Messaggi del 02/10/2011

L'ultimo sogno della vecchia quercia

Post n°884 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nel bosco in cima alla collina, verso la spiaggia aperta, si trovava una vecchissima quercia che aveva proprio trecentosessantacinque anni, ma questo lungo periodo di tempo corrisponde per la quercia a non più di altrettanti giorni per noi uomini; noi ci svegliamo al mattino, dormiamo di notte e facciamo i nostri sogni; per gli alberi è diverso: restano svegli per tre stagioni e solo d'inverno dormono, l'inverno è il loro periodo di riposo, è la loro notte dopo il lungo giorno che si chiama primavera, estate e autunno.
Per molte giornate estive le effimere avevano danzato intorno alla sua corona di foglie, avevano vissuto, volato e erano state felici, e quando quelle creaturine si riposavano un attimo, nella loro beatitudine, su una delle grosse foglie fresche della quercia, questa diceva «Poverine! Tutta la vostra vita dura solo un giorno! com'è corta! è così triste!».
«Triste?» rispondevano sempre le effimere «che cosa intendi? Tutto è straordinariamente limpido, così caldo e bello, e noi siamo felici!»
«Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!»
«Finito?» dicevano le effìmere «che cosa è finito? Anche tu finisci?»
«No, io vivrò probabilmente ancora migliaia dei vostri giorni e la mia giornata corrisponde a un anno intero. È un tempo così lungo che non siete neppure in grado di immaginarlo!»
«No, ma non ti capiamo. Tu hai migliaia dei nostri giorni, ma noi abbiamo migliaia di momenti di gioia e di felicità! Finirà tutta la bellezza di questo mondo, quando tu morirai?»
«No» rispose l'albero «durerà certamente a lungo e molto più a lungo di quanto si possa pensare!»
«Allora è proprio lo stesso, solo che calcoliamo in modo diverso!»
L'effìmera danzò e si mosse nell'aria, si rallegrò per le sue sottili ali ben fatte di velluto e di veli, si rallegrò per l'aria mite, dove si diffondeva un forte profumo che veniva dal campo di trifoglio e dalle rose selvatiche della siepe, dal sambuco e dal caprifoglio, per non parlare dell'asperula odorosa, della primula e della menta selvatica; il profumo era così intenso che l'effìmera credette di essere un po' ubriaca. Il giorno fu lungo e bellissimo, pieno di gioia e di dolci sensazioni; quando il sole tramontò l'effimera si sentì, come sempre, piacevolmente stanca per tutto quel divertimento. Le ali non la volevano più sostenere, così si posò lentamente su un morbido stelo d'erba ondeggiante, piegò la testa come potè e si addormento felice: era la morte.
«Povera piccola effìmera!» esclamò la quercia «è stata una vita molto breve!»
Ogni giorno d'estate si ripeteva la stessa danza, lo stesso discorso, la stessa risposta, e lo stesso sonno finale; si ripeteva per ogni generazione di effimere e tutte erano ugualmente felici, ugualmente gaie. La quercia rimase sveglia al mattino della primavera, al mezzogiorno dell'estate e alla sera dell'autunno; ora era quasi tempo di dormire: la sua notte, l'inverno, stava arrivando.
Già le tempeste cantavano: «Buona notte! Buona notte! È caduta una foglia, un'altra! Noi le raccogliamo. Cerca di dormire! Ti canteremo la ninna nanna, ti scuoteremo nel sonno, ma questo giova ai vecchi rami, vero? Scricchiolano già dalla gioia! dormi bene! dormi bene! È la tua trecentosessantacinquesima notte, in realtà hai solamente un anno! dormi bene! Le nuvole ti cospargeranno di neve che diventerà come un lenzuolo, un tiepido tappeto ai tuoi piedi; dormi bene e sogni d'oro!».
La quercia si spogliò del suo fogliame per potersi riposare nel lungo inverno e sognare molte volte, sempre qualche esperienza vissuta, proprio come i sogni degli uomini.
Una volta era stata piccola e aveva tratto origine da una ghianda; secondo il calcolo degli uomini stava vivendo il suo quarto secolo, era l'albero più grande e più robusto del bosco: con la sua corona dominava su tutti gli altri alberi e la si vedeva anche da molto lontano, dal mare aperto costituiva un punto di riferimento per le navi. Non sapeva neppure quanti occhi la cercavano. In cima alle sue fronde verdi si era stabilita la colomba, e il cuculo gridava il suo cucù; in autunno, quando le foglie sembravano lamine di rame battuto, arrivavano gli uccelli migratori e vi si riposavano prima di partire per il mare aperto. Ora però era inverno, l'albero era senza foglie, e si vedeva con chiarezza il disegno dei rami contorti e nodosi. Le cornacchie e i corvi vi si posavano a turno e parlavano dei tempi diffìcili che stavano per cominciare e delle difficoltà invernali per trovare il cibo.
Era quasi il giorno di Natale quando la quercia fece il suo sogno più bello: ascoltiamolo!
Ebbe la sensazione che quella fosse una giornata di festa, le sembrò di sentire tutte le campane delle chiese suonare a festa e le sembrò anche che fosse un bel giorno estivo, tanto l'aria era calda e mite; la quercia allargava il suo fitto fogliame, fresco e verde, i raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l'aria era piena del profumo delle erbe e dei cespugli, le farfalle variopinte giocavano "a prendersi" e le effìmere ballavano, era come se tutto esistesse affinché potessero ballare e divertirsi. Tutto quello che l'albero aveva vissuto e visto nei suoi lunghi anni di vita, gli sfilò davanti, come in un corteo. Vide cavalieri e dame dei tempi antichi, con le piume sui cappelli e i falchi in pugno, cavalcare nel bosco; il corno da caccia risuonò e i cani abbaiarono. Vide i soldati nemici con armi lucenti, abiti variopinti e lance e alabarde montare e smontare le tende; i fuochi delle sentinelle ardevano e si cantava e si dormiva sotto i rami tesi della quercia. Vide anche gli innamorati che s'incontravano pieni di gioia al chiaro di luna e incidevano i loro nomi, le loro iniziali, nella sua corteccia grigio-verde.
Una volta, moltissimi anni prima, cetre e arpe eolie erano state appese ai suoi rami da alcuni giovani viaggiatori; ora erano ancora li appese e risuonavano con tanta dolcezza. Le colombe tubavano come volessero raccontare quello che l'albero provava, e il cuculo gridò il suo cucù per tante volte quante erano i giorni d'estate che la quercia avrebbe vissuto.
Fu come se un nuovo flusso di vita scorresse dalle radici più piccole fino ai rami più esposti, fino alle foglie; l'albero sentì che si stava allargando, sentì con le radici che anche nella terra c'era vita e calore; sentì crescere le sue forze e crebbe sempre più alto. Il tronco s'innalzò senza un attimo di sosta, continuò a crescere, la corona di foglie si infìtti, si allargò, si sollevò, e, crescendo l'albero, cresceva anche il suo senso di benessere, il suo desiderio beatificante di andare sempre più in alto, fino al caldo sole luminoso.
Ormai era già cresciuto oltre le nubi, che come schiere di neri uccelli migratori o come stormi di grandi cigni bianchi passavano sotto di lui!
Ogni foglia della quercia poteva vedere quasi avesse avuto gli occhi; le stelle erano visibili alla luce del giorno, così grosse e luccicanti, brillavano come occhi chiari e trasparenti e ricordavano tutti quei cari occhi conosciuti, appartenuti ai bambini, agli innamorati che si erano incontrati sotto la quercia.
Che momento meraviglioso e che gioia! Eppure, in tutta quella gioia, la quercia provò nostalgia, e desiderò che tutti gli altri alberi del bosco, tutti i cespugli, le erbe e i fiori si potessero innalzare insieme a lei, e potessero provare quella gioia e godere quello splendore. La grande quercia, nel suo sogno di grandezza, non era completamente felice se non aveva con sé tutti quanti, grandi e piccini, e questo sentimento si ripercosse in modo profondo tra le foglie e i rami, come fosse stato un cuore umano.
Il fogliame della quercia ondeggiò quasi in un gesto di nostalgia, riandò al passato e risentì il profumo delle asperule e subito dopo, ancor più intenso, quello dei caprifogli e delle viole, poi le sembrò di sentire il cuculo cantare.
Tra le nuvole spuntavano le cime verdi degli altri alberi del bosco; la quercia vide che, sotto di sé, gli altri alberi crescevano e si innalzavano come lei, i cespugli e le erbe si tendevano verso l'alto; alcuni di loro si liberarono delle radici e si innalzarono prima degli altri. La betulla fu la più veloce, come un raggio bianco luminoso il suo tronco slanciato si allungò, i rami si piegarono come verdi veli o bandiere; tutta la natura del bosco, persino le canne brune e piumate, cresceva con la quercia, e gli uccelli la seguivano cantando; su un filo d'erba che pareva uno svolazzante nastro di seta verde stava una cavalletta che suonava con le ali; i maggiolini brontolavano e le api ronzavano; ogni uccello usava il proprio strumento, e tutto fu un solo canto di gioia verso il cielo.
«Quel fiorellino rosso che si trovava vicino all'acqua, anche lui doveva salire!» esclamò la quercia «e anche la campanula azzurra, e la margheritina!» Certo, la quercia li voleva tutti con sé.
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!» si sentiva risuonare.
«E quelle belle asperule dell'estate scorsa; e l'anno prima c'era un'aiuola di mughetti! e il melo selvatico, come era bello! E tutta quella bellezza del bosco, per tanti e tanti anni! Se fossero vissuti fino a oggi, sarebbero potuti venire anche loro!»
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!» si sentì di nuovo ancora più in alto; sembrava che la avessero preceduta in volo.
«È troppo bello per potervi credere!» gridò la quercia piena di gioia. «Sono tutti qui, grandi e piccoli! Nessuno è stato dimenticato! Dove è possibile immaginare una tale beatitudine?»
«Nel regno di Dio è possibile e immaginabile!» si sentì risuonare.
La quercia, che continuava a crescere, sentì che le radici si erano staccate dalla terra.
«Adesso è ancora meglio!» commentò «ora non c'è più nulla che mi trattiene! Posso volare in cielo fino all'Onnipotente, nella luce e nella magnificenza. E ho con me tutti i miei cari. Grandi e piccoli. Tutti quanti, tutti!»
Questo fu il sogno della quercia, ma mentre sognava ci fu una violenta tempesta sia in mare che sulla terra, proprio nella notte santa di Natale; il mare rovesciò grosse onde sulla spiaggia, l'albero scricchiolò, si schiantò e si sradicò proprio nel momento in cui la quercia sognò che le radici si erano liberate. La quercia cadde. I suoi trecentosessantacinque anni valevano ormai come un sol giorno dell'effimera.
Il mattino di Natale, quando spuntò il giorno, la tempesta si era ormai calmata. Tutte le campane delle chiese suonarono a festa e da ogni camino, anche da quello così piccolo del bracciante, si levò il fumo, azzurro come quello che nelle feste dei druidi si levava dall'ara; era il fumo del sacrificio, del ringraziamento. Il mare divenne sempre più calmo e su una grande imbarcazione che durante la notte aveva affrontato quel tempaccio terribile si innalzarono ora tutte le bandiere, per festeggiare il Natale.
«L'albero non c'è più! La vecchia quercia, il nostro punto di riferimento sulla terra!» esclamarono i marinai. «È caduta con la tempesta di questa notte. Potremo mai sostituirla con qualcos'altro?»
Fu questo il breve, ma accorato discorso funebre per la quercia, che si trovava distesa su un manto di neve sulla spiaggia; sopra di lei risuonò l'inno cantato sulla nave, quello sulla gioia del Natale, sulla liberazione degli uomini in Cristo e sulla vita eterna.
Cantate al cielo,
Cantate Alleluia, schiere della Chiesa, Questa gioia è senza uguali! Alleluia, Alleluia!
Così diceva l'antico inno, e ognuno di coloro che si trovavano sulla nave si sentì sollevare da quelle parole e dalle preghiere, proprio nello stesso modo in cui la quercia si era sentita innalzare nel suo ultimo e magnifico sogno della notte di Natale.

FINE



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Il rospo

Post n°883 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

l pozzo era profondo, quindi la corda era lunga e la carrucola girava a fatica quando bisognava sollevare il secchio pieno d'acqua fino oltre il bordo del pozzo. Il sole non riusciva mai a specchiarsi nell'acqua, sebbene questa fosse trasparente, ma fin dove riusciva a brillare cresceva il verde tra le pietre.
Al pozzo abitava una famiglia di rospi, emigrati, in realtà giunti lì a capofitto con una vecchia madre rospo che ancora viveva; le verdi rane che vi abitavano da moltissimo tempo e nuotavano nell'acqua li riconobbero come cugini, ma li considerarono soltanto ospiti venuti a passare le acque, mentre loro avevano tutta l'intenzione di rimanere lì: vivevano molto meglio all'asciutto, come chiamavano quelle pietre bagnate.
Mamma rana una volta aveva viaggiato, si era trovata nel secchio che veniva tirato su, ma c'era troppa luce per lei e le aveva causato una lesione agli occhi; fortunatamente riuscì a saltar fuori dal secchio, cadde in acqua con un tonfo terribile e rimase a letto per tre giorni con il mal di schiena. Non sapeva raccontare molto del mondo che c'era fuori, ma sia lei che tutti gli altri sapevano che il pozzo non era tutto il mondo. Mamma rospo avrebbe potuto raccontare molto di più, ma non rispondeva mai quando le veniva chiesto qualcosa, e così non le si chiedeva mai nulla.
«È grassa, brutta e tozza!» dicevano le giovani rane verdi. «I suoi piccoli diventeranno altrettanto grassi!»
«È probabile!» rispondeva mamma rospo «ma uno di loro ha una gemma preziosa nella testa, o forse ce l'ho io.»
Le verdi rane ascoltarono e spalancarono gli occhi, ma dato che a loro la cosa non piaceva, fecero le smorfie e tornarono sul fondo. I giovani rospi invece tesero la zampette di dietro con grande fierezza. Ciascuno di loro credeva di avere la gemma preziosa; e così tennero per un po' la testa immobile, ma alla fine chiesero di che cosa dovevano essere fieri e che cosa fosse in realtà una tale gemma.
«È qualcosa di splendido e di prezioso!» disse mamma rospo. «Ma io non posso descrivetelo, è qualcosa che dà piacere a chi la possiede e fa rabbia agli altri, ma non chiedete, io non rispondo.»
«Io non ho la gemma preziosa» esclamò il rospo più piccolo, che era tanto brutto. «Perché dovrei avere io una tale bellezza? Se poi questa fa arrabbiare gli altri, come farei a esserne felice? No, io desidero solo poter arrivare una volta in cima al pozzo a guardare fuori; deve essere bello!»
«È meglio che resti dove sei!» disse la vecchia. «Questo posto lo conosci ormai, sai com'è! Stai attento al secchio: quello ti schiaccia. E se anche riesci a entrarci, puoi cadérne fuori male, non tutti cadono bene come me, che ho conservato le membra intatte e anche tutte le uova.»
«Cra!» disse il piccolo, e questo corrisponde al nostro "Ahimè!".
Il piccolo rospo aveva una gran voglia di uscire sull'orlo del pozzo, di guardare fuori, sentiva una specie di nostalgia per il verde che c'era lassù: così quando il mattino dopo per caso il secchio pieno d'acqua si fermò un attimo davanti alla pietra dove si trovava lui, si emozionò tanto che saltò dentro nel secchio pieno e cadde in fondo all'acqua che, una volta tirata su, venne versata.
«Uh, che orrore!» gridò il garzone che lo vide. «È la cosa più schifosa che abbia mai visto» e gli diede un calcio con lo zoccolo e il rospo rischiò di rimanere storpio, ma riuscì a scamparla rifugiandosi tra le alte ortiche. Vide gli steli, uno vicino all'altro, e guardò anche in su: il sole brillava tra le foglie trasparenti, e lui provò la stessa sensazione che proviamo noi uomini quando improvvisamente ci troviamo in un grande bosco dove il sole brilla tra i rami e le foglie.
"Qui è molto più bello che giù nel pozzo! Qui si può avere voglia di rimanere per tutta la vita!" esclamò il piccolo rospo. Rimase lì un'ora, forse due. "Che cosa ci sarà là fuori? Se sono arrivato fin qui, devo guardare oltre" così strisciò più in fretta che potè e uscì sulla strada, dove il sole brillava e dove la polvere lo ricoprì, mentre attraversava la via.
"Qui sì che ci si trova all'asciutto!" commentò il rospo "si sta fin troppo bene, ho un solletico!"
Arrivò al fosso dove crescevano i non-ti-scordar-di-me e le spiree, c'erano siepi di sambuco e di biancospino, cresceva il convolvolo arrampicandosi sulle piante; c'erano tanti colori, volava anche una farfalla, ma il rospo credette che quello fosse un fiore alzatosi dallo stelo per vedere meglio il mondo, e sarebbe stato così naturale!
"Se solo potessi essere veloce come lei!" pensò il rospo. "Cra! Cra! che bellezza!"
Rimase otto giorni e otto notti vicino al fosso e non gli mancava certo il cibo. Il nono giorno pensò: "Avanti!", ma che cosa si poteva trovare di più bello? Forse una rospetta o qualche rana verde! L'ultima notte gli era parso di sentire, col vento, come un suono di parenti nelle vicinanze.
"Che bello vivere! Uscire dal pozzo, stare tra le ortiche strisciare lungo la strada impolverata e riposarsi vicino al fosso! Ma avanti! Cerchiamo di trovare una rana o una rospetta, non si può farne a meno, la natura da sola non è abbastanza!" E così ricominciò a viaggiare.
Arrivò in un campo vicino a un grande stagno circondato di salici e cercò lì dentro.
«Forse qui è troppo umido per lei?» chiesero le rane «ma lei è benvenuto. Lei è un signor rospo o una signora? Comunque non importa, è benvenuto ugualmente.»
Così venne invitato al concerto della sera, un concerto di famiglia: grande entusiasmo e vocine flebili! noi conosciamo bene queste cose. Non c'era niente da mangiare, solo bibite a volontà, tutto lo stagno, se si voleva.
"Proseguiamo nel viaggio!" si disse il piccolo rospo, sentiva sempre il bisogno di qualcosa di meglio.
Vide le stelle che brillavano, grandi e luminose, vide la luce della luna nuova, vide il sole sorgere sempre più alto.
"Io mi trovo ancora in un pozzo, in un pozzo più grande; devo andare ancora più su! Sono così inquieto e ho una tale nostalgia!" E quando la luna divenne piena, il povero animale pensò: "È forse quello il secchio che viene calato e nel quale io devo saltare per arrivare più in alto? O è forse il sole il grande secchio? Com'è grande, com'è pieno di raggi, come ci contiene tutti! Non devo perdere l'occasione! Come brilla sulla mia testa! Non credo che la gemma preziosa possa brillare di più! Ma io non ce l'ho e non piango certo per questo; no, devo andare più su nel bagliore e nella gioia! Ho una certezza, e pure una paura, è diffìcile fare un passo simile, ma bisogna! Avanti, avanti per la strada maestra!". E si rimise a camminare come può fare un animale strisciante e giunse sulla strada dove abitavano gli uomini; c'erano giardini pieni di fiori e orti di cavoli, lui si riposò vicino a un orto di cavoli.
"Oh, quante strane creature che non ho mai visto! E come è grande e benedetto il mondo! Ma uno naturalmente deve guardarsi intorno, non può rimanere seduto sempre in un posto" e così saltò dentro l'orto di cavoli. "Com'è verde! Com'è bello!"
«Lo so!» disse un bruco che stava su una foglia. «La mia foglia è la più grande qui. Nasconde mezzo mondo, ma ne posso fare a meno.»
«Glo, glo!» si sentì: arrivavano le galline, saltellando. La prima che sopraggiunse era presbite, vide il bruco su quella foglia arricciata e lo beccò, così quello cadde a terra, cominciando a contorcersi per la rabbia. La gallina allora prima guardò con un occhio, poi con l'altro perché non capiva che cosa fosse tutto quel contorcersi.
"Non lo fa certo per compiacere!" pensò la gallina e sollevò la testa per beccarlo. Il rospo si spaventò moltissimo e le si mise proprio davanti.
"Ah, ha le truppe ausiliarie!" si disse quella "guarda che tipo!" e se ne andò. "Non mi interessa proprio questo bocconcino verde che mi fa solo solletico nel collo." Le altre galline erano della stessa opinione, così se ne andarono.
«Mi sono salvato con le mie contorsioni!» disse il bruco. «È un bene avere presenza di spirito, ma la cosa più diffìcile ora è ritornare sulla mia foglia di cavolo. Dov'è?»
Arrivò il rospetto e gli espresse la sua simpatia. Era felice che la sua bruttezza avesse spaventato le galline.
«Che cosa dice?» chiese il bruco. «Io mi sono salvato da solo. Lei è molto brutto! E ora posso ritornare a casa mia? Sento odore di cavolo, ora so dov'è la mia foglia. Non c'è niente di più bello che la propria casa. Ma io devo andare più su!»
«Sì, più in su!» ripetè il piccolo rospo. «Più in su! Sente proprio come me! Ma non è di buon umore oggi; forse sarà per lo spavento. Tutti vogliamo andare più in su!» e guardò in alto più che potè.
La cicogna si trovava nel nido sul tetto della casa del contadino, gloterava e anche mamma cicogna gloterava.
"Come abitano in alto!" pensò il rospo. "Felice chi può arrivare così in alto!" Nella casa del contadino abitavano due studenti, uno era poeta, l'altro scienziato, uno cantava e scriveva pieno di gioia di tutte le cose che Dio ha creato e che si rispecchiavano nel suo cuore, cantava in modo breve e chiaro e in versi armoniosi; l'altro invece si impossessava della cosa in sé, l'apriva quando era necessario. Considerava l'opera del Signore come un grande calcolo, sottraeva, moltiplicava, voleva conoscere tutto di dentro e di fuori e parlarne con intelligenza; in realtà era pura intelligenza, parlava con gioia e conosceva tutto. Entrambi erano due bravi giovani.
«Guarda, c'è un ottimo esemplare di rospo!» disse lo scienziato «dovrei metterlo sotto spirito.»
«Ne hai già due!» disse il poeta. «Lascia che si diverta in pace!»
«Ma è così deliziosamente brutto!» disse l'altro.
«Già, se potessimo trovargli la gemma preziosa nella testa» disse il poeta «allora vorrei essere presente quando lo squarcerai!»
«La gemma preziosa!» rispose l'altro. «Conosci bene, tu, la storia naturale!»
«Non c'è forse qualcosa di meraviglioso in questa tradizione popolare, nell'idea che il rospo, l'animale più brutto in assoluto, spesso nasconda nella testa una preziosissima gemma? Non succede
10 stesso anche con gli uomini? E che pietra preziosa aveva Esopo, e poi Socrate!»
11 rospo non sentì altro, ma non capì neppure la metà di quel discorso. I due amici se ne andarono e lui riuscì a non finire sotto spirito.
"Hanno anche parlato della gemma preziosa!" disse il rospo. "Per fortuna non ce l'ho, altrimenti avrei avuto dei problemi!"
Intanto si gloterava sul tetto della casa dei contadini, papà cicogna teneva un discorso alla famiglia e guardava storto i due giovani nell'orto dei cavoli.
«L'uomo è la creatura più presuntuosa!» esclamava. «Senti come muovono il becco! E in realtà non sanno nemmeno fare un verso giusto. Si vantano della loro capacità di parlare, della loro lingua! È proprio una bella lingua: se noi viaggiamo un solo giorno la sentiamo parlare in modo incomprensibile: uno non capisce l'altro. La nostra lingua invece la parliamo su tutta la terra, sia in Danimarca che in Egitto. E poi gli uomini non sanno neppure volare. Prendono velocità con un'invenzione che chiamano "ferrovia" ma spesso si rompono anche il collo. Mi vengono i brividi nel becco quando ci penso; il mondo potrebbe benissimo sopravvivere senza uomini. Potremmo fare a meno di loro: basta che ci siano le rane e i vermi.»
"È proprio un bellissimo discorso!" pensò il rospetto. "Deve essere un grand'uomo, e come siede in alto, dove io non ho mai visto sedere ancora nessuno, e come sa nuotare!" esclamò quando la cicogna s'innalzò nell'aria spiegando le ali.
Mamma cicogna continuò a parlare nel nido, raccontò della terra d'Egitto, dell'acqua del Nilo e di tutte quelle meravigliose paludi che si trovavano nel paese straniero. Le sue parole suonarono nuove e interessanti al piccolo rospo.
"Devo andare in Egitto!" disse. "Se solo la cicogna volesse portarmi con sé, o uno dei suoi piccoli. Io li ricambierò servendoli il giorno del loro matrimonio. Ah, se arrivassi in Egitto sarei proprio felice! Ho tanti desideri e una tale voglia, e certo valgono più di una gemma preziosa in testa!"
E invece aveva proprio quella gemma preziosa: quell'eterna nostalgia e quella voglia di andare in alto, sempre più in alto! gli brillava dentro, si esprimeva nella gioia, si irraggiava nel suo desiderio.
In quel momento sopraggiunse la cicogna; aveva visto il rospo tra l'erba, si precipitò in basso e prese quel piccolo animaletto senza troppo garbo. Il becco stringeva, il vento soffiava, non era certo piacevole; ma intanto lui andava in alto, in alto verso l'Egitto, lo sapeva bene; e per questo gli brillavano gli occhi, e sembro che ne uscisse una scintilla.
"Cra! Cra! Ahimè!"
Il corpo era morto, il rospo ucciso. Ma la scintilla che proveniva dai suoi occhi, di quella che accadde?
Il raggio del sole la prese, il raggio del sole portò via la gemma preziosa dalla testa del rospo. Ma dove la portò?
Non devi chiederlo allo scienziato, chiedilo piuttosto al poeta; lui te lo racconterà come una favola, e ci sarà il bruco, e la famiglia delle cicogne. Pensa! Il bruco si è trasformato e è diventato una bella farfalla; la famiglia delle cicogne vola oltre le montagne e il mare fino alla lontana Africa e ciò nonostante trova la strada più breve per tornare di nuovo nella terra danese, nello stesso posto, sullo stesso tetto! Sì, è proprio tutto come una favola, eppure è vero! Puoi chiederlo allo scienziato lui lo dovrà ammettere; e tu stesso lo sai, perché l'hai visto.
Ma la gemma preziosa nella testa del rospo?
Cercala nel sole! Guardalo, se sei capace!
Il bagliore è troppo forte. Noi non abbiamo ancora gli occhi in grado di guardare in tutta quella gloria creata da Dio, ma li avremo, e allora diventerà la favola più bella, perché anche noi ci saremo.

FINE

 



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La lumaca e il rosaio

Post n°882 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Tutt'intorno al giardino c'era una siepe di noccioli e poco più fuori si trovavano prati e campi con mucche e pecore, ma in mezzo al giardino c'era un rosaio in fiore sotto il quale si trovava una lumaca che poteva dire di avere davvero molto nel suo guscio, poiché aveva tutta se stessa.
«Aspetta che venga il mio tempo!» diceva «farò qualcosa di più che non mettere rose o portare noci o dare latte come fanno le mucche e le pecore!»
«Mi aspetto proprio molto da lei!» rispose il rosaio. «Posso chiederle quando sarà?»
«Mi dia tempo» ribatté la lumaca. «Lei ha troppa fretta! e non si gusta l'attesa.»
L'anno dopo la lumaca si trovava quasi nello stesso posto, al sole sotto il rosaio. Questo aveva messo le gemme e gettava rose sempre fresche, sempre nuove. La lumaca spuntò fuori, allungò le corna e si ritirò di nuovo.
«Tutto come l'anno scorso: non c'è nessun progresso. Il rosaio continua con le rose e non va oltre!»
Passò l'estate, passò l'autunno, e il rosaio aveva ancora fiori e gemme finché non cadde la neve; il tempo poi divenne brutto e il rosaio si piegò verso terra. Anche la lumaca si rannicchiò nella terra.
Cominciò un nuovo anno e le rose spuntarono, anche la lumaca uscì.
«Ecco, ora lei è un vecchio fusto di rose» disse. «Deve cercare di uscire un po'. Ha dato al mondo tutto quel che aveva in sé: si tratta di sapere se questo ha significato qualcosa. Io non ho avuto tempo di pensarci, ma è chiaro che lei non ha fatto il minimo sforzo per svilupparsi interiormente: altrimenti da lei sarebbe uscito qualcos'altro. Si può giustificare? Tra poco resterà solo il suo fusto; capisce quello che dico?»
«Lei mi spaventa» rispose il rosaio. «Non ci avevo mai pensato.»
«No, non si è certo mai preso la briga di pensare! Ha mai cercato di capire perché fioriva, e come faceva a fiorire? perché in un modo e non in un altro?»
«No» riconobbe il rosaio «fiorivo pieno di gioia perché non potevo fare altro: il sole era così caldo, l'aria così fresca! Bevevo la chiara rugiada e la pioggia violenta, respiravo, vivevo! Veniva dalla terra un forza, veniva dall'alto una forza, provavo una felicità sempre nuova, grande, e per questo dovevo fiorire. Quella era la mia vita, non potevo fare altro!»
«Lei ha condotto una vita molto comoda!» disse la lumaca.
«Naturalmente! Mi è stato dato tutto!» assentì il rosaio. «Ma a lei è stato dato ancora di più! Lei è una di quelle nature pensanti e riflessive, una di quelle molto dotate, che stupiranno il mondo.»
«Non ne ho la minima intenzione!» rispose la lumaca. «Il mondo non mi interessa. Che cosa ho da guadagnare dal mondo? Ho già tutta me stessa, è più che abbastanza.»
«Ma noi tutti, sulla terra, non dovremmo dare la parte migliore di noi agli altri? Portare quello che possiamo? Be', io ho solo portato rose! Ma lei, lei che ha ricevuto tanto, che cosa ha dato al mondo? Che cosa dà?»
«Cosa ho dato? Cosa do? Io ci sputo sopra! Non vale niente non mi interessa! Lei butti rose, non può fare altro! Lasci che il nocciolo abbia le noci e le mucche e le pecore diano il latte. Loro hanno tutto il loro pubblico, io ho il mio pubblico in me stessa! Io entro in me stessa e lì rimango, e il mondo non mi interessa.»
E così la lumaca rientrò nella sua casa e si chiuse dentro.
«Che tristezza!» disse il rosaio. «Io con tutta la mia buona volontà non sono capace di chiudermi dentro, devo sempre fiorire, fiorire con le mie rose. Le foglie cadono, volano via col vento! Eppure una delle rose è stata messa nel libro di preghiere di una madre, un'altra ha trovato posto sul petto di una graziosa fanciulla, un'altra ancora è stata baciata dalla bocca di un bambino con tanta dolcezza. Questo mi ha fatto molto bene, è stato come una benedizione. Questi sono i miei ricordi, la mia vita!»
E il rosaio fiorì, fiorì con innocenza; la lumaca invece poltriva nella sua casa, il mondo non le interessava.
Passarono gli anni.
La lumaca divenne terra nella terra, anche il rosaio divenne terra nella terra; anche la rosa-ricordo del libro di preghiere era diventata aria, ma nel giardino fiorivano nuovi rosai, crescevano nuove lumache, che si richiudevano nelle loro case e sputavano: il mondo non le interessava.
Dobbiamo rileggere la storia dall'inizio? Non cambia comunque.

FINE


 

 
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Madre Sambuco

Post n°881 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un bambino che era raffreddato, era andato a passeggio e si era bagnato i piedi, ma nessuno riusciva a capire dove li avesse bagnati, dato che il tempo era asciutto. Sua madre lo svestì, lo portò a letto, e mise sul fuoco la teiera, per preparargli una buona tazza di tè di sambuco, perché quello riscalda! Intanto entrò dalla porta quel vecchietto simpatico che abitava proprio in cima alla casa e viveva molto solo perché non aveva né moglie né figli, ma amava molto i bambini e sapeva raccontare molte fiabe e storie.
«Adesso bevi il tuo tè!» disse la madre «poi forse avrai anche una storia.»
«Sì, se solo ne conoscessi qualcuna nuova!» disse il vecchio e fece cenno dolcemente. «Ma come ha fatto a bagnarsi i piedi, il piccolo?» chiese.
«Già, come ha fatto?» esclamò la madre. «Nessuno riesce a capirlo.»
«Avrò una favola?» chiese il ragazzino.
«Sì, ma tu mi sai dire precisamente quanto è profondo il rigagnolo nella stradina che percorri per andare a scuola? È necessario che lo sappia prima di raccontarti la favola.»
«Proprio fino a metà stivaletti!» rispose il ragazzo «ma questo quando sono nella parte più profonda.»
«Ecco da dove arrivano i piedi bagnati!» esclamò il vecchio. «Ora ti dovrei proprio raccontare una storia, ma non ne conosco più.»
«Può inventarne una» disse il bambino «la mamma dice che tutto quello che lei guarda diventa favola, e che da tutto quello che lei tocca ricava una storia.»
«Sì, ma quelle storie e quelle favole non valgono nulla! No, quelle vere vengono da sole, mi bussano sulla fronte e dicono: Eccomi qui!»
«Non stanno per bussare?» chiese il fanciullo, e la madre rise, mise il tè di sambuco nella teiera e vi versò sopra l'acqua bollente.
«Racconti, racconti!»
«E già, come se le favole venissero spontaneamente, ma queste fanno le preziose, vengono solo quando hanno voglia. Alt!» disse improvvisamente. «Eccone una: stai attento, adesso si trova sulla teiera!»
Il bambino guardò verso la teiera; il coperchio si sollevava sempre più, e i fiori di sambuco uscirono freschi e bianchi, gettarono lunghi e grandi rami, uscirono persino dal becco verso tutti i lati e diventarono sempre più grandi; si era formato un meraviglioso cespuglio di sambuco, un intero albero, che arrivava fino al letto e spostava le tendine di lato; oh, che fiori, che profumo! In mezzo all'albero si trovava una vecchia molto garbata con uno stranissimo vestito addosso: tutto verde, come le foglie dell'albero di sambuco, e ricamato con grandi fiori bianchi di sambuco; al primo momento non si capiva se era stoffa o se era davvero fatto di verde e di fiori.
«Come si chiama quella donna?» chiese il bambino.
«Be', i greci e i romani» spiegò il vecchietto «la chiamavano Driade, ma noi questo non lo capiamo; giù al quartiere dei marinai hanno trovato un nome migliore per lei, la chiamano Madre Sambuco, e adesso devi stare attento a lei; ascoltala e guarda quel bell'albero di sambuco.»
Giù al quartiere dei marinai si trova proprio un albero così grande e tutto in fiore. È cresciuto in un angolo di un piccolo cortile povero, sotto quell'albero al pomeriggio sedevano al sole due vecchietti, un vecchissimo marinaio e la sua vecchissima moglie: erano bisnonni e avrebbero dovuto festeggiare le loro nozze d'oro, ma non ricordavano bene la data. Madre Sambuco sedeva su un albero e appariva tutta contenta, proprio come qui. «Io conosco il giorno delle nozze d'oro!» esclamò, ma loro non sentirono, parlavano dei tempi passati.
«E già, ti ricordi» disse il vecchio marinaio «quella volta in cui eravamo giovani e correvamo e giocavamo, era proprio qui, nello stesso cortile dove ci troviamo ora, e piantavamo in terra ramoscelli e avevamo creato un giardino.»
«Sì» rispose la vecchia «me lo ricordo bene! E innaffiavano i ramoscelli, e uno era un ramoscello di sambuco; mise le radici, buttò bei germogli verdi, e ora è diventato questo grande albero, sotto il quale noi vecchi ci troviamo.»
«Già!» disse lui «ma nell'angolo c'era una bacinella d'acqua dove navigava la mia imbarcazione, l'avevo intagliata io stesso; come navigava bene! Ma poco dopo io sono andato a navigare in modo diverso.»
«Sì, ma prima siamo andati a scuola a imparare qualcosa» disse lei. «Poi abbiamo ricevuto la confermazione, piangevamo tutti e due, ma nel pomeriggio andammo mano nella mano fino alla Torre Rotonda per guardare Copenaghen e il mare! Poi siamo andati a Frederiksberg, dove il re e la regina navigavano tra i canali nella loro meravigliosa nave.»
«Sì, ma io poi sono andato a navigare in modo diverso e per molti anni, lontano, in lunghi viaggi!»
«E io ho pianto spesso per te!» disse lei. «Credevo che tu fossi morto, fossi via per sempre, che giacessi giù immobile nell'acqua profonda! Per molte notti mi alzai per vedere se il catenaccio del portone si apriva; sì, si apriva, ma tu non arrivavi. Me lo ricordo così bene! Un giorno pioveva forte, lo spazzino passò davanti alla casa dove io servivo, ero scesa con la spazzatura e me ne stavo dritta davanti alla porta; c'era un tempo terribile e mentre io stavo lì, il postino mi si affiancò e mi diede una lettera: era da parte tua. Che lungo viaggio aveva compiuto! Io mi precipitai a leggerla, risi e piansi, ero così felice! C'era scritto che ti trovavi nei paesi caldi, dove crescono i chicchi di caffè. Oh, dev'essere stato un paese benedetto! Tu raccontavi tante cose e io immaginavo tutto, mentre la pioggia scrosciava e io stavo lì con lo spazzino. In quel momento arrivò qualcuno che mi prese per la vita!»
«Sì, e tu gli desti uno schiaffo sulla guancia, che rimbombò per bene!»
«Naturalmente non sapevo che eri tu! Eri arrivato insieme alla tua lettera, e eri così bello! ma lo sei anche adesso. Avevi un grosso fazzoletto di seta giallo nel taschino e un cappello lucente in testa; eri così ben vestito, ma che tempo c'era, e com'era ridotta la strada!»
«Poi ci sposammo» continuò lui «te lo ricordi? e poi avemmo il primo figlio e poi Marie, e Nils, Peter e Hans Christian!»
«Sì, e come sono cresciuti tutti e sono diventati gente apposto a cui tutti vogliono bene.»
«E poi i loro figli hanno avuto figli» disse il vecchio marinaio. «Sì, e ci sono i nipoti dei figli che hanno un temperamento! Mi sembra proprio che sia stato in questa stagione il nostro matrimonio.»
«Sì, proprio oggi è il giorno delle nozze d'oro» disse Madre Sambuco avvicinando la testa ai due vecchi, e loro credettero che fosse la vicina di casa che faceva cenno; si guardarono e si tennero per mano; poco dopo giunsero i figli e i nipoti; loro sapevano bene che quello era il giorno delle nozze d'oro, già al mattino avevano fatto gli auguri, ma i vecchi l'avevano già dimenticato, mentre invece ricordavano bene tutto quello che era successo tanti anni prima; l'albero di sambuco profumava così intensamente, e il sole, che stava per tramontare, brillò proprio sui volti dei due vecchi, che apparvero colorati di rosso. Il più piccolo dei nipotini si mise a ballare intorno a loro e gridò, felice, che quella sera ci sarebbe stata una vera festa, avrebbero mangiato le patate calde, e Madre Sambuco fece cenno dall'albero gridando Urrà con tutti gli altri.
«Ma questa non è una storia!» esclamò il bambino che aveva ascoltato.
«Lo è, ma è una storia che devi capire» spiegò colui che raccontava. «Adesso chiediamolo a Madre Sambuco.»
«Non è una favola» disse Madre Sambuco «ma adesso arriva la favola. Dalla realtà nasce spesso la più bella di tutte le fiabe; altrimenti il mio bel cespuglio di sambuco non sarebbe potuto crescere da una teiera» e intanto prese il bambino dal letto e se lo strinse al petto, e i rami del sambuco, carichi di foglie, gli si chiusero intorno e lui si trovò come in un fittissimo pergolato che si innalzava verso l'alto: era delizioso! Madre Sambuco si era trasformata in una bambina molto graziosa, ma il vestito era ancora verde a fiori bianchi, come quello che aveva Madre Sambuco. Sul petto c'era un vero fiore di sambuco e intorno ai capelli ricci e biondi una corona di fiori di sambuco; gli occhi erano grandi, grandi e azzurri. Oh, era così bello guardarla! Lei e il ragazzo si baciarono, e subito ebbero la stessa età e la stessa allegria.
Tenendosi per mano uscirono dalla casetta e camminarono nel bel giardino fiorito; legato all'aiuola, si trovava il bastone del babbo; ai due piccoli sembrava ci fosse vita nel bastone, e non appena gli saltarono in groppa, il pomo lucido si trasformò in una splendida testa di cavallo che nitriva, con una lunga criniera nera che fluttuava al vento; poi spuntarono quattro agili e robuste zampe; e il bastone divenne un animale forte e possente, e loro si misero a correre al galoppo intorno all'aiuola di erbetta. «Op, ora cavalcheremo per molte miglia!» esclamò il ragazzo. «Cavalcheremo fino al castello dove siamo stati l'anno scorso!» e cavalcarono, cavalcarono, sempre intorno all'aiuola; e la fanciulla continuava a gridare, la fanciulla che - noi lo sappiamo - non era altri che Madre Sambuco: «Siamo arrivati in campagna! Vedi la casa del contadino con quel grande camino che sembra un uovo gigante sul muro verso la strada? L'albero di sambuco vi stende sopra i rami e il gallo raspa per le galline, guarda come gonfia il petto! Adesso siamo alla chiesa! Si trova in cima alla collina tra due grandi querce una delle quali è un po' debole! Adesso ci troviamo nella fucina, dove il fuoco brucia e dove uomini mezzi nudi battono con i martelli, facendo volare scintille dappertutto. Ma via, via, verso quel castello meraviglioso!». E tutto quello che la bambina, seduta sul retro del bastone, diceva, passava loro davanti. Il bambino vedeva tutto, ma in realtà non facevano altro che girare intorno all'aiuola. Poi giocarono in un vialetto fecero un segno nel terreno per segnalare un giardinetto, e lei tolse il fiore di sambuco dai suoi capelli, lo piantò, e questo crebbe proprio come era successo ai vecchi nel quartiere dei marinai, quella volta che erano piccoli, ma l'abbiamo già raccontato prima. Poi camminarono, mano nella mano, come quei vecchi avevano fatto da bambini, ma non salirono sulla Torre Rotonda, né fino al giardino di Frederiksberg, no, la fanciulla prese il bimbo per la vita e volarono sopra tutta la Danimarca, e fu primavera, poi estate, poi autunno, e infine fu inverno, e migliaia di immagini si rispecchiarono negli occhi del fanciullo e nel suo cuore, e la bambina continuò a cantare per lui: «Questo non lo dimenticherai mai!». E per tutto il tempo l'albero di sambuco profumava dolce e meraviglioso, il fanciullo vedeva anche le rose e i freschi faggi, ma l'albero di sambuco profumava molto più forte, perché il suo fiore si trovava sul cuore della fanciulla, e lui ogni tanto vi posava sopra il capo.
«È proprio bello in primavera!» disse la fanciulla, e si trovarono in un bosco di faggi con le foglioline appena spuntate, dove il verde mughetto profumava ai loro piedi, e i rossi anemoni spiccavano tra il verde. «Oh, se fosse sempre primavera in questo profumato faggete danese!»
«Come è bello d'estate!» esclamò, e passarono sopra vecchi castelli del tempo dei cavalieri, dove i muri rossi e i frontoni aguzzi si rispecchiavano nei fossati, dove i cigni nuotavano e spuntavano tra i vecchi sentieri. Nei campi il grano ondeggiava, come fosse stato un lago, i fossati erano pieni di fiori rossi e gialli, le siepi di luppolo selvatico e di convolvolo in fiore; e di sera si alzò la luna, rotonda e grande, e i covoni sui prati profumarono dolcemente.
«Non lo dimenticherò mai!»
«Come è bello in autunno!» disse la bambina e l'aria divenne molto più azzurra e luminosa, il bosco si colorò deliziosamente di rosso giallo e verde, e i cani dei cacciatori correvano, stormi di uccelli selvatici volavano gridando sopra gli antichi sepolcri, dove i rovi di more si avvolgevano intorno alle vecchie pietre; il mare era blu scuro con bianche vele e sull'aia sedevano vecchie donne e fanciulle e bambini che pulivano il luppolo in una grande vasca, i giovani cantavano, mentre i vecchi raccontavano storie di folletti e di troll. Meglio di così non poteva essere!
«Come è bello d'inverno!» disse la bambina, e tutti gli alberi si coprirono di brina, sembravano coralli bianchi, la neve scricchiolava sotto i piedi, come se uno avesse avuto stivali nuovi, e dal cielo cadeva una stella dopo l'altra. Nella stanza si accesero gli alberi di Natale, c'erano regali e l'umore era alto; in campagna si suonava la viola nelle case dei contadini. Le frittelle di mele volavano in aria, anche il bambino più povero esclamava: «È proprio bello d'inverno!».
Sì, era splendido e la bambina mostrò tutto al ragazzo, e il sambuco profumava sempre e sempre sventolava quella bandiera rossa con la croce bianca, quella bandiera sotto la quale il vecchio marinaio del quartiere dei marinai aveva navigato! Il bambino diventò ragazzetto e dovette andarsene per il mondo, lontano, fino nei paesi caldi, dove cresceva il caffè, ma alla partenza la bambina prese il fiore di sambuco dal suo petto e glielo diede da conservare; lui lo mise nel libro dei salmi e sempre, quando in terra straniera apriva il libro, questo si apriva nel punto in cui si trovava il fiore del ricordo, e quanto più lo guardava, tanto più questo diventava fresco. Era come se lui ancora odorasse il profumo dei boschi danesi e ancora vedesse chiaramente tra le foglie quella fanciulla che si affacciava con i suoi chiari occhi azzurri, sussurrandogli: «Qui è bello in primavera, in estate, in autunno, in inverno!». E centinaia di immagini passavano tra i suoi pensieri.
Così trascorsero molti anni lui era diventato vecchio e era seduto con la vecchia moglie sotto un albero in fiore, si tenevano per mano, come il nonno e la nonna avevano fatto nel quartiere dei marinai, e parlavano come loro dei vecchi tempi e del giorno delle nozze d'oro, la bambina con gli occhi azzurri e col fiore di sambuco nei capelli stava in cima all'albero, e faceva loro cenno dicendo: «Oggi è il giorno delle nozze d'oro!». Poi tolse due fiori dalla sua corona, li baciò e questi si misero a brillare prima come l'argento poi come l'oro, e poi li appoggiò sulla testa dei due vecchi, e diventarono ciascuno una corona d'oro; così i due sedevano come un re e una regina, sotto quell'albero profumato, che sembrava proprio un albero di sambuco. Lui raccontò alla moglie la storia di Madre Sambuco, così come gli era stata raccontata quando era bambino, e tutti e due pensarono che c'era molto in quella storia che assomigliava alla loro, e quel che più assomigliava era quello che a loro piaceva di più.
«Sì, proprio così!» disse la fanciulla dell'albero «alcuni mi chiamano Madre Sambuco, altri Driade, ma in realtà io mi chiamo ricordo - sono io che sto sull'albero che continua a crescere, io posso ricordare, raccontare! Mostrami se conservi ancora il tuo fiore!»
Il vecchio aprì il libro dei salmi, dove ancora si trovava il fiore di sambuco, fresco come quando vi era stato messo, e il ricordo annuì col capo, i due vecchi con la corona d'oro erano seduti sotto il sole della sera che rende tutto rosso; allora chiusero gli occhi, e così era finita la storia!
Il bambino si trovava nel suo letto, non sapeva se aveva sognato o se aveva ascoltato una fiaba, la teiera stava sul tavolo, ma non spuntava nessun albero di sambuco, e il vecchio che aveva raccontato la storia stava uscendo dalla porta, e così fece.
«Uh, che bello!» esclamò il bambino. «Mamma, sono stato nei paesi caldi!»
«Sì, lo credo proprio!» rispose la madre. «Quando si bevono due tazze piene di tè di sambuco si arriva di sicuro fino ai paesi caldi.» Intanto lo coprì bene, in modo che non prendesse freddo. «Tu hai certo dormito, mentre io ero qui a discutere con lui se questa era una storia o una fiaba.»
«E dov'è Madre Sambuco?» chiese il ragazzo.
«È sulla teiera» rispose la madre «e là può anche rimanere!»

FINE



Confronti due lingue:
Confronti questo racconto in due lingue al lato di a vicenda.

 
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La campana

Post n°880 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Di sera, nelle strette vie della grande città, quando il sole tramontava e le nuvole luccicavano come oro, in alto tra i comignoli, si sentiva, ora venire da destra, ora da sinistra, uno strano suono, come il rintocco di una campana, ma lo si udiva solo per un momento, dato che c'erano un tale baccano di carrozze e un gran vocio che davano molto fastidio. «Suona la campana della sera» si diceva «ora cala il sole.»
Quelli che abitavano fuori città dove le case, più distanti tra loro, avevano giardini e campicelli nel mezzo, vedevano il cielo del tramonto ancora più splendido e sentivano il suono della campana in modo molto più distinto; era come se il suono provenisse da una chiesa posta nel profondo del calmo e profumato bosco, e la gente guardava in quella direzione con solennità.
Passò molto tempo, uno diceva all'altro: «C'è forse una chiesa nel bosco? Quella campana ha comunque un suono strano e bellissimo, dovremmo andare là e guardarla da vicino». La gente ricca andò in carrozza, quella povera si incamminò a piedi, ma per tutti la strada risultò straordinariamente lunga, finché giunsero a una fila di salici che crescevano ai margini del bosco. Là sedettero e guardarono in alto verso i lunghi rami, e sembrò loro di trovarsi proprio immersi nella natura. Il pasticciere della città arrivò e montò la sua tenda, poi ne giunse un altro che montò la sua e vi appese una campana che era stata incatramata per resistere alla pioggia e a cui mancava il battaglio. Quando la gente se ne ritornò a casa, disse che era stato molto romantico e che era stato ben diverso dal solito tè! Tre persone assicurarono di essere giunte fino al limitare del bosco e di aver sentito per tutto il tempo quello strano suono di campana; a loro però sembrava che provenisse dalla città; uno scrisse una canzone e raccontò che il suono della campana somigliava alla voce di una madre che parla al proprio bambino: nessun'altra melodia era più bella del suono di quella campana!
Anche l'imperatore del paese si interessò alla faccenda e promise che chi avesse scoperto l'origine di quel suono avrebbe ottenuto il titolo di "campanaro mondiale" anche se il suono non fosse risultato quello di una campana.
Molti andarono quindi nel bosco per cercare di guadagnarsi la ricompensa, ma soltanto uno di loro tornò a casa con una specie di spiegazione. Nessuno si era inoltrato abbastanza nel bosco, e in realtà neppure lui, ma dichiarò ugualmente che il suono della campana proveniva da un'enorme civetta annidata in un albero cavo; era una specie di civetta sapiente che batteva senza posa la testa contro l'albero. Non seppe però dire con certezza se il suono proveniva dalla testa o dal tronco cavo; venne comunque nominato "campanaro mondiale" e scrisse ogni anno un piccolo trattato sulla civetta, ma non si seppe ma niente di più.
Venne poi il giorno della cresima, il prete aveva parlato molto bene e con fervore e i cresimandi si erano persino commossi, era un giorno importante per loro, che tutt'a un tratto da bambini diventavano persone adulte; il loro animo infantile doveva trasferirsi in una persona più ragionevole.
C'era un bellissimo sole, i cresimandi uscirono dalla città, e dal bosco sentirono risuonare quella grande e sconosciuta campana con un'intensità straordinaria. Immediatamente venne a tutti loro il desiderio di incamminarsi per raggiungerla, a tutti eccettuati tre; una ragazza doveva andare a casa a provare il suo abito da ballo, dato che era stato proprio quell'abito e quel ballo a far sì che venisse cresimata quell'anno, altrimenti avrebbe aspettato! Il secondo era un ragazzo povero che aveva preso in prestito l'abito e gli stivali per la cresima dal figlio del padrone di casa e doveva restituirli a un'ora ben precisa; il terzo disse invece che non andava mai in nessun luogo sconosciuto senza i suoi genitori, che era sempre stato un bravo bambino e tale voleva restare, anche dopo la cresima, e che non dovevano prenderlo in giro per questo; cosa che invece fecero.
Tre di loro dunque non seguirono gli altri che si incamminarono verso il bosco; il sole splendeva e gli uccelli cinguettavano; anche i cresimandi si misero a cantare, tenendosi per mano perché non avevano ancora nessuna carica e erano tutti uguali davanti al Signore.
Presto due dei più piccoli furono stanchi e ritornarono in città; due bambinette si fermarono invece a intrecciare ghirlande e non proseguirono più; quando poi gli altri raggiunsero i salici, dove si era installato il pasticciere, esclamarono: «Visto? Ora siamo qui nel bosco e la campana non esiste; quindi è solo qualcosa che ci immaginiamo noi!».
Proprio in quel momento risuonò dal profondo del bosco la campana, con un suono così soave e solenne che quattro o cinque di loro decisero di proseguire ancora un po'. Com'era fìtto e pieno di foglie! Era proprio difficile avanzare, i mughetti e gli anemoni erano cresciuti fin troppo alti, le campanule e i rovi in fiore pendevano come lunghe ghirlande da un albero all'altro, dove l'usignolo cantava e i raggi del sole giocavano. Che meraviglia! ma non era certo un percorso adatto alle ragazze: si sarebbero strappate i vestiti.
C'erano grossi blocchi di pietra coperti di muschio multicolore; l'acqua fresca della sorgente scaturiva con uno strano glu-glu.
«Non può essere la campana?» esclamò uno dei ragazzi e si chinò per ascoltare meglio. «Bisogna analizzarlo a fondo!» e rimase là, mentre gli altri proseguirono.
Giunsero a una casa fatta di corteccia e di rami; un grosso melo selvatico vi si piegava sopra, come volesse riversare la sua benedizione sul tetto coperto di rose fiorite. I lunghi rami circondavano l'ingresso, dove si trovava appesa una piccola campana. Era forse quella che avevano sentito? Tutti erano d'accordo che fosse quella, eccetto uno che dichiarò che quella campana era troppo piccola e sottile per essere sentita così da lontano, e che l'altra aveva una tonalità diversa che commuoveva il cuore degli uomini. Chi parlava era figlio di un re, perciò gli altri pensarono: "Quelli vogliono sempre essere più intelligenti!".
Così lo lasciarono proseguire da solo; man mano che camminava il suo petto si faceva sempre più colmo della solitudine del bosco, ma ancora poteva sentire la piccola campana con cui gli altri si divertivano, e ogni tanto, quando il vento soffiava dalla parte del pasticciere, sentiva anche i canti di coloro che prendevano il tè, ma l'intenso suono della campana risuonava ancora più forte, sembrava quasi che un organo la accompagnasse; il suono proveniva da sinistra, dal lato in cui si trova il cuore.
Ci fu un rumore da un cespuglio e subito il figlio del re si trovò davanti un bambinetto con gli zoccoli di legno e una giacchetta così corta che si vedevano i polsi.
Si conoscevano già, il ragazzo era quello dei cresimandi che non aveva potuto seguirli, perché doveva andare a consegnare il vestito e gli stivali al figlio del padrone di casa; poi si era rimesso la sua povera giacchetta e gli zoccoli e se n'era partito da solo; la campana suonava così intensamente che non aveva potuto trattenersi dall'andare.
«Allora possiamo proseguire insieme!» esclamò il figlio del re. Ma il povero ragazzetto con gli zoccoli era molto imbarazzato, si tirò giù le maniche troppo corte della giacchetta e disse che temeva di non riuscire a camminare abbastanza in fretta, e poi pensava che bisognasse cercare la campana a destra, che è il posto della dignità e della grandezza.
«Allora non ci incontreremo affatto!» commentò il figlio del re e salutò il povero ragazzo che si inoltrò nella parte più buia e più fìtta del bosco, dove le spine gli strappavano i miseri abiti e gli graffiavano a sangue il viso, le mani e i piedi. Anche il figlio del re si graffiò un po', ma sulla sua strada splendeva il sole, e ora noi seguiremo lui, che era un ragazzo in gamba.
"Devo assolutamente trovare la campana" si diceva "anche a costo di camminare fino alla fine del mondo!"
Orribili scimmie che stavano sugli alberi sghignazzavano mostrando i denti. "Lo colpiamo?" dicevano. "Lo colpiamo? è figlio di un re!"
Ma egli proseguì senza stancarsi per il bosco che si infittiva sempre più, incontrava fiori molto strani, bianchi gigli stellati con i pistilli color sangue, tulipani azzurri come il cielo che brinavano al vento, alberi di melo i cui frutti sembravano grandi bolle di sapone luccicanti; provate a immaginarvi come devono brillare quegli alberi al sole! Intorno ai prati più verdi dove cervi e cerbiatte giocavano tra l'erba, crescevano magnifiche querce e faggi; e, se qualche albero aveva la corteccia incrinata, dalla fessura spuntavano l'erba e lunghi viticci. C'erano anche ampi boschetti con laghetti tranquilli, dove bianchi cigni nuotavano agitando le ali. Il figlio del re restò a lungo fermo a ascoltare; più volte credette che il suono della campana venisse fino a lui da uno di quei laghi profondi, ma poi comprese che non proveniva di là ma da una parte ancora più interna del bosco.
Il sole tramontò e l'aria scintillò rossa come il fuoco; tutto era così calmo, così immobile nel bosco, allora egli si inginocchiò e cantò il salmo della sera, pensando: "Non troverò mai quello che cerco! Ora il sole sta tramontando, sopraggiunge la notte, la nera notte. Ma forse posso vedere ancora una volta il disco rosso del sole prima che scompaia dietro l'orizzonte; devo però arrampicarmi su queste rocce che si innalzano fino agli alberi più alti".
Si attaccò ai viticci e alle radici, si arrampicò sulle pietre bagnate su cui strisciavano le bisce d'acqua, e i rospi se la presero con lui, ma lui arrivò in cima prima che il sole fosse scomparso, e che meraviglia da quell'altezza! Il mare, quell'immenso e magnifico mare che riversava le lunghe onde contro la costa, si stendeva davanti a lui, e il sole appariva come un grande e luminoso altare, proprio dove il cielo e il mare si incontravano. Tutto si fondeva in colori infuocati, il bosco cantava, il mare cantava, e anche il suo cuore cantò. Tutta la natura era un'unica chiesa, gli alberi e le nuvole sospese fungevano da pilastri, i fiori e l'erba rivestivano tutto come il velluto dei paramenti, e il cielo era la grande cupola.
Quando il sole scomparve, si spensero i colori infuocati, ma in quel momento si accesero milioni di stelle, milioni di lampade di diamante brillarono, e il figlio del re tese le braccia verso il cielo, verso il mare e verso il bosco; contemporaneamente da destra comparve quel povero cresimando con gli zoccoli e le maniche troppo corte, anche lui era arrivato in tempo, per la sua strada, e si corsero incontro prendendosi per mano nel grande tempio della natura e della poesia. Sopra di loro risuonò quella invisibile campana consacrata, e le anime beate danzarono al suono di quella musica innalzando un gioioso alleluia.

FINE


 
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Il porcellino di bronzo

Post n°879 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nella città di Firenze, non lontano daPiazza del granduca , si trova una traversa che credo si chiamLPorto rossa ; qui, davanti a una specie di bancarella di verdura, sta un porcellino di bronzo, di bella fattura; fresca e limpida acqua scorre dalla bocca di quell'animale, che a causa dell'età è tutto verde scuro solo il grugno brilla, come fosse stato tirato a lucido, e questo si deve alle molte centinaia di bambini e di poveretti che vi si afferrano per avvicinare la bocca a quella dell'animale e bere. È come un quadretto vedere quel bel porcellino di bronzo abbracciato da un grazioso fanciullo mezzo nudo, che accosta la fresca boccuccia al suo grugno.
Chiunque, quando arriva a Firenze, è in grado di trovare quel luogo; basta che chieda del porcellino di bronzo al primo mendicante che incontra, e lo troverà di sicuro.
Era una tarda sera d'inverno, le montagne erano coperte di neve, ma c'era il chiaro di luna e il chiaro di luna in Italia dà un chiarore che è come quello di un buio giorno invernale al nord anzi è meglio, perché l'aria stessa brilla, l'aria dà sollievo, mentre al nord il freddo cielo plumbeo preme contro la terra, la gelida e umida terra che un giorno premerà sulle nostre bare.
Nel giardino del castello granducale, ai piedi dei pini, dove migliaia di rose fiorivano nel periodo invernale, era rimasto per tutto il giorno un ragazzetto vestito di stracci, un ragazzetto che poteva rappresentare l'Italia, così bello, così sorridente, eppure così sofferente. Aveva fame e sete, nessuno gli diede un soldo, e quando venne buio e il giardino dovette essere chiuso, il custode lo cacciò via. Così rimase a lungo sul ponte che passava sul fiume Arno a sognare, a guardare le stelle scintillanti nell'acqua.
Si avviò verso il porcellino di bronzo, si chinò in avanti e gli gettò le braccia intorno al collo; poi mise la bocca vicino al grugno splendente e bevve a grandi sorsate quella fresca acqua. Lì vicino si trovavano alcune foglie di insalata e qualche castagna: quella fu la sua cena.
Non c'era un'anima per strada; era tutto solo, così montò sul dorso del porcellino di bronzo, si allungò in avanti in modo che la testolina ricciuta riposasse su quella dell'animale, e prima ancora di accorgersene, si addormentò.
A mezzanotte il porcellino si mosse, il ragazzo sentì che gli diceva con chiarezza: «Ragazzino, tieniti forte, adesso partiamo!», e difatti partì col ragazzo; fu proprio una strana cavalcata!
Innanzitutto giunsero mPiazza del granduca ; lì il cavallo di bronzo su cui stava la statua del duca nitrì forte, le armi variopinte del vecchio municipio brillarono come immagini trasparenti e il David di Michelangelo ruotava la sua fionda. I gruppi di bronzo con Perseo e col Ratto delle Sabine erano fin troppo vivaci; un grido di morte si innalzò da loro e risuonò su tutta quella meravigliosa piazza deserta.
Vicino dXPalazzo degli Uffizi, nella loggia dove la nobiltà si raduna a festeggiare il carnevale, il porcellino di bronzo si fermò.
«Tieniti forte!» esclamò l'animale. «Tieniti forte perché adesso saliamo le scale!» Il piccolo non diceva neppure una parola: era terrorizzato, ma altrettanto divertito.
Entrarono in una lunga galleria, il ragazzo la conosceva bene perché c'era già stato; le pareti sfoggiavano affreschi, c'erano statue e busti, tutti immersi in una luce bellissima come fosse stato giorno; ma la cosa più bella fu quando la porta di una sala laterale si aprì: sì, il piccolo ricordava quella magnificenza, eppure in quella notte tutto brillava del massimo splendore.
Qui si trovava una graziosa donna nuda, bella come solo la natura e un grande maestro del marmo sono in grado di modellare; muoveva le sue deliziose membra, i delfìni saltavano ai suoi piedi, l'immortalità brillava dai suoi occhi. Il mondo la chiama la Venere medicea. Attorno a lei splendevano statue di marmo, uomini bellissimi; uno di loro affilava la spada e era chiamato il molatore, gladiatori irrompenti formavano un altro gruppo; la spada veniva affilata e le lotte scoppiavano per la dea della bellezza.
Il ragazzo fu come accecato da tutto quello splendore, le pareti rilucevano di mille colori, tutto lì aveva vita e movimento. L'immagine di Venere si sdoppiò e apparve la Venere terrestre, turgida e ardente come l'aveva vista Tiziano. Le immagini di due bellissime donne, le splendide membra senza veli, si allungavano sui morbidi cuscini, il petto si sollevava e la testa si muoveva così che i folti riccioli ricadevano sulle spalle ben tornite, mentre gli occhi scuri esprimevano pensieri ardenti; ma nessuna di quelle immagini osava uscire completamente dalla cornice. Persino la dea della bellezza, i gladiatori e il molatore restarono ai loro posti, perché la gloria che si irraggiava dalla Madonna, da Gesù e da San Giovanni li costringeva all'immobilità. Le immagini sante non erano ormai più immagini, erano diventate i santi in persona.
Che splendore e che bellezza da una sala all'altra! Il ragazzetto le visitò tutte, e anche il porcellino di bronzo camminò passo passo, in mezzo a tutta quella magnificenza e a quella meraviglia.
Una visione scacciava l'altra, solo un'immagine si fissò nella mente, soprattutto per quei gioiosi e felici bambini che vi erano rappresentati e a cui il piccolo aveva già fatto cenno, una volta di giorno.
Molti passano davanti a quest'immagine con leggerezza eppure essa contiene in sé un tesoro di poesia: Cristo discende negli Inferi, ma non si vedono i dannati intorno a lui, bensì i pagani. Il fiorentino Angiolo Bronzino è l'autore di questo affresco; la cosa più grandiosa è l'espressione di certezza che c'è nei bambini che saliranno in cielo; due piccoli si abbracciano, uno tende la mano verso un altro più in basso e indica se stesso, come per dire: "Io salirò in cielo!".
Tutti gli adulti stanno lì, dubbiosi e pieni di speranza oppure si inchinano umilmente davanti al Signore Gesù, implorando.
Il ragazzo osservò quell'immagine più a lungo delle altre, il porcellino di bronzo vi rimase fermo davanti, si sentì un fievole sospiro; proveniva dall'affresco o dal petto dell'animale? Il ragazzo sollevò la mano verso quei bambini sorridenti, allora l'animale ripartì con lui e attraversò l'ampio ingresso aperto.
«Grazie! Tu sia benedetto, caro animale!» esclamò il ragazzo accarezzando il porcellino che bum! bum! scendeva le scale di corsa con lui.
«Grazie a te! E che tu sia benedetto!» replicò il porcellino di bronzo. «Io ti ho aiutato e tu hai aiutato me, perché solo con un ragazzo innocente sul dorso ho la forza di muovermi! Vedi, oso persino passare sotto le luci dell'immagine della Madonna. Ti posso portare dappertutto, ma non in chiesa! Ma se tu sei con me, sono in grado di guardare dentro attraverso la finestra aperta, stando all'ingresso. Non scendere; se lo fai, resterò qui morto, come mi vedi di giorno nella stradinaPorto rossa !»
«Resterò con te, animale benedetto!» rispose il piccolo, e ripartirono a tutta velocità per le strade di Firenze, fino alla piazza che si trova davanti alla chiesa di Santa Croce.
La grande porta a due battenti si spalancò di colpo, le luci si irraggiavano dall'altare, e, attraversando la chiesa, uscivano sulla piazza deserta.
Una strana luce proveniva da un monumento nella navata laterale sinistra e migliaia di stelle in movimento formavano una specie di aureola. Un'insegna dominava su quella tomba, una scala rossa su fondo blu, che sembrava infuocata. Era la tomba di Galilei, un monumento molto semplice, ma la scala rossa su fondo blu è un'insegna piena di significato, è come l'insegna stessa dell'arte, perché la strada verso il cielo è rappresentata sempre da una scala infuocata. Tutti i profeti dello spirito salgono al cielo come il profeta Elia.
Nella navata di destra della chiesa ogni figura dei ricchi sarcofaghi sembrava avesse preso vita. Qui c'era Michelangelo, Dante con la corona di alloro intorno alla fronte, Alfieri, Machiavelli, uno di fianco all'altro riposano qui quei grandi uomini, l'orgoglio dell'Italia.lÈ una chiesa magnifica, molto bella, e forse grande come il Duomo di marmo di Firenze.
Sembrava che i vestiti di marmo si muovessero e che quelle grandi figure sollevassero la testa e guardassero in quella notte piena di canti e di musica verso l'altare variopinto e illuminato dove ragazzi vestiti di bianco facevano dondolare gli incensieri dorati; il forte odore si diffondeva dalla chiesa fino alla piazza.
Il ragazzo tese la mano verso quel bagliore e in quel momento il porcellino ripartì; lui dovette tenersi ben forte, il vento gli soffiava nelle orecchie e poi sentì che il portone della chiesa, chiudendosi, cigolava sui cardini, ma in quello stesso istante gli sembrò di perdere conoscenza, sentì un freddo intenso e spalancò gli occhi.
Era mattina e lui era quasi scivolato giù dal porcellino, immobile nella stradaPorto rossa , dove era solito stare.
Il ragazzo fu colto da paura e terrore al pensiero di colei che chiamava mamma e che lo aveva mandato fuori il giorno prima raccomandandogli di procurarsi del denaro; lui non ne aveva, ma aveva fame e sete. Si strinse ancora una volta attorno al collo del porcellino, gli baciò il grugno, gli fece cenno col capo e poi si incamminò per una stradina tortuosa, larga appena per un asino con un carico disposto accortamente. Una grossa porta ferrata stava socchiusa, da lì lui salì per una scala in muratura con le pareti sporchissime e una corda liscia che fungeva da ringhiera; giunse in un cortile, dove dal pozzo fino ai vari piani della casa erano stati tirati fili di ferro dai quali pendevano i secchi, uno vicino all'altro; quando la carrucola strideva, un secchio si metteva a ballare nell'aria facendo schizzare l'acqua in cortile. Da lì si proseguiva per un'altra scala cadente, fatta di mattoni; due marinai russi la scendevano contenti e spinsero quasi a terra il povero ragazzo. Venivano dai loro bagordi notturni. Li seguiva una donna non più giovane, ma molto robusta, con folti capelli neri. «Cos'hai portato a casa?» chiese al ragazzo. «Non arrabbiarti!» la implorò lui. «Non ho niente, proprio niente!» e afferrò il vestito della madre come se volesse baciarlo; entrarono in camera; non vogliamo descriverla, bisogna solo dire che c'era uno scaldino di porcellana pieno di brace che si chìamamarito e che lei si mise sul braccio per scaldarsi le dita; poi diede una gomitata al ragazzo dicendo: «Certo che li hai i soldi!».
Il bambino si mise a piangere, lei lo spinse col piede e lui si lamentò a voce alta. «Taci, altrimenti ti rompo quella testa urlante!» gridò lei agitando lo scaldino che teneva in mano; il ragazzo si accovacciò a terra con un grido. In quel mentre entrò la vicina di casa, anche lei con il suomarito sul braccio. «Felicita! Cosa stai facendo al bambino?» «Il bambino è mio!» rispose Felicita. «Posso anche ucciderlo, se voglio, e te con lui, Giannina!» e lanciò il suo scaldino. L'altra sollevò il suo per ripararsi e così questi si urtarono; i cocci, il fuoco e la cenere si sparsero nella stanza, ma il ragazzo in quello stesso momento era già fuori dalla porta, di là del cortile, fuori da quella casa. Quel povero bambino continuò a correre finché non ebbe più fiato; si fermò vicino alla chiesa di Santa Croce, la chiesa che si era aperta davanti a lui la notte prima, e entrò. Tutto brillava; si inginocchiò davanti alla prima tomba sulla destra, quella di Michelangelo, e si mise a singhiozzare forte. La gente andava e veniva, fu detta la Messa, ma nessuno si preoccupò di quel ragazzo, solo un vecchietto si fermò, lo osservò e poi se ne andò come gli altri.
Fame e sete tormentarono il piccolo; era debole e malaticcio si riparò nell'angolo tra la parete e il monumento di marmo e lì si addormentò. Verso sera venne svegliato da qualcuno che lo scuoteva, si alzò e trovò davanti a sé lo stesso vecchio di prima.
«Sei malato? Dove abiti? Sei stato qui tutto il giorno?» queste furono alcune delle domande che il vecchio gli rivolse lui rispose e il vecchio lo portò in una casetta che si trovava lì vicino, in una strada laterale. Era un laboratorio di guantaio, la moglie stava ancora cucendo di gran lena quando entrarono, un barboncino bianco saltellò sul tavolo e balzò davanti al ragazzo: era rasato al punto che si vedeva la pelle rosa chiaro.
«Le anime innocenti si riconoscono tra loro!» esclamò la donna accarezzando sia il cagnette che il bambino. Quest'ultimo ebbe da quelle brave persone qualcosa da mangiare e da bere, poi gli dissero che poteva trascorrere la notte lì; il giorno dopo papà Giuseppe avrebbe parlato con sua madre. Gli diedero un misero lettino, ma per lui era bello come quello di un re poiché spesso era costretto a dormire sul duro pavimento di pietra; dormì benissimo e sognò quelle belle immagini e il porcellino di bronzo.
Il mattino dopo papà Giuseppe uscì, il povero bambino non era molto felice, perché sapeva che quell'uscita aveva lo scopo di riportarlo a sua madre, così si mise a piangere e baciò il cagnolino; la donna rivolse a entrambi un cenno di approvazione.
Che notizie portò papà Giuseppe! Parlò a lungo con sua moglie, poi lei chiamò a sé il ragazzo e lo accarezzò. «E un bravo bambino» disse «può diventare un bravo guantaio proprio com'eri tu! E ha dita sottili e molto flessibili. La Madonna ha certo stabilito che diventasse guantaio!»
Il ragazzo rimase in quella casa e la donna gli insegnò a cucire; lui mangiava bene, dormiva bene, divenne allegro e cominciò a stuzzicare Bellissima: così si chiamava il cane. La donna allora lo minacciava col dito, urlava e si infuriava, così il ragazzo si acquetava e si metteva pensieroso nella sua cameretta, che guardava verso la strada e dove veniva lasciata asciugare la pelle. Davanti alla finestra c'erano grosse sbarre di ferro; il ragazzo non riusciva a dormire, pensava continuamente al porcellino di bronzo, e improvvisamente udì dalla strada: «Kladsk! Kladsk!»; sì, era certo lui! Balzò alla finestra, ma non si vedeva nessuno.
«Aiuta il signore a portare la cassetta dei colori» disse la donna il mattino dopo al ragazzo, quando il loro giovane vicino, il pittore, arrivò arrancando con la cassetta e con una tela enorme arrotolata; il ragazzo prese la cassetta e seguì il pittore; si diressero verso la galleria, salirono la stessa scala che lui conosceva bene da quella notte in cui aveva cavalcato il porcellino; conosceva già le statue e gli affreschi, quella bella Venere di marmo e coloro che rivivevano nei loro colori, e rivide la madre di Dio, Gesù e Giovanni.
Poi si fermarono davanti all'affresco del Bronzino, dove Cristo scende negli Inferi e i bambini intorno a lui sorridono per la dolce convinzione di andare in cielo, anche il povero ragazzo sorrise, perché lui lì si trovava nel suo cielo.
«Bene, va' a casa adesso!» gli disse il pittore; il ragazzo era stato fermo così a lungo che l'altro aveva già montato il cavalletto.
«Posso guardare mentre dipinge?» chiese il ragazzo. «Posso vedere come fa a ottenere l'immagine su questa tela bianca?»
«Adesso non dipingo» rispose l'uomo prendendo il carboncino, poi la mano si mosse, rapida, l'occhio misurò l'immagine; e, nonostante ci fosse una sola riga sottile Cristo stava già lì fluttuante, proprio come sull'affresco a colori.
«Adesso vai!» disse il pittore, così il ragazzo si avviò pian piano verso casa, poi sedette al tavolo e... imparò a cucire guanti.
Ma per tutto il giorno il pensiero tornò alla sala degli affreschi, e proprio per questo si punse le dita e si comportò in modo maldestro, ma non stuzzicò Bellissima. Quando venne sera e il portone sulla strada si trovò aperto, il ragazzo sgusciò fuori casa; faceva freddo ma c'erano le stelle, belle e chiare; lui camminò per le strade ormai deserte e si trovò davanti al porcellino di bronzo; gli si chinò sopra e gli baciò il grugno lucido, poi gli sedette sul dorso e disse: «Benedetto animale, che nostalgia ho avuto di te! Questa notte dobbiamo fare una cavalcata!» .
Ma il porcellino rimase immobile e la fresca fonte zampillava dalla sua bocca. Il piccolo sedette come fosse stato un cavaliere, ma qualcuno lo tirò per i vestiti; guardò di lato e vide la piccola e ben rasata Bellissima. Il cane era uscito di casa con lui e lo aveva seguito senza che lui se ne fosse accorto. Bellissima guaì, sembrava volesse dire: "Vedi che sono qui con te? perché stai qui seduto?". Neppure un drago infuocato avrebbe spaventato il ragazzo più di quel cagnolino in quel posto. Bellissima stava per la strada senza essere vestita, come diceva la vecchia mamma; chissà cosa sarebbe successo! Il cane non usciva mai d'inverno senza indossare una pelle di pecora tagliata e cucita appositamente per lei. Quella pelle le veniva legata intorno al collo con un nastro rosso, cui era attaccato un fiocco con un sonaglio, e allo stesso modo veniva legata sotto la pancia. Il cane sembrava allora un capretto che avesse il permesso, d'inverno e vestito a quel modo, di trotterellare con aSignora . E ora Bellissima era lì con lui e non era vestita; cosa sarebbe successo? Tutte le fantasie erano ormai svanite; il ragazzo diede un bacio al porcellino di bronzo, prese in braccio Bellissima, che tremava dal freddo, e si mise a correre più forte che potè.
«Con cosa stai scappando?» gli gridarono due gendarmi che incontrò per strada, e Bellissima si mise a abbaiare. «Dove hai rubato questo grazioso cagnolino?» chiesero, prendendoglielo.
«Ridatemelo!» implorò il ragazzo.
«Se non l'hai rubato, allora di' a casa che il cane può essere ritirato al comando di polizia.» Gli diedero l'indirizzo e se ne andarono con Bellissima.
Era disperato. Non sapeva se buttarsi nell'Arno o andare a casa e affrontare la realtà. Lo avrebbero certo ammazzato di botte, pensò tra sé, "ma mi piacerebbe essere ammazzato, così morirei e andrei da Gesù e dalla Madonna!" e così andò a casa proprio per venire ammazzato di botte.
La porta era chiusa e lui non arrivava al battiferro non c'era nessuno per strada, ma trovò una pietra e con quella picchiò sulla porta. «Chi è?» gridarono dalla casa.
«Sono io!» disse il ragazzo. «Bellissima è sparita! Apritemi e picchiatemi a morte!»
Soprattutto {^Signora provò uno spavento terribile al pensiero della povera Bellissima; subito volse lo sguardo verso la parete dove stava appeso l'abito del cane; la pelle di pecora era lì.
«Bellissima alla polizia?» gridò a voce alta. «Ragazzaccio! Come hai fatto a portarla fuori? Morirà di freddo! Quella delicata bestiola in mano ai rozzi soldati!»
Il padre dovette partire subito. La donna si lamentava e il ragazzo piangeva, tutti gli inquilini si radunarono, compreso il pittore; questi si mise il ragazzo sulle ginocchia e gli fece delle domande; un frammento alla volta, venne a conoscenza di tutta la storia del porcellino di bronzo e della galleria, certo, non era facile da capire, ma il pittore consolò il ragazzo, e parlò, parlò alla vecchia che però non fu contenta fin quando il marito non ritornò con Bellissima, che era stata coi soldati. Fu una grande gioia; il pittore accarezzò il ragazzo e gli diede un piccolo fascio di fogli.
Che disegni meravigliosi, che teste divertenti! ma, più bello di tutti, c'era il porcellino di bronzo, e sembrava lì in carne e ossa. Nulla poteva essere più splendido! Si trovava sulla carta, fatto con pochi tratti, e dietro c'era abbozzata anche la casa.
«Che bello saper disegnare e dipingere! Si può riprodurre tutto il mondo!»
Il giorno dopo, non appena ebbe un momento libero, il ragazzo prese una matita e sul lato bianco di uno dei fogli cercò di copiare il disegno del porcellino di bronzo. Ci riuscì! Era un po' obliquo, un po' storto, con una zampa grossa e un'altra sottile, ma si capiva bene che cos'era! Così il ragazzo si rallegrò moltissimo con se stesso. La matita non voleva andare proprio dove doveva; ma il giorno successivo c'era disegnato di fianco un altro porcellino, e era cento volte più bello, il terzo poi fu così ben fatto che chiunque potè riconoscerlo.
La cucitura dei guanti però lasciava a desiderare e le commissioni in città venivano compiute con lentezza; questo perché il porcellino di bronzo aveva insegnato al ragazzo che Firenze era come un libro di illustrazioni, se lo si voleva sfogliare. InPiazza della Trinità c'era una sottile colonna che reggeva la dea della giustizia con gli occhi bendati e la bilancia; subito la si ritrovò sulla carta, e era stato il ragazzetto a disegnarla. La raccolta di disegni aumentò, ma comprendeva solo cose inanimate. Un giorno Bellissima si mise con un balzo davanti al ragazzo. «Stai ferma» disse lui «così sarai bella e comparirai nei miei disegni!» Bellissima però non voleva stare ferma, così venne legata; le vennero legate la coda e la testa; quella ringhiò e si mise a saltare, la corda fu tirata di più e in quel momento entrò aSignora .
«Sacrilego! povera bestia!» disse soltanto al ragazzo, poi lo spinse, gli diede un calcio e lo cacciò di casa, quell'ingrato mascalzone, quello scellerato! E piangendo baciò la sua piccola Bellissima mezza strangolata.
Il pittore stava salendo la scala in quel momento e... questo determinò una svolta nella storia.
Nel 1834 ci fu una mostra nell'Accademia delle arridi Firenze; due quadri, posti uno di fianco all'altro, attiravano molti visitatori. Sul quadro più piccolo era raffigurato un ragazzetto che stava disegnando; come modello aveva un cagnetto bianco e rasato per bene, ma l'animale non voleva star fermo e così gli erano state legate con una corda sia la testa che la coda. C'era vita in quell'immagine e una autenticità che piaceva a tutti. Si raccontava che il pittore fosse un giovane fiorentino che era stato raccolto dalla strada, era stato cresciuto da un vecchio guantaio e aveva imparato a disegnare da solo. Poi un pittore ora famoso aveva scoperto il suo talento quando il ragazzo era stato cacciato da casa perché aveva legato quel cagnolino, il prediletto della padrona, per prenderlo come modello.
L'apprendista guantaio era diventato un grande pittore, come rivelava quel quadro, e ancora di più il quadro più grande che stava lì di fianco. C'era un'unica figura: un bel ragazzo vestito di stracci, che dormiva per la strada, sdraiato sul porcellino di bronzo che si trova nella stradaPorto rossa . Tutti i visitatori conoscevano quel luogo. Le braccine del ragazzo erano strette alla testa del porcellino,2il piccolo dormiva un sonno profondo e la lampada dell'immagine della Madonna illuminava con una luce intensa il volto pallido ma meraviglioso di quel bambino.
Era proprio un quadro splendido; una grossa cornice dorata lo circondava e a un angolo della cornice era appesa una corona d'alloro, ma tra le foglie verdi era stato intrecciato un nastro nero da cui pendeva un lungo velo da lutto.
Quel giovane artista, in quei giorni, era morto!

 
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Amichevole a S.Tobia

Post n°878 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,sono qui per raccontarvi un evento di portata storicia per il nostro paesino,gemellatosi recentemente con Tukambakabalodisotto.
La nostra sindachessa e il capovillaggio Gnagnaragnà hanno pensato di celebrare l'evento in modo adeguato,così domenica scosa ha avuto luogo l'amichevole di calcio S.Tobia-Tukambakabalo.
Ecco la no stra squadra
1)Be'erino
2)Il dottor Perfettini
3) Caino (capitano)
4)Il Libertario
5)Il Brodolotti
6)Ladislao
7)Evaristo Cornacchioni
8)Perseo Scozzagalli
9)Teseo Scozzagalli
10)Camillo
11)Sigismondo Piripicchi
L'allenatore era Ireneo
Ed ecco i giocatori del Tukambakabalo
1)Zebedù
2)Uaù
3)Babalembembù (capitano)
4)Sicuteramblè
5) Tiratù
6)Ayomama
7)Limortè
Cool Perepè
9) Ciampambè
10)Shemosaraitù
11)Pikabù
In panchina,l'unica donna ad allenare una squadra africana:suo Hildegard Asinonen,detta Adolf.
Arbitrava Merlino Cerbottani.
Ed ecco la cronaca del match
14.35- Con una perfetta mossa di king fu,Evaristo ha atterrato in area Ayomama.Il rigore è stato trasformato da Pikabù
Adolf ha ballato la macarena,Ireneo si è mangiato uno scarpone.
14.45-Limortè ha spedito in porta un pallone micidiale.
Adolf si è esibita in un cancan,Ireneo ha mangiato il secondo scarpone
14.55-Perseo Scozzagalli ha segnato il terzo goal per il Tukambakabalo.
Adolf ha ballato il tiptap,Ireneo ha preso a capocciate la panchina
15.05-Ayomama ha restituito il favore al Cornacchioni,sempre in area.Il calcio di rigore per il S.Tobia è stato scandalosamente mancato dal Piripicchi.
Adolf ha ballato la tarantella,Ireneo è svenuto
Passiamo al secondo tempo.
15.35- Intorno alla porta si è scatenata una mischia furiosa,che ha portato all'espulsione di Uaù e di Ladislao Trogoloni
15.45-Il Brodolotti ha segnato.
Adolf ha preso a morsi la panchina,Ireneo si è scatenato in un sirtaki
15.55-Con un potentissimo calcio di rimessa,il portiere Zebedù ha segnato il quarto goal per il Tukambakabalo.
Adolf si è messa a ballare il charleston,Ireneo ha preso a calci la panchina,acciaccandosi un alluce.I moccoli si sono sentiti fino a Perugia.
16.00- Ayomama ha segnato il quinto goal.
Adolf e le riserve si sono messe a fare il trenino,Ireneo ha addentato la coda a Belva
16.05-Teseo ha segnato il secondo goal per i nostri...subito annullato per fuorigioco di suo fratello Perseo.
Teseo è stato espulso per tentato fratricidio.
16.10-Perseo è l'unico gioicatore al mondo ad aver segnato due goal alla sua squadra nella stessa partita
16.14-Ayomama ci ha rifatto,fissando il risultato sul 7-1.
I giocatori,dimosctrando autentico fairplay si sono abbracciati e si sono scambiati le maglie,per poi andare tutti insieme alla discoteca Perepepè.
Adolf e Ireneo,invece,si sono azzuffati e per dividerli ci sono voluti gli idranti.
Sono passati tre giorni
Perseo è stato quasi linciato ed è in ospedale.
Il Cornacchioni è stato spedito in esilio per due mesi sulla Maiella.
Adolf è in lizza per il posto di CT della nazionale tedesca in vista dei prossimi mondiali
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia.




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Chi la paga (Pirandello)

Post n°877 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Da tre notti zi’ Neli Sghembri dormiva al sereno, su la paglia rimasta su l’aja dopo la trebbiatura. a guardia delle bestie, la mula e due asinelli, che strappavano la stoppia li presso.
La paglia era bagnata di guazza, o, come zi’ Neli diceva, dal pianto delle stelle. I grilli scampanellavano tutt’intorno, e la blanda e chiara sonorità del loro concerto ristorava dopo il trito raspìo secco, duro, monotono delle cicale, che aveva assordato gli orecchi lungo la giornata.
Tuttavia il vecchio, sdrajato a pancia all’aria, si sentiva triste. Guardava le stelle e, di tratto in tratto, socchiudeva gli occhi e sospirava.
Sentiva che la sorte lo aveva frodato: non gli aveva dato nulla di ciò che da giovine aveva sperato; gli aveva tolto, da vecchio, quasi tutto quel po’ che, senza desiderio, aveva avuto. E da quattr’anni, per giunta, gli era morta la moglie, dí cui aveva ancora bisogno; e d’andare in cerca d’amore, coi capelli grigi e la schiena curva, Si vergognava.
Tutt’a un tratto, mentre se ne stava così, quasi assente da sé, nel chiaror tenne e umido delle stelle, si vide passare davanti agli occhi lo sprazzo verde d’una lucciola, che venne a posarsi su la paglia, accanto a lui.
Ebbe, a quello sprazzo, un’impressione come di cielo vicino e pur tanto lontano, e balzò a sedere, quasi destato di soprassalto da un sogno; ma sogno gli sembrò invece la vista delle cose intorno, confuse nella notte: la sua casetta colonica, screpolata e affumicata, la mula, i due asinelli tra la stoppia, e laggiù laggiù i lumi esitanti del suo paesello di Raffadali.
La lucciola era ancora lì, su la paglia, accanto a lui. Zi’ Neli la acchiappò e, mirandola nel cavo della grossa mano callosa ov’essa ancora diffondeva un fievolissimo lucor verde, pensò che quella "candelina di pecorajo" veniva a lui dai begli anni lontani della gioventù; forse era quella stessa che in una serata di giugno, su un’aja come questa, più di quarantacinque anni addietro, svolando, si era impigliata nei capelli neri di Trisuzza Tumminìa, che con altre giovani di Raffadali, spigolatrici, era rimasta a passar la notte al sereno per festeggiar la fine della mietitura, con balli a suono di cembali, sotto la Luna.

– Gioventù!

Come s’era spaventata Trisuzza Tumminìa di quell’insetto venuto a cacciarlesi tra i capelli, non sapendo che fosse una "candelina di pecorajo"! Egli le si era accostato, aveva preso con due dita, delicatamente, quella lucciola di tra i capelli e, mostrandogliela, come nell’atto d’improvvisarle uno stornello, le aveva detto:

– Luce, vedete? Era venuta a mettervi una stella in fronte.

Così aveva cominciato a fare all’amore con Trisuzza Tumminìa, allora, quando il mondo era un altro! Ma i parenti, da entrambe le parti, si erano opposti alle loro nozze, per antica nimicizia di casato; poi Trisuzza aveva sposato un altro; egli, un’altra; più di quarantacinque anni erano passati; e ora egli era vedovo, e vedova era anche lei, da circa dieci anni... Perché era ritornata quella luccioletta? Perché gli aveva sprazzato il suo bagliore davanti agli occhi, mentr’egli si sentiva cosi triste e solo? e perché era venuta a posarsi li su la paglia bagnata dalle stelle, accanto a lui?
Tratto di tasca un pezzetto di carta, zi’ Neli ve la chiuse dentro accuratamente; seguitò a pensare gran parte della notte e a sorridere tra sé; la mattina appresso, vedendo passare per la via mulattiera una ragazzetta, che dalla campagna si recava a Raffadali, la chiamò a sé di dietro la siepe:

– Nicu’, Nicuzza, senti qua.

Gli occhi gli ridevano; voleva ridergli anche la bocca. Si pose il dorso della mano su le ispide labbra rase.

– Di’, conosci la zâ Tresa Tumminìa?

– Quella della troja?

Il vecchio aggrottò le ciglia, offeso. Già! Così, quella della troja, era intesa adesso, a Raffadali, Trisuzza Tumminìa! Ed era intesa così, perché da tanti anni allevava con sviscerato amore una troja di così spettacolosa grassezza, che ormai la bestiaccia non si reggeva più su le zampe. Rimasta sola, morto il marito, accasati i figliuoli, aveva la compagnia di quella troja, e guaj a chi le facesse la proposta di scannarla! Si chinava a grattarle la fronte, e quella, rosea e cretosa, con la ventraja sparsa su la paglia, grugnendo di beatitudine al solletico, si stirava tutta, storceva il grifo, come se volesse sorridere, e presentava la gola. Pareva a tutti un’ingiustizia, questa beatitudine, e tutti ne provavano dispetto, perché, sottratta al macello, non poteva più essere considerata come una fatica per quella bestiaccia l’ingrassare. E perché allora ingrassava?

– La zâ Tresa, sì, – disse zi’ Neli alla ragazzetta. La conosci? Bene, guarda: qua, dentro questo pezzetto di carta, c’è una candelina di pecorajo. Bada che non voli, e non schiacciarla! Portala alla zâ Tresa, e dille che gliela manda zi’ Neli Sghembri; che è quella stessa – le dirai – di tanti e tanti anni fa! Così. Non te lo scordare: Quella stessa di tanti e tanti anni fa! Portami questa sera la risposta, che ti darò in premio uno ziretto di macco. Va’!

Eh, alla fine, aveva sessantatré anni; forte e ferrigno però come un ceppo d’olivo; e la zâ Tresa era anche lei pur fresca come una fava non colta, bella in salute, sanguigna e prosperosa.
La sera la ragazzetta ritornò con la risposta:

– Dice la zâ Tresa, che i capelli sono bianchi e la candelina non fa più luce.

– Così t’ha detto?

– Così.

Il giorno dopo, zi’ Neli, sbarbato come uno sposo e vestito di festa, si presentò a Raffadali alla zâ Tresa Tumminìa per dichiararle che il lume di quella candelina di pecorajo egli lo aveva ancora vivo nel cuore, vivo e verde, come quando glielo aveva visto rilucere in fronte come una stella.

– Facciamo le nozze e scanniamo la troja!

La zâ Tresa lo respinse, puntandogli tutt’e due le braccia sul petto.

– Se non ve ne andate, vecchiaccio stolido!

Ma rideva. Di scannare la troja non se ne doveva parlare. Ma, quanto alle nozze... ebbene, perché no?
Era destino. Come un tempo i padri, così adesso i figliuoli dell’uno e dell’altro fecero guerra alle loro nozze.
Ma questa volta della guerra i due vecchi non si curarono. I padroni adesso erano loro. Di fuori, se ne mostrarono offesi; in fondo se ne compiacquero, per un certo sapore di gioventù che quella guerra veniva a dare alle loro nozze. Era veramente uno spasso sentir parlare di senno e di convenienza quei loro figliuoli.
Ne avevano avuti quattro ciascuno, dal primo letto: Tresa Tumminìa, tutti maschi; zi’ Neli, due maschi e due femmine. Quelli di Tresa eran già bene accasati tutti e quattro, con la bella roba paterna divisa con giustizia in parti uguali; zi’ Neli aveva ancora con sé una figliuola, Narda, già anch’essa in età da marito.
Per farli tacere, i due vecchi, prima di sposarsi, fe Tratto di tasca un pezzetto di carta, zi’ Neli ve la chiuse dentro accuratamente; seguitò a pensare gran parte della notte e a sorridere tra sé; la mattina appresso, vedendo passare per la via mulattiera una ragazzetta, che dalla campagna si recava a Raffadali, la chiamò a sé di dietro la siepe:

– Nicu’, Nicuzza, senti qua.

Gli occhi gli ridevano; voleva ridergli anche la bocca. Si pose il dorso della mano su le ispide labbra rase.

– Di’, conosci la zâ Tresa Tumminìa?

– Quella della troja?

Il vecchio aggrottò le ciglia, offeso. Già! Così, quella della troja, era intesa adesso, a Raffadali, Trisuzza Tumminìa! Ed era intesa così, perché da tanti anni allevava con sviscerato amore una troja di così spettacolosa grassezza, che ormai la bestiaccia non si reggeva più su le zampe. Rimasta sola, morto il marito, accasati i figliuoli, aveva la compagnia di quella troja, e guaj a chi le facesse la proposta di scannarla! Si chinava a grattarle la fronte, e quella, rosea e cretosa, con la ventraja sparsa su la paglia, grugnendo di beatitudine al solletico, si stirava tutta, storceva il grifo, come se volesse sorridere, e presentava la gola. Pareva a tutti un’ingiustizia, questa beatitudine, e tutti ne provavano dispetto, perché, sottratta al macello, non poteva più essere considerata come una fatica per quella bestiaccia l’ingrassare. E perché allora ingrassava?

– La zâ Tresa, sì, – disse zi’ Neli alla ragazzetta. La conosci? Bene, guarda: qua, dentro questo pezzetto di carta, c’è una candelina di pecorajo. Bada che non voli, e non schiacciarla! Portala alla zâ Tresa, e dille che gliela manda zi’ Neli Sghembri; che è quella stessa – le dirai – di tanti e tanti anni fa! Così. Non te lo scordare: Quella stessa di tanti e tanti anni fa! Portami questa sera la risposta, che ti darò in premio uno ziretto di macco. Va’!

Eh, alla fine, aveva sessantatré anni; forte e ferrigno però come un ceppo d’olivo; e la zâ Tresa era anche lei pur fresca come una fava non colta, bella in salute, sanguigna e prosperosa.
La sera la ragazzetta ritornò con la risposta:

– Dice la zâ Tresa, che i capelli sono bianchi e la candelina non fa più luce.

– Così t’ha detto?

– Così.

Il giorno dopo, zi’ Neli, sbarbato come uno sposo e vestito di festa, si presentò a Raffadali alla zâ Tresa Tumminìa per dichiararle che il lume di quella candelina di pecorajo egli lo aveva ancora vivo nel cuore, vivo e verde, come quando glielo aveva visto rilucere in fronte come una stella.

– Facciamo le nozze e scanniamo la troja!

La zâ Tresa lo respinse, puntandogli tutt’e due le braccia sul petto.

– Se non ve ne andate, vecchiaccio stolido!

Ma rideva. Di scannare la troja non se ne doveva parlare. Ma, quanto alle nozze... ebbene, perché no?
Era destino. Come un tempo i padri, così adesso i figliuoli dell’uno e dell’altro fecero guerra alle loro nozze.
Ma questa volta della guerra i due vecchi non si curarono. I padroni adesso erano loro. Di fuori, se ne mostrarono offesi; in fondo se ne compiacquero, per un certo sapore di gioventù che quella guerra veniva a dare alle loro nozze. Era veramente uno spasso sentir parlare di senno e di convenienza quei loro figliuoli.
Ne avevano avuti quattro ciascuno, dal primo letto: Tresa Tumminìa, tutti maschi; zi’ Neli, due maschi e due femmine. Quelli di Tresa eran già bene accasati tutti e quattro, con la bella roba paterna divisa con giustizia in parti uguali; zi’ Neli aveva ancora con sé una figliuola, Narda, già anch’essa in età da marito.
Per farli tacere, i due vecchi, prima di sposarsi, fecero gli atti davanti al notajo, in modo da salvaguardare gl’interessi degli uni e degli altri, a un caso di morte, per la roba che restava a ciascuno di loro. Speravano così di togliere la nimicizia sorta fierissima tra essi fin dal primo momento; ma invano. I più accaniti rimasero i figli di zi’ Neli, che pure avevano avuto di più, essendosi il vecchio spogliato non solo della roba della moglie defunta, ma anche della sua, risoluto, finché poteva, a vivere del suo lavoro, del frutto della terra della seconda moglie e anche di quella della figliuola Narda, fino a tanto che questa fosse rimasta con lui.
Segnatamente la maggiore delle femmine, Sidora, che per via del marito si chiamava adesso Peronella, aveva, dalla rabbia, la schiuma alla bocca. E parlando col marito, con le cognate e coi fratelli Saru e Luzzu, della povera Narda andata a convivere con la matrigna, diceva:

– Possa la mia lingua esser mangiata dai vermi; ma vedrete che quella vecchia strega la farà spighire zitella. Anche se verrà a domandarla in isposa il figlio del re in persona, dirà che il partito non è conveniente.

E diceva così perché, a suo credere, la vecchia Tresa Tumminìa non avrebbe mai permesso che il marito, data via la roba assegnata in dote a Narda, si fosse messo a campare sul suo.
Alle vicine, che venivano a raccontarle tutte le amorevolezze che la zâ Tresa faceva a Narda, cose che non si sarebbero fatte nemmeno a una vera figliuola: orecchini d’oro, anelli d’oro, collane di corallo, fazzoletti di seta, da capo e da collo, "guardaspalle" di seta con quattro dita di frangia, scarpe di vitello col tacco alto e la mascheretta di coppale; cose, insomma, cose da non credersi; rispondeva, verde dalla bile:

– Ah! baggiane! E non capite che lo fa per adescarla? Se la vuole ingrassare e tenere in casa come la troja!

Restò, quando quelle vennero a dirle che la sorella sposava. E che partito! Coi fiocchi, e procurato proprio dalla zâ Tresa: Pitrinu Cinquemani, nientemeno! giovine d’oro, cognato del maggiore dei figliuoli; Pitrinu Cinquemani, quel picciottone che pareva una bandiera, con terre e case e bestie da soma e da lavoro.

– Ah! sì? davvero? oh guarda! – si mise a dire allora, per non darla vinta a quelle pettegole che avrebbero goduto del suo dispetto. – Pitrinu Cinquemani? Ci ho piacere, povera Narda! ci ho piacere davvero!

Né lei né i due fratelli erano mai andati a veder la sorella, da che stava con la matrigna. Eppure la chiusa di Saru, il maggiore dei fratelli, era quasi a un tiro di schioppo da quella della zâ Tresa; tanto che dalla parte della roba, di tra gli alberetti di fico e di mandorlo, non solo si poteva vedere il tettuccio del cortile della matrigna ov’era la mangiatoja delle bestie, ma finanche contar le galline che razzolavano nel letame. Non avevano più voluto saperne, perché, adescata dalle buone maniere e dai regali, Narda era divenuta tutta di quella, di quella e dei fratellastri, i quali, cresciuti com’erano senza una sorella, se la disputavano tra loro e le facevano un mondo di carezze.
Quando fu la vigilia dello sposalizio, venne alla chiusa di Saru zi’ Neli, accigliato, grattandosi con una mano sul mento gl’ispidi peli rinascenti su le gote raschiose. Parlò al maggiore dei figliuoli, perché questi poi riferisse il discorso anche agli altri, e parlò con gli occhi a terra:

– Le annate sono scarse, figli miei, e siamo tutti poverelli Dio sa se, per questo sposalizio di vostra sorella Narda, vi vorrei tutti con me per fare una gran festa. Ma come dicono le campane di Raffadali? Dicono: Con che? con che? con che? Mi sono spogliato di tutto, e sono come Cristo alla colonna. Non posso più niente. Lo schietto idoneo, e basta. Se venite voi, parenti della sposa, Pitrinu Cinquemani pretenderà che vengano anche i suoi parenti, che sono dalla parte di Tresa, lo sapete; e tra voi non c’è buon sangue. Così abbiamo stabilito che non venga nessuno, né essi né voi. Saremo io e Tresa per la sposa e il padre e la madre dello sposo. Lo schietto idoneo, e basta.

Saru ascoltò, con gli occhi bassi anche lui, e la mano sul mento, il discorso del padre, evidentemente studiato; alla fine disse:

– Pa’, badiamo bene. Voi siete il padrone; siamo sangue vostro, e noi faremo come volete voi. Ma non facciamo che la proibizione di venire debba essere soltanto per noi! Pa’, ve l’avverto: finirebbe male.

Il vecchio, senza alzar gli occhi, restò ancora un pezzo a raschiarsi le gote, aggrondato.

– Io per me, figli miei, ho fatto dire a quelli che non vengano, come dico a voi di non venire.

– E se qualcuno di quelli viene?

Il vecchio non rispose. Il suo silenzio lasciava intendere chiaramente che, se qualcuno dell’altra parte fosse venuto, egli non avrebbe saputo come regolarsi.

– Va bene, pa’, – disse allora Saru. – Andate, andate. Ci penseremo noi.

E segui con gli occhi il padre che se ne andava, stirandosi con due dita il lobo dell’orecchia manca. Rientrato nella roba, trasse dal fondo d’una bisaccia appesa a un chiodo un coltellaccio lungo, di quelli chiamati trincialardo, prese da terra, sotto la tavola, la pietra d’affilare; bagnò la lama del coltello: andò a sedere sulla soglia dell’uscio con quella pietra fra le ginocchia e si diede ad affilar la lama.
La moglie, spaventata, lo chiamò tre volte, senza ottener risposta; alla fine, con le mani nei capelli e gli occhi pieni di lagrime, scongiurò:

– Oh Madre santa, Saru mio, che pensi di fare?

Saru balzò in piedi come un tigre, col coltello levato:

– Corpo di Dio, non fiatare, o comincio da te!

La moglie allora, per soffocare il pianto, si tirò sul volto con le due mani il grembiule e andò a rintanarsi in un angolo. Saru si rimise ad affilare il coltellaccio sotto gli occhi dei tre figliuoli, seduti attorno, silenziosi. Dal cortile della chiusa della zâ Tresa cantò il gallo, e subito il gallo di qua gli rispose, con una zampa levata, squassando la cresta sanguigna.

– Una... due... tre... quattro!... cinque!... sei!...

Già sei mule bardate, nella mangiatoja sotto il tettuccio del cortile della chiusa dirimpetto. Eccole là: si discernevano bene al lume della luna, tutt’e sei, l’una accanto all’altra.
Davanti all’uscio della sua roba, Saru le contava, piegando il collo di qua e di là, per vedere di tra gli alberi, e fremeva.
Già sei. E forse altre ne sarebbero venute.
Il festino voleva esser grande. Tutti i figliuoli della matrigna e le loro donne e i loro figliuoli, tutti, tutti quelli dell’altra parte erano stati invitati. Loro soli, i parenti più stretti, i fratelli e la sorella della sposa, erano esclusi. Forse adesso banchettavano di là, più tardi sarebbero cominciati il suono e i balli.
S’era tolta la giacca e se l’era messa al braccio per nascondere il coltello affilato. Dall’interno della roba, la moglie e Niluzzu, il maggiore dei figliuoli, stavano a spiarlo, intenti e tremanti. Poc’anzi, aveva ordinato alla moglie di accendere il fuoco e di metter sù il caldajo grosso a bollire. E la moglie, imbalordita dallo sgomento, aveva ubbidito, senza capire che volesse fare di quel caldajo d’acqua bollente.

– Oh Madre santa, – pregava ora, – fate venire qualcuno! Oh Madre santa, quietategli il sangue e la mente.

Fuori nell’aria chiara di luna, eran zighi sommessi di grilli, fili di suono lunghi, acuti, quasi luminosi.

– Niluzzu, – chiamò a un tratto il padre. – Corri da tua zia Sidora qua presso; poi da tuo zio Luzzu, e di’ loro che vengano qua da me, subito: marito, moglie, figliuoli, tutti qua da me. Hai capito? Va’.

Niluzzu, invece di muoversi, rimase a mirare il padre, sbigottito, con un braccio levato a riparo della testa, come se si aspettasse uno scapaccione.

– Pa’, ho paura, pa’...

– Paura? Carognone! – gli gridò il padre, scrollandolo. Si rivolse alla moglie: – Va’ anche tu; accompagnalo! E tornate qua presto, tutti insieme!

La moglie s’arrischiò a chiedergli ancora una volta, con voce di pianto:

– Ma tu che vuoi fare, Saru mio? Per carità!

Saru si pose un dito sulla bocca e poi, con la stessa mano, fe’ cenno imperioso alla moglie d’ubbidire.
Poco dopo si mosse anche lui, cauto, verso il cortile della chiusa dirimpetto, facendosi riparo, nel procedere sotto la luna, ora di questo, ora di quell’albero. Giunse così all’ultimo alberetto di fico, proprio davanti il cortile. Il cuore gli ballava in petto e le tempie gli martellavano. Diede un balzo allo sbruffare d’una delle mule nella mangiatoja vicinissima. Gli arrivava alle narici il lezzo caldo e grasso del letame, e agli orecchi il suono confuso delle grida, delle risa e l’acciottolio dei piatti dei banchettanti dentro la roba della matrigna. Sporse il capo oltre i rami del fico, a spiare. Nel cortile non c’era nessuno, oltre le sei cavalcature ancora bardate, e più là, presso l’entrata della roba, la troja gigantesca.
Questa se ne stava col grifo allungato su le zampe anteriori, le orecchie abbattute e gli occhi socchiusi, come in una languida contemplazione del fresco, dolcissimo chiaro di luna. Di tratto in tratto sospirava; ma era sospiro di soddisfazione per la sua sicura plenitudine beata.
Saru le andò dietro, cheto e chinato; le allungò adagio una mano alla fronte e lievemente si mise a grattargliela. Come la bestia, al solletico, si stirò, torcendo il grifo, quasi volesse sorridere alla consueta carezza della padrona, e alla fine presentò da sé la gola, Saru, pronto, con l’altra mano le affondò il coltello fino al cuore.
Ritornò con l’enorme carico alla roba, quasi a un tempo con la moglie e il figliuolo, seguiti da tutto il parentado in allarme.

– Zitti, per la Madonna! – intimò a tutti, liberandosi del carico con un gran respiro, ansante e insanguinato da capo a piedi. – Faremo festa anche noi, qua, meglio di loro! Un quarto per uno a voi, e due quarti a me, che me li merito! Ma prima aspettate! Qua, qua, ajutatemi a sparar la bestia! Luzzu, tieni fermo qua! Tu, Sidora, di qua. E tu, Niluzzu, piglia il piatto grande, quello tondo, dallo stipo! Il fegato, il fegato lo voglio dare alla vecchia! Zitti tutti! Il fegato alla vecchia!

Sparò per lungo la bestia; ne trasse il fegato e corse a lavarlo in una conca, poi lo compose, lucido compatto tremolante, nel piatto e lo porse al figliuolo:

– Va’ da tuo nonno, Niluzzu, e digli così: Mi manda papà Saru, con questo regalo per Mamma Tresa, e con la preghiera che gli saluti la troja!

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Sguardo (Naderpur)

Post n°876 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Sul vetro incrinato,
aveva il ragno tessuto una tela.
Sul vetro,
il diamante dei tuoi occhi.
tracciò una riga.

In frantumi, il vetro
ruppe il silenzio degli alberi.

Restarono solo i tuoi occhi
e la luna:
nel mio sguardo cucirono,
insieme,
il loro sguardo.

 
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Libri dimenticati:Pranzo di famiglia

Post n°875 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Roma dopoguerra,I fratelli Farkas ebrei ungheresi,arrivano in Italia senza un soldo,Il minore,Pal detto Paolo,ambizioso,creativo ed accentratore,creerà dal nulla un impero e una famiglia,che poi sfascerà per un nuovo,discutibile matrimonio.
La figlia ci racconta la sua famiglia,nel bene e nel male.

 
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Frase del giorno

Post n°874 pubblicato il 02 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La conversazione fra Adamo ed Eva era difficile perchè non avevano nessuno di cui sparlare (Anonimo)

 
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