Messaggi del 27/09/2011

La sposa del leprotto

Post n°836 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una donna che aveva una figlia e un bell'orto pieno di cavoli. D'inverno venne un leprotto che mangiava tutti i cavoli. Allora la donna disse alla figlia: -Va' nell'orto, e scaccia il leprotto-. La fanciulla disse al leprotto: -Via, via, leprotto, non mangiare tutto il cavolo!-. Il leprotto disse: -Vieni, fanciulla, siediti sul mio codino e vieni nella mia casetta-. La fanciulla non volle. Il giorno dopo il leprotto tornò a mangiare il cavolo, e la donna disse di nuovo alla figlia: -Va' nell'orto e scaccia il leprotto-. La fanciulla disse al leprotto: -Via, via, leprotto, non mangiare tutto il cavolo!-. Il leprotto disse: -Vieni, fanciulla, siediti sul mio codino e vieni nella mia casetta-. La fanciulla non volle. Il terzo giorno il leprotto tornò a mangiare il cavolo. Allora la donna disse alla figlia: -Va' nell'orto e scaccia il leprotto-. Disse la fanciulla: -Via, via, leprotto, non mangiare tutto il cavolo!-. Il leprotto disse: -Vieni, fanciulla, siediti sul mio codino e vieni nella mia casetta-. La fanciulla si sedette sul codino del leprotto e questi la portò lontano lontano, nella sua casetta e disse: -Adesso prepara verza e miglio, io farò gli inviti per le nozze-. E tutti gli invitati arrivarono insieme. (E chi erano? Te la dirò come me l'hanno raccontata: erano tutte lepri, la cornacchia faceva da parroco per benedire gli sposi, la volpe da sagrestano, e l'altare era sotto l'arcobaleno.) Ma la fanciulla era triste, perché‚ era tanto sola. Il leprotto va a dirle: -Apri, apri! gli invitati sono allegri-. La sposa non dice nulla e piange. Il leprotto se ne va, poi torna e dice: -Apri, apri! gli invitati hanno fame-. La sposa non dice nulla e piange. Il leprotto se ne va, poi torna e dice: -Apri, apri! gli invitati aspettano-. La sposa non dice nulla e il leprotto se ne va; ma ella fa una bambola di paglia, le mette i suoi vestiti, le dà un mestolo, la porta davanti alla pentola del miglio e va dalla madre. Il leprotto ritorna e dice: -Apri, apri! gli invitati aspettano-. Dà uno scappellotto alla bambola e le fa cadere la cuffia. Allora il leprotto si accorge che la sposa è sparita e se ne va tutto triste.

FINE


 

 
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Il giramondo

Post n°835 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta una povera donna con un figlio che aveva tanta voglia di andare in giro per il mondo. Un giorno la madre gli disse: “Come farai? Noi non abbiamo denaro che tu possa portare con te!” Il figlio disse: “Mi arrangerò; dirò sempre: non molto, non molto, non molto.”

Girò il mondo per un po’ di tempo, dicendo sempre: “Non molto, non molto, non molto.” Incontrò un gruppo di pescatori e disse: “Dio vi assista! Non molto, non molto, non molto.” - “Perché‚ dici ‘non molto’, mascalzone?” E quando tirarono le reti, non avevano davvero preso molto pesce. Allora lo presero a bastonate e dissero: “Non hai mai visto come si fa a trebbiare?” - “Che cosa devo dire, allora?” chiese il giovane. “Devi dire: ‘Piglia tanto! Piglia tanto!’”

Egli continua a girare per un po’ di tempo e dice: “Piglia tanto! Piglia tanto!” finché‚ arriva a una forca, dove stanno per impiccare un malfattore. Allora dice: “Buon giorno, piglia tanto! piglia tanto!” - “Perché‚ dici ‘piglia tanto’, mascalzone? Ce ne vogliono ancora di canaglie a questo mondo? Non basta questo?” E lo picchiarono di nuovo. “Cosa devo dire, allora?” - “Devi dire: ‘Dio conforti la pover’anima!’”

Il ragazzo continua a girare il mondo per un po’ e dice: “Dio conforti la pover’anima!” Arriva a un fosso dove c’è uno scorticatore che ammazza un cavallo. Il giovane dice: “Buon giorno, Dio conforti la pover’anima!” - “Cosa dici, farabutto?” e gli dà in testa la mazza, da lasciarlo intontito. “Cosa devo dire, allora?” - “Devi dire: ‘Che tu possa finire in un fosso, carogna!’”

Egli se ne va e continua a dire: “Che tu possa finire in un fosso, carogna! Che tu possa finire in un fosso, carogna!” Vede arrivare una carrozza piena di gente e dice: “Buon giorno, che tu possa finire in un fosso, carogna!” Allora la carrozza cade in un fosso, e il cocchiere si mette a frustare il ragazzo che deve tornare da sua madre. E in tutta la sua vita non andò più a girare il mondo.

FINE


 
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L'agnellino e il pesciolino

Post n°834 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un fratellino e una sorellina che si volevano molto bene. Ma la loro mamma era morta ed essi avevano una matrigna che li odiava e faceva loro, di nascosto, tutto il male che poteva. Un giorno essi giocavano con altri bambini su di un prato davanti a casa, e accanto al prato c’era uno stagno che arrivava a lambire un lato della casa. I bambini giocavano a rincorrersi, e ogni tanto riprendevano la conta:

“Lasciami, lasciami, ti lascerò,
all’uccellino io poi ti darò,
e lui la paglia mi cercherà,
che alla vacchina io poi darò,
e lei il suo latte mi darà,
che al fornaio io poi darò,
e lui la torta mi farà,
che al gattino io poi darò,
e lui i topini mi cercherà,
che nel camino io poi appenderò
e affetterò.”

Cantando formavano un cerchio, e quello a cui toccava la parola ‘affetterò’ doveva scappare, e gli altri lo rincorrevano e lo acchiappavano. Mentre si rincorrevano, così allegri, la matrigna li stava a guardare dalla finestra, irritata. E siccome conosceva l’arte della stregoneria, trasformò i due bimbi: il fratellino divenne un pesce e la sorellina un agnello. Il pesciolino nuotava su e giù per lo stagno ed era triste; l’agnellino andava su e giù per il prato ed era triste, non mangiava e non toccava neanche un filo d’erba. Andò avanti così per molto tempo, finché‚ un giorno giunsero al castello dei forestieri. La perfida matrigna pensò: ‘Ecco una buona occasione!’ Chiamò il cuoco e gli disse: “Va’, prendi l’agnello che è nel prato e ammazzalo, altrimenti non abbiamo nient’altro per gli ospiti.” Il cuoco andò a prendere l’agnellino, lo portò in cucina e gli legò le zampette, mentre quello sopportava tutto con pazienza. Ma quando il cuoco tirò fuori il suo coltello e lo affilò sulla pietra della soglia per trafiggerlo, vide un pesciolino che nuotava su e giù davanti allo scolo dell’acquaio e lo guardava. Era il fratellino: quando aveva visto il cuoco che portava via l’agnellino, l’aveva accompagnato nuotando nello stagno fino a casa. Allora l’agnellino gridò:

“Oh fratellino nell’acqua profonda
ignori la pena che il cuor mi circonda!
La lama del cuoco è già affilata:
presto da essa verrò trapassata!”

Il pesciolino rispose:

“Oh sorellina in alto, lassù, ignori la pena
che soffro quaggiù nell’acqua fonda
che mi circonda.”

Quando il cuoco udì che l’agnellino sapeva parlare e che rivolgeva al pesciolino parole così tristi, si spaventò e pensò che non fosse un agnellino vero, ma che l’avesse stregato la malvagia padrona. Allora disse: “Sta’ tranquillo, non ti ucciderò.” Prese un’altra bestia e la cucinò per gli ospiti, mentre l’agnellino lo portò da una buona contadina, e le raccontò quel che aveva visto e sentito. Ma la contadina era proprio la balia della bimba, sospettò subito chi potesse essere quell’agnellino, e lo portò da una maga. Costei benedisse l’agnellino e il pesciolino che riacquistarono l’aspetto umano. Poi li condusse tutt’e due in un gran bosco dove c’era una piccola casetta; e là essi vissero felici e contenti.

FINE


 
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La camera in attesa (Pirandello)

Post n°833 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Si dà pur luce ogni mattino a questa camera, quando una delle tre sorelle a turno viene a ripulirla senza guardarsi attorno. L’ombra, tuttavia, appena le persiane e le vetrate della finestra sono richiuse e raccostati gli scuri, si fa subito cruda, come in un sotterraneo; e subito, come se quella finestra non sia stata aperta da anni, il crudo di quest’ombra s’avverte, diventa quasi l’alito sensibile del silenzio sospeso vano sui mobili e gli oggetti, i quali, a lor volta, par che rimangano sgomenti, ogni giorno, della cura con cui sono stati spolverati, ripuliti e rimessi in ordine.
Il calendario a muro presso la finestra è certo che rimane col senso dello strappo d’un altro fogliolino, come se gli paja una inutile crudeltà che gli si faccia segnar la data in quell’ombra vana e in quel silenzio. E il vecchio orologio di bronzo, in forma d’anfora, sul piano di marmo del cassettone, pare che avverta la violenza che gli fanno costringendolo a staccare ancora là dentro il suo cupo tic-tac.
Sul tavolino da notte, però, la boccetta dell’acqua, di cristallo verde dorato, panciuta, incappellata del suo lungo bicchiere capovolto, pigliando di tra gli scuri accostati della finestra dirimpetto un filo di luce, sembra ridere di tutto quello sgomento diffuso nella camera.
C’è, in realtà, alcunché di vivo e d’arguto su quel tavolino da notte.
Il riso della boccetta dell’acqua viene sì senza dubbio dal filo di luce, ma forse perché con questo filo di luce quella boccetta panciuta può scorgere su la lucida lastra di bardiglio le smorfie delle due figurine d’una scatola di fiammiferi posata lì da quattordici mesi ormai, perché sia pronta a un bisogno ad accendere la candela, anch’essa da quattordici mesi confitta nella bugia di ferro smaltato, in forma di trifoglio, col manichetto e il bocciuolo d’ottone.
Nell’attesa della fiamma che deve consumarla, s’è ingiallita quella candela sul trifoglio della bugia, come una vergine matura. E c’è da scommettere che le due figurine monellescamente smorfiose della scatola di fiammiferi la paragonino alle tre sorelle stagionate che vengono un giorno per una a ripulire e a rimettere in ordine la camera.
Via, benché intatta ancora, povera vergine candela, dovrebbero cambiarla le tre sorelle, se non proprio ogni giorno come fanno per l’acqua della boccetta (che anche perciò è così viva e pronta a ridere a ogni filo di luce), almeno a ogni quindici giorni, a ogni mese, via! per non vederla così gialla, per non vedere in quel giallore i quattordici mesi che sono passati senza che nessuno sia venuto ad accenderla, la sera, su quel tavolino da notte.
È veramente una dimenticanza deplorevole, perché non solo l’acqua della boccetta, ma cambiano tutto quelle tre sorelle: ogni quindici giorni le lenzuola e le foderette del letto, rifatto con amorosa diligenza ogni mattina come se davvero qualcuno vi abbia dormito; due volte la settimana, la camicia da notte, che ogni sera, dopo rimboccate le coperte, vien tratta dal sacchetto di raso appeso col nastrino azzurro alla testa della lettiera bianca, e distesa sul letto con la falda di dietro debitamente rialzata. E han cambiato, oh Dio, finanche le pantofole davanti la poltroncina a piè del letto. Sicuro: le vecchie buttate via, dentro il comodino, e al loro posto, lì su lo scendiletto un pajo nuove, di velluto, ricamate dall’ultima delle tre. E il calendario? Quello lì, presso la finestra, è già il secondo. L’altro, dell’anno scorso, s’è sentito strappare a uno a uno tutti i giorni dei dodici mesi, uno ogni mattina con inesorabile puntualità. E non c’è pericolo che la maggiore delle tre sorelle, ogni sabato alle quattro del pomeriggio, si dimentichi d’entrare nella camera per ridar la corda a quel vecchio orologio di bronzo sul cassettone, che con tanto risentimento rompe il silenzio ticchettando e muove le due lancette sul quadrante piano piano, che non si veda, come se voglia dire che non lo fa apposta, lui, per suo piacere, ma perché forzato dalla corda che gli danno.
Le due figurine smorfiose della scatola evidentemente non vedono, come possono vederlo il vecchio orologio di bronzo col bianco occhio tondo del quadrante e il calendario dall’alto della parete col numero rosso che segna la data, il lugubre effetto di quella camicia da notte stesa lì sul letto e di quelle due pantofole nuove in attesa su lo scendiletto davanti la poltroncina.
Quanto alla candela confitta lì sul trifoglio della bugia, oh essa è così diritta e assorta nella sua gialla rigidità, che non si cura del dileggio di quelle due figurine smorfiose e del riso della panciuta boccetta, sapendo bene che cosa sta ad attendere lì, ancora intatta, così ingiallita.

Che cosa?

Il fatto è che da quattordici mesi quelle tre sorelle e la loro madre inferma credono di potere e di dovere aspettare così il probabile ritorno del fratello e figliuolo Cesarino, sottotenente di complemento nel 25° fanteria, partito (ormai son piú di due anni) per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Da quattordici mesi, è vero, non hanno piú notizia di lui. C’è di piú. Dopo tante ricerche angosciose, suppliche e istanze, è arrivata alla fine dal Comando della Colonia la comunicazione ufficiale che il sottotenente Mochi Cesare, dopo un combattimento coi ribelli, non trovandosi né tra i morti né tra i feriti né tra i prigionieri, di cui si è riuscito ad avere notizia certa, deve ritenersi disperso, anzi scomparso senz’alcuna traccia.
Il caso ha destato in principio molta pietà in tutti i vicini e conoscenti di quella mamma e di quelle tre sorelle. A poco a poco però la pietà s’è raffreddata ed è cominciata invece una certa irritazione, in qualcuno anche una vera indignazione per questa che pare "una commedia", della camera cioè temuta così puntualmente in ordine, finanche con la camicia da notte stesa sul letto rimboccato; quasi che con questa "commedia" quelle quattro donne vogliano negare il tributo di lagrime a quel povero giovine e risparmiare a se stesse il dolore di piangerlo morto.
Troppo presto han dimenticato i vicini e conoscenti che essi, proprio essi, all’arrivo della comunicazione del Comando della Colonia, quando quella madre e quelle tre sorelle s’eran pur messe a piangere morto il loro caro levando grida strazianti, le han persuase a lungo e con tanti argomenti uno piú efficace dell’altro a non disperarsi così. Perché piangerlo morto – han detto – se chiaramente in quella comunicazione s’annunziava che l’ufficiale Mochi tra i morti non s’era trovato? Era disperso; poteva ritornare da un momento all’altro: ma anche dopo un anno, chi sa! Nell’Africa, ramingo, nascosto... E sono stati pur essi a sconsigliare e quasi impedire che quella madre e quelle tre sorelle si vestissero di nero, come voler vano anche nell’incertezza. – No, di nero – hanno detto; perché quel malaugurio? E alla prima speranza di quelle poverine che s’esprimeva ancora in forma di dubbio: "Chi sa... sì, forse è vivo", si sono affrettati a rispondere:

– Ma sarà vivo sì! È vivo certamente!

Ebbene, non è naturale adesso che, mancando davvero ogni fondamento di certezza alla supposizione che il loro caro sia morto, e accolta invece, come tutti hanno voluto l’illusione che sia vivo, quella povera mamma inferma, quelle tre sorelle diano quanto piú possono consistenza di realtà a questa illusione? Ma sì, appunto, lasciando la camera in attesa. rifacendola con cura minuziosa, traendo ogni sera dal sacchetto la camicia da notte e stendendola su le coperte rimboccate. Perché, se si son lasciate persuadere a non piangerlo morto, a non disperarsi della sua morte, devono per forza far vedere a lui, vivo per loro a lui che veramente può sopravvenire da un momento all’altro, che ecco, tanto esse ne sono state certe, che gli hanno finanche preparato ogni sera la camicia da notte lì sul letto, sul suo lettino rifatto ogni mattina, come se egli davvero la notte vi abbia dormito. Ed ecco là le nuove pantofole che Margheritina, aspettando. non si è contentata soltanto di ricamare, ma ha voluto anche far mettere su da un calzolajo, perché egli appena tornato le trovi pronte al posto delle vecchie.
Scusate tanto:

– O che non son forse morti il vostro figliuolo, la vostra figliuola, quando sono partiti per gli studii nella grande città lontana?

Ah, voi fate gli scongiuri? mi date sulla voce, gridando che non sono morti nient’affatto? che saran di ritorno a fin d’anno e che intanto ricevete puntualmente loro notizie due volte la settimana?
Calmatevi, sì, via, lo credo bene. Ma come va che, passato l’anno, quando il vostro figliuolo o la vostra figliuola ritornano con un anno di piú dalla grande città, voi restate stupiti, storditi davanti a loro; e voi, proprio voi, con le mani aperte come a parare un dubbio che vi sgomenta, esclamate:

– Oh Dio, ma sei proprio tu? Oh Dio, come s’è fatta un’altra!

Non solo nell’anima, un’altra, cioè nel modo di pensare e di sentire; ma anche nel suono della voce, anche nel corpo un’altra, nel modo di gestire, di muoversi, di guardare, di sorridere...
E, con smarrimento, vi domandate:

– Ma come? erano proprio così i suoi occhi? Avrei potuto giurare che il suo nasino, quand’è partita, era un pochino all’insù...

La verità è che voi non riconoscete nel vostro figliuolo o nella vostra figliuola, ritornati dopo un anno, quella stessa realtà che davate loro prima che partissero. Non c’è piú, è morta quella realtà. Eppure voi non vi vestite di nero per questa morte e non piangete... ovvero sì, ne piangete, se vi fa dolore quest’altro che vi è ritornato invece del vostro figliuolo, quest’altro che voi non potete, non sapete piú riconoscere.
Il vostro figliuolo, quello che voi conoscevate prima che partisse, è morto, credetelo, è morto. Solo l’esserci d’un corpo (e pur esso tanto cambiato!) vi fa dire di no. Ma lo avvertite bene, voi, ch’era un altro, quello partito un anno fa, che non e piú ritornato.
Ebbene, precisamente come non ritorna piú alla sua mamma e alle sue tre sorelle questo Cesarino Mochi partito da due anni per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci di un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date. E dunque realmente può bastare alla mamma e alle tre sorelle di Cesarino Mochi la vita ch’egli seguita ad avere per esse, qua nella realtà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse.
Ah, non c’è pericolo per quella mamma e per quelle tre sorelle ch’egli ritorni Un altro, com’è avvenuto per il vostro figliuolo a fin d’anno.

La realtà di Cesarino è inalterabile qua nella sua camera e nel cuore e nella mente di quella mamma e di quelle tre sorelle, che per sé, fuori di questa, non ne hanno altra.

– Tittì, quanti ne abbiamo del mese? – domanda dal seggiolone la mamma inferma all’ultima delle tre figliuole.

– Quindici, – risponde Margherita, alzando il capo dal libro ma non ne è ben certa e domanda a sua volta alle due sorelle: – Quindici, è vero?

– Quindici, sì, – conferma Nanda, la maggiore, dal telaio.

– Quindici, – ripete Flavia che cuce.

Su la fronte di tutte e tre s’incide, per quella domanda della madre a Cui hanno risposto, la stessa ruga.
Nella quiete della vasta sala da pranzo luminosa, velata da candide tendine di mussola, è entrato un pensiero, che di solito, non per istudio, ma istintivamente è tenuto lontano dalle quattro donne: il pensiero del tempo che passa.
Le tre sorelle hanno indovinato il perché di questo pensiero pauroso nella mente della madre inferma. abbandonata sul seggiolone; e perciò han corrugato la fronte.
Non è già per Cesarino.

C’è un’altra, c’è un’altra – non qua, nella casa, ma che della casa, forse domani, chi sa! potrebbe essere la regina – Claretta, la fidanzata del fratello – c’è lei, sì, purtroppo, che fa pensare al tempo che passa.

La mamma, domandando a quanti si è del mese, ha voluto contare i giorni che son passati dall’ultima visita di Claretta.
Veniva prima ogni giorno la cara bambina (bambina veramente, Claretta, per quelle tre sorelle anziane) quasi ogni giorno, con la speranza che fosse arrivata la notizia; perché era certa, piú certa di tutte, lei, che la notizia sarebbe presto arrivata. E allora entrava festosa nella camera del fidanzato e vi lasciava sempre qualche fiore e una lettera. Sì, perché seguitava a scrivere lei, come al solito, ogni sera, a Cesarino. Le lettere, invece di spedirle, ecco veniva a lasciarle qua perché le trovasse, Cesarino, subito appena arrivato.
Il fiore avvizziva, la lettera restava.
Pensava forse Claretta, nel trovare sotto il fiore vizzo la lettera del giorno precedente, che anche il profumo di questa era svanito senz’avere inebriato nessuno? La riponeva nel cassetto della piccola scrivania presso la finestra e al suo posto lasciava la nuova e sopra vi posava un fiore nuovo.
Durò a lungo, per mesi e mesi, questa cura gentile. Ma un giorno la piccina venne, con piú fiori, si, ma senza lettera. Disse che aveva scritto la sera precedente, oh anche piú a lungo del solito, e che ogni sera avrebbe seguitato a scrivere, ma in un taccuino, perché la mamma le aveva fatto notare ch’era un inutile sciupio di carta da lettere e di buste.
Veramente era così: ciò che importava era il pensiero di scrivere ogni giorno; che poi scrivesse in carta da lettere o nel taccuino, era lo stesso.

Se non che, con quella lettera cominciò anche a mancare la visita giornaliera di Claretta. Dapprima tre volte, poi due, poi prese a venire una sola volta per settimana. Poi con la scusa del lutto per la morte della nonna materna, stette piú di quindici giorni senza venire. E alla fine, quando – non spontaneamente, ma condotta dalle sorelle – rientro per la prima volta, vestita di nero, nella camera di Cesarino, avvenne una scena inattesa, che per poco non fece scoppiare d’angoscia il cuore di quelle tre poverine. Tutt’a un tratto, così vestita di nero, appena entrata, si rovesciò sul lettino bianco di Cesarino, rompendo in un pianto disperato.
Perché? che c’entrava? Rimase stordita, come smarrita, dopo, di fronte allo stupore angoscioso, al tremore di quelle tre sorelle pallide, livide; disse che non sapeva lei stessa com’era stato, come le era avvenuto... Si scusò; ne incolpò il suo abito nero, il dolore per la morte della nonna... Riprese, a ogni modo, a venire una volta la settimana.
Ma le tre sorelle provavano ora un certo ritegno a condurla nella camera in attesa; ed ella né c’entrava da sì, né chiedeva alle tre sorelle che ve la conducessero. E di Cesarino quasi non parlavano piú.
Tre mesi fa, venne di nuovo vestita di abiti gaj, primaverili, risbocciata come un fiore, tutta accesa e vivace come da gran tempo le tre sorelle e la loro povera mamma non l’avevano piú veduta. Recò tanti, tanti fiori e volle lei stessa con le sue mani portarli nella camera di Cesarino e distribuirli in vasetti su la piccola scrivania, sul tavolino da notte, sul cassettone. Disse che aveva fatto un bel sogno.
Rimasero con l’affanno, oppresse e quasi sgomente di quella vivacità esuberante, di quella rinata gajezza della bambina, le tre sorelle sempre piú pallide e piú livide. Sentirono, appena cessato il primo stordimento, come l’urto d’una violenza crudele, l’urto della vita che rifioriva prepotente in quella bambina e che non poteva piú esser contenuta nel silenzio di quell’attesa, a cui esse con le religiose cure delle loro mani gracili e fredde davano ancora e tenacemente volevano dar sempre una larva di vita, tanta che bastasse a loro. E non fecero nessuna opposizione, quando Claretta facendosi rossa rossa, disse che le era nata una grande curiosità di sapere che cosa aveva scritto a Cesarino nelle sue prime lettere di piú d’un anno fa, chiuse nel cassetto della scrivania.
Piú di cento dovevano essere quelle lettere, centoventidue o centoventitré. Le voleva rileggere; le avrebbe poi conservate lei, per Cesarino, insieme coi taccuini. E a dieci per volta se l’era tutte riportate a casa.

Da allora le visite si sono diradate. La vecchia mamma inferma, guardando fiso il bracciolo del seggiolone, conta i giorni che son passati dall’ultima visita; ed è curioso, che tanto per lei, quanto per le tre figliuole con la fronte corrugata, questi giorni s’assommino e si facciano troppi, mentre per Cesarino che non torna, il tempo non passa mai; è come se fosse partito jeri, Cesarino, anzi come se non fosse partito affatto, ma fosse solo uscito di casa e dovesse rientrare da un momento all’altro, per sedersi a tavola con loro e poi andare a dormire nel suo lettino lì pronto.
Il crollo è dato alla povera mamma dalla notizia che Claretta s’è rifatta sposa.
Era da attendersela, questa notizia, poiché già da due mesi, Claretta non si faceva piú vedere. Ma le tre sorelle, meno vecchie e perciò meno deboli della mamma, s’ostinano a dire di no, che questo tradimento non se l’aspettavano. Vogliono a ogni costo resistere al crollo esse, e dicono che Claretta s’è fatta sposa con un altro, non perché Cesarino sia morto ed ella non abbia perciò veramente nessuna ragione piú d’aspettarne ancora il ritorno, ma perché dopo sedici mesi s’è stancata d’aspettarlo. Dicono che la loro mamma muore, non perché il nuovo fidanzamento di Claretta le abbia fatto crollare l’illusione sempre piú fievole del ritorno del suo figliuolo, ma per la pena che il suo Cesarino sentirà, al suo ritorno di questo crudele tradimento di Claretta.
E la mamma, dal letto, dice di sì, che muore di questa pena; ma negli occhi ha come un riso di luce.
Le tre figliuole glieli guardano, quegli occhi, con invidia accorata. Ella tra poco, andrà a vedere di là se lui c’è: si leverà da quest’ansia della lunghissima attesa; avrà la certezza, lei; ma non potrà tornare per da me l’annunzio a loro.
Vorrebbe dire, la mamma, che non c’è bisogno di quest’annunzio, perché è già certa che lei lo troverà di là, il suo Cesarino; ma no, non lo dice; sente una grande pietà per le sue tre povere figliuole che restano sole qua e hanno tanto bisogno di pensare e di credere che Cesarino sia ancora vivo, per loro, e che un giorno o l’altro debba ritornare; ed ecco, vela dolcemente la luce degli occhi e fino all’ultimo, fino all’ultimo vuol rimanere attaccata all’illusione delle tre figliuole, perché anche dal suo ultimo respiro quest’illusione tragga alito e seguiti a vivere per loro. Con l’estremo filo di voce sospira:

– Glielo direte che l’ho tanto aspettato...

Nella notte i quattro ceri funebri ardono ai quattro angoli del letto, e di tratto in tratto hanno un lieve scoppiettìo, che fa vacillare appena la lunga fiamma gialla.
Tanto è il silenzio della casa, che gli scoppiettii di quei ceri, per quanto lievi, arrivano di là alla camera in attesa, e quella candela ingiallita, da sedici mesi confitta sul trifoglio della bugia, quella candela derisa dalle due figurine smorfiose della scatola di fiammiferi, ad ogni scoppiettìo pare che abbia un sussulto da cui possa trar fiamma anche lei, per vegliare un altro morto qui, sul letto intatto.
È per quella candela una rivincita. Difatti, quella sera, non è stata cambiata l’acqua della boccetta, né tratta dal sacchetto e stesa sulle coperte rimboccate la camicia da notte. E segna la data di jeri il calendario a muro.
S’è arrestata d’un giorno, e pare per sempre, nella camera, quell’illusione di vita.
Solo il vecchio orologio di bronzo sul cassettone seguita cupo e piú sgomento che mai a parlare del tempo in quella buja attesa senza fine.

Inizi

- 1928 - "CANDELORA"

4. Romolo (1917)

 


 

 
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Chi me lo ha fatto fare?

Post n°832 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Sono sicuro,lettori miei,che questa domanda Perseo Scozzagalli se la sia posta molte volte nel corso del suo breve soggiorno in Sardegna,opsite del suo ex commilitone Gavino Pennuteddu e sono arcisicuro che si sia pentito amaramente di aver accettato il suo invito.
Vengo e mi spiego.
Due mesi Pennuteddu ha scritto a Perseo e lo ha invitato a passare le ferie nel borgo marittimo di S.Efisio Marinaro,dove vive con la sua numerosa famiglia (solo i parenti stretti sono 123).
Naturalmente l'invito è stato prontamente accettato e due settimane fa Perseo è partito.
Non l'avesse mai fatto!
A bordo del traghetto ha scoperto di soffrire il mal dimare in forma violentissima,ed è arrivato a Porto Torres più di là che di qua.
Ad attenderlo c'erano i Pennuteddu al completo (per l'occasione avevano affittato un pullmann)dal bisnonno di 105 anni al neonato di un mese.
Gavino in suo onore aveva organizzato un banchetto pantagruelico,e Perseo lo ha ringraziato commosso.
Ahilui,non sapeva cosa l'aspettava!
Tanto per cominciare,gli hanno servito antipasto con la bottarga.Lo Scozzagalli,visto l'aspetto e l'odore,ha provato a rifiutare,ma la mamma di Gavino glielo ha infilato in bocca a forza,semisoffocandolo.
In tavola è poi arrivata carne di pecora,su cui i 123 si sono buttati come se non mangiassero da sei mesi.
Perseo è riuscito a passare gran parte della sua generosissima porzione al cane di casa, ma non ha avuto altrettanta fortuna col porceddu:si è mangiato tre piatti talmente pepati che gli hanno fatto gonfiare la lingua come un pallone.
Ma la prova più dura doveva ancora venire.
Il bisnonno,felice come una pasqua,gli ha scaricato sul piatto un fettone immenso del formaggio coi vermi che produce lui.
Non vi dico la faccia di Perseo quando i vermi nel formaggio si sono esibiti per lui in una trascinante macarena.
Il martirio è durato fino a mezzanotte,
Perseo aveva appena preso sonno,quando urla tremende provenienti dal piano di sotto lo hanno svegliato.
Impugnata una sedia e convinto che in casa ci fossero i ladri,ha sceso di corsa di scale...per vedere Gavino che gattonava con un cuscino in testa,urlando frasi incoerenti in dialetto stretto.
Aveva visto un pipistrello e lui di questo animale ha una paura fottuta.
La sorella del Pennuteddu,per aiiutare il fratello,ha impugnato lo spazzolone e ha cominciato a cacciare il pipistrello.
Perseo si è beccato un colpo in testa che lo ha tramortito.
Quando ha ripreso i sensi,per poco non è morto d'infarto: aveva sulla pancia una grossa iguana,che lo fissava preoccupata
Si trattava di Felicetto,l'animale domestico della cugina Sabatina (proprietaria anche di tre vedove nere e un pitone)
A questo punto Perseo si è ricordato di avere un nonno moribondo a S.Tobia,ha prenotato un posto sul primo aereo disponibile e,ringraziati tutti i Pennuteddu, è saprito alla velocità della luce.
Sono passati tre giorni.
Perseo è a Sollicciano:ha tentato di uccidere il fratello gemello (gli aveva chiesto solo se si era divertito)
E anche per stavolta passo e chiudo




 
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Se non avessimo amato (Wilde)

Post n°831 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Se noi non avessimo amato,
Chi sa se quel narciso avrebbe attratto l'ape
Nel suo grembo dorato,
Se quella pianta di rose avrebbe ornato
Di lampade rosse i suoi rami!
Io credo non spunterebbe una foglia
In primavera, non fosse per le labbra degli amanti
Che baciano. Non fosse per le labbra dei poeti
Che cantano.

 
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Libri dimenticati:Ma l'amore no

Post n°830 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Il protagonista di questo romanzo di Pansa è Giovanni,un bambino orfano di padre che vive a Casale Monferrato negli anni della guerra, circondato dalla mamma,le zie e la nonna,per cui lui ha una venerazione.
Con i suoi occhi noi vediamo la guerra,i tedeschi,i partigiani,i bombardamenti,ed assistiamo impotenti quanto lui al tragico amore di sua madre per un partigiano,ucciso poi dai suoi stessi compagni a guerra appena finita.
Da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°829 pubblicato il 27 Settembre 2011 da odette.teresa1958

Nell'amore non c'è paura

 
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