Messaggi del 01/10/2011

L'ombra

Post n°873 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nei paesi caldi il sole sì che brucia davvero! La gente diventa bruna come il mogano, e nei paesi caldissimi brucia fino a diventare nera, ma un uomo istruito era giunto dai paesi freddi solo fino ai paesi caldi e credeva di potersene andare in giro come faceva a casa, ma cambiò presto opinione. Sia lui che tutta la gente ragionevole rimasero chiusi in casa, le persiane delle finestre e le porte restarono sbarrate tutto il giorno, sembrava che tutta la casa dormisse e che non ci fosse nessuno. Le strette strade con le case alte, dove lui stesso viveva, erano state costruite in modo tale che il sole dovesse risplendere dal mattino fino alla sera; era proprio insopportabile! Quell'uomo istruito dei paesi freddi era un giovane intelligente, ma gli sembrava di star seduto in un forno ardente; il sole lo consumò, lui divenne molto magro, persino la sua ombra dimagrì, divenne molto più piccola di quando era a casa; il sole aveva colpito anche lei. Tutti e due incominciavano a vivere di sera, quando il sole era tramontato.
Era proprio un divertimento guardarli; non appena la lampada veniva portata nella stanza, l'ombra si allungava tutta sulla parete, arrivava sino al soffitto, tanto si faceva lunga; doveva stirarsi per recuperare le forze. L'uomo istruito usciva sul balcone per stirarsi un po', e man mano che le stelle comparivano in quell'aria trasparente e meravigliosa, a lui sembrava di rivivere. Su tutti i balconi della strada - e nei paesi caldi ogni finestra ha un balcone - usciva la gente, perché ha bisogno di prendere aria anche chi è abituato a essere color mogano. Allora cominciava la vita, sui balconi e giù nelle strade; calzolai e sarti, tutta la gente usciva per strada, portavano tavoli e sedie, e le lanterne bruciavano, sì, più di cento lanterne bruciavano, e uno parlava e l'altro cantava, la gente passeggiava, le carrozze passavano, e pure gli asini, cling, cling! avevano dei sonagli. I morti venivano seppelliti al canto dei salmi, i ragazzi di strada facevano scoppiare i petardi, e le campane delle chiese suonavano, sì, c'era proprio vita giù nella strada. Solo in una casa, che si trovava proprio di fronte a quella in cui viveva quello straniero istruito, c'era una pace incredibile, eppure ci abitava qualcuno, perché sul balcone c'erano dei fiori, che crescevano deliziosamente al caldo del sole, e non avrebbero potuto crescere se non fossero stati bagnati, quindi qualcuno doveva innaffiarli; doveva proprio esserci qualcuno. Anche quel balcone si apriva di sera, ma era tutto buio dentro, per lo meno nella prima stanza; e dal profondo delle stanze sul retro si sentiva venire una musica. Allo straniero istruito sembrava straordinaria, ma poteva anche essere che avesse immaginato tutto, dato che lui trovava ogni cosa straordinaria, là in quei paesi caldi, se solo non ci fosse stato quel sole! Il padrone di casa dello straniero disse che non sapeva chi avesse affittato la casa dirimpetto, non si vedeva nessuno, e per quanto riguardava la musica pensava che fosse molto noiosa. «E come se qualcuno si stesse esercitando a un pezzo che non riesce a finire, sempre lo stesso pezzo. Penserà certo di farcela prima o poi, ma non ci riuscirà mai, per quanto a lungo suoni.»
Una notte lo straniero si svegliò; dormiva con la porta del balcone aperta, e la tenda davanti alla porta si sollevava per il vento, così gli sembrò di vedere uno straordinario bagliore provenire dal balcone di fronte, tutti i fiori brillavano come fiamme dei colori più svariati, e in mezzo a quei fiori si trovava un'esile, graziosa fanciulla: sembrava che anche lei brillasse; la luce gli fece male agli occhi, ma è vero che li teneva spalancati e che si era appena svegliato; con un balzo fu in piedi pian piano arrivò fino alla tenda, ma la fanciulla era già sparita, anche il bagliore era sparito, i fiori non brillavano affatto, e tutto era come al solito; la porta era socchiusa e dal profondo della casa risuonava una musica così dolce, così meravigliosa che ci si poteva abbandonare alle più dolci fantasticherie. Sembrava una magia, chi abitava lì? Dov'era in realtà l'ingresso? Tutto il pianterreno era fatto di negozi e la gente non poteva certo entrare di là.
Una sera lo straniero era seduto sul balcone; alle sue spalle nella stanza brillava la luce e quindi era del tutto naturale che la sua ombra si posasse sulla parete della casa di fronte, anzi si trovava proprio tra i fiori di quel balcone, e quando lo straniero si mosse, anche l'ombra si mosse, perché di solito succede così.
«Credo che la mia ombra sia l'unica persona vivente che si vede laggiù!» disse quell'uomo istruito. «Guarda come sta seduta con garbo tra i fiori, la porta è socchiusa; adesso l'ombra dovrebbe essere tanto accorta da entrare, guardarsi intorno, e poi tornare a raccontarmi quello che ha visto. E già, dovresti farmi questo piacere!» disse scherzando. «Su, da brava, entra! Su, vai?» e intanto fece cenno all'ombra e l'ombra gli rivolse lo stesso cenno. «Sì, sì, vai, ma poi torna!» Lo straniero si alzò e anche la sua ombra sul balcone di fronte si alzò, lo straniero si voltò e l'ombra si voltò, ma se qualcuno avesse fatto attenzione, avrebbe visto molto chiaramente che l'ombra entrò in quella porta socchiusa di quel balcone di fronte, proprio nel momento in cui lo straniero rientrò nella sua stanza e lasciò cadere la tenda dietro di sé.
Il mattino successivo quell'uomo istruito uscì per bere il caffè e leggere il giornale. «Che succede?» esclamò, quando fu al sole «non ho l'ombra. Allora ieri sera se n'è proprio andata e non è ritornata più; che rabbia!»
La cosa lo irritò, ma non tanto perché l'ombra se n'era andata, quanto perché sapeva che c'era già la storia di un uomo senza ombra, e la conoscevano tutti a casa, là nei paesi freddi, e se ora lui fosse arrivato a raccontarla, avrebbero detto che l'aveva copiata, e di questo proprio non aveva bisogno! Per questo non volle parlare affatto della cosa, e fu una buona idea.
Di sera uscì di nuovo sul balcone, aveva messo la luce proprio per bene dietro di sé, perché sapeva che l'ombra vuole avere sempre il proprio padrone come schermo davanti alla luce, ma non riuscì a catturarla, si fece piccolo piccolo, si fece grosso, ma l'ombra non c'era, non venne nessuno; disse uhm, uhm! ma non servì a nulla. Era una seccatura, ma nei paesi caldi tutto cresce così in fretta, e dopo otto giorni notò, con grande gioia, che gli stava crescendo una nuova ombra dalle gambe, quando arrivava il sole; si vede che le radici erano rimaste. Dopo tre settimane aveva un'ombra sufficiente, che, quando lui tornò a casa nel suo paese al Nord, crebbe ancora di più durante il viaggio, tanto che alla fine fu così lunga e così grande che la metà sarebbe bastata.
L'uomo istruito ritornò a casa e scrisse libri su quello che c'era di vero nel mondo, e su quello che c'era di buono e di bello, e passarono giorni e passarono anni, molti anni.
Una sera era seduto nella sua stanza quando bussarono debolmente alla porta.
«Avanti!» disse, ma non entrò nessuno. Allora aprì la porta e si trovò davanti un uomo straordinariamente magro, tanto che ne rimase colpito. D'altra parte quell'uomo era vestito molto elegantemente, quindi doveva essere una persona importante.
«Con chi ho l'onore di parlare?» chiese l'uomo istruito.
«E già, l'immaginavo» disse l'uomo elegante «che lei non mi avrebbe riconosciuto! Adesso ho proprio un corpo, ho ricevuto la carne e i vestiti. Lei non avrebbe certo mai pensato di vedermi in queste ottime condizioni. Non riconosce dunque la sua vecchia ombra? Certo non credeva che sarei tornato indietro. Mi è andata molto bene dall'ultima volta che ero presso di lei, mi sono arricchito in tutti i sensi. Se devo riscattarmi la libertà, lo posso fare!» E intanto agitò una gran quantità di ciondoli preziosi che pendevano dall'orologio, mise poi la mano su una pesante collana d'oro che portava intorno al collo, oh, tutte le dita brillavano di anelli e di diamanti! E niente era falso.
«Non riesco a rendermi conto!» esclamò l'uomo istruito. «Che cosa significa?»
«Certo non è una cosa comune» rispose l'ombra «ma lei stesso non è un uomo comune, e io, lo sa bene, fin da piccolo ho seguito i suoi passi. Non appena lei pensò che io fossi maturo per andarmene da solo per il mondo, andai per la mia strada; ora la mia posizione è delle più brillanti ma ho provato una specie di nostalgia e di desiderio di vederla prima che muoia, perché lei dovrà pur morire! Inoltre volevo anche rivedere questi paesi: si ama sempre la propria patria. Mi risulta che lei abbia una nuova ombra: devo pagare qualcosa per lei o per quella? Basta che lo dica.»
«No, sei proprio tu?» disse l'uomo istruito «è davvero straordinario! Non avrei mai creduto che la propria vecchia ombra potesse tornare, e tornare come uomo!»
«Mi dica cosa devo pagarle» ripetè l'ombra «perché non mi piace essere in debito.»
«Ma come puoi parlare così?» disse l'uomo istruito. «Di che debito parli? sei libero come chiunque! Mi rallegro moltissimo per la tua fortuna! Siediti vecchio amico, e raccontami un po' come ti è andata, e che cosa hai visto là di fronte, nella casa dei vicini, nei paesi caldi.»
«Sì, glielo racconterò» rispose l'ombra, e sedette «ma lei mi deve promettere che non dirà mai in città, ovunque mi incontri, che sono stato la sua ombra. Ho intenzione di fidanzarmi; posso mantenere anche più di una famiglia con i miei mezzi.»
«Sta' tranquillo» disse l'uomo istruito «non dirò a nessuno chi sei in realtà. Eccoti la mia mano, te lo prometto: parola di gentiluomo!»
«Parola di ombra!» disse l'ombra, e che altro poteva dire?
In realtà era proprio straordinario quanto fosse uomo, era vestito tutto di nero e con abiti finissimi, con gli stivaletti lucidi e un cappello che si poteva schiacciare in modo che si appiattisse, per non parlare di quello che già sappiamo, i ciondoli, la collana d'oro, gli anelli di diamanti; era veramente ben vestita, ed era questo che la rendeva uguale a un uomo.
«Ora racconterò» disse l'ombra, e intanto mise più forte che potè i piedi dagli stivaletti lucidi sul braccio della nuova ombra di quell'uomo istruito, che se ne stava come un barboncino ai piedi del padrone; e lo fece forse per superbia, o forse per provare a attaccarla a sé, ma quell'ombra che giaceva a terra se ne rimase tranquilla a ascoltare: voleva sapere come si faceva a diventare liberi e a raggiungere il livello del proprio padrone.
«Lei sa chi abitava nella casa dei vicini?» chiese l'ombra «era la cosa più bella di tutti: la poesia! Io rimasi li per tre settimane e fu come se avessi vissuto tremila anni e avessi letto tutto quello che è stato scritto, in prosa e in versi. Glielo dico io, può credermi: ho visto tutto e so tutto!»
«La poesia!» esclamò l'uomo istruito. «Sì, sì, lei spesso fa l'eremita nelle grandi città. La poesia! L'ho vista soltanto per un brevissimo attimo, ma il sonno mi annebbiava ancora gli occhi. Era sul balcone e brillava come l'aurora boreale! Racconta, racconta, tu eri sul balcone, sei entrato dalla porta, e poi?»
«Poi mi trovai nell'anticamera» disse l'ombra «mentre lei è rimasto seduto a guardare verso l'anticamera. Non c'era per niente luce, c'era una specie di penombra ma le porte di una lunga infilata di sale erano tutte aperte; e lì sì c'era luce: io ne sarei stato fulminato se fossi arrivato fino in fondo, fino alla fanciulla; ma rimasi indietro, presi tempo, è così che si deve fare!»
«E che cosa hai visto poi?» chiese l'uomo istruito.
«Ho visto tutto e glielo racconterò; ma, e non è certo per superbia, libero come sono e con tutte le mie conoscenze, senza parlare della mia posizione e delle mie straordinarie possibilità, desidererei che lei mi desse del lei.»
«Mi scusi!» rispose l'uomo istruito. «È una vecchia abitudine, che non si perde. Lei ha pienamente ragione, e io dovrò ricordarlo. Ma ora mi racconti tutto quello che ha visto.»
«Tutto!» disse l'ombra «perché io ho visto tutto e so tutto.»
«Com'erano le sale più interne?» chiese l'uomo istruito «Era come stare nella frescura di un bosco? era come in una chiesa? Erano sale che assomigliavano al cielo pieno di stelle, quando ci si trova in cima alle montagne?»
«Là c'era tutto!» rispose l'ombra. «E poi io non entrai interamente, rimasi nelle prime stanze, nella penombra, ma anche lì si stava molto bene, e da lì ho visto tutto e ora so tutto! Sono stato alla corte della poesia, nell'anticamera.»
«Ma che cosa ha visto? Per le sale passeggiavano tutte le divinità dei tempi passati? lottavano i vecchi eroi? giocavano bambinetti raccontando i loro sogni?»
«Le dico che ero lì e lei capirà che ho visto tutto quello che c'era da vedere! Se fosse passato lei dall'altra parte della strada non sarebbe diventato un uomo, ma io lo divenni. E contemporaneamente imparai a conoscere la mia natura più intima, la mia essenza, la parentela che avevo con la poesia. Quando ero con lei, non ci pensavo mai, ma lei lo sa bene, quando il sole si alzava e quando tramontava io diventavo terribilmente grande, mentre al chiaro di luna ero quasi più chiaro di lei; allora io non capivo la mia natura, ma nell'anticamera la compresi! Diventai uomo, uscii maturo di là, ma lei non era più in quei paesi caldi, io mi vergognavo come uomo a andare in giro come mi trovavo, avevo bisogno di stivali, di vestiti, di tutta quella vernice che rende riconoscibile un uomo. Allora mi misi, a lei lo posso dire tanto non lo scriverà in nessun libro, sotto la gonna di una vecchia che vendeva le torte per la strada. Mi nascosi là sotto, la donna non sapeva affatto che cosa nascondeva; solo di sera uscii, girai per la strada sotto il chiaro di luna, mi allungai su per i muri, il che fa un delizioso solletico sulla schiena. Corsi su e giù, guardai dentro le finestre più alte, quelle delle sale e dei tetti, guardai dove nessuno era capace di guardare e vidi quello che nessun altro vedeva, quello che nessuno doveva vedere! In fondo è un mondo infimo! Io non avrei voluto diventare uomo, se non fosse stabilito che è una cosa importante! Vidi azioni terribili, compiute da donne, da uomini, dai genitori, e perfino da quei deliziosi bambini; vidi» continuò l'ombra «quello che nessuno deve vedere, ma che tutti sarebbero tanto felici di vedere: il male del vicino. Se avessi pubblicato un giornale, quello sì sarebbe stato letto! Ma io scrissi alle persone direttamente, e seminai il terrore in tutte le città in cui arrivavo. Tutti ebbero paura di me! E allora sì che mi volevano bene! I professori mi fecero professore, i sarti mi diedero abiti nuovi, e così sono ben provvisto, il capo della zecca coniò monete nuove per me e le donne dissero che ero così bello! Così diventai l'uomo che ora sono. E ora la saluto, ecco il mio biglietto da visita: abito dalla parte del sole e sono sempre in casa quando piove.» E così l'ombra se ne andò.
"È proprio strano!" si disse l'uomo istruito.
Passarono giorni, e anni, poi l'ombra ritornò.
«Come va?» chiese.
«Ah!» rispose l'uomo istruito «scrivo parlando del vero, del bello e del buono, ma a nessuno interessa sentire cose simili: sono proprio disperato, perché me la prendo tanto a cuore!»
«Ma io no!» disse l'ombra. «Io ingrasso, e questo bisogna cercare di fare! Lei non sa vivere in questo mondo, e le andrà male per questo. Dovrebbe viaggiare; io farò un viaggio quest'estate, vuol venire anche lei? Mi piacerebbe avere un compagno di viaggio. Vuole viaggiare come me, come ombra? Sarebbe un gran piacere averla con me, pago io il viaggio.»
«Questo è davvero troppo!» rispose l'uomo istruito.
«Dipende da come si prendono le cose» rispose l'ombra. «Le farebbe proprio bene viaggiare. Se vuole essere la mia ombra, non dovrà pagare niente per il viaggio.»
«È da pazzi!» esclamo l'uomo istruito.
«Ma così va il mondo» disse l'ombra «e così resterà!» e se ne andò.
L'uomo istruito non se la passava affatto bene, dolori e fastidi lo perseguitavano, e quello che lui raccontava sulla verità, sul bene e sulla bellezza faceva alla maggior parte della gente l'effetto che potrebbero fare le rose a una mucca. Alla fine si era ammalato.
«Si sta riducendo come un'ombra!» gli diceva la gente, e questo faceva molta paura a quell'uomo istruito.
«Dovrebbe andare in una località termale» gli disse l'ombra che era andata a trovarlo «non c'è altro da fare! La porterò con me, in grazia della nostra vecchia amicizia; io pagherò il viaggio e lei ne farà una descrizione, così il viaggio sarà divertente. Voglio giusto andare a curarmi in una località termale: la mia barba non cresce come dovrebbe, anche questa è una malattia la barba bisognerebbe averla! Sia ragionevole, accetti la mia proposta, viaggeremo come compagni di viaggio.»
Così viaggiarono; l'ombra era il padrone e il padrone faceva da ombra; andarono insieme in carrozza, cavalcarono insieme, camminarono insieme, uno a fianco all'altro, uno davanti e uno dietro, a seconda della posizione del sole. L'ombra badava sempre a mettersi dalla parte del padrone; ma l'uomo istruito non pensava a queste cose: aveva buon cuore e era mite e gentile, così un giorno disse all'ombra: «Dato che siamo diventati compagni di viaggio, e che siamo cresciuti insieme dall'infanzia, potremmo anche darci del tu, sarebbe molto meglio!».
«Bene» disse l'ombra che ora era il vero padrone. «Lei ha parlato con grande benevolenza e schiettezza, e io vorrei fare altrettanto. Lei, da uomo istruito, sa certamente come è strana la natura. Certe persone non sopportano di toccare la carta grigia da pacco, e stanno male, altri hanno i brividi in tutto il corpo quando una punta striscia contro un vetro; io provo una strana sensazione quando lei mi dà del tu, mi sento come schiacciato a terra nella mia posizione di prima. Come vede è una sensazione, non è superbia; così io non posso permetterle di darmi del tu, ma se vuole posso senz'altro dare del tu a lei, e qualcosa avremo ottenuto lo stesso.»
E così l'ombra diede del tu al suo precedente padrone.
"Certo che è da matti!" pensò lui "che io debba dargli del lei e che lui mi dia del tu!" Ma ormai non c'era niente da fare.
Così giunsero alla località termale, dove c'erano molti stranieri e tra questi una graziosa figlia di re, che aveva la malattia di vedere fin troppo bene, il che era molto preoccupante.
Immediatamente notò che il nuovo arrivato era una persona ben diversa dalle altre. «È qui per far crescere la barba, si dice ma io vedo la causa vera: non può fare ombra!»
Diventò molto curiosa e durante la passeggiata si mise subito a parlare con quello straniero. Come figlia di re non aveva certo bisogno di fare tanti complimenti; così disse: «La sua malattia è che non sa fare ombra.»
«Sua Altezza Reale sta sicuramente guarendo» rispose l'ombra «io so che la sua malattia è di vedere fin troppo bene, ma ora non ce l'ha più perché io in realtà ho una meravigliosa ombra! Non vede quel tipo che viene sempre con me? L'altra gente ha un'ombra normale, ma a me non piace quello che è troppo comune. Diamo ai nostri servitori abiti più eleganti di quelli che usiamo per noi, e così io ho permesso alla mia ombra di vestirsi da uomo. Vede bene che gli ho perfino dato un'ombra. È molto costoso, ma a me piace avere qualcosa di speciale.»
"Come! come?" pensò la principessa "allora sarei proprio guarita? Questa località è la migliore che esista! L'acqua poi ai nostri giorni ha capacità meravigliose, ma io non me ne vado perché adesso viene il bello; lo straniero mi piace moltissimo. Purché la barba non gli cresca, perché altrimenti partirà."
Di sera nella grande sala da ballo la figlia del re ballò con l'ombra. Lei era leggera, ma lui era ancora più leggero, un ballerino simile lei non l'aveva mai avuto. Gli disse da quale paese proveniva e lui conosceva quel paese, c'era stato, ma quando lei non c'era; aveva guardato in tutte le finestre, in alto e in basso, aveva visto il tale e il tal altro, e così poteva rispondere alla figlia del re e fare allusioni di cui lei rimase molto meravigliata: doveva essere proprio l'uomo più saggio della terra! Provò un tale rispetto per quello che lui sapeva, che quando danzarono di nuovo s'innamorò di lui, e l'ombra se ne accorse perché lei continuava a guardarlo fìsso. Così ballarono ancora e lei stava per dirglielo, ma poi si trattenne: pensò al suo paese e al regno e a tutte le persone su cui avrebbe dovuto governare.
"È certo un uomo saggio" disse tra sé "e va bene! danza magnificamente, e anche questo va bene, ma chissà se ha una buona cultura? Anche questo è importante, dovrò esaminarlo." E così cominciò a fargli domande sulle cose più difficili, su cui lei stessa non sapeva rispondere; e l'ombra fece una strana faccia.
«Ah, non sa rispondere!» disse la figlia del re.
«Ma se questo l'ho imparato da bambino!» rispose l'ombra «credo addirittura che persino la mia ombra, laggiù alla porta, saprebbe rispondere!»
«La sua ombra?» esclamò la figlia del re «questo sì sarebbe strano!»
«Non sono proprio sicuro che lo sappia» aggiunse l'ombra «ma credo di sì; ormai mi ha seguito dappertutto per tanti anni e mi ha ascoltato, quindi dovrebbe saperlo. Ma Sua Altezza Reale mi permetta di dirle che quella ha una tale superbia, a forza di andarsene in giro vestita come un uomo, che per farla stare di buon umore - il che è necessario perché risponda bene - bisogna trattarla come un uomo.»
«Mi piace l'idea!» disse la figlia del re. Così andò da quell'uomo istruito vicino alla porta e parlò con lui del sole e della luna, e degli uomini, visti da fuori e visti da dentro, e lui rispose proprio in modo intelligente.
"Che uomo deve essere, se ha un'ombra così saggia!" pensò lei "sarebbe proprio una benedizione per il mio popolo e per il regno se io scegliessi lui come mio sposo, e lo farò!"
Subito si accordarono, sia la figlia del re che l'ombra, ma nessuno doveva saperne nulla finché lei non fosse tornata nel suo regno.
«Nessuno, neppure l'ombra!» disse l'ombra.
E aveva le sue buone ragioni per dirlo!
Così arrivarono nel paese dove la figlia del re regnava quando era a casa.
«Ascolta, mio caro amico» disse l'ombra all'uomo istruito «ora io sono proprio felice e molto importante, e voglio fare qualcosa di speciale per te: abiterai sempre con me al castello, viaggerai nella mia carrozza reale, e avrai centomila talleri d'oro all'anno, però devi lasciarti chiamare ombra da tutti, non devi dire che una volta sei stato uomo, e una volta all'anno, quando uscirò sul balcone al sole per farmi vedere, dovrai giacere ai miei piedi come una vera ombra. Ora te lo posso dire: sposerò la figlia del re! Questa sera avranno luogo le nozze.»
«No, questo è troppo!» disse l'uomo istruito «non voglio, non posso farlo; significa ingannare tutto il paese, perfino la figlia del re; io dirò tutto, dirò che sono un uomo e che tu sei l'ombra, e che sei solo travestito.»
«Nessuno ti crederà» disse l'ombra «sii ragionevole, altrimenti chiamerò le guardie!»
«Vado subito dalla figlia del re!» disse l'uomo istruito. «No, ci vado prima io» disse l'ombra «e tu sarai arrestato!»
E così fu, perché le guardie obbedirono a quello che conoscevano come il futuro sposo della figlia del re.
«Tu stai tremando!» disse la figlia del re quando l'ombra entrò da lei «è successo qualcosa? Non devi ammalarti proprio stasera, che dobbiamo sposarci!»
«Ho vissuto la più brutta esperienza che possa succedere!» esclamò l'ombra. «È proprio vero che un povero cervello di ombra non può resistere a lungo. Pensa, la mia ombra è impazzita, crede di essere l'uomo e che io, prova a immaginarti, che io sia la sua ombra!»
«È terribile!» disse la principessa «è stato rinchiuso?»
«Sì, ma ho paura che non si riprenderà più.»
«Povera ombra!» sospirò la principessa «sarà molto infelice; credo sarebbe una buona cosa se gli togliessimo quella poca vita che ha, e pensandoci bene, penso sia proprio necessario farlo in tutta tranquillità.»
«È dura, però!» disse l'ombra «perché era un servitore fedele» e si mise a sospirare.
«Che carattere nobile!» esclamò la figlia del re.
Quella sera tutta la città era illuminata; i cannoni spararono: bum!, i soldati presentarono le armi; che matrimonio! La figlia del re e l'ombra salirono sul balcone per farsi vedere e per avere un altro Hurrà!
L'uomo istruito non sentì nulla, perché gli avevano già tolto la vita.

 
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La famiglia felice

Post n°872 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La più grande foglia verde che si trovi nel nostro paese è sicuramente quella di farfaraccio. Se la si tiene intorno alla vita fa da grembiule, e se la si mette in testa ripara dalla pioggia quasi come fosse un ombrello, perché è straordinariamente grande.
Il farfaraccio non cresce da solo, anzi, dove ce n'è una spuntano tante altre piantine; è proprio una bellezza! E questa bellezza è il nutrimento delle lumache. Quelle grosse lumache bianche che la gente distinta una volta faceva cuocere in fricassea, e poi mangiava esclamando: «Mmm, come sono buone!» - e credeva veramente che lo fossero - si nutrivano delle foglie del farfaraccio che veniva seminato per loro.
C'era dunque una volta un vecchio castello, dove non si mangiavano più le lumache, perché si erano estinte; ma non si erano estinte le piante di farfaraccio, che crescevano sempre più lungo i sentieri e le aiuole, tanto che non era più possibile controllarle; s'era ormai formato un vero e proprio bosco di farfaraccio: qua e là cresceva un melo o un prugno, altrimenti non si sarebbe mai capito che quello doveva essere un giardino c'era solo farfaraccio, e tra le sue foglie vivevano le ultime due lumache, ormai vecchissime.
Neppure loro sapevano quanto erano vecchie, ma ricordavano bene che una volta erano state moltissime, che discendevano da una famiglia di origine straniera e che il bosco era stato piantato per la loro famiglia. Non erano state mai fuori dal bosco, ma sapevano che esisteva qualcosa che si chiamava castello e che lassù venivano cucinate, e, una volta diventate nere, posate su un vassoio d'argento; quello che accadeva in seguito non lo sapeva nessuno.
In realtà non immaginavano neppure che cosa volesse dire essere cucinati e messi su un vassoio d'argento, ma doveva essere una cosa bellissima e molto distinta. Né il maggiolino, né il rospo e neppure il lombrico seppero dare spiegazioni, perché nessuno era mai stato cucinato e neppure messo su un vassoio d'argento.
Le lumache vivevano in modo solitario, ma felicemente, e non avendo figli avevano adottato un lumachino comune, che consideravano come la loro creatura; ma non cresceva, perché era un lumachino comune. Ai vecchi, però, e soprattutto a mamma lumaca, pareva che fosse cresciuto. Così mamma lumaca chiese a papà lumaca di tastare la Casina del lumachino, se non poteva vederla a occhio nudo, lui lo fece e riconobbe che la moglie aveva ragione.
Un giorno si mise a piovere con violenza.
«Senti come batte la pioggia sulle foglie di farfaraccio!» esclamò papà lumaca.
«Scendono di quei goccioloni!» aggiunse mamma lumaca. «Scorrono lungo i gambi! Vedrai come si bagnerà qui! Per fortuna abbiamo la nostra bella casa e anche il piccolo ha la sua! È proprio vero che è stato fatto molto più per noi che per tutte le altre creature, siamo dei veri privilegiati. Fin dalla nascita abbiamo la casa, e il bosco di farfaraccio è stato piantato per noi. Mi piacerebbe sapere quanto si estende e che cosa c'è fuori.»
«Non c'è niente fuori» disse papà lumaca. «Non c'è posto migliore di questo, e io non desidero altro.»
«Io sì» rispose mamma lumaca «mi piacerebbe arrivare al castello, essere cucinata e messa sul vassoio d'argento. Tutti i nostri antenati l'hanno fatto e sicuramente ne vale la pena!»
«Il castello è forse andato in rovina» disse papà lumaca «oppure il bosco di farfaraccio è cresciuto tanto da coprirlo e ora gli uomini non possono più uscire. Del resto non c'è nessuna fretta, ma tu sei sempre così precipitosa, e ora comincia a esserlo anche il piccolo; da tre giorni si sta arrampicando su quel gambo, e mi gira la testa solo a guardarlo!»
«Non devi adirarti» gli disse mamma lumaca «si arrampica con prudenza, avremo grandi soddisfazioni da lui! e poi noi vecchi non abbiamo altro per cui vivere. Piuttosto hai pensato che dobbiamo trovargli una moglie? Non credi che da qualche parte del bosco di farfaraccio ci sia qualcuno della nostra specie?»
«Credo che ci siano ancora lumache nere» replicò il padre «lumaconi neri senza guscio; ma sono così volgari e pieni di arie! Possiamo dare l'incarico alle formiche, che corrono avanti e indietro come se avessero qualcosa da fare: conoscono certo una moglie che sia adatta al nostro lumachino.»
«Ne conosciamo una bellissima» risposero le formiche «ma forse non è possibile, perché è una regina!»
«Non importa!» esclamarono i vecchi. «Ha la casa?»
«Ha un castello!» risposero le formiche. «Il più bel formicaio con ben settecento corridoi!»
«Grazie tante!» replicò mamma lumaca. «Nostro figlio non deve finire in un formicaio. Se non ne conoscete altre, daremo l'incarico ai moscerini bianchi, che volano qui intorno sia con la pioggia che col sole e conoscono il bosco di farfaraccio a occhi chiusi.»
«Abbiamo una sposa per lui!» dichiararono i moscerini. «A un centinaio di passi d'uomo da qua si trova, su un cespuglio di uvaspina, una lumachina con la casa; è tutta sola e in età da marito. Sono solo cento passi!»
«Fatela venire» esclamarono i vecchi. «Lui possiede un bosco di farfaraccio, lei solo un cespuglio.»
E così andarono a prendere la signorina lumaca. Ci vollero otto giorni prima che arrivasse, ma il bello stava proprio in questo, perché così si potè vedere che era della razza giusta.
Quindi furono celebrate le nozze. Sei lucciole illuminarono più che poterono, per il resto tutto si svolse con tranquillità, perché la vecchia coppia di lumache non sopportava il chiasso e la confusione. Mamma lumaca fece un bel discorso, il babbo invece non ci riuscì, perché era troppo commosso, poi diedero loro in eredità l'intero bosco di farfaraccio e ripeterono quello che avevano sempre detto: che il bosco era il migliore del mondo, che se fossero vissuti onestamente e si fossero moltiplicati, loro stessi e i loro figli sarebbero un giorno arrivati al castello e lì sarebbero stati cucinati fino a diventare neri e messi sul vassoio d'argento.
Dopo il discorso i due vecchi si ritirarono nelle loro case e non uscirono più. La giovane coppia di lumache regnò nel bosco, e ebbe molti eredi; ma non venne mai cucinata e non fu mai posta sul vassoio d'argento. Per questo conclusero che il castello era andato in rovina e che la stirpe umana si era estinta. Nessuno li contraddisse: poteva benissimo essere vero. La pioggia batteva sulle foglie di farfaraccio soltanto per rallegrarli col suo tam tam, e il sole splendeva soltanto per illuminare il loro bosco. E così furono molto felici e l'intera famiglia fu felice: questo è tutto.

FINE
 
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I vicini di casa

Post n°871 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

i poteva credere che fosse successo qualcosa nello stagno, ma in realtà non era successo nulla. Tutte le anatre, che se ne stavano beate in acqua, alcune a testa in giù, come sono capaci di fare loro, improvvisamente si precipitarono a riva; si vedevano nel fango le tracce delle loro zampe, e si poteva sentire da lontano quanto strillassero. L'acqua si mosse da ogni parte; poco prima era lucida come uno specchio, vi si poteva vedere dentro ogni albero, ogni cespuglio che si trovava li vicino, e la vecchia casa del contadino con il tetto a buchi e il nido di rondini, ma soprattutto il grande rosaio pieno di fiori, che s'allungava dal muro fin quasi sull'acqua, dove si rifletteva tutto, come un dipinto capovolto; quando invece l'acqua si muoveva, le immagini si sovrapponevano tra loro e il quadro scompariva. Due piume d'anatra, cadute alle anatre che erano volate via, galleggiavano su e giù, poi improvvisamente presero velocità, come ci fosse stato il vento, ma il vento non c'era, così si posarono di nuovo tranquille e l'acqua ridiventò limpida come uno specchio e si potè vedere di nuovo con chiarezza il tetto con il nido delle rondini e il rosaio. Ogni rosa si rifletteva, erano così belle, ma loro non lo sapevano, perché nessuno glielo aveva detto. Il sole brillava tra i loro petali delicati, così pieni di profumo; e ogni rosa provava una beatitudine di pensiero, come la sentiamo anche noi.
«Come è bello vivere!» diceva ogni rosa «l'unico desiderio è quello di poter baciare il sole, che è così caldo e trasparente. Sì, vorrei anche baciare le rose che sono nell'acqua; ci assomigliamo moltissimo, vorrei baciare quei piccoli uccellini che stanno nel nido laggiù, ma ce ne sono anche alcuni sopra di noi! Affacciano la testolina e pigolano così debolmente; non hanno neppure una penna, mentre le hanno il padre e la madre. Abbiamo dei buoni vicini, sia in alto che in basso. Oh! Come è bello vivere!»
Gli uccellini sopra e sotto, quelli sotto però erano solo il riflesso sull'acqua, erano passerotti, anche i loro genitori erano passeri e avevano occupato due giorni prima il nido delle rondini che era vuoto, lì avevano stabilito la loro casa.
«Sono anatroccoli quelli che nuotano laggiù?» chiesero i passerottini, guardando le due piume d'anatra che galleggiavano.
«Fate domande sensate, quando dovete chiedere qualcosa!» rispose la madre «non vedete che sono piume, pezzetti vivi di vestito, come quello che ho anch'io e che anche voi riceverete ma il nostro è più sottile. Magari potessimo averle qui nel nido tengono così caldo! Mi piacerebbe sapere che cosa ha spaventato le anatre. Dev'essere stato qualcosa nell'acqua, io non sono stata di certo, anche se vi ho appena gridato "pip" un po' forte. Quelle zuccone delle rose dovrebbero saperlo, ma non sanno mai nulla, pensano solo a guardarsi e a profumare. Sono proprio stanca di questi vicini!»
«Senti i cari uccellini di sopra» dissero le rose «adesso vogliono anche cominciare a cantare; non sono ancora capaci, ma ci riusciranno. Deve essere un gran bel divertimento! È proprio bello avere vicini così allegri.»
Intanto giunsero al galoppo due cavalli, che dovevano essere abbeverati, su uno stava un contadinello che si era tolto tutti i vestiti, eccetto un cappello nero, grande e molto largo. Il ragazzo fischiò come se fosse stato un uccellino e cavalcò fino al punto più profondo dello stagno; passando poi davanti al rosaio, strappò una delle rose e se la mise sul cappello, credendo di essere ben ornato, poi se ne andò via a cavallo. Le altre rose guardarono la loro sorella chiedendosi dove sarebbe andata, ma nessuno lo sapeva.
«Anche a me piacerebbe andare per il mondo!» disse una rosa a un'altra «ma anche qui tra il nostro verde si sta bene. Di giorno il sole è così caldo e di notte il cielo brilla ancora di più! Lo possiamo vedere attraverso tutti quei buchi che ci sono.»
Erano le stelle, quel che loro credevano buchi, ma le rose non ne sapevano di più!
«Noi diamo vita alla casa!» esclamò mamma passera «e i nidi portano fortuna, dice la gente, per questo sono contenti di averci qui. Ma quei vicini! quel cespuglio di rose contro il muro porta umidità, credo che verrà allontanato prima o poi, e così potrà crescervi il grano. Le rose servono solo per essere guardate e odorate, o al più per essere messe sul cappello. Ogni anno, lo so da mia madre, cadono tutte, la contadina le ricopre di sale e così prendono un nome francese che non so dire, ma tanto non mi interessa neppure, poi vengono messe sul fuoco, quando bisogna ottenere un buon profumo. Ecco, questo è il corso del loro destino, sono fatte solo per gli occhi e per il naso. Adesso lo sapete!»
Venne la sera e le zanzare danzarono nell'aria tiepida, le nuvole erano rosse, arrivò l'usignolo e si mise a cantare alle rose dicendo che la bellezza è un raggio di sole in questo mondo e vivrà in eterno. Le rose però credevano che l'usignolo cantasse di se stesso e infatti lo si poteva ben credere. Non pensarono affatto che il canto potesse essere diretto a loro, ma si rallegravano ugualmente nell'ascoltarlo e si dissero che forse anche tutti i passerottini sarebbero diventati un giorno usignoli.
«Ho capito molto bene che cosa cantava quell'uccello» dissero i passerotti «c'è solo una parola che non ho capito: che cos'è la bellezza?»
«Non è niente» rispose mamma passera «è solo un'apparenza. Su al castello dove i colombi hanno la loro casa e ogni giorno ricevono piselli e grano che vengono sparsi nel cortile, io ho mangiato con loro, e ci andrete anche voi (Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei), su al castello, dunque, nel cortile, hanno due uccelli con il collo verde e una cresta sulla testa; la coda si può allargare come se fosse una grande ruota e ha tanti colori, che fanno male agli occhi. Sono chiamati pavoni, questa è la bellezza. Se venissero un po' spennati, non sarebbero molto diversi da noi. Io li avrei già beccati, ma il fatto è che sono così grandi!»
«Li beccherò io!» disse il più piccolo dei passerotti, che non aveva neppure una piuma!
Nella casetta di campagna abitavano due giovani sposi; si volevano così bene, erano così volonterosi e sani che era proprio un piacere stare presso di loro. La domenica mattina la giovane sposa uscì, colse una manciata delle rose più belle e le mise in un bicchiere d'acqua che pose in mezzo al cassettone.
«Adesso capisco che è domenica!» disse il marito baciando a sua dolce mogliettina, poi si sedettero e recitarono un salmo tenendosi per mano, mentre il sole entrava dalle finestre proprio su quelle rose fresche e su quei giovani sposi.
«Sono stanca di guardarli!» disse mamma passera, che dal nido guardava nella stanza, e così se ne volò via.
Lo stesso accadde la domenica successiva, perché ogni domenica rose fresche venivano messe nel bicchiere, e il rosaio fioriva sempre in tutta la sua bellezza; i giovani passerotti, che ora avevano anche le piume, avrebbero voluto volare con la madre, ma lei disse: «Voi restate qui» e così fecero. Lei volò ma non si sa bene dove, fatto sta che improvvisamente venne catturata con una trappola per uccelli fatta con crini di cavallo trappola che alcuni bambini avevano legato a un albero I crini di cavallo si strinsero intorno alla zampina, e tiravano tanto che sembrava volessero tagliarla. Era proprio molto doloroso, e che spavento! I ragazzi corsero lì e afferrarono l'uccello, lo tennero stretto, ma «Non è altro che un passero!» esclamarono comunque non lo lasciarono volar via di nuovo, lo portarono a casa e ogni volta che quello gridava lo colpivano sul becco.
Nel cortile si trovava un vecchietto che era in grado di fare il sapone per la barba e per le mani, sapone a forma di palle e a pezzetti. Era proprio un vagabondo molto divertente, e quando vide il passero portato dai ragazzi, ai quali non interessava affatto tenerlo, esclamò: «Adesso lo facciamo bello!» e mentre lui lo diceva, mamma passera rabbrividì. Da una cassetta dove c'erano i colori più belli, il vecchietto prese una quantità di polvere d'oro luccicante, e i ragazzi dovettero correre a cercare un uovo da cui lui tolse il bianco e con il quale unse tutto l'uccello, versandovi sopra la polvere d'oro, in questo modo mamma passera era stata dorata. Lei però non pensava affatto a quella grande festa, tremava da ogni parte. L'uomo del sapone poi prese un pezzetto di stoffa, strappandola dalla fodera della sua vecchia giacca, la ritagliò a forma di cresta di gallo e la incollò sulla testa di quell'uccellino.
«Adesso vedremo volare l'uccellino d'oro!» disse lasciando libero il passero, che tutto spaventato volò via nella luce del sole. Oh! come brillava, tutti i passeri, e persino la grande cornacchia, che non era certo sprovveduta, si spaventarono terribilmente a quella vista; ciò nonostante volarono dietro all'uccello, perché volevano sapere chi mai fosse.
«Di dov'è, di dov'è?» gridò la cornacchia.
«Fermati un po', fermati un po'!» dissero i passeri, ma l'uccello non voleva fermarsi; pieno di paura e di terrore volo verso casa; stava per cadere a terra e ogni momento arrivavano sempre più uccelli, grandi e piccoli, alcuni volavano molto vicini per poterlo beccare.
«Che roba!» gridavano tutti. «Che spavento, che spavento!» gridarono i passerotti, quando mamma passera giunse vicino al nido. «È sicuramente un piccolo pavone, ha tutti i colori e questi fanno male agli occhi, proprio come la mamma ci aveva detto; pip! È la bellezza!» E così cominciarono a beccarla con i loro piccoli becchi, in modo che non le fu possibile entrare nel nido; inoltre aveva tanta paura, che non era più in grado di dire "pip" figuriamoci dire: "Sono vostra madre". Gli altri uccelli cominciarono pure a beccarla, così le tolsero ogni piuma, finché non cadde sanguinante vicino al cespuglio di rose.
«Povero animale!» esclamarono le rose. «Vieni, ti daremo rifugio noi. Posa la testolina vicino a noi.»
Mamma passera allargò ancora una volta le ali, poi le raccolse di nuovo e morì presso i vicini, le belle e fresche rose.
«Pip!» dissero i giovani passerotti nel nido «dove è finita la mamma? non sappiamo proprio cosa dire! Non possiamo certo credere che ci abbia abbandonati a noi stessi. Comunque la casa ci è rimasta in eredità! Ma chi di noi l'avrà, quando avremo famiglia?»
«Già, io non posso davvero tenervi qui, quando mi troverò una moglie e avrò bambini!» disse il più giovane.
«E io avrò molte più mogli e figli di te!» disse un altro.
«Ma io sono più vecchio!» disse un terzo. Tutti quanti cominciarono a litigare, batterono le ali, si beccarono e pum, uno dopo l'altro, caddero fuori dal nido. Giacevano per terra e erano tutti arrabbiati; tenevano piegata la testa da un lato e sollevavano un occhio, strizzandolo; era il loro modo per mostrarsi arrabbiati.
Già potevano volare un pochino, così si esercitarono, e alla fine si misero d'accordo che per potersi riconoscere di nuovo quando si fossero incontrati nel mondo, avrebbero detto pip! raspando tre volte con la zampa sinistra.
Il piccolo rimasto nel nido si allargò per bene, ormai poteva farlo perché era il padrone di casa, ma non durò a lungo. Di notte si sollevò un fuoco rosso attraverso le finestre e le fiamme giunsero fino sotto il tetto, la paglia secca bruciò tutta, tutta la casa bruciò e con lei anche il giovane passerotto, invece i due giovani sposi fortunatamente riuscirono a allontanarsi.
Quando il sole al mattino dopo fu alto e tutto sembrò rinfrescato come dopo una tranquilla notte di sonno, della casetta non era rimasto niente, se non poche assi nere, quasi carbonizzate, che si appoggiavano al camino rimasto padrone assoluto; le rovine della casa fumavano ancora, ma lì davanti c'era ancora, fresco e fiorito, tutto il cespuglio di rose, e ogni singolo fiore e ramo si rispecchiava nell'acqua tranquilla.
«Oh, come stanno bene quelle rose proprio davanti alla casa bruciata!» gridò un uomo, che passava di lì. «È uno splendido quadretto: non devo lasciarmelo sfuggire» e così tirò fuori dalla tasca un piccolo album, prese la matita, perché era un pittore, e disegnò le rovine fumanti, le assi carbonizzate appoggiate al camino che pendeva sempre più; ma in primo piano dominava quel grande cespuglio di rose in fiore: era proprio splendido, e era per merito suo che tutto era stato disegnato.
Durante il giorno passarono di li due passerotti che erano nati in quel luogo. «Dov'è la casa?» chiesero «dov'è il nido? pip, è tutto bruciato, e anche nostro fratello, che era tanto forte, è bruciato, e tutto perché si è tenuto il nido; ma le rose l'hanno scampata bella! Hanno ancora le guance rosse: non si sono certo vestite a lutto per la sfortuna del vicino. Ma non parliamo con loro; qui è così brutto!» e così volarono via.
In autunno inoltrato ci fu una splendida giornata di sole, ci si poteva credere in piena estate. Nel cortile davanti alla grande scalinata del castello era tutto ben pulito e asciutto, lì passeggiavano i colombi, neri, bianchi e viola, brillavano sotto il sole, e le vecchie madri colombe gonfiandosi dicevano ai giovani: «State in gruppo, state in gruppo!» perché così facevano miglior figura.
«Cosa sono quelle cosine grigie che corrono tra di noi?» chiese una vecchia colomba, con gli occhi iniettati di rosso e di verde. «Piccoli grigi, piccoli grigi!» ripeteva.
«Sono passeri, dei bravi animali. Noi siamo famose per la nostra bontà, quindi dobbiamo lasciare che becchino! Non parlano con noi e poi raspano così bene con la zampina.»
Sì, raspavano tre volte con la zampa sinistra dicendo pip, così si riconobbero: erano tre passerotti che provenivano dalla casa bruciata.
«Qui si mangia proprio bene!» dissero.
Le colombe intanto giravano una intorno all'altra, gonfiandosi e seguendo i loro pensieri, che non si dicevano.
«Guarda quella colomba col petto gonfio!» diceva una di un'altra. «E guarda quella, come inghiotte i piselli! Ne mangia troppi e mangia i migliori! Kurr, kurr! e quella come è pelata in testa! Guarda quella dolce bestiola come è maligna! Knurrè, knurrè!» E intanto i loro occhi luccicavano di malignità. «State in gruppo, state in gruppo! Piccoli grigi, piccoli grigi! Knurrè, knurrè» si continuò a sentire, e così continuerà ancora per mille anni.
I passerotti mangiarono bene, e si sentirono altrettanto bene: cercarono anche di stare in gruppo, ma a loro non si addiceva, e poi ormai erano sazi, così si allontanarono dai colombi e si scambiarono la loro opinione su di loro, poi passarono sotto la cancellata del giardino, e dato che la porta che dava nel salone era aperta, uno di loro saltò sullo scalino: era molto coraggioso perché era sazio. «Pip!» disse. «Io oso entrare!» «Pip!» esclamò un altro «anch'io, anzi un po' di più!» e così saltellò dentro nella stanza. Dentro non c'era nessuno, il terzo lo notò e così volò ancora più dentro nella stanza, dicendo: «O dentro del tutto, oppure niente! Questo è proprio uno strano nido per uomini! E come è sistemato! Oh, che cos'è?»
Proprio davanti ai passeri fiorivano le rose, si rispecchiavano nell'acqua, mentre le assi carbonizzate erano appoggiate al camino che pendeva. «No, ma che cos'è questo? Come hanno fatto a arrivare nella stanza del castello?»
I tre passerotti volevano volare sulle rose e sul camino, ma volarono contro una parete liscia: tutto era un quadro, un grande e magnifico quadro che il pittore aveva ricavato dal suo schizzo.
«Pip, Pip!» dissero i passeri. «Non è niente! È solo apparenza! Pip! Pip! È la bellezza! Tu lo capisci? Io no!» e volarono via perché arrivava gente nella stanza.
Passarono molti giorni e molti anni, i colombi avevano tubato molte volte, per non dire brontolato: che animali maligni! I passerotti avevano sofferto il freddo d'inverno e avevano vissuto allegramente d'estate, tutti quanti erano fidanzati o sposati, per così dire; avevano dei piccoli, e il piccolo di ognuno era naturalmente il più bello e il più intelligente. Uno volava qui, uno volava là, e quando si incontravano si riconoscevano al pip, pip! e alle tre raspate con la zampa sinistra. La passerotta più anziana, che ormai era proprio vecchia, non aveva nessun nido e non aveva piccoli, e desiderava tanto, almeno una volta, andare in una grande città; così volò a Copenaghen.
Là c'era una grande casa con molti colori, proprio vicino a un castello e a un canale dove si trovavano navi piene di mele e di recipienti di terracotta. Le finestre erano molto più larghe in basso che in alto, e quando i passerotti vi guardavano dentro, ogni stanza sembrava il fondo di un tulipano, con tutti i colori e gli ornamenti possibili, e in mezzo al tulipano si trovavano degli uomini bianchi; erano di marmo, alcuni anche di gesso, ma per i passeri non c'era differenza. Sopra la casa si trovava una carrozza di metallo con un cavallo di metallo davanti, e la dea della vittoria, pure di metallo, che lo guidava. Era il museo di Thorvaldsen.
«Come brilla, come brilla!» disse la passerotta «anche questa è la bellezza! pip! e è molto più grande di un pavone!» Ricordava ancora, dai tempi dell'infanzia, l'esempio di bellezza di cui parlava la mamma. Poi volò nel cortile: anche lì era meraviglioso, c'erano dipinte palme e rami sulle pareti, e in mezzo al cortile si trovava un grande cespuglio di rose in fiore che appoggiava i freschi rami carichi di rose su una tomba quando volò laggiù, perché c'erano molti altri passeri, «pip!» disse, e raspò per terra tre volte con la zampa sinistra; quel saluto l'aveva ormai fatto tante volte, ogni giorno, per lunghi anni, e nessuno l'aveva mai capito, perché coloro che si erano divisi non si incontravano ogni giorno; quel saluto era diventato un'abitudine, ma oggi c'erano due vecchi passeri e un piccolo, che dissero: «Pip!» e rasparono tre volte con la zampa sinistra.
«Oh, buon giorno, buon giorno!» erano tre vecchi passeri del nido di campagna, e un piccolo della stessa famiglia. «Proprio qui dovevamo incontrarci» dissero. «È un luogo distinto, ma non c'è molto da mangiare. È la bellezza, pip!» Poi giunsero molte persone dalle stanze laterali, dove si trovavano quelle meravigliose figure di marmo, e tutti andarono fino alla tomba, che conservava il grande maestro che aveva creato quelle statue di marmo, e tutti quelli che giunsero lì si fermarono col viso raggiante davanti alla tomba di Thorvaldsen, qualcuno raccolse i petali di rosa caduti e li conservò. Era gente che veniva da lontano; veniva dalla grande Inghilterra, dalla Germania e dalla Francia; la signora più bella colse una rosa e se la mise sul petto. Allora i passeri credettero che le rose fossero le padrone lì, che tutta la casa fosse stata costruita per loro, e pensarono che era un po' troppo, ma dato che le persone tenevano in gran conto le rose, anche loro non vollero essere da meno. «Pip!» dissero, scopando il pavimento con le code e guardando di sottecchi le rose; ma non guardarono a lungo perché erano certi che quelle fossero le loro vecchie vicine, e infatti era vero. Il pittore che aveva disegnato il cespuglio di rose, vicino alla casa bruciata, aveva in seguito ottenuto il permesso di toglierlo e di darlo all'architetto di quella casa, poiché non c'erano rose più belle; quello poi le aveva messe sulla tomba di Thorvaldsen e lì esse fiorivano, come immagine della bellezza, e davano i loro rossi petali profumati da portare come ricordo nei paesi lontani.
«Avete trovato un impiego qui in città?» chiesero i passeri. E le rose fecero cenno di sì, riconobbero i loro vicini e furono molto contente di vederli.
«Come è bello vivere e fiorire e rivedere i vecchi amici, e vedere ogni giorno sguardi dolci! Qui è come se ogni giorno fosse festa!»
«Pip!» dissero i passeri «sì, sono i nostri vecchi vicini! Ci ricordiamo bene che sono nate dallo stagno! Pip! Quanto onore hanno ricevuto! Alcuni l'ottengono anche dormendo. Cosa ci sia di bello nel guardare una macchia così rossa, non lo so proprio! Guarda, lì c'è un petalo appassito e lo vedo bene!»
E si misero a beccarlo in modo che il petalo cadesse, ma l'albero restava sempre più fresco e sempre più verde e le rose profumavano sotto il sole sulla tomba di Thorvaldsen, al cui nome immortale affiancavano la loro bellezza.

FINE

 



Confronti due lingue:
Confronti questo racconto in due lingue al lato di a vicenda.

Traduzioni:
Inglese: The neighbouring families
Spagnolo: Los vecinos
Danese: Nabofamilierne

 
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I tre cerusici

Post n°870 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Tre cerusici giravano il mondo, convinti di conoscere la loro arte alla perfezione, e giunsero in una locanda dove volevano pernottare. L'oste domandò da dove venissero e dove andassero. -Giriamo per il mondo esercitando la nostra arte.- -Fatemi un po' vedere quel che sapete fare- disse l'oste. Il primo disse che si sarebbe tagliato la mano e che il mattino dopo l'avrebbe riattaccata; il secondo disse che si sarebbe strappato il cuore e al mattino l'avrebbe rimesso al suo posto; il terzo disse che si sarebbe cavato gli occhi e che al mattino li avrebbe risanati. Ma essi avevano un unguento, e bastava spalmarlo sulle ferite perché‚ si rimarginassero; e portavano sempre con s‚ la fialetta che lo conteneva. Tagliarono dunque mano, cuore e occhi, come avevano detto, li misero su di un piatto e lo diedero all'oste; e l'oste lo diede a una ragazza perché‚ lo chiudesse nell'armadio, e lo serbasse con cura. Ma la ragazza se la intendeva di nascosto con un soldato. Quando l'oste, i tre cerusici e tutti quanti in casa si furono addormentati, il soldato venne e volle da mangiare. La fanciulla aprì l'armadio e gli prese qualcosa, e per la gran gioia dimenticò di chiudere la porta dell'armadio; si sedette a tavola accanto all'innamorato e chiacchierarono insieme. Mentre sedeva là tutta contenta, senza aspettarsi guai, entrò il gatto di soppiatto, trovò l'armadio aperto, prese la mano, il cuore e gli occhi dei tre cerusici e scappò via. Quando il soldato ebbe finito di mangiare e la ragazza volle sparecchiare e riporre le stoviglie nell'armadio, si accorse che il piatto datole dall'oste in custodia era scomparso. Spaventata, disse all'amante: -Ah, povera me, che farò mai?! La mano è sparita, e così pure il cuore e gli occhi! Che mai sarà di me domattina!-. -Sta' tranquilla- disse il soldato -ti aiuterò io. Dammi solo un coltello affilato: alla forca è appeso un ladro, gli taglierò la mano; sai che mano era?- -La destra.- La fanciulla gli diede un coltello affilato, ed egli andò, tagliò la mano a quel povero peccatore e gliela portò. Poi afferrò il gatto e gli cavò gli occhi; ora mancava soltanto il cuore. -Non avete forse macellato e conservato la carne del porco in cantina?- -Sì- rispose la fanciulla. -Benissimo- disse il soldato; scese in cantina, prese un cuore di porco e lo diede alla fanciulla. Ella mise tutto quanto nel piatto, lo ripose nell'armadio e, quando l'innamorato se ne andò, si mise a letto tranquilla. Al mattino, quando i tre cerusici si alzarono, dissero alla fanciulla che andasse a prendere il piatto in cui erano la mano, il cuore e gli occhi. Ella andò a prenderlo nell'armadio, e il primo si mise la mano del ladro, la spalmò con il suo unguento e la mano gli si attaccò subito. Il secondo si mise gli occhi del gatto, e il terzo il cuore di porco. L'oste se ne stava là ad ammirare la loro arte, e disse di non aver mai visto una cosa simile: ne avrebbe fatto grandi elogi e li avrebbe raccomandati a tutti. Poi essi pagarono il conto e proseguirono il cammino. Mentre camminavano, quello con il cuore di porco non restava con loro, ma correva in ogni angolo a grufolare come fanno i maiali. Gli altri volevano trattenerlo per le falde della giubba, ma non serviva a nulla: egli si liberava e correva là dove c'erano le peggiori immondizie. Anche il secondo si comportava in modo strano, si fregava gli occhi e diceva all'altro: -Camerata, che cosa mi succede? Questi non sono i miei occhi, non vedo niente; ho bisogno di qualcuno che mi guidi perché‚ non cada-. Così a fatica proseguirono il cammino fino a sera, quando giunsero a un'altra locanda. Vi entrarono insieme e in un angolo c'era un ricco signore seduto davanti a un tavolo, e contava dei denaro. Quello con la mano del ladro gli girò attorno, sussultò un paio di volte, e infine, quando il signore si voltò, cacciò la mano nel mucchio e prese una manciata di denaro. Uno dei due cerusici lo vide e disse: -Camerata, che fai? Non si deve rubare, vergognati!-. -Ah- diss'egli -non posso farci niente: è un sussulto che ho nella mano e che mi costringe a rubare, anche se non voglio.- Poi si coricarono per dormire, e quando furono distesi a letto era così buio che non ci si vedeva a un palmo dal naso. D'un tratto, quello con gli occhi da gatto si svegliò, destò gli altri e disse: -Fratelli, guardate un po': non vedete come corrono quei topolini bianchi laggiù?-. Gli altri due si levarono ma non riuscirono a vedere nulla. Allora egli disse: -Qui c'è qualcosa che non va: non abbiamo avuto ciò che ci apparteneva; dobbiamo tornare dall'oste che ci ha ingannati-. Così il mattino dopo tornarono alla locanda e dissero all'oste che non avevano riavuto la loro roba: uno aveva la mano da ladro, il secondo gli occhi di un gatto, e il terzo un cuore di porco. L'oste disse che la colpa era certamente della ragazza e voleva chiamarla; ma quella, avendo visto venire i tre cerusici, era fuggita dalla porticina sul retro e non tornò più. Allora i tre dissero all'oste di dare loro molto denaro, altrimenti avrebbero dato fuoco alla casa. Egli diede loro tutto quello che aveva e che riuscì a racimolare, e con quel denaro i tre se ne andarono via. Bastò loro per tutta la vita, ma avrebbero preferito avere la roba loro.

FINE


 
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La sposa bianca e quella nera

Post n°869 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Un giorno una donna andò nei campi a tagliare il fieno con la figlia e la figliastra. Andò loro incontro il buon Dio, con l'aspetto di un mendicante, e domandò: -Dove passa la strada che conduce al villaggio?-. -Cercatevela da solo!- rispose la madre, e la figlia soggiunse: -Se avete paura di non trovarla, prendetevi una guida!-. Ma la figliastra disse: -Ti condurrò io, pover'uomo: vieni con me-. Allora il buon Dio si adirò con la madre e la figlia, volse loro le spalle e le maledì, che diventassero nere come la notte, e brutte come il peccato. Con la povera figliastra, invece, fu misericordioso, la seguì, e quando furono vicini al villaggio, la benedì e disse: -Scegli tre cose e te le concederò-. Allora la fanciulla disse: -Desidero diventare bella come il sole-. E subito fu bianca e bella come il giorno. -Poi vorrei un borsellino che non si vuoti mai.- Il buon Dio le diede anche il borsellino, ma disse: -Non dimenticare il meglio, figlia mia!-. Ella disse: -Come terza cosa, desidererei andare in Paradiso dopo la mia morte-. Le fu promesso anche questo, e il buon Dio si allontanò. Quando la matrigna tornò a casa con la figlia e vide che erano diventate tutt'e due brutte e nere come il carbone, mentre la figliastra era bianca e bella, la cattiveria si inasprì nel suo cuore, e non pensava ad altro che a farle del male. Ma la figliastra aveva un fratello di nome Reginaldo; ella lo amava molto e gli raccontò tutto quanto le era successo. Un giorno Reginaldo le disse: -Cara sorella, voglio farti un ritratto, per averti sempre davanti agli occhi; perché‚ il mio amore per te è così grande, che vorrei sempre guardarti-. La fanciulla rispose: -Purché‚ tu non lo faccia vedere a nessuno-. Egli fece dunque il ritratto alla sorella, e lo appese in camera sua, nel castello del re, dov'era cocchiere. E tutti i giorni si fermava davanti al ritratto, e ringraziava Dio per la fortuna della sua cara sorella. Il re presso il quale egli serviva aveva da poco perduto la moglie; ed ella era stata così bella che non si poteva trovare un'altra che lo fosse altrettanto, e il re era molto afflitto. Nel frattempo i servitori di corte avevano notato che il cocchiere si fermava ogni giorno davanti al bel ritratto, ne furono invidiosi e lo riferirono al re. Questi si fece portare il ritratto e vide che assomigliava in tutto alla moglie morta, anzi era ancora più bello, sicché‚ se ne innamorò perdutamente. Domandò al cocchiere chi fosse, e quando questi disse che si trattava di sua sorella, il re decise di non volere altra sposa all'infuori di lei. Diede al giovane carrozza, cavalli e splendide vesti d'oro, e lo mandò a prendere la sua sposa. Quando Reginaldo giunse con il messaggio, la sorella ne fu felice; la ragazza nera, invece, andò su tutte le furie per la gelosia e disse alla madre: -A che servono tutte le vostre arti, se non potete procurarmi una simile fortuna!-. Allora la vecchia disse: -Sta' tranquilla che te la procurerò-. E con le sue stregonerie annebbiò gli occhi al cocchiere, che divenne mezzo cieco, e tappò le orecchie alla fanciulla bianca, che divenne quasi sorda. Poi salirono in carrozza, prima la sposa nelle splendide vesti regali, poi la matrigna con sua figlia; e Reginaldo sedeva a cassetta per guidare. Quand'ebbero percorso un tratto di strada, il cocchiere gridò:-Dolce e cara sorellina, chiudi bene la mantellina, la pioggia non deve bagnarti, n‚ il vento impolverarti, quando il re t'accoglierà, tutta bella ti vedrà!-La sposa domandò: -Cosa dice il mio caro fratello?-. -Ah- rispose la vecchia -ha detto che dovresti toglierti la veste d'oro e darla a tua sorella.- Allora ella se la tolse e la porse alla ragazza nera, che le diede in cambio una brutta palandrana grigia. Proseguirono e, dopo un po', il fratello tornò a gridare-Dolce e cara sorellina, chiudi bene la mantellina, la pioggia non deve bagnarti, n‚ il vento impolverarti, quando il re t'accoglierà, tutta bella ti vedrà!-La sposa domandò: -Cosa dice il mio caro fratello?- -Ah- rispose la vecchia -dice che dovresti toglierti la cuffia d'oro e darla a tua sorella.- Ed ella si tolse la cuffia, la diede alla ragazza nera e restò a capo scoperto. Proseguirono e, dopo un po', il fratello tornò a gridare:-Dolce e cara sorellina, chiudi bene la mantellina, la pioggia non deve bagnarti, n‚ il vento impolverarti, quando il re t'accoglierà, tutta bella ti vedrà!-La sposa domandò: -Cosa dice il mio caro fratello?-. -Ah- rispose la vecchia -ti ha detto di guardare fuori dalla carrozza.- In quel momento stavano passando sopra un fiume profondo, e come la sposa si alzò per guardare fuori, le altre due la spinsero, sicché‚ ella precipitò in acqua. Andò a fondo e, nello stesso istante, venne a galla un'anitra bianca come la neve, che nuotò giù per il fiume. Il fratello non si era accorto di nulla, e continuò a guidare finché‚ giunsero a corte. Allora portò al re la fanciulla nera, come se fosse stata sua sorella, e pensava che lo fosse davvero, poiché‚ aveva gli occhi annebbiati, ma vedeva luccicare le vesti d'oro. Quando scorse la spaventosa bruttezza di colei che credeva la sua sposa, il re andò su tutte le furie e ordinò che il cocchiere fosse gettato in una fossa piena di vipere e serpenti. Ma la vecchia strega seppe raggirare e abbagliare così bene il re con le sue arti, che egli tenne con s‚ la madre e la figlia, finì col trovare costei tollerabile e la sposò davvero. Una sera, che la sposa nera sedeva sulle ginocchia del re un'anitra bianca arrivò in cucina, nuotando per lo scolo dell'acquaio, e disse allo sguattero:-Presto, accendi il fuoco. Vicino ad esso mi voglio asciugare e ben bene riscaldare!-Lo sguattero ubbidì e le accese il fuoco nel camino; allora l'anitra si avvicinò e andò a sedervisi accanto, si scrollò e si lisciò le penne col becco. Mentre se ne stava là a riposarsi, domandò -Reginaldo, cosa sta facendo?-Lo sguattero rispose:-E' nel fosso dei tormenti, circondato dai serpenti!-L'anitra domandò ancora:-Che fa la strega nera?-Lo sguattero rispose:-In braccio a Sua Maestà, al calduccio se ne sta!-Disse l'anitra:-Oh Dio, pietà di me!-e uscì a nuoto dallo scolo dell'acquaio. La sera seguente tornò e fece le stesse domande, e così pure la terza sera. Lo sguattero non riuscì a tenersi quel peso sul cuore, andò dal re e gli raccontò ogni cosa. La sera dopo il re andò in cucina, e quando l'anitra introdusse la testa nell'acquaio, prese la spada e le tagliò il collo. E subito l'anitra divenne la più bella fanciulla del mondo, ed era del tutto simile al ritratto che il fratello aveva dipinto. Il re era pieno di gioia, e siccome la fanciulla era tutta bagnata, le fece portare delle vesti sontuose Quand'ella le ebbe indossate, gli raccontò com'era caduta nel fiume; e, per prima cosa, lo pregò di liberare il fratello dalla fossa dei serpenti. Dopo aver esaudito la sua preghiera, il re andò nella stanza dov'era la vecchia strega e domandò: -Che cosa merita colei che fa delle cose così e così?- e le raccontò quel che era successo. Ella era abbagliata, non si accorse di nulla e disse -Merita che la spoglino e la mettano in una botte foderata di chiodi; e alla botte si attacchi un cavallo che la trascini dappertutto-. Così questo fu il destino suo e della sua figlia nera. Il re invece sposò la bella fanciulla, e ricompensò il fratello fedele con ricchezze e onori.

FINE

 

 
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L'allodola che canta e saltella

Post n°868 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un uomo che si preparava a partire per un lungo viaggio e, nel prender commiato dalle sue tre figlie, chiese loro che cosa avrebbero voluto ricevere in dono. La prima voleva delle perle, la seconda diamanti, mentre la terza disse: -Caro babbo, desidero un'allodola che canta e saltella-. Il padre disse: -Sì, se riesco a prenderla l'avrai-. Le baciò tutt'e tre e partì. Quando fu tempo di ritornare a casa, aveva comprato perle e diamanti per le due maggiori, per la minore invece non era riuscito a trovare l'allodola che canta e saltella, benché‚ l'avesse cercata ovunque; e ciò gli dispiaceva perché‚ la figlia più piccola era la sua prediletta. La strada lo condusse attraverso un bosco in mezzo al quale si trovava uno splendido castello e, vicino al castello, un albero, sulla cima del quale egli vide un'allodola che cantava e saltellava. -Ehi, capiti proprio a proposito!- disse tutto contento, e gridò al servo di arrampicarsi sull'albero e di catturare l'uccellino. Ma come questi si avvicinò all'albero, saltò fuori un leone che scosse la criniera e ruggì da far tremare le foglie degli alberi. -Se qualcuno vuole rubarmi l'allodola che canta e saltella, io lo divoro!- Allora l'uomo disse: -Non sapevo che l'uccello ti appartenesse. Posso riscattarmi in qualche maniera?-. -No- rispose il leone -non vi è nulla che possa salvarti se non prometti di accordarmi la prima cosa che ti verrà incontro facendo ritorno a casa; se prometti ti risparmio la vita e ti regalo pure l'uccello per tua figlia.- Ma l'uomo rifiutò e disse: -Potrebbe trattarsi della mia figlia minore: mi vuole bene più di ogni altro e mi corre sempre incontro quando ritorno a casa-. Il servo ebbe paura e disse: -Ma potrebbe anche trattarsi di un gatto o di un cane!- L'uomo si lasciò persuadere e, con il cuore grosso, prese l'allodola che canta e saltella, facendo al leone la promessa di accordargli ciò che, a casa, gli fosse venuto incontro per primo. Quando arrivò a casa, la prima ad andargli incontro fu proprio la sua amata figlia minore; venne di corsa, lo baciò e lo abbracciò e quando vide che aveva portato un'allodola che canta e saltella fu ancora più felice. Ma il padre non poteva rallegrarsi; si mise a piangere e disse: -Ah, mia diletta bambina, ho pagato caro quest'uccellino! In cambio ho dovuto prometterti a un feroce leone, e quando ti avrà in suo potere ti sbranerà e ti divorerà-. Le raccontò come erano andate le cose e la supplicò di non andarci, qualunque cosa accadesse. Ma ella lo consolò e disse: -Carissimo babbo, dovete mantenere ciò che avete promesso: andrò dal leone, lo placherò e farò ritorno da voi sana e salva-. Il mattino seguente si fece indicare il cammino, prese congedo e si addentrò fiduciosa nel bosco. Ma il leone era un principe stregato: di giorno era un leone, e con lui diventavano leoni tutti i suoi cortigiani, ma di notte riprendevano il loro aspetto umano. Al suo arrivo, ella fu accolta gentilmente e fu celebrato il suo matrimonio con la bestia. Quando venne la notte, il leone divenne un bell'uomo ed essi vissero insieme felici per un lungo periodo, vegliando la notte e dormendo durante il giorno. Un giorno egli andò a dirle: -Domani c'è una festa in casa di tuo padre, perché‚ si sposa la tua sorella maggiore. Se desideri andarci i miei leoni ti accompagneranno-. Ella rispose di sì poiché‚ desiderava rivedere il padre; e andò scortata dai leoni. Al suo arrivo la gioia fu grande, poiché‚ tutti avevano creduto che fosse morta da un pezzo, sbranata dal leone. Ella invece raccontò che stava molto bene, e rimase insieme a loro per tutto il tempo delle nozze, poi fece ritorno nel bosco Quando si sposò anche la seconda figlia, e l'invitarono nuovamente a nozze, ella disse al leone: -Questa volta non voglio andare sola, devi venire anche tu!-. Ma il leone non voleva e disse che era troppo pericoloso per lui, perché‚ se fosse stato sfiorato dalla luce di una candela si sarebbe trasformato in una colomba e avrebbe dovuto volare con le colombe per sette anni. Ma ella non gli diede pace dicendo che lo avrebbe protetto e preservato da ogni luce. Così partirono insieme, portando anche il loro piccino. Ella fece costruire una stanza dai muri così spessi e massicci che nessuna luce poteva penetrarvi; là doveva stare il principe quando avrebbero acceso le fiaccole nuziali. Ma la porta era fatta di legno giovane; si spaccò producendo una piccola fessura che tuttavia nessuno notò. Le nozze furono celebrate con gran pompa, ma quando il corteo fece ritorno dalla chiesa e passò davanti alla stanza con tutte le fiaccole e le candele, un tenue raggio di luce cadde sul principe e, non appena l'ebbe sfiorato, egli si trasformò. Quand'ella venne a cercarlo non trovò più il principe, ma una bianca colomba che le disse: -Per sette anni devo volare per il mondo: ma ogni sette passi lascerò cadere una rossa goccia di sangue e una piuma bianca: ti indicheranno il cammino, e se mi segui puoi liberarmi-. Poi la colomba volò fuori dalla porta ed ella la seguì; ogni sette passi cadevano una rossa gocciolina di sangue e una piuma bianca, a indicarle il cammino. Ed ella vagò in giro per il vasto mondo, senza guardarsi attorno e senza riposarsi mai, e i sette anni erano quasi trascorsi: allora ella se ne rallegrò, pensando che la liberazione fosse vicina; e invece era ancora così lontana! Una volta, mentre camminava, le piume e le goccioline di sangue cessarono di cadere, e quand'ella alzò gli occhi, la colomba era sparita. E poiché‚ pensò che nessun essere umano avrebbe potuto aiutarla, salì fino al sole e gli disse: -Tu che splendi nei crepacci e sulle cime, non hai visto volare una colomba bianca?-. -No- rispose il sole -non l'ho vista. Ma voglio regalarti una scatolina: aprila quando ti troverai in difficoltà.- Ella ringraziò il sole e proseguì il suo cammino finché‚ si fece sera e apparve la luna; allora ella chiese: -Tu splendi tutta la notte per campi e per boschi; non hai visto volare una colomba bianca?-. -No- rispose la luna -non l'ho vista. Ma voglio regalarti un uovo: rompilo quando ti troverai in difficoltà.- Ella ringraziò la luna e proseguì il suo cammino finché‚ soffiò il vento di tramontana; allora ella gli disse: -Tu soffi fra gli alberi e sotto le foglie, non hai visto volare una colomba bianca?-. -No- rispose il vento di tramontana -non l'ho vista, ma chiederò agli altri tre venti, forse loro l'hanno vista.- Vennero il vento di levante e il vento di ponente, ma dissero che non avevano visto nulla; invece il vento di mezzogiorno così parlò: -Ho visto io la colomba bianca: è volata fino al mar Rosso dov'è ridiventata un leone, essendo trascorsi i sette anni. Il leone sta combattendo con un drago, ma il drago è una principessa stregata-. Allora il vento di tramontana le disse: -Voglio darti un consiglio: va' fino al mar Rosso, sulla riva destra ci sono delle grosse canne, contale, taglia l'undicesima e con quella colpisci il drago; allora il leone potrà vincerlo e tutti e due riacquisteranno la loro figura umana. Poi guardati attorno e vedrai un grifone in riva al mar Rosso; saltagli sul dorso con il tuo sposo: l'uccello vi porterà a casa sorvolando il mare. Eccoti anche una noce: quando sei in mezzo al mare, lasciala cadere; subito germoglierà e dall'acqua crescerà un grande albero di noci sul quale il grifone si riposerà; se non potesse riposarsi, non sarebbe abbastanza forte per portarvi fino all'altra riva. E se ti dimentichi di lasciar cadere la noce, vi lascerà cadere in mare-. Ella andò e trovò tutto come aveva detto il vento di tramontana. Tagliò l'undicesima canna e con quella colpì il drago, così il leone lo vinse ed entrambi riacquistarono il loro aspetto umano. Ma non appena la principessa, che prima era un drago, fu liberata dall'incanto, prese il braccio del giovane, salì con lui sul grifone e se lo portò via. E la povera pellegrina restò là, di nuovo sola. -Andrò fin dove soffia il vento- disse -e camminerò finché‚ canta il gallo, e lo troverò.- Se ne andò e, cammina cammina, giunse finalmente al castello dove i due vivevano insieme, e udì che stavano per festeggiare le loro nozze. Ma ella disse: -Dio mio, aiutami tu!-. Prese la scatoletta che le aveva dato il sole, e dentro c'era un abito che risplendeva proprio come il sole. Lo tirò fuori, lo indossò e salì al castello e tutta la gente la guardò meravigliata, compresa la fidanzata. A costei l'abito piacque tanto che pensò di farne il proprio abito da sposa, e le domandò se per caso fosse in vendita. -Non con beni o con monete- ella rispose -ma con carne e sangue l'avrete.- La fidanzata le chiese che cosa intendesse dire, ed ella rispose: -Lasciatemi dormire per una notte nella stanza in cui dorme lo sposo-. La fidanzata non voleva, e tuttavia avrebbe voluto avere il vestito e infine acconsentì, però il cameriere dovette dare al principe un sonnifero. Quando fu notte, e il principe si fu addormentato, la condussero nella stanza. Ella si sedette accanto al suo letto e disse: -Ti ho seguito per sette anni, sono andata dal sole, dalla luna e dai quattro venti a chiedere di te; ti ho aiutato contro il drago: ora vuoi proprio dimenticarmi del tutto?-. Ma il principe dormiva così profondamente che gli parve soltanto di sentire là fuori il vento sussurrare fra gli abeti. Allo spuntar del giorno, ella fu ricondotta fuori e dovette consegnare l'abito d'oro. E poiché‚ anche questo non era servito a nulla, si fece triste, andò su di un prato, si mise a sedere e pianse. E mentre se ne stava là seduta, le venne in mente l'uovo che le aveva dato la luna: lo ruppe e ne uscì una chioccia con dodici pulcini tutti d'oro che correvano qua e là pigolando e poi tornavano a rifugiarsi sotto le ali della madre, sicché‚ al mondo non vi era niente di più bello da vedere. Allora la fanciulla si alzò li spinse innanzi sul prato, finché‚ la fidanzata non li vide dalla finestra; e i pulcini le piacquero tanto che subito scese e le domandò se per caso fossero in vendita. Ed ella rispose: -Non con beni o con monete, ma con carne e sangue l'avrete! Lasciatemi dormire ancora una notte nella stanza dove dorme lo sposo-. La sposa acconsentì e voleva ingannarla come la sera precedente. Ma quando il principe andò a letto, chiese al suo cameriere che cosa era stato quel mormorare e quel sussurrare nella notte. Allora il cameriere gli raccontò tutto: aveva dovuto dargli un sonnifero, poiché‚ una povera fanciulla aveva dormito di nascosto nella stanza; e quella notte doveva dargliene un altro. Il principe allora disse: -Versa il sonnifero accanto al letto-. Durante la notte ella fu nuovamente introdotta nella stanza e quando incominciò a raccontare le sue tristi avventure egli riconobbe subito la sua cara sposa dalla voce; balzò in piedi e disse: -Finalmente sono libero; mi pareva di vivere in un sogno: la principessa straniera mi ha stregato perché‚ ti dimenticassi; ma Dio mi ha soccorso in tempo!-. Durante la notte uscirono insieme di nascosto dal castello, poiché‚ temevano il padre della principessa che era un mago; salirono sul grifone che li portò al di là del mar Rosso; e quando furono in mezzo al mare ella lasciò cadere la noce. Subito crebbe un grande albero di noci sul quale l'uccello pot‚ riposarsi, poi li condusse a casa dove trovarono il loro figlio che era diventato grande e bello; e da allora in poi vissero felici fino alla morte.

 
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La berretta di Padova (Pirandello)

Post n°867 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Berrette di Padova: belle berrette a lingua, di panno, a uso di quelle che si portano ancora in Sardegna, e che si portavano allora (cioè a dire nei primi cinquant'anni del secolo scorso) anche in Sicilia, non dalla gente di campagna che usava di quelle a calza di filo e con la nappina in punta, ma dai cittadini, anche mezzi signori; se è vera la storia che mi fu raccontata da un vecchio parente, il quale aveva conosciuto il berrettajo che le vendeva, zimbello di tutta Girgenti allora, perché dei tanti anni passati in quel commercio pare non avesse saputo ricavare altro guadagno che il nomignolo di Cirlinciò, che in Sicilia, per chi volesse saperlo, è il nome d'un uccello sciocco. Si chiamava veramente don Marcuccio La Vela, e aveva bottega sulla strada maestra, prima della discesa di San Francesco.
Don Marcuccio La Vela sapeva di quel suo nomignolo e se ne stizziva molto; ma per quanto poi si sforzasse di fare il cattivo e di mostrarsi corrivo a riavere il suo, non solo non gli veniva mai fatto, ma ogni volta alla fine era una giunta al danno perché, impietosendosi alle finte lagrime dei debitori maltrattati, per compensarli dei maltrattamenti, oltre la berretta ci perdeva qualche pezzo di dodici tarì porto sottomano.
S'era ormai radicata in tutti l'idea che non avesse in fondo ragione di lagnarsi di niente né d'adirarsi con nessuno; giacché, se da un canto era vero che gli uomini lo avevano sempre gabbato, era innegabile dall'altro che Dio, in compenso, lo aveva sempre ajutato. Aveva di fatti una cattiva moglie, indolente, malaticcia, sciupona, e se n'era presto liberato: un esercito di figliuoli, ed era riuscito in breve ad accasarli bene tutti quanti. Ora provvedeva sì gratuitamente di berrette tutto il cresciuto parentado, ma poteva esser certo che esso, all'occorrenza, non lo avrebbe lasciato morir di fame. Che voleva dunque di piú?
Le berrette intanto volavano da quella bottega come se avessero le ali. Gliene portavano via figli, generi, nipoti, amici e conoscenti. Per alcuni giorni egli s'ostinava a correre ora dietro a questo, ora dietro a quello, per riavere almeno, tra tante, il costo di una sola. Niente! E giurava e spergiurava di non voler piú dare a credenza:

– Neanche a Gesú Cristo, se n'avesse bisogno!

Ma ci ricascava sempre.
Ora, alla fine, aveva deciso di chiuder bottega, non appena esaurita la poca mercanzia che gli restava, della quale non avrebbe dato via neppure un filo, se non gli fosse pagato avanti.
Ma ecco venire un giorno alla sua bottega un tal Lizio Gallo, ch'era suo compare.
Per le sue berrette Cirlinciò non temeva del compare. Ben altro il Gallo, in grazia del comparatico, pretendeva da lui. Uomo sodo, denari voleva. E già gli doveva una buona sommetta. Ora dunque basta, eh?

– Che buon vento, compare?

Lizio Gallo aveva in vezzo passarsi e ripassarsi continuamente una mano su i radi e lunghi baffi spioventi e sotto quella mano, serio serio, con gli occhi bassi, sballarne di quelle, ma di quelle! Caro a tutti per il suo buon umore, non pure da Cirlinciò ch'era molto facile, ma dai piú scaltri mercanti del paese riusciva sempre a ottenere quanto gli bisognasse ed era indebitato fino agli occhi, e sempre abbruciato di denari. Ma quel giorno si presentò con un altr'aria.

– Male, compare! – sbuffò, lasciandosi cadere su una seggiola. – Mi sento stanco, ecco, stanco e nauseato.

E col volto atteggiato di tedio e di disgusto, disse seguitando, che non gli reggeva piú l'animo a vivere così d'espedienti e ch'era troppo il supplizio che gli davano i raffacci aperti o le mute guardatacce dei suoi creditori.
Cirlinciò abbassò subito gli occhi e mise un sospiro.

– E pure voi sospirate, compare; vi vedo! – soggiunse il Gallo, tentennando il capo. – Ma avete ragione! Non posso piú accostarmi a un amico, lo so. Mi sfuggono tutti! E intanto, piú che per me, credetemi, soffro per gli altri, a cui debbo cagionare la pena della mia vista. Ah! vi giuro che se non fosse per Giacomina mia moglie, a quest'ora...

– Che dite! – gli diede sulla voce Cirlinciò.

– E sapete che altro mi tiene? – riprese Lizio Gallo. – Quel poderetto che mi recò in dote mia moglie, pur così gravato com'è d'ipoteche. Ho speranza compare, che debba essere la mia salvezza, per via di non so che scavi che ci vuol fare il Governo. Dicono che là sotto ci sono le antichità di Camìco. Uhm! Rottami... Che saranno? Ma, se è vero questo, sono a cavallo. E non dubitate, compare: prima di tutti, penserei a voi. Già il Governatore m'ha fatto sapere che vuol parlare con me. Dovrei andarci domattina. Ma come ci vado?

– Perché? – domandò, stordito, Cirlinciò.

– Con questi stracci? Non mi vedete? Per l'abito, forse, potrei rimediare. Mio cognato, che ha su per giú la mia stessa statura, se n'è fatto uno nuovo da pochi giorni e me lo presterebbe. Ma la berretta? Ha un testone così!

– Ah! Anche voi! – esclamò allora Cirlinciò spalancando tanto d'occhi.

– Come, anch'io? – disse con la faccia piú fresca del mondo il Gallo. – Che son forse solito di andare per via a capo scoperto? Ora questa berretta, vedete? non ne vuol piú sapere.

– E venite da me? – riprese Cirlinciò, col volto avvampato di stizza. – Scusatemi, compare: gnornò! non ve la do! non ve la posso dare!

– Ma io non dico dare. Ve la pagherò.

– Avete i denari?

– Li avrò.

– Niente, allora! Quando li avrete.

– È la prima volta, – gli fece notare, dolente e con calma, il Gallo, – è la prima volta che vengo da voi per una padovana.

– Ma io ho giurato, lo sapete! Ho giurato! ho giurato!

– Lo so. Ma vedete perché mi serve?

– Non sento ragione! Piuttosto, guardate, piuttosto vi do tre tarì e vi dico di andarvela a comprare in un'altra bottega.

Lizio Gallo sorrise mestamente, e disse:

– Caro compare, se voi mi date tre tarì, lo sapete, io me li mangio, e berretta non me ne compro. Dunque, datemi la berretta.

– Dunque, né questa né quelli! – concluse Cirlinciò, duro. Lizio Gallo si levò pian piano da sedere, sospirando:

– E va bene! Avete ragione. Cerco la via per uscire da questi guai e vedo che l'unica, per me, sarebbe di morire, lo so.

– Morire... – masticò Cirlinciò. – C'è bisogno di morire? Tanto, la berretta dovete levarvela in presenza del Governatore.

– Eh già! – esclamò il Gallo. – Bella figura ci farei per istrada con l'abito nuoto e la berretta vecchia! Ma dite piuttosto che non volete darmela.

E si mosse per uscire. Cirlinciò allora, al solito, pentito, lo acchiappò per un braccio e gli disse all'orecchio:

– Vi do tre giorni di tempo per il pagamento. Ma non lo dite a nessuno! Fra tre giorni... badate! sono capace di levarvela dal capo, per istrada, appena vi vedo passare. Sono porco io, se mi ci metto!

Aprì lo scaffale e ne trasse una bellissima berretta di Padova. Lizio Gallo se la provò. Gli andava bene.

– Quanto mi pesa! – disse, scotendo il capo. – Mi sentivo male, venendo qua; voi mi avete dato il colpo di grazia, compare!

E se ne andò.
Tutto poteva aspettarsi il povero Cirlinciò, tranne che Lizio Gallo, dopo due giorni, dovesse davvero morire!
Si mise a piangere come un vitello, dal rimorso, ripensando – ah! – alle ultime parole del compare – ah! – gli pareva di vederselo ancora lì, nella bottega, nell'atto di tentennare amaramente il capo, – ah! – ah! – ah!
E corse alla casa del morto, per condolersi con la vedova donna Giacomina.
Per via, tanta gente pareva si divertisse a fermarlo:

– È morto Lizio Gallo, sapete?

– E non vedete che piango?

Tutti in paese ne facevano le lodi e ne commiseravano la fine immatura, pur sorridendo mestamente al ricordo delle sue tante baggianate. I molti creditori chiudevano gli occhi, sospirando, e alzavano la mano per rimettergli il debito.
Cirlinciò trovò donna Giacomina inconsolabile. Quattro torcetti ardevano agli angoli del letto su cui il compare giaceva, coperto da un lenzuolo. Piangendo, la vedova narrò al compare com'era avvenuta la disgrazia.

– A tradimento, – diceva. – Ma già, volendola dire, da parecchio tempo, Lizio mio non pareva piú lui!

Cirlinciò piangendo annuiva e in prova narrò alla vedova l'ultima visita del compare alla bottega.

– Lo so! lo so! – gli disse donna Giacomina. – Ah, quanto se ne afflisse, povero Lizio mio! Le vostre parole, compare, gli rimasero confitte nel cuore come tante spade!

Cirlinciò pareva una fontana.

– E piú mi piange il cuore, – seguitò la vedova, – che ora me lo vedrò portar via sul cataletto dei poveri, sotto uno straccio nero...

Cirlinciò allora, con impeto di commozione, si profferse per le spese d'una pompa funebre. Ma donna Giacomina lo ringraziò; gli disse esser quella l'espressa volontà del marito, e che lei voleva rispettarla, e che anzi il marito non avrebbe neppur voluto l'accompagnamento funebre, e che infine aveva indicato la chiesa ove, da morto, voleva passare l'ultima notte, secondo l'uso: la chiesetta cioè di Santa Lucia, come la piú umile e la piú fuorimano, per chi se ne volesse andare quasi di nascosto, senza mortorio.
Cirlinciò insistette; ma alla fine si dovette arrendere alla volontà della vedova.

– Ma quanto all'accompagnamento – disse, licenziandosi, – – siate pur certa che tutto il paese oggi sarà dietro il povero compare.

E non s'ingannò.
Ora, andando il mortorio per la strada che conduce alla chiesetta di Santa Lucia, avvenne a Cirlinciò, il quale si trovava proprio in testa dietro al cataletto che quattro portantini, due di qua, due di là, sorreggevano per le stanghe, di fissare gli occhi lagrimosi su quella sua fiammante berretta di Padova, che il morto teneva in capo e che spenzolava e dondolava fuori della testata del cataletto. La berretta che il compare non gli aveva pagata. Tentazione!
Cercò piú volte il povero Cirlinciò di distrarne lo sguardo; ma poco dopo gli occhi tornavano a guardarla, attirati da quel dondolio che seguiva il passo cadenzato dei portantini. Avrebbe voluto consigliare a uno di questi di ripiegare sul capo al morto la berretta e porvi sopra la coltre per fermarla.

« Ma sì! Non ci mancherebbe altro », rifletteva, poi, « che io, proprio io vi richiamassi l'attenzione della gente. Già forse, vedendomi qua e guardando questa berretta, tutti ridono di me, sotto i baffi. »

Morso da questo sospetto, lanciò due occhiatacce oblique ai vicini, sicuro di legger loro negli occhi il temuto dileggio; poi si rivolse con rabbioso rammarico alla berretta dondolante. – Com'era bella! com'era fina! E ora, – peccato! – o sarebbe andata a finire sul capo a un becchino, o sottoterra, inutilmente, col compare.
Questi due casi, e maggiormente il primo ch'era il piú probabile, cominciarono a esagitarlo così, che, senza quasi volerlo, si diede a pensare se ci fosse modo di riavere quella berretta. Lanciò di nuovo qualche occhiata intorno e s'accorse che molti, procedendo, seguivano quel dondolar cadenzato, che a lui cagionava tante smanie, anzi un vero supplizio. Gli parve perfino che, prendendo quasi a materia il rumore dei passi dei portantini, quel dondolio ripetesse forte, a tutti, senza posa:

È stato – gabbato,
È stato – gabbato...

No, perdio, no! Anche a costo di passare l'intera nottata nascosto nella chiesetta di Santa Lucia, egli doveva, doveva riavere quella berretta ch'era sua! Tanto, che se ne faceva piú il compare, morto? Era nuova fiammante! ed egli avrebbe potuto rimetterla, senz'altro, dentro lo scaffale. Poiché, perdio, non si trattava soltanto di mantenere un proposito deliberato, ma anche di non venir meno a un giuramento fatto, ecco, a un giuramento! a un giuramento!
Così, quando il mortorio giunse (ch'era già sera chiusa) alla chiesetta fuorimano dove lo scaccino aveva preparato i due cavalletti su cui il misero feretro doveva esser deposto, mentre la gente assisteva alla benedizione del cadavere, andò a nascondersi quatto quatto dietro un confessionale.
Come la chiesa fu sgombra, lo scaccino con la lanterna in mano si recò a chiudere il portone, poi entrò in sagrestia a prender l'olio per rifornire un lampadina votivo davanti a un altare.
Nel silenzio della chiesa, quei passi strascicati rintronarono cupamente.
Della solenne vacuità dell'interno sacro, nel bujo, Cirlinciò ebbe in prima tale sgomento, che fu lì lì per farsi avanti e pregare il sagrestano, che lo facesse andar via. Ma riuscì a trattenersi.
Rifornito d'olio il lampadino, quegli si accostò pian piano al feretro; si chinò; poi, senza volerlo, volse in giro uno sguardo e, prima di ritirarsi nella sua cameruccia sopra la sagrestia a dormire, tolse pulitamente con due dita la berretta al morto, e se la filò zitto zitto.
Cirlinciò non se n'accorse. Quando sentì chiudere e sprangare la porta della sagrestia, gli parve che la chiesa sprofondasse nel vuoto. Poi, nella tenebra, si avvisò a mala pena quel lumicino davanti all'altare lontano; a poco a poco quel barlume si allargò, si diffuse, tenuissimo, intorno. Gli occhi di Cirlinciò cominciarono a intravedere a stento, in confuso, qualche cosa. E allora, cauto, trattenendo il fiato, si provò a uscire dal nascondiglio.
Ma, contemporaneamente, altri due che si erano nascosti nella chiesetta con lo stesso intento, s'avanzavano cheti e chinati come lui, e con le mani protese, verso il feretro, ciascuno senza accorgersi dell'altro.
A un tratto però tre gridi di terrore echeggiarono nella chiesetta buja.
Lizio Gallo, credendosi solo ormai, s'era levato a sedere sul cataletto, imprecando al sagrestano e tastandosi la testa nuda. A quei tre gridi, urlò, anche lui, spaventato:

– Chi è là?

E, istintivamente, si ridistese sul cataletto, tirandosi di nuovo addosso la coltre.

– Compare... – gemette una voce soffocata dall'angoscia.

– Chi è?

– Cirlinciò?

– Quanti siamo?

– Porco paese! – sbuffò allora Lizio Gallo buttando all'aria la coltre e levandosi in piedi. – Per una berrettaccia di Padova! Quanti siete? Tre? Quattro? E voi, compare?

– Ma come! – balbettò Cirlinciò, appressandosi tutto tremante. – Non siete morto?

– Morto? Vorrei esserlo, per non vedere la vostra spilorceria! – gli gridò il Gallo, indignato, sul muso. – Come! non vi vergognate? Venire a spogliare un morto, come quel mascalzone del sagrestano! Ebbene, non la ho piú, vedete? se l'è presa! E dire che l'avevo promessa a uno dei portantini... Non si può piú neanche da morti esser lasciati in pace, al giorno d'oggi, in questo porco paese! Speravo di farmi rimettere i debiti... Ma sì! Quanti siete? tre, quattro, dieci, venti? Avreste la forza di tenere il segreto? No! E dunque facciamola finita!

Li piantò lì, allocchiti, intontiti come tre ceppi d'incudine, e andò a tempestare di calci e di pugni la porta della sagrestia.

– Ohé! ohé! Mascalzone! Sagrestano!

Questi accorse, poco dopo, in mutande e camicia, con la lanterna in mano, tutto stravolto.

Lizio Gallo lo agguantò per il petto.

– Va a ripigliarmi subito la berretta, pezzo di ladro!

– Don Lizio! – gridò quello, e fu per cadere in deliquio.

Il Gallo lo sostenne in piedi, scrollandolo furiosamente.

– La berretta, ti dico sporcaccione! E vieni ad aprirmi la porta. Non faccio piú il morto.

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Ireneo e Walkiria

Post n°866 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

No,carissima lettrice pettegolona!
Mi dispiace deluderti,ma Ireneo Cornacchioni, il nostro beneamato parroco di S.Tobia, non ha perso la testa per una stangona tedesca e non sta affatto pensando di buttare la tonaca alle ortiche!
Walkiria non è una donna,ma è semplicemente WALKIRIA666,lavatrice tedesca modernissima e all'avanguardia.
Già vi chiederete che abbiano in comune un prete e una lavatrice,e se mi date un attimo vengo e mi spiego.
Dovete sapere che il mese scorso la lavatrice della canonica (modello vecchissimo dell'01 quando un c'era nessuno) ha reso l'anima al dio degli elettrodomestici dopo 35 anni di onorato servizio.
Il pretone non sapeva a che santo votarsi,quando il caso ha voluto che il vescovo Ildebrando venisse a sapere del suo grave problema e decidesse,in uno slancio di amore cristiano,di provvedere lui,regalandogli la lavatrice più moderna sul mercato.
Già vi vedo inteneriti e commossi.
Beh,non c'è nulla da commuoversi!
In una settimana WALKIRIA666 (il numero non è affatto casuale,come scoprirete9) ne ha combinate di tutte.
Se pensate che esageri,leggete qui:non solo vi ricrederete,ma comincerete a guardare la vostra lavatrice con occhi ben diversi!
LUNEDI'- Nel pomeriggio la colf di Ireneo,la magrebina Fatima Makimammazzameh,ha deciso di inaugurare la nuova lavatrice.
Non appena ci ha messo il detersivoin polvere (essendo Ireneo molto avaro,usa un detersivaccio prodotto a Tukambakabalodisotto,che si fa spedire in quantità industriale)la lavatrice ha emesso un sinistro fumo azzurrino,
poi ha cominciato a lampeggiare furiosamente;da sotto di essa è cominciata a uscire una fanghiglia verdastra,
che ben presto ha invaso tutta la casa.
Non vi dico la puzza.
Fatima,scivolata,ha rischiato di annegarci dentro.
MARTEDI'- Walkiria ha gradito il nuovo detersivo,ma non l'ammorbidente.
Non appena Fatima l'ha messo nell'apposita vaschetta,la lavatrice ha emesso un ronzio minaccioso,poi ha cominciato a girare senza che la di potesse fermare,sempre più velocemente.
Fatima ha tentato di spegnerla,ma non chiedetemi come il dito le si è incastrato nel pulsante e non è stato possibile liberarla.
Walkiria ha continuato a girare per dodici ore e per dodici ore la povera Fatima è rimasta attaccata a lei.
MERCOLEDI'- Belva è rimasto incastrato per la coda nello sportello della lavatrice (non chiedetemi cone ha fatto,lo ha fatto e basta).
Ireneo e Fatima hanno tentato in tutti i modi di liberare il cagnazzo,ma non c'è stato verso.
Solo dopo 8 ore il portello si è aperto,emettendo un suono che pareva un ghigno derisorio.
Finalmente libero,Belva è schizzato in cima al fico,ben deciso a non scendere da lì.
GIOVEDI'- Stavolta lo sportello non si è chiuso bene.
Risultato:la canonica è allagata e ovunque galleggiano i panni sporchi di Ireneo,sparati ovunque dalla terribile Walkiria.
VENERDI'- Oggi Ireneo si è recato a Firenze ed è tornato a tarda sera.
Ha trovato i paesani imbufaliti,che per poco non lo hanno linciato.
Walkiria,lasciata a se stessa (Fatima aveva il giorno libero),aveva cominciato a emettere bip sempre più acuti e assordanti e andava avanti così da 14 ore!
Ireneo è vivo per miracolo.
Non appena è entrato in casa,Walkiria ha smesso.
SABATO-Oggi Ireneo ha invitato a pranzo l'Ildebrando.
Quando l'anziano prelato è andato in bagno per lavarsi le mani,Ireneo lo ha preso a fagotto e ha tentato di infilarlo dentro la lavatrice,col dichiarato proposito di levarlo dal mondo.
Per levarglielo di sotto ci sono voluti i dieci uomini più forti di S.Tobia.
Sono passati tre giorni.
Fatima è ricoverata nella clinica Luminaris:ieri,armata di fucile,ha fatto irruzione a MediaWorld,decisa a giustiziare tutte le lavatrici.
Ireneo è in carcere per tentato omicidio.
L'Ildebrando è partito nottetempo per Tukambakabalodisotto,dove rimarrà a tempo indeterminato.
L'infernale Walkiria sta buona e ferma nel bagno della canonica,ma solo Dio sa quali oscuri progetti trami.
Il qui scrivente passa e chiude





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A Dio (Gassmann)

Post n°865 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Sempre ti chiamo
quando tocco il fondo,
so il numero a memoria
e ti disturbo come un maniaco
abbarbicato al telefono;
lascio un messaggio se sei fuori.
So che a volte cancelli
a qualche fortunato
il debito che tutti con te abbiamo.
La bolletta falla pagare a me,
ma dimmi almeno
che non farai tagliare la mia linea.
Ti prego, quando echeggerà
quell'ultimo e dolorante squillo,
Dio-per-Dio!
non staccare: rispondimi!

 
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Libri dimenticati:Io ciccione

Post n°864 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Un divo del muto acclamatissimo,amato dal pubblico per il suo aspetto di brav'uomo obeso,dal sorriso disarmante:questo è Roscoe Arbuckle,noto a tutti come Fatty,grandissimo amico di Buster Keaton e Charles Chaplin.
Nel 1921,però,durante una festa nella sua suite,una ragazza muore e lui viene accusato di stupro e omicidio.
Comincia così il suo declino,fino alla sua morte solitaria

 
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Frase del giorno

Post n°863 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Se un son grulli un si vogliano

 
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