine fu la volta del Grullo; si mise a cercare fra il muschio, ma era così difficile trovare le perle e ci voleva tanto di quel tempo! Allora sedette su di una pietra e si mise a piangere. Mentre se ne stava là arrivò il re delle formiche, al quale una volta egli aveva salvato la vita. Lo accompagnavano cinquemila formiche, e non trascorse molto tempo che le bestioline avevano trovato tutte le perle, riunendole in un mucchio. Il secondo compito consisteva nel ripescare dal lago la chiave che apriva la camera da letto della principessa Quando il Grullo arrivò al lago, le anatre che egli aveva salvato accorsero a nuoto, si tuffarono e ripescarono la chiave dal fondo. Ma la terza impresa era la più difficile: delle tre principesse addormentate bisognava scegliere la più giovane e la più amabile. Esse erano perfettamente uguali, e nulla le distingueva se non che la maggiore aveva mangiato un pezzo di zucchero, la seconda un po' di sciroppo e la più giovane un cucchiaio di miele. Egli doveva riconoscere dal respiro colei che aveva mangiato il miele. Ma in quella giunse la regina delle api che il Grullo aveva protetto dal fuoco; assaggiò la bocca di tutt'e tre e infine si fermò su quella che aveva mangiato miele, così il principe riconobbe quella giusta. Allora l'incanto svanì, ogni cosa fu liberata dal sonno e chi era di pietra riacquistò la forma umana. Il Grullo sposò la più giovane e la più amabile delle principesse e divenne re dopo la morte del padre di lei. I fratelli invece sposarono le altre due fanciulle.

FINE



 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Il buon affare

Post n°808 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Un contadino aveva portato la sua mucca al mercato e l'aveva venduta per sette scudi. Tornando a casa doveva passare vicino a uno stagno; già da lontano udì le rane gracidare: “Qua, qua, qua, qua.” – “Sì,” disse fra sé‚ “le senti strillare fin dal campo d'avena. Sette scudi ho riscosso, non quattro.” Quando fu vicino all'acqua gridò: “Stupide bestie che siete! Non vi hanno informato meglio? Sono sette gli scudi, non quattro!” Ma le rane continuarono a fare “qua, qua, qua, qua.” – “Be', se non volete crederci posso contarveli.” Tirò fuori il denaro di tasca e contò i sette scudi, cento soldi per volta. Ma le rane non si curarono dei suoi conti e continuarono a gracidare: “Qua, qua, qua, qua.” – “Oh,” esclamò il contadino infuriato, “se credete di saperlo meglio di me, contate voi,” e gettò tutto il denaro in acqua. Si fermò e attese che avessero finito e gli ridessero il suo avere, ma le rane persistettero ostinatamente a gracidare “qua, qua, qua, qua,” e non gli restituirono il denaro. Egli attese ancora un bel pezzo finché‚ si fece sera e dovette ritornare a casa. Allora prese a rimproverare le rane e gridò: “Sciaguattone, avete una gran bocca e sapete strillare da far male alle orecchie, ma sette scudi non sapete contarli! Pensate che io voglia stare qui finché‚ avete finito?” E se ne andò, ma le rane gli gracidarono ancora dietro “qua, qua, qua, qua” cosicché‚ egli rincasò di pessimo umore.

Dopo un po' di tempo acquistò un'altra mucca, la macellò e calcolò che, vendendo bene la carne, avrebbe potuto ricavare il prezzo delle due mucche, oltre ad avere la pelle. Quando giunse in città con la carne, davanti alla porta accorse un intero branco di cani preceduto da un grosso levriero; questo saltò intorno alla carne, annusò e abbaiò: “Bau, bau, bau, bau.” Siccome non voleva smetterla, il contadino gli disse: “Sì, lo so, fai ›bau, bau‹ perché‚ vorresti un po' di carne, ma io farei un bell'affare se te la dessi!” Ma il cane non rispose altro che “bau, bau.” – “Se tu non te la mangerai, garantisci per i tuoi compagni?” – “Bau, bau,” disse il cane. “Be', se insisti te la lascerò, ti conosco bene e so da chi presti servizio; ma ricordati: fra tre giorni devo avere il mio denaro, me lo porterai.” Dopo di che scaricò la carne e tornò indietro. I cani vi si lanciarono sopra abbaiando forte “bau bau!” Il contadino, che li udiva da lontano, disse fra s’: “Senti senti, adesso ne vogliono tutti, ma quello grosso me ne sarà garante.”

Passati tre giorni, il contadino pensò tutto contento: Questa sera avrai il tuo denaro in tasca. Ma nessuno venne a pagarlo. “Non ci si può fidare di nessuno,” disse, e infine gli scappò la pazienza, andò in città dal macellaio e pretese il suo denaro. Il macellaio pensò che fosse uno scherzo, ma quando il contadino disse: “Lasciamo perdere gli scherzi, io voglio il mio denaro. Il cane grosso non vi ha portato tre giorni fa l'intera mucca macellata?” Il macellaio andò in collera, afferrò un manico di scopa e lo cacciò fuori. “Aspetta,” disse il contadino, “c'è ancora giustizia a questo mondo!” e andò al castello reale e chiese udienza. Fu condotto innanzi al re, che sedeva accanto a sua figlia e gli domandò quale torto gli avessero fatto. “Ah,” disse lui, “le rane e i cani hanno preso il mio avere, e il macellaio mi ha ripagato per questo con il bastone.” E narrò minuziosamente come era andata. Allora la figlia del re scoppiò a ridere e il re gli disse: “Non posso darti ragione, ma in compenso ti darò in moglie mia figlia. In tutta la sua vita non ha mai riso, tranne appunto di te, io l'ho promessa a colui che la facesse ridere. Puoi ringraziare Dio per la tua fortuna.” – “Oh,” rispose il contadino, “non la voglio affatto: a casa ho una donna sola, e quando torno a casa è come se ce ne fosse una in ogni angolo.” Allora il re andò in collera e disse: “Se sei così villano devi avere un'altra ricompensa: ora vattene, ma fra tre giorni ritorna che te ne saranno contati cinquecento.”

Quando il contadino uscì dalla porta, la sentinella disse. “Hai fatto ridere la figlia del re, avrai ricevuto qualcosa per questo.” – “Lo credo bene,” rispose il contadino, “me ne pagheranno cinquecento.” – “Senti,” disse il soldato, “dammene un po', cosa vuoi fartene di tutto quel denaro!” – “Be',” disse il contadino, “perché‚ sei tu te ne darò duecento; fra tre giorni presentati al re e fatteli contare.” Un ebreo che era lì vicino e aveva udito la conversazione, corse dietro al contadino, lo prese per la giubba e disse: “Gran Dio, siete proprio fortunato. Voglio cambiarveli, voglio convertirli in moneta spicciola, che ve ne farete di quegli scudi sonanti!” – “Giudeo,” disse il contadino, “puoi averne ancora trecento; dammeli subito in spiccioli e di qui a tre giorni sarai pagato dal re.” L'ebreo fu contento del piccolo guadagno e portò la somma in soldi di cattiva lega, che tre ne valevano due buoni. Trascorsi i tre giorni, il contadino si recò dal re, come gli era stato ordinato. “Togliti la giubba,” disse questi, “devi avere i tuoi cinquecento.” – “Ah,” disse il contadino, “non appartengono più a me: duecento li ho regalati alla sentinella e trecento me li ha cambiati l'ebreo; non ho più diritto neanche a uno.” In quella entrarono il soldato e l'ebreo e pretesero ciò che avevano ottenuto dal contadino; ed ebbero le botte secondo quanto spettava loro. Il soldato le sopportò con pazienza poiché‚ ne conosceva già il sapore; l'ebreo invece gemeva: “Ahimè, sono questi gli scudi sonanti!” Il re dovette ridere del contadino e dato che la collera era scomparsa gli disse: “Siccome hai perso il compenso ancora prima di riceverlo, ti voglio risarcire: vai nella camera del tesoro e prendi tutto il denaro che vuoi.” Il contadino non se lo fece dire due volte e si ficcò in tasca tutto quello che poteva starci. Poi andò all'osteria e contò il suo denaro. L'ebreo gli era andato dietro e lo sentiva brontolare fra s’: “Quel briccone del re mi ha menato per il naso! Non poteva darmelo lui stesso il denaro? Adesso almeno saprei quanto ho: come posso sapere se è giusto quel che mi sono ficcato in tasca?” – “Dio guardi!” disse l'ebreo fra s’. “Costui parla con disprezzo del nostro signore: corro subito a dirlo, otterrò una ricompensa e lui, per di più, sarà punito.” Quando il re venne a sapere il discorso del contadino, andò in collera e ordinò all'ebreo di andare a prendere il colpevole. L'ebreo corse dal contadino: “Dovete venir subito da Sua Maestà, senza indugio.” – “So meglio di voi quel che ci vuole,” rispose il contadino, “prima mi faccio fare una giubba nuova; credi forse che con tutto il denaro che ho, voglia andarci vestito di stracci?” L'ebreo comprese che senza una giubba nuova il contadino non si sarebbe mosso, e siccome temeva che, sfumando la collera del re, egli ci avrebbe rimesso la sua ricompensa e il contadino la sua punizione, disse: “Vi presterò la mia giubba per pura amicizia: che cosa non si fa quando si vuole bene!” Il contadino accettò, indossò la giubba dell'ebreo e andò con lui dal re. Il re rinfacciò al contadino le male parole che l'ebreo gli aveva riferite. “Ah,” rispose il contadino, “ciò che dice un ebreo è sempre falso; a loro non esce di bocca neanche una parola che sia sincera! Questo qui ha il coraggio di dire che io ho addosso la sua giubba!” – “Che volete dire?” esclamò l'ebreo. “Non è mia la giubba, non ve l'ho forse imprestata per amicizia, perché‚ poteste presentarvi davanti a Sua Maestà?” All'udire queste parole il re disse: “L'ebreo ha di certo ingannato qualcuno: o me, o il contadino.” E gli fece suonare ancora qualche scudo sulla groppa. Il contadino invece se ne ritornò a casa con la sua bella giubba e con il suo bel denaro in tasca e disse: “Questa volta l'ho imbroccata!”

FINE


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Ieri e oggi (Pirandello)

Post n°807 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

La guerra era scoppiata da pochi giorni
Marino Lerna, volontario del primo corso accelerato di allievi ufficiali, avuta la nomina a sottotenente di fanteria, dopo una licenza di otto giorni trascorsa in famiglia, partì per Macerata, ov’era il deposito del reggimento a cui era stato assegnato: il 12.mo, brigata Casale.
Contava di passar lì qualche mese per l’istruzione delle reclute, prima d’esser mandato al fronte. Invece tre giorni dopo, mentre si trovava nel cortile della caserma, fu improvvisamente chiamato, non seppe da chi; e sù per le scale si trovò insieme con gli altri undici sottotenenti arrivati con lui a Macerata dai diversi plotoni.

– Ma dove? Perché?

Sù, in sala. Dal colonnello.
Rigido sull’attenti, coi compagni, davanti una tavola massiccia, ingombra d’incartamenti, fin dalle prime parole di quel colonnello dei carabinieri, che teneva in sostituzione il comando della caserma, comprese poco dopo che doveva esser giunto un ordine di partenza per loro.
Con gli occhi ancora abbagliati dal sole di giugno che splendeva giù nell’ampio cortile, non riuscì in prima a discernere, nel bujo di quella tetra sala, se non l’argento della montura al collo della divisa del signor colonnello, il roseo d’una lunga faccia cavallina tagliato da un grosso pajo di baffi, e il biancheggiar delle carte sulla tavola
Per un tratto, smarrì nello scompiglio tumultuoso dei pensieri e dei sentimenti il senso delle parole proferite con voce dura e urtante. Si sforzò di prestar attenzione e, sissignori, era proprio così: l’ordine di partenza era per la sera del giorno appresso.
Già al deposito si sapeva che il 12.mo occupava al fronte una tra le più aspre e difficili posizioni, sul Podgora; e che i più giovani ufficiali vi erano stati mietuti in parecchi assalti infruttuosi. Bisognava, dunque, correr subito a colmare quei vuoti.
La tensione dell’animo, appena il colonnello licenziò quei dodici giovani, si sciolse in ciascuno di loro, per un istante, in un curioso stordimento, quasi di delusa ebbrezza. Subito se ne distolsero per abbandonarsi a un eccesso di disinvoltura rumorosa; da cui però, un momento dopo, tornarono a riprendersi con uno studio di mostrare l’uno all’altro che quella loro disinvoltura non era punto affettata.
Si trovarono, a ogni modo, tutti d’accordo nella decisione di correre al telegrafo per annunziare ai parenti con parole animose la partenza.

Tutti, meno uno. Proprio quell’uno tra gli ottanta del plotone allievi ufficiali che da Roma era stato assegnato con Marino Lerna al 12.mo reggimento: un tal Sarri; proprio quel tal Sarri che a Marino Lerna era tanto dispiaciuto d’avere a compagno, quasi che la sorte avesse voluto tra gli ottanta camerati del plotone romano scegliergli quello appunto che gli era più antipatico.
Ma veramente quel Sarri non aveva nessuno, a cui telegrafare la sua partenza. In quei tre giorni passati insieme a Macerata, Marino Lerna, pur non riuscendo a mutare in fondo l’opinione che n’aveva, s’era sentito tuttavia un po’ meglio disposto verso di lui, forse perché da solo a solo il Sarri aveva smesso quell’aria sprezzante che lo aveva reso a Roma inviso a tutti i compagni del plotone. Marino Lerna aveva creduto di capire che lo sprezzo del Sarri derivava da un proposito, ch’era in lui quasi bisogno istintivo, di non confonder mai il suo sentimento con quello degli altri, dimostrando in tutti i modi ch’egli sentiva, non pur diversamente, ma l’opposto, senza punto curarsi dell’altrui stima. Era forse, insomma, antipatico più per professione che per natura, e aveva l’orgoglio delle antipatie che suscitava. Poteva permetterselo, perché molto ricco e solo al mondo.
Da Roma s’era portata a Macerata una donnina allegra, che manteneva da circa tre mesi, ben nota ai compagni del plotone. Contava anche lui di rimanere al deposito forse più d’un mese e voleva in questo tempo cavarsi del tutto – diceva – almeno il gusto più facile, quello bestiale dell’altro sesso, sicuro com’era che non sarebbe certamente mancato per lui di morire in guerra, tanto l’idea di seguitare a vivere, dopo la guerra, nell’enfasi d’una patria piena d’eroi, gli era intollerabile.

Marino Lerna, mentre con gli altri si dirigeva al telegrafo, vedendolo restare indietro, si trattenne.

– Tu non vieni?

Il Sarri scrollò le spalle.

– No... volevo dire... – riprese il Lerna per riparare. un po’ imbarazzato, alla sciocca domanda. – Volevo chiederti un consiglio.

– Proprio a me?

– Non so... guarda: tre giorni fa, partendo da Roma, assicurai mio padre e mia madre... – Tu sei figlio unico? – Sì, perché? – Ti compiango. – Eh, lo so, per i miei. Li assicurai che non sarei partito per il fronte se non tra qualche mese, e che prima di partire sarei andato a salutarli per ...

Stava per dire «per l’ultima volta». S’interruppe. Il Sarri lo capì; sorrise.

– Ma dillo pure, per l’ultima volta.

– No, ecco, speriamo di no; faccio le corna. A salutarli, diciamo, ancora una volta, prima di partire.

– Bene. E poi?

– Aspetta. Mio padre si fece promettere, che se per caso m’avessero negato la licenza, lo avrei avvertito a tempo perché potesse venir lui con la mamma a salutarmi qui. Ora, noi partiamo domani sera alle cinque.

– Se prendono questa sera il treno delle dieci, seguitò il Sarri, – domattina alle sette possono essere qua per passare con te quasi tutta la giornata.

– Dunque, me lo consigli? – domandò Marino Lerna.

– Ma no! – esclamò il Sarri, senza esitare. – Scusa, hai avuto la fortuna di partire senza pianti...

– No, per questo, la mamma ha pianto!

– E non ne sei contento? Vorresti vederla piangere ancora? Ma di’ che parti stasera e salutali di qui! Sarà meglio per te e per loro.

Poi, vedendo che il Lerna restava lì incerto e perplesso:

– Ciao, eh – gli disse. – Vado ad annunziarla a Ninì io, la partenza. Sarà da ridere. Mi ama! Ma quella, se piange, la scazzotto.

E se n’andò.
Marino Lerna s’avviò al telegrafo ancora perplesso se seguire o no quel consiglio. Altelegrafo ritrovò i compagni che avevano tutti telegrafato gli addii, senz’altro; e fece come loro; ma poi, ripensandoci e parendogli d aver fatto un tradimento alla povera mamma, al babbo, spedì un nuovo telegramma d’urgenza, nel quale li avvertiva che se prendevano il treno delle dieci di sera, avrebbero fatto in tempo a salutarlo prima della partenza.
La mamma di Marino Lerna era una dura donnetta all’antica, come ne conserva ancora la provincia.
Eretta sul busto armato di grosse stecche, ossuta, un po’ legnosa, pur senz’esser magra; in un’ansia continua, tra sospetti e diffidenze, voltava di qua e di là gli occhietti aguzzi di topo, irrequieti.
Adorava tanto quel suo unico figliuolo, che per lui, per non staccarsi da lui già studente d’Università, aveva lasciato gli agi della sua casa antica, le abitudini patriarcali della sua vita in un villaggio degli Abruzzi; e da due anni era andata a stabilirsi nella Capitale ove si sentiva sperduta.
Arrivò la mattina del giorno appresso a Macerata in tale stato, che subito il figlio si pentì d’averla fatta venire. Ma lei protestava di no, appena scesa dal treno: di no, di no; senza poter più staccare le braccia dal collo del figlio, piangendogli sul petto:

– Non me lo dire, Rinuccio... non me lo dire...

Il padre le batteva intanto, serio serio, una mano sulla spalla. Perché era uomo, lui. E non piangeva, lui.
A Roma, poco prima di partire, aveva avuto un certo discorso con un signore sconosciuto, il quale aveva anch’esso un figliuolo al campo fin dal primo giorno della guerra e due altri più piccoli in casa. Un certo discorso, sì. Niente. Un discorso tra due padri, ecco.

– Senza piangere...

Però, nello sforzo di trattenere il pianto a ogni costo (sforzo che gli appariva evidentissimo dagli occhietti lustri, febbrili), la sua magra personcina molto curata aveva ora una ridicola solennità artificiosa che faceva pena, forse più di quell’abbandonato cordoglio della madre.
Era senza dubbio esaltato; accennava a quel suo misterioso discorso con quel signore sconosciuto, come per nascondervi un proposito che aveva intanto un ben curioso effetto: quello di fargliela vedere, come da fuori, a lui stesso, la sua esaltazione mascherata di calma, e di fargliene forse provare ora rimorso, ora fastidio, di fronte alla nuda schiettezza, alla commozione forte e muta del figlio che soffriva del pianto della sua mamma e le faceva coraggio più con le carezze che con le parole.
Fu pur troppo, come il Sarri aveva previsto, uno strazio inutile.
Accompagnati i genitori all’albergo, Marino Lerna dovette scappare subito in caserma, dove fu trattenuto fin quasi a mezzogiorno. E appena finito lì, nella stessa camera dell’albergo, il desinare (perché la mamma con quegli occhi disfatti dal pianto non fu possibile portarla al ristorante; e poi non si reggeva più sulle gambe), appena finito il desinare, dovette di nuovo ritornare in fretta in furia alla caserma per le ultime istruzioni. Cosicché il padre e la madre non poterono rivederlo che pochi momenti appena, prima della partenza.
Ma un bel discorso, un bel discorso lungo e ragionato si provò a fare il padre alla moglie, come rimasero soli. Cose peregrine le disse in quel discorso, provandosi spesso a ingollare e passandosi la manina tremicchiante sulle labbra: che non si doveva piangere così, perché non era mica detto che Rinuccio... Dio liberi... i casi potevano esser tanti... il reggimento, per ora, poteva anche esser mandato in seconda linea, se si trovava agli avamposti, come dicevano, fin dal primo giorno della guerra... e poi, se tutti i soldati che andavano al fronte fossero morti, addio... più facile era che fossero feriti.. qualche feritina lieve... a un braccio, per esempio.. Dio lo avrebbe assistito, il loro figliuolo... perché fargli così la jettatura con quel pianto? Eh... eh... a vederla piangere così, Rinuccio si sarebbe impressionato; certo che si sarebbe impressionato...

Ma la madre diceva che non era lei. Gli occhi... gli occhi... che poteva farci? Per il senso che le facevano tutte le parole, tutti gli atti del suo figliuolo: un senso strano e crudele, di ricordo.

– Ogni parola, capisci? mi fa l’effetto che non me la dica ora, ma che me la diceva... Così! Mi resta impressa, come se lui già non ci fosse più... Che posso farci?... Dio... Dio...

– E non è jettatura, questa?

– No! che dici!

– Dico che è jettatura! E io mi metterò a ridere, vedrai che io mi metterò a ridere, quando partirà.

Se avessero seguitato ancora un poco, avrebbero litigato. C’era già acuta, fustigante l’impazienza per il ritardo del figliuolo. Ma Dio, come non capivano i superiori che quegli ultimi momenti dovevano essere riserbati a una povera mamma, a un povero padre?
L’impazienza diventò smania insopportabile, allorché tutti i compagni di Marino cominciarono a venire alla spicciolata e in gran fretta all’albergo, con le carrozze che si fermavano li davanti ad aspettare il bagaglio per ripartir subito verso la stazione. Ecco, l’attendente dell’uno portava già la cassetta; l’attendente dell’altro, lo zaino, il cappotto, la sciabola; e via tutti a precipizio, in carrozza, di gran trotto.
Marino, uscito per ultimo dalla caserma, era corso a ritirare un paio di scarpe imbullettate, da campagna, ordinate il giorno avanti; e aveva fatto tardi.
Più che un distacco, fu uno strappo, una furia, un precipizio. C’era il rischio di perdere il treno. Difatti, arrivò col padre e la madre alla stazione, che già chiudevano gli sportelli delle vetture: si cacciò in una, da cui i compagni si sbracciavano a chiamarlo; e subito il treno parti fra un tumulto di gridi, di pianti, d’augurii, tra uno svolazzio di fazzoletti e cenni di mani e di cappelli.
Quando il signor Lerna, che aveva agitato il suo fino all’ultimo, ma senza nessuna convinzione, quasi stizzito che non gli avessero dato il tempo di farlo bene, si voltò, ancora mezzo intronato, a cercarsi accanto la moglie, non la trovò più: l’avevano trasportata, svenuta, nella sala d’aspetto.

Una gran quiete, ora, nella stazione. Non c’era più nessuno. Solo, nel vano abbagliante del lungo e stanco pomeriggio estivo, i binarii lucidi, e un lontano ininterrotto stridio di cicale.
Tutte le carrozze avevano già ricondotto in città la gente venuta a salutare i partenti; e non se ne trovò più nessuna davanti la stazione, allorché la mamma di Marino Lerna, alla fine rinvenuta, fu in condizione d’esser trasportata all’albergo.
Il guardasala, impietosito, si profferse d’andare al prossimo garage per far venire l’omnibus automobile, che doveva esser già di ritorno.
All’ultimo momento, quando la signora, sorretta, quasi portata di peso, vi aveva già preso posto, e l’omnibus stava per avviarsi, venne di furia a montarvi una giovine bionda, sbucata chi sa da dove, con una gran paglia fiorita di rose in capo, molto scollata e vestita alla bizzarra; occhi e labbra dipinti; ma che piangeva anche lei perdutamente.

Una bella giovine.
Aveva, raccolto in una mano, un minuscolo fazzolettino di filo azzurro, ricamato; teneva l’altra, sfavillante d’anelli, su la guancia destra, come per nascondere il rossore e il bruciore d’un terribile schiaffo.
La Ninì, che il sottotenente Sarri s’era portata da Roma, tre giorni addietro.
Il padre di Marino Lerna capì subito di che genere fosse quella biondina lì. Non capì la madre che, vedendosi di faccia un’altra donna che piangeva come lei, non seppe tenersi da domandarle:

– È moglie la signora?

Quella, col suo fazzolettino da bambola sugli occhi, fece subito di no col capo.

– Sorella? – insistette la madre.

Ma a questo punto il marito intervenne col gomito a fare, sotto sotto, un segno alla moglie.
La giovine notò forse quel segno: comprese, a ogni modo, che l’inganno di quella vecchia signora sul suo conto non poteva durare a lungo, e non rispose.
Ma un’altra cosa, anche più triste, comprese, mentre seguitava a piangere. Comprese che lei ora impediva a quella vecchia mamma di piangere, perché quella vecchia mamma, ora, provava onta a confondere le sue lagrime con quelle di lei.
Erano lagrime, per tanto, anche le sue; e lagrime d’una pena più rara assai di quella così comune e naturale d’una mamma.
Non era stata soltanto del Sarri ultimamente, a Roma, la Ninì; era stata anche di altri compagni di lui in quel plotone allievi ufficiali; e chi sa, fors’anche di colui, per cui quella vecchia mamma ora piangeva.
A mezzogiorno, era stata a tavola con loro, con dieci di loro. Una tavolata di diavoli. Glien’avevano fatte di tutti i colori, e lei li aveva lasciati fare, perché si stordissero come tanti matti, quei poveri ragazzi in procinto di partire per la guerra. Avevano voluto finanche scoprirle il seno, là, alla vista di tutti, in trattoria, perché era famoso tra loro quel suo piccolo seno, quasi ancora virgineo, dai tuberi eretti; e gliel’avevano voluto battezzare, matti, con lo champagne; e lei li aveva lasciati fare e toccare, baciare, premere, stringere, strappare, perché se lo portassero, sì, vivo lassù, quell’ultimo ricordo della sua carne d’amore; lassù dove forse a uno a uno tutti que’ bei giovani di vent’anni sarebbero morti domani. Aveva tanto riso con loro, e poi, sì, Dio mio... poi, baciandoli per l’ultima volta... Ma le era arrivato da parte del Sarri quel terribile schiaffo sulla guancia destra. E no, no: non se n’era avuta per male...
Via, avrebbe potuto dunque lasciarla piangere senz’offendersene, quella povera vecchia mamma. La lasciava piangere, certo; ma non piangeva più lei, ora, povera vecchia mamma, che n’aveva chi sa quanto bisogno.
E allora, ecco che lei si sforzò di trattener le sue lagrime, per lasciare scorrere quelle della madre. Ma invano. Quanto più si sforzava di trattenerle, tanto più impetuose esse le rompevano dagli occhi, premute anche dalla ragione crudele per cui cercava d’impedirsi lo sfogo. E alla fine, trangosciata, non potendone più, scoprì il volto, proruppe in singhiozzi, gemendo:

– Per carità... per carità... non posso farne a meno, signora... Questo mio pianto... Posso piangere anch’io, signora... Lei, per suo figlio... e io... non per suo figlio propriamente... per uno ch’è partito con lui, e che mi ha anche percossa, perché piangevo... Lei per uno solo... io per tutti... posso per tutti... anche per suo figlio, signora... per tutti... per tutti...

E tornò a nascondersi la faccia, non resistendo al duro cipiglio di quella madre, che stava ora a guardarla col rancore geloso che hanno tutte le mamme per le donne come lei.
Troppo schianto aveva provato la madre alla partenza del figlio. E ora troppo bisogno aveva d’un po’ di tregua e di silenzio. Colei glielo turbava non solo, ma anche gliel’offendeva. Il pensiero che il figliuolo non sarebbe stato esposto al pericolo prima di due giorni le concedeva quella tregua. Ella poteva dunque esser dura; e fu dura. Per fortuna, il tragitto dalla stazione alla città era breve. Appena giunta, scese dall’omnibus senza neanche volgere uno sguardo a quella là.
Il giorno appresso, durante il viaggio di ritorno, alla stazione di Fabriano, la signora Lerna, mentre col marito se ne stava affacciata al finestrino d’una vettura di prima classe, rivide la giovane, che cercava di corsa un posto nel treno. Era in compagnia d’un giovanotto; recava tra le braccia un fascio di fiori, e rideva.
La signora Lerna si volse al marito e disse forte, in modo da farglielo sentire:

– Oh, guarda là, quella che piangeva per tutti!

La giovane si voltò, senz’ira, senza sdegno.

– Povera mamma buona e stupida, – le disse con quello sguardo. – E non capisci che la vita è così? Jeri ho pianto per uno. Bisogna che oggi rida per quest’altro.

Inizio pagina

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Follia a S.Tobia

Post n°806 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,eccomi di nuovo qua a raccontarvi le ultime da S.Tobia. Stavolta vi parlerò del pandemonio creato,sia pure involontariamente,dal becchino Geremia.
Tutto è cominciato quando, il nostro,per un capogiro,è inciampato,ha battuto la testa su una lapide ed è svenuto.
Ripresosi,Geremia si è guardato ben bene intorno, poi ha cominciato a sacramentare contro chi aveva la pessima abitudine di scavare buche nel suo giardino di Hampton Court.
Il suo assistente ha provato a spiegargli che quello era un cimitero e lui il becchino,ma si èsentito rispondere che se non la smetteva di prendere per i fondelli sua maestà Enrico VIII sarebbe finito dritto alla Torre di Londra.
Capito che il colpo aveva fatto perdere al becchino il ben dell'intelletto (ma va',non ci saremmo mai arrivati!)l'assistente è corso a chiamare la Fidalma,il nuovo medico Ugolino Perfettini e il Cuccurullo.
I quattro hanno trovato il becchino seduto sul trono (una lapide) intento a discutere animatamante con i suoi ministri (i cipressi) se separararsi o no della chiesa di Roma.
Alla vista della moglie Geremia,credendola Caterina d'Aragona le ha intimato di levarsi dalle scatole e fargli sposare Anna Bolena,che era più giovane e più bella di lei.
Del tutto ignara di quanto accadeva, nel cimitero è entrata la madre di Odoacre Puzzettoni,Prosperina,che va a trova il marito ogni settimana.
Manco a dirlo,Geremia l'ha presa per la Bolena e si è dato a inseguirla scongiurandola di sposarlo.
Per sfuggirgli,la poveraccia si è infilata in un cassonetto.
Convinto che lo avesse rifiutato per un altro,nella fattispecie il Perfettini,Geremia lo ha inseguito armato di badile,costringendolo ad arrampicarsi sull'unico lampione di S.Tobia.
In quel momento è arrivata la Clementina con la spazzatura,e il becchino ha rivolto su di lei le sue intenzioni.Senza sapere manco come,la poveraccia si è trovata abbrancata da un pazzo che la scongiurava di dargli un figlio maschio per la gloria dell'Inghilterra,
Quella è svenuta e Geremia,credendola morta e credendosi vedovo, è parti in cerca della quarta moglie,
L'aveva individuata nella persona della Trogoloni,ma,ritenendola troppo brutta.si è fissato sull'Elvira.
Quella,alle sue profferte,non ha perso la calma e lo ha mandato a quel paese con biglietto di sola andata.
Geremia,offesissimo,l'ha condannata a morte.
Deciso a trovarsi la sesta moglie,ha agredito la Marianna,che passava per caso.
Per fortuna sua sono arrivati Geppo coi cani e ireneo con Belva, Cagliostro e la gatta.
Grazie a loro Geremia è stato catturato.
E' passato una settimana.
La Fidalma e le figlie hanno lasciato S.Tobia.
La Puzzettoni ha imparato a usare il kalashnikov
La Clementina ha il singhiozzo isterico.
La Trogoloni,l'Elvira e la Marianna stanno benissimo.
Geremia è ricoverato nella clinica Luminaris.Ora non si crede più Enrico VIII,ma lo smemorato di Collegno.
Per il momento io passo e chiudo.



 

Tornare in alto Andare in basso

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Ci sono sere

Post n°805 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ci sono sere che vorrei guardare
da tutte le finestre delle strade
per cui passo, essere tutte le rade
ombre che vedo o immagino vegliare

nei loro fiochi santuari. Abbiamo,
sussurro passando, lo stesso sogno,
cancellare fino a domani il sogno
opaco, cruento del giorno, li amo

anch'io i vostri muri pallidamente
fioriti, i vostri sonnolenti acquari
televisivi dove i lampadari
nuotano come polpi, non c'è niente

che mi escluda tranne la serratura
chiusa che esclude voi dalla paura.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Libri dimenticati:Padiglioni lontani

Post n°804 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Ash,figlio di inglesi ma cresciuto fra gli indù ,si innamora di Anjuli,una delle figlie di un mahraja.
E' una storia d'amore avvincente sullo sfondo dell'India dell'800,imperdibile

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 

Frase del giorno

Post n°803 pubblicato il 23 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Quando è il momento tutte le porte si aprono

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

Archivio messaggi

 
 << Settembre 2011 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
      1 2 3 4
5 6 7 8 9 10 11
12 13 14 15 16 17 18
19 20 21 22 23 24 25
26 27 28 29 30    
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 4
 

Ultime visite al Blog

giovirocSOCRATE85comagiusdott.marino.parodisgnudidavidamoreeva0012lutorrelliDUCEtipregotornacrescenzopinadiamond770cdilas0RosaDiMaggioSpinosamaurinofitnessAppaliumador
 

Ultimi commenti

Ciao, serena serata
Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
 
Ciao per passare le tue vacanze vi consigliamo Lampedusa...
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
 
Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
 
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
 
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963