Messaggi del 03/10/2011

La vecchia casa

Post n°895 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958


 



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 ITALIANO (Italiano) ESPAÑOL (Spagnolo) DANSK (Danese)


C'era giù nella strada una vecchissima casa, che aveva quasi trecento anni come si poteva leggere su una trave su cui era stata intagliata la data, tra tulipani e piante di luppolo; c'erano anche dei versi scritti con la grafia antica, e sopra ogni finestra era intagliato un volto che faceva le smorfie; il piano superiore sporgeva molto su quello inferiore, e proprio sotto al tetto c'era una grondaia di piombo che finiva con una testa di drago l'acqua piovana doveva scorrere fuori dalla bocca, ma in realtà usciva dallo stomaco, perché c'era un buco nella grondaia.
Tutte le altre case della strada erano nuove e belle pulite, con grandi finestre e pareti lisce: si capiva subito che non volevano aver niente a che fare con quella vecchia casa; infatti pensavano: "Per quanto tempo ancora quel rottame dovrà rimanere in questa strada a dare scandalo? E poi le sue finestre sporgono tanto che nessuno di quelli che si affacciano alle nostre può vedere quello che accade all'angolo! La scala è larga come quella di un castello e alta come quella di un campanile. La ringhiera di ferro poi sembra la porta di un vecchio sepolcro, e per di più ha i pomi d'ottone. Che vergogna!".
Anche sull'altro lato della strada c'erano case nuove e pulite e queste pensavano proprio come le altre, ma alla finestra di una casa si trovava un fanciullo con due belle guance rosee e gli occhi chiari e raggianti: per lui la vecchia casa era la più bella di tutte, alla luce del sole come al chiaro di luna. Se guardava verso il muro dove l'intonaco si era staccato, riusciva a immaginare le figure più strane, o a pensare a come doveva essere stata una volta la strada, con le verande e i frontoni aguzzi; immaginava i soldati con le alabarde, e le grondaie dei tetti che si allungavano come draghi
0 serpenti. Era proprio una casa degna di venir osservata! e vi abitava un vecchietto che portava calzoni all'antica, una giacca con grossi bottoni di metallo e una parrucca che era proprio una vera parrucca, e lo si vedeva bene. Ogni mattina andava da lui un vecchio domestico per fare la pulizia e le compere; altrimenti il vecchio con quei calzoni divertenti restava tutto il giorno solo nella vecchia casa; ogni tanto si avvicinava al vetro della finestra e guardava fuori, così il bambino gli faceva cenno e il vecchio gli rispondeva nello stesso modo, quindi diventarono conoscenti e infine amici, sebbene non si fossero mai parlati, ma tanto quello non contava.
Il bambino sentì che i suoi genitori dicevano: «Quel vecchietto di fronte è molto ricco, ma è anche terribilmente solo!».
La domenica successiva il bambino avvolse qualcosa in un pezzo di carta, andò giù al portone e quando il domestico che era andato a far la spesa passò di lì, gli disse: «Senta! Le dispiace portare a quel vecchio signore di fronte questo da parte mia? Io ho due soldati di piombo, questo è uno dei due; voglio darglielo perché so che è terribilmente solo».
Il vecchio domestico fu molto contento, fece cenno di sì con la testa e portò il soldato di piombo nella vecchia casa. Più tardi venne chiesto al bambino se non aveva voglia di fare una visita laggiù, lui ebbe il permesso dai genitori e così entrò nella vecchia casa.
1 pomi di ottone della ringhiera brillavano molto più forte del solito, sembrava quasi che fossero stati lucidati per l'occasione, e sembrò anche che i trombettieri intagliati, perché sulla porta c'erano intagliati dei trombettieri insieme ai tulipani, soffiassero con tutte le loro forze, le guance ancora più gonfie del solito, e suonavano così: "Tataratà! arriva il bambino! Tataratà! arriva il bambino!" e la porta si aprì. Tutto il corridoio era pieno di vecchi ritratti di cavalieri con l'armatura e di dame in abiti di seta; le armature tintinnavano e gli abiti di seta frusciavano! Poi c'era una scala che andava un po' in su e un po' in giù, e con quella si giungeva su un balcone, che in realtà era molto rovinato, con grossi buchi e lunghe crepe, ma da lì crescevano erba e foglie, poiché sul lato esterno il balcone, il cortile e il muro, erano tutti coperti di verde, così da sembrare un giardino, e dire che era soltanto un balcone! C'erano vecchi vasi di fiori con la faccia e le orecchie d'asino; i fiori crescevano come volevano. Da un vaso si protendevano in tutte le direzioni tanti garofani, tanti verdi steli, fìtti fitti, che dicevano molto chiaramente: "L'aria mi ha accarezzato, il sole mi ha baciato e mi ha promesso un fiorellino per domenica!". Poi il ragazzo passò da una camera dove le pareti erano coperte di pelle di porco, su cui erano impressi fiori d'oro.
La doratura sparisce,
ma la pelle di porco rimane!
dicevano le pareti.
C'erano poltrone con la spalliera molto alta tutte intagliate e con i braccioli su entrambi i lati. "Siediti! siediti!" dicevano "oh! come scricchiolo, adesso mi vengono sicuramente i reumatismi come al vecchio armadio! I reumatismi alla schiena, oh!"
Poi il bambino entrò nella stanza con la veranda dove si trovava il vecchio.
«Grazie per il soldato di piombo, mio piccolo amico!» disse il vecchio signore. «E grazie perché sei venuto a trovarmi.»
"Grazie, grazie!" o meglio "crac!" dicevano tutti i mobili; erano tanti che quasi si impedivano a vicenda la vista del bambino.
In mezzo alla parete era appeso il ritratto di una bella signora, giovane, felice ma vestita proprio come ai vecchi tempi, con la cipria tra i capelli e le vesti che stavano rigide; lei non disse né "grazie", né "crac", ma guardò con occhi dolci il fanciullo che improvvisamente chiese al vecchio: «Dove l'hai trovata?».
«Giù dal rigattiere!» disse il vecchio. «Ci sono tanti ritratti; nessuno li riconosce o se ne interessa, perché sono tutti morti ma una volta io l'avevo conosciuta: ora è morta da più di cinquant'anni.»
Sotto il ritratto c'era un mazzo di fiori appassiti, sotto vetro, anche quelli avevano sicuramente cinquant'anni, tanto sembravano vecchi. Il pendolo del grande orologio andava avanti e indietro e le lancette giravano, e tutto nella stanza diventava sempre più vecchio, senza accorgersene.
«A casa mia dicono» osservò il bambino «che tu sei terribilmente solo.»
«Oh» rispose lui «i vecchi pensieri vengono a farmi visita, con tutto quello che riescono a portarsi con loro, e adesso vieni anche tu. Sto proprio bene.»
Tolse da un ripiano un libro illustrato, con immagini di lunghi cortei e strane carrozze, come non se ne vedono proprio più ai giorni nostri, e di soldati che sembravano fanti di fiori e di corporazioni con i loro vessilli al vento: quello dei sarti aveva una forbice, tenuta da due leoni, quello dei calzolai invece non aveva gli stivali, ma un'aquila con due teste, perché i calzolai fanno sempre tutte le cose in modo da poter dire: ecco un paio! Oh, che meraviglioso libro illustrato!
Il vecchio entrò in un'altra stanza per prendere la marmellata, le mele e le noci: tutto era meraviglioso in quella vecchia casa.
«Non lo sopporto!» esclamò il soldato di piombo, che stava in piedi su un cofano. «Qui tutto è così deserto e così triste; no, quando si è stati in una vera famiglia non ci si può abituare a una vita così! Non ce la faccio proprio! Il giorno è così lungo e la sera è ancora più lunga! Qui non è affatto come a casa tua, dove tuo padre e tua madre parlano allegramente e dove tu e tutti quei bambini fate un tal baccano! Oh, come è solo questo vecchio! Credi forse che qualcuno lo baci? che qualcuno lo guardi con tenerezza, o che abbia l'albero di Natale? Non avrà nulla se non una tomba. Io non resisto più!»
«Non devi prendertela tanto!» disse il bambino. «A me sembra così bello qui, con tutti i vecchi pensieri che verranno a farti visita con quello che riescono a portare con loro.»
«E già, ma quelli io non li vedo e nemmeno li conosco!» rispose il soldato di piombo. «Non resisto proprio più!»
«E invece devi farlo!» gli disse il bambino.
Il vecchio ritornò con un viso molto allegro, con la marmellata più buona, noci e mele, e così il bambino non pensò più al soldato di piombo.
Il bambino tornò a casa felice e contento, e passarono molte settimane e molti giorni; lui mandava cenni di saluto verso la vecchia casa e veniva ricambiato, e infine un giorno tornò laggiù.
I trombettieri intagliati soffiavano: "Tattaratatà! ecco il bambino! Tattaratatà!". La spada e l'armatura dei cavalieri tintinnarono e gli abiti di seta frusciarono, la tappezzeria di pelle di porco parlò e le vecchie sedie avevano i reumatismi alla schiena: "Ahi!"; era tutto come la prima volta, anche perché là ogni giorno e ogni ora erano sempre uguali.
«Non resisto più!» esclamò il soldato di piombo «ho persino pianto lacrime di piombo. Sono troppo triste! Fammi piuttosto andare in guerra a perdere le gambe e le braccia! Almeno sarebbe un cambiamento. Questo non lo sopporto! Adesso so cosa significa aver la visita dei propri vecchi pensieri, con tutto quello che riescono a portare con sé! Io ho avuto la visita dei miei, e puoi crederlo, a lungo andare non c'è nessun divertimento; alla fine stavo per saltar giù da questo cofano. Vedevo tutti voi della casa di fronte così chiaramente, come se fossi stato là; rivedevo quella domenica mattina, ricordi? Voi bambini stavate davanti al tavolo e cantavate i salmi come fate ogni mattina; eravate molto raccolti con le mani giunte, e il babbo e la mamma erano altrettanto seri, quando si aprì la porta e la piccola sorellina Maria, che ancora non ha due anni e che danza sempre quando sente musica o canto, di qualunque genere sia, comparve, sebbene non fosse il momento opportuno. Così cominciò a ballare, ma non riusciva a stare al ritmo perché le note erano troppo lunghe, allora si mise a saltellare su una gamba tenendo la testa bassa, e poi sull'altra gamba sempre a testa bassa, ma proprio non ci riusciva. Voi restavate molto seri, tutti quanti, sebbene fosse diffìcile, mentre io mi misi a ridere tanto che caddi giù dal tavolo e mi feci un bernoccolo che ho ancora, perché non era giusto da parte mia ridere. Ma tutto ora mi ritorna in mente, insieme a tutto quello che ho vissuto; questi sono sicuramente i vecchi pensieri con quello che riescono a portare con loro. Dimmi se cantate ancora la domenica. Dimmi della piccola Maria. E come sta il mio compagno, l'altro soldatino di piombo? E già, lui è certo felice! Io non resisto più!»
«Ma tu sei stato regalato!» disse il bambino. «Devi rimanere qui. Non lo capisci?»
II vecchio signore entrò con un cassettino pieno di oggetti interessanti, piccoli scrigni, delle boccettine di profumo e vecchie carte, grandi e dorate come non se ne vedono più. Vennero aperti altri cassetti e anche il pianoforte, che aveva un paesaggio dipinto sul coperchio; ma il suono era molto debole quando il vecchio cominciò a suonare; poi si mise a canticchiare una canzone.
«Lei la cantava sempre!» disse indicando il ritratto che aveva acquistato dal rigattiere, e gli occhi gli brillarono limpidi.
«Voglio andare in guerra! voglio andare in guerra!» gridò il soldatino di piombo più forte che potè, e cadde sul pavimento.
E dove finì? Il vecchio lo cercò, anche il bimbo lo cercò, ma quello era sparito. «Ti ritroverò» disse il vecchio signore, ma non lo trovò più. Il pavimento era pieno di buchi e di crepe e il soldato di piombo era caduto attraverso una fessura e si trovava lì come in una tomba aperta.
Il giorno passò e il bambino tornò a casa, passò la settimana e ne passarono molte altre. Le finestre erano tutte gelate e il bambino doveva soffiarci sopra per avere uno spiraglio da cui guardare fuori, verso la vecchia casa, ma anche lì c'era neve su tutti gli intagli e sulle scritte e anche sulla scala, come se non ci fosse nessuno in casa. E non c'era nessuno: il vecchio era morto.
Alla sera si fermò una carrozza, dove misero il vecchio signore nella sua bara per portarlo a seppellire in campagna. Partì, ma non lo seguì nessuno perché tutti i suoi amici erano già morti. Il bambino mandò un bacio con le dita verso la bara che si allontanava.
Alcuni giorni dopo ci fu un'asta nella vecchia casa e il bambino vide dalla finestra che tutte le cose venivano portate via. Gli antichi cavalieri e le dame, i vasi di fiori con le lunghe orecchie, le sedie e gli armadi: ogni cosa da una parte diversa; il ritratto della dama che era stato trovato dal rigattiere tornò da lui, e vi rimase per sempre, perché nessuno la conosceva e nessuno si interessò di quel vecchio ritratto.
In primavera demolirono la casa perché, diceva la gente, era un'anticaglia. Si poteva vedere dalla strada fino nella stanza tappezzata con la pelle di porco, ormai tutta a brandelli; e le piante del balcone ancora si abbarbicavano selvaggiamente alle assi pericolanti. Poi tutto venne ripulito.
"Finalmente!" dissero le case vicine.
Venne costruita una bella casa, con grandi finestre e muri lisci e bianchi, e davanti, esattamente dove una volta si trovava la vecchia casa, fu piantato un giardinetto e sul muro della casa vicina si arrampicarono viticci selvatici; il giardino era cinto da una balaustra di ferro con un cancelletto di ferro che sembrava molto signorile; la gente si fermava e guardava dentro. I passerotti si posavano a dozzine sui rami della vite, cinguettavano a gara fra di loro, ma non parlavano mai della vecchia casa, perché non la ricordavano. Erano passati tanti anni, che quel bambino era cresciuto, era diventato un uomo, un uomo proprio come si deve di cui i genitori erano molto fieri; si era appena sposato e con la sua mogliettina s'era trasferito in quella casa dove si trovava il giardino. Era vicino a lei mentre lei piantava un fiore di campo che le sembrava bellissimo. Lo piantava con le sue manine e batteva la terra con le dita. «Ahi! Ahi! che cos'è?» Si era punta. C'era qualcosa di aguzzo che spuntava dalla morbida terra.
Era, sì, pensate un po'! era il soldatino di piombo, quello che era sparito nella casa del vecchio signore e che aveva vagato e rotolato tra calcinacci e assi di legno e poi era rimasto per molti anni nella terra.
La giovane donna ripulì il soldato prima con una foglia verde e poi con il suo bel fazzoletto, che aveva un tale profumo! Per il soldato di piombo fu come risvegliarsi sotto la rugiada.
«Fammi vedere!» disse il giovane, si mise a ridere e scosse la testa. «Ah, no, non può essere lui! Però mi ricorda la storia di un soldatino di piombo di quando ero bambino!» e raccontò alla moglie della vecchia casa e del vecchio signore e del soldatino di piombo che gli aveva regalato, perché era così terribilmente solo.
Raccontò tanto bene, che la donna si commosse per la vecchia casa e per il vecchio signore.
«Potrebbe benissimo essere lo stesso soldato di piombo» disse lei «lo conserverò e ricorderò tutto quello che mi hai raccontato, ma mi devi mostrare la tomba di quel vecchio.»
«Non so dove si trovi, e nessuno lo sa. Tutti i suoi amici erano morti, nessuno si è curato di lui, e io ero solo un ragazzino.»
«Oh, deve essere stato terribilmente solo!» esclamò lei.
«Terribilmente solo» disse il soldato di piombo «ma è bello non essere dimenticati!»
«Bello!» gridò qualcosa proprio lì vicino, ma nessuno lo vide eccetto il soldato di piombo: era un pezzetto della tappezzeria di pelle di porco, non aveva più la doratura e sembrava terra umida, ma aveva ancora un'opinione e la disse:
La doratura sparisce,
ma la pelle di porco rimane!
Ma il soldatino di piombo non era d'accordo.

FINE



 
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La goccia d'acqua

Post n°894 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Conosci certamente una lente di ingrandimento, una specie di monocolo che rende tutto cento volte più grande di quello che è in realtà? Se la si prende e la si tiene davanti a una goccia d'acqua dello stagno, allora si vedono più di mille strani animaletti, che di solito non si vedono mai nell'acqua, ma sono lì e esistono davvero. Sembrano quasi un piatto pieno di gamberetti che saltano uno sull'altro e sono così feroci che si strappano a vicenda braccia, gambe, parti di dietro e di fianco, e ciò nonostante sono contenti e divertiti, anche se a modo loro.
C'era una volta un vecchio che tutti chiamavano Krible-Krable, perché questo era il suo nome. Voleva sempre ottenere il meglio da ogni cosa e, quando non era possibile, ricorreva alla magia.
Un giorno stava guardando attraverso la sua lente di ingrandimento una goccia d'acqua che era stata presa da una pozzanghera del fosso. Che formicolio si vedeva! Migliaia di animaletti saltavano, si strappavano e si divoravano a vicenda.
«Ma questo è orrendo!» esclamò il vecchio Krible-Krable «non è possibile ottenere che vivano tranquillamente e in pace, in modo che ognuno si preoccupi degli affari propri?» Meditò a lungo, ma non riuscì a trovare una soluzione, e allora ricorse alla magia. «Li colorerò» disse «così si potranno vedere meglio!» e versò nella goccia d'acqua qualcosa che assomigliava a una goccia di vino rosso, ma era sangue di strega, della migliore qualità, quello da due soldi. Così tutti quegli animaletti strani divennero rosa, sembrava una città di uomini selvaggi nudi.
«Che cos'hai lì?» gli chiese un altro vecchio mago, che non aveva nessun nome, e proprio per questo era così distinto.
«Se indovini» rispose Krible-Krable «te lo regalo, ma non è una cosa facile da indovinare, se non la si sa prima.»
Il mago senza nome guardò attraverso la lente di ingrandimento. Sembrava proprio una intera città, in cui gli uomini giravano nudi, e questo era ripugnante, ma era ancora più ripugnante vedere come si spingevano e si urtavano a vicenda come si pizzicavano, si mordevano e si facevano male. Chi stava sotto di tutti doveva arrivare sopra e chi stava sopra doveva passare sotto! "Guarda, guarda! le sue gambe sono più lunghe delle mie! Paf! via! Ce n'è uno che ha un piccolo bernoccolo dietro all'orecchio, un piccolo bernoccolo innocente, ma gli fa male e quindi deve soffrire ancora di più!" e lo fecero a pezzi lo tirarono e lo divorarono a causa di quel piccolo bernoccolo. C'era un tale fermo con una signorina, e entrambi desideravano solo un po' di pace e di tranquillità, ma la signorina fu trascinata via, dilaniata e divorata.
«È proprio divertente!» esclamò il mago.
«Che cosa credi che sia?» gli chiese Krible-Krable «riesci a scoprirlo?»
«Si vede bene» rispose l'altro «è senza dubbio Copenaghen o una qualunque altra grande città; si assomigliano tutte! È certo una grande città.»
«No, è l'acqua del fosso» disse Krible-Krable.

FINE

 

 
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Lo storpio

Post n°893 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un vecchio castello con dei padroni giovani e eccezionali. Erano ricchi e generosi; volevano divertirsi e fare del bene; rendere felici tutti gli uomini proprio come lo erano loro.
La sera di Natale c'era un grazioso albero di Natale tutto decorato nella vecchia sala dei cavalieri, dove il fuoco ardeva nei camini e dove erano appesi ramoscelli di abete intorno ai vecchi ritratti. Là si erano radunati i padroni e gli ospiti, e si cantava e ballava.
Più presto c'era stata la festa natalizia anche nella stanza della servitù. Anche là c'era un grande abete con le candeline accese, rosse e bianche, con bandierine danesi, cigni ritagliati nella carta e sacchettini di carta colorata riempiti con ogni bene. I bambini poveri del villaggio erano stati invitati; ognuno aveva con sé la propria madre. Quella non guardava molto all'albero, guardava piuttosto al tavolo di Natale dove c'erano stoffe di lana e di tela, abiti e calzoni. Già, là guardavano le madri e i bambini più grandicelli, solo i bimbi più piccoli allungavano le manine verso le candeline, le pagliuzze d'oro e le bandiere.
Tutti si erano radunati nel primo pomeriggio, avevano mangiato il riso al latte e l'oca arrosto con il cavolo rosso. Dopo aver ammirato l'albero e dopo la distribuzione dei regali, ognuno ricevette un bicchierino di punch e le frittelle di mele.
Poi tutti tornarono a casa nelle loro povere stanze e lì si parlò di quella "buona mangiata", e i doni vennero osservati ancora una volta attentamente.
C'erano Kirsten e Ole che lavoravano in giardino. Erano sposati e si guadagnavano la vita ripulendo e zappando il giardino del castello. Ogni Natale ricevevano la loro parte di regali, oltre tutto avevano cinque figli e tutti e cinque venivano vestiti dai padroni.
«Sono dei benefattori i nostri padroni!» dicevano «ma ne hanno anche la possibilità, e ne traggono piacere!»
«Qui ci sono ottimi vestiti da dividere per i nostri quattro figli!» disse Ole. «Ma perché non c'è niente per lo storpio? Di solito pensano anche a lui, anche se non viene mai alla festa!»
Il più grande dei loro bambini veniva chiamato sempre lo storpio, ma il suo nome era Hans. Da piccolo era un ragazzino molto delicato e vivace, ma poi improvvisamente "si indebolì nelle gambe", come dissero: non riusciva più a stare in piedi né a camminare e ora stava a letto già da cinque anni.
«No, ho avuto qualcosa anche per lui!» disse la madre. «Ma non è molto, è solo un libro da leggere.»
«Di quello non può certo saziarsi!» commentò il padre.
Ma il piccolo Hans fu felice. Era un ragazzo molto sveglio, che leggeva volentieri ma usava il suo tempo anche per lavorare, per quanto riusciva a fare, stando sempre a letto. Era intraprendente, usava le mani, con i ferri faceva calze di lana, addirittura coperte per il letto; la padrona del castello le aveva ammirate e acquistate.
Era un libro di favole quello che Hans aveva ricevuto, c'era molto da leggere, molto a cui pensare.
«Non servirà proprio a niente qui in casa» dissero i genitori. «Ma lasciamo che lo legga, così passerà il tempo, non può certo sempre lavorare a maglia.»
Venne primavera, i fiori e il verde cominciarono a spuntare, ma anche l'erbaccia che di solito si chiama ortica, anche se in un inno si parla molto bene di lei:
Se anche tutti i re avanzassero in fila, con il loro potere e col loro impero, non avrebbero la forza di far crescere la più piccola fogliolina da un'ortica.
C'era molto da fare nel giardino del castello, non solo per il giardiniere e per i suoi aiutanti, ma anche per Kirsten e Ole.
«È un bel lavoro» dicevano. «Non appena abbiamo finito di rastrellare i sentieri e di metterli in ordine, subito vengono calpestati di nuovo. C'è una folla di ospiti al castello: chissà quanto costa! ma i padroni sono ricchi.»
«E la ricchezza è distribuita in modo molto strano» disse Ole. «Siamo tutti figli di nostro Signore, dice il pastore. Perché allora c'è questa differenza?»
«Dipende dal peccato originale» disse Kirsten.
Ne riparlarono anche alla sera, mentre Hans lo storpio leggeva il suo libro di favole.
Le condizioni difficili e il lavoro aspro avevano indurito le mani dei genitori, ma anche le opinioni e il giudizio; non riuscivano a capirla quella differenza, non sapevano spiegarsela, e quindi parlandone si arrabbiavano e si indignavano.
«Alcune persone sono ricche e fortunate, altre hanno solo la povertà! Perché la curiosità e la disobbedienza dei nostri primi genitori si riversa su di noi? Noi non ci saremmo comportati come quei due!»
«Sì, lo avremmo fatto!» esclamò improvvisamente Hans lo storpio. «Sta tutto in questo libro.»
«Cosa c'è nel libro?» chiesero i genitori.
E Hans lesse per loro la vecchia favola del boscaiolo e di sua moglie:
«Anch'essi rimproveravano a Adamo e Eva la loro curiosità, che era causa della loro infelicità. Un giorno passò di lì il re del paese: "Seguitemi!" disse "starete bene proprio come me. Avrete sette portate vere a ogni pranzo e una finta. Questa si trova in una scodella chiusa, non la dovrete toccare perché altrimenti svanirà la vita da signori!" "Che cosa ci può essere in quella scodella?" si chiese la donna. "Non ci importa!" rispose l'uomo. "Già, io non sono curiosa!" disse la donna. "Ma mi piacerebbe sapere perché non possiamo sollevare il coperchio; è sicuramente qualche delicatezza!" "Purché non sia qualche marchingegno meccanico" rispose l'uomo. "Una specie di colpo di pistola che esplode e sveglia tutta la casa." "Oh!" disse la donna e non toccò la scodella. Ma di notte sognò che il coperchio si sollevava da solo e che veniva un profumo di punch delizioso, come lo si riceve solo ai matrimoni e ai funerali. C'era anche una grande moneta d'argento con la scritta: "Se voi berrete questo punch diventerete i più ricchi del mondo e tutti gli altri uomini diventeranno dei poveracci". A quel punto la donna si svegliò e raccontò il sogno al marito. "Tu pensi troppo a quello" le disse lui. "Potremmo essere prudenti" rispose la donna. "Con prudenza!" disse l'uomo, e la donna sollevò piano piano il coperchio. Saltarono fuori due vispi topolini che sparirono in un buco della parete. "Buona notte!" esclamò il re. "Ora potete tornarvene a casa e starvene per conto vostro, non rimproverate più Adamo e Eva, voi stessi siete stati ugualmente curiosi e privi di riconoscenza!"»
«Come ha fatto quella storia a finire nel libro?» chiese Ole. «È come se si riferisse a noi. È fatta per pensarci sopra.»
Il giorno dopo tornarono al lavoro, vennero bruciati dal sole e bagnati dalla pioggia; dentro di loro c'erano pensieri tristi che rimuginavano senza sosta.
La sera era ancora chiaro che avevano già terminato di mangiare il pasticcio di latte.
«Rileggici la storia del boscaiolo» chiese Ole.
«Ci sono tante altre storie belle in questo libro» disse Hans. «Tante che non conoscete ancora.»
«Ma quelle non mi importano» rispose Ole. «Voglio sentire quella che conosco.»
E sia lui che la moglie ascoltarono di nuovo.
Per più di una sera ritornarono su quella storia.
«Non riesco però a capire tutto» disse Ole. «Agli uomini succede come al latte che caglia: alcuni diventano ottimo formaggio bianco, altri ricotta molle e piena d'acqua. Alcune persone hanno successo in ogni cosa, siedono ogni giorno alla tavola dei signori e non conoscono né dolore né privazioni.»
Hans lo storpio sentì. Era debole nelle gambe, ma intelligente. Così lesse a voce alta per loro dal libro delle fiabe, lesse L'uomo senza dolore né privazione . Già, a che pagina si trovava? Doveva cercarla.
«Il re era malato e non sarebbe più guarito se non avesse indossato una camicia portata da un uomo che sinceramente potesse dire di non aver mai conosciuto né dolore né privazione.
«Il messaggio venne inviato in tutti i paesi del mondo, a tutti i castelli e i poderi, a tutte le persone felici e benestanti, ma quando si facevano domande approfondite, si scopriva che ognuno aveva provato sia dolore che privazione.
«"Io no!" disse il guardiano dei porci che sedeva vicino al fosso, ridendo e cantando. "Io sono l'uomo più felice!"
«"Allora dacci la tua camicia!" dissero gli inviati. "Ti verrà pagata mezzo regno."
«Ma lui non aveva nessuna camicia e ciò nonostante si diceva l'uomo più felice del mondo.»
«Era un signore distinto!» esclamò Ole, e sia lui che la moglie risero come non avevano mai riso da molti anni.
Passò di lì il maestro di scuola.
«Come vi divertite!» disse. «È una cosa insolita in questa casa. Avete forse vinto un ambo alla lotteria?»
«No, no, niente del genere» spiegò Ole. «È Hans che ha letto per noi una favola dal suo libro di favole:!, 'uomo senza dolore né privazione , e quel tipo non aveva neppure la camicia. Mi si rischiara la vista quando sento queste cose, e per di più da un libro stampato. Ognuno ha il suo peso da portare: in questo non si è mai soli. E è sempre una consolazione!»
«Da dove arriva quel libro?» chiese il maestro.
«L'ha ricevuto Hans per Natale più di un anno fa. I padroni gliel'hanno dato, sanno che gli piace molto leggere e che è storpio. Quella volta avremmo preferito che gli avessero regalato un paio di
camicie di tela azzurra. Ma il libro è straordinario, è come se sapesse rispondere ai pensieri di chiunque!»
Il maestro prese il libro e lo aprì.
«Sentiamo la stessa storia di nuovo» disse Ole. «Non l'ho ancora capita bene. Poi può rileggere ancora l'altra sul boscaiolo.»
Le due storie erano sufficienti per Ole, erano come due raggi di sole in quella povera stanza, in quei suoi tristi pensieri che lo facevano indignare e arrabbiare.
Hans aveva letto tutto il libro più volte. Le favole lo portavano fuori, nel mondo, proprio là dove non era in grado di arrivare, dove le gambe non potevano portarlo.
Il maestro si era seduto vicino al suo letto, parlarono insieme; e fu molto divertente per entrambi.
Da quel giorno il maestro andò spesso da Hans, quando i genitori erano al lavoro; era come una festa per il ragazzo ogni volta che il maestro veniva. Come ascoltava quello che il vecchio gli raccontava! sulla grandezza della terra e sui molti paesi, e sul sole, che è quasi mezzo milione di volte più grande della terra, e così lontano che una palla di cannone impiegherebbe dal sole alla terra venticinque anni, mentre i raggi di luce raggiungono la terra in otto minuti.
Uno scolaro diligente sa tutte queste cose, ma per Hans era tutto nuovo, e molto più straordinario di quello che c'era nel libro di fiabe.
Il maestro andava un paio di volte all'anno a pranzo dai padroni e in un'occasione del genere raccontò che grande significato aveva avuto quel libro di favole in quella povera casa, dove due sole storie erano diventate motivo di risveglio e consolazione; quel bambino debole e affettuoso aveva portato con la sua lettura gioia e riflessione nella casa.
Quando il maestro se ne andò, la padrona gli mise in mano un paio di talleri d'argento per il piccolo Hans.
«Questi devo darli a papà e mamma» disse il ragazzo quando il maestro gli portò quei soldi.
Ole e Kirsten dissero: «Hans lo storpio è comunque utile, e è una benedizione».
Qualche giorno dopo i genitori erano al lavoro al castello quando la carrozza dei padroni si fermò davanti alla loro casa era la generosa padrona che arrivava, felice che il suo regalo di Natale fosse diventato una tale consolazione e un piacere per il ragazzo e per i suoi genitori.
Portava con sé del pane bianco, della frutta e una bottiglia di sciroppo dolce, ma, cosa ancora più bella, portò con sé in una gabbia dorata un uccellino nero, che sapeva fischiare molto dolcemente. La gabbia con l'uccellino fu messa proprio sopra il vecchio cassone, non lontano dal letto del ragazzo che così poteva vedere l'uccello e ascoltarlo; sì, persino la gente che passava dalla strada maestra poteva udire il suo canto.
Ole e Kirsten giunsero a casa quando la padrona era già partita, videro come Hans era felice, ma si dissero anche che quel dono avrebbe causato seccature.
«I ricchi non pensano tanto a certe cose» dissero. «Adesso dovremo pensare anche a lui, perché Hans non può certo farlo. Finirà che il gatto se lo mangerà.»
Passarono otto giorni e otto ancora, il gatto in quel periodo era stato molte volte nella stanza, senza far male all'uccellino senza neppure spaventarlo, poi un giorno accadde un fatto eccezionale. Era un pomeriggio, i genitori e gli altri bambini erano al lavoro, Hans era tutto solo; aveva in mano il libro di fiabe e leggeva della moglie del pescatore che aveva avuto esauditi tutti i suoi desideri, voleva essere re e lo divenne, voleva essere imperatore e lo divenne, ma poi volle diventare come Dio e così si ritrovò di nuovo vicino al fosso da dove era venuta.
Quella storia in realtà non aveva nessun riferimento né col gatto né coll'uccello, ma era proprio la storia che lui stava leggendo, quando il fatto avvenne; da quel momento se la ricordò sempre.
La gabbia stava sul cassone, il gatto si trovava sul pavimento e fissava con i suoi occhi giallastri l'uccellino. C'era qualcosa nel volto del gatto che sembrava voler dire: "Come sei grazioso, mi piacerebbe mangiarti!".
Hans lo capì, lo lesse direttamente nel volto del gatto.
«Va' via, gatto!» gridò. «Cerca di uscirtene dalla stanza!»
Quello invece si preparò a saltare.
Hans non riusciva a raggiungerlo, non aveva altro da gettargli se non il suo tesoro più caro, il libro di fiabe. Lo gettò, ma la copertina si staccò e volò da una parte e il libro con tutte le pagine volò da un'altra parte. Il gatto tornò indietro lentamente e guardò Hans come per dirgli: "Non immischiarti in questa faccenda, piccolo Hans! Io posso camminare e saltare, tu non puoi niente di tutto ciò!".
Hans continuò a guardare il gatto e si agitò molto; anche l'uccello era molto agitato. Non c'era nessuno che si potesse chiamare, e era come se il gatto lo sapesse. Si preparava di nuovo a saltare. Hans sventolò la sua coperta, le mani le poteva ancora usare, ma il gatto non si preoccupò affatto della coperta, e quando gli venne gettata contro senza nessun risultato, fece un salto fin sulla sedia e da lì sul davanzale della finestra; ora era molto vicino all'uccello.
Hans sentì scorrergli il sangue caldo nelle vene, ma non ci pensò, pensava solo al gatto e all'uccello; il ragazzo non poteva uscire dal letto, non poteva stare in piedi, e tanto meno camminare. Fu come se il cuore gli si rivoltasse dentro quando vide il gatto saltare dalla finestra proprio sul cassone e urtare la gabbia che si rovesciò. L'uccello si agitava in modo selvaggio.
Hans gridò, sentì un brivido, e senza pensarci saltò fuori dal letto, andò verso il cassone, gettò giù il gatto e tenne in mano la gabbia, dove si trovava l'uccello, spaventatissimo. Con la gabbia in mano, corse fuori dalla porta, sulla strada.
Allora gli sgorgarono le lacrime dagli occhi, esultò e gridò a voce alta: «Posso camminare! Posso camminare!».
Aveva recuperato la salute; cose simili possono succedere, e erano successe a lui.
Il maestro abitava lì vicino, il ragazzo corse subito da lui a piedi nudi, solo con la camicia e la giacchetta, e con la gabbia dell'uccello.
«Posso camminare!» gridò. «Signore mio!» e singhiozzò per la gioia.
E fu gioia anche nella casa di Ole e di Kirsten! «Un giorno più felice non potremmo averlo!» dissero entrambi.
Hans venne chiamato al castello, quella strada non l'aveva più percorsa da molti anni, era come se gli alberi e i cespugli di nocciole, che lui conosceva così bene, gli facessero cenno e gli dicessero: "Buon giorno, Hans! Benvenuto qua fuori!". Il sole brillava proprio sul suo viso fino al cuore.
I padroni, quei giovani e generosi signori, lo fecero sedere vicino a loro, e furono felici come se lui stesso fosse stato uno della famiglia.
Più felice di tutti era comunque la padrona, che gli aveva dato quel libro di fiabe, che gli aveva regalato quell'uccellino canterino che era morto, morto per la paura, ma che era stato lo strumento della sua guarigione; e il libro era stato per lui e per i suoi genitori motivo di risveglio; lo aveva ancora e lo voleva conservare per leggerlo anche da vecchio. Ora poteva essere utile in casa, voleva imparare un mestiere manuale, forse diventare rilegatore di libri «perché così» disse «potrei leggere tutti i nuovi libri».
Nel tardo pomeriggio la padrona chiamò i due genitori. Lei e suo marito avevano parlato di Hans: era buono e bravo, aveva voglia di imparare e poteva farlo con facilità. Il Signore è sempre favorevole a un'azione buona.
Quella sera i genitori tornarono a casa veramente felici, soprattutto Kirsten, ma la settimana dopo pianse, perché il piccolo Hans partiva; gli avevano dato dei bei vestiti, era un bravo ragazzo, ora doveva attraversare l'acqua salata, andare lontano, frequentare una scuola di latino; e sarebbero passati molti anni prima che potessero vederlo di nuovo.
Non portò con sé il libro di fiabe, volle che i genitori lo conservassero per ricordo. Il padre spesso lo leggeva, ma soltanto quelle due storie che conosceva bene.
Ricevettero varie lettere da Hans, una più felice dell'altra. Si trovava tra gente gentile e era in ottime condizioni; ma la cosa più bella era andare a scuola: c'era tanto da imparare e da sapere; lui desiderava soltanto arrivare a cento anni e diventare un giorno maestro di scuola.
«Se solo potessimo vederlo!» dissero i genitori, e si strinsero la mano, come davanti all'altare.
«Che cosa è capitato a Hans! Nostro Signore pensa anche ai figli dei poveri! E proprio con lo storpio doveva succedere! Non sembra quasi che Hans stia leggendo dal suo libro di fiabe?»

FINE

 

 
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Qualcosa

Post n°892 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

«Voglio diventare qualcosa!» esclamò il maggiore di cinque fratelli «voglio essere utile al mondo, il mio lavoro può anche essere modesto, ma basta che quel che faccio sia di utilità e è già qualcosa. Io fabbricherò mattoni, e di questi non si può fare a meno! Così avrò fatto qualcosa!»
«Ma è troppo poco!» disse il secondo fratello «quello che fai non vale niente. È un lavoro manuale che può essere compiuto anche da una macchina. No, allora è meglio essere muratore, è sempre qualcosa, e io farò il muratore. I muratori sono una forza sociale, e io farò parte di una corporazione di arti e mestieri, diventerò cittadino, avrò una bandiera tutta mia e un'osteria altrettanto mia; e se va bene avrò dei garzoni, sarò chiamato maestro e mia moglie signora: questo è qualcosa!»
«Non è nulla, invece!» disse il terzo «si resta fuori dalle classi più elevate, e ce ne sono parecchie in città più importanti di quelle dei mastri carpentieri. Puoi anche essere un'ottima persona, ma resterai sempre un "semplice" muratore. Io conosco qualcosa che è meglio. Voglio diventare architetto, agire nell'ambiente artistico, intellettuale, salire fino alle classi dominanti del regno dello spirito; certo devo cominciare dal basso, sì, lo dico chiaramente: comincerò come apprendista di falegname, andrò in giro col berretto, anche se sono abituato al cappello di seta, dovrò correre a prendere birra e acquavite per i garzoni che mi daranno del tu, e questo è ancora peggio. Ma mi convincerò che è tutta una farsa di carnevale, e quindi tutto è lecito. Un domani, cioè quando diventerò garzone, andrò per la mia strada e non mi preoccuperò più degli altri. Andrò all'Accademia, imparerò a disegnare, verrò chiamato architetto: questo è qualcosa! è molto! Potrò diventare nobile e rispettabile, con molti titoli davanti e dietro al nome, e costruirò, costruirò, come gli altri che mi hanno preceduto. È sempre qualcosa su cui contare! Tutto questo è qualcosa!»
«Di questo qualcosa non mi importa nulla!» esclamò il quarto «non voglio fare l'ultima ruota del carro, essere una copia; voglio diventare un genio, più intelligente di voi tutti! Creerò un nuovo stile, darò idee per una nuova costruzione che sia adatta al clima e alle materie prime del paese, alla nazionalità, allo sviluppo del nostro tempo, e che abbia un piano in più, perché io sono un genio.»
«E se il clima e il materiale non valgono niente?» chiese il quinto «sarebbe un male, perché anch'essi hanno la loro influenza! Anche la nazionalità può facilmente venire usata in modo da diventare un'affettazione, e lo sviluppo del nostro tempo può sfuggire al controllo, come accade spesso ai giovani. Vedo bene che nessuno di voi diventerà qualcosa; nonostante ne siate così sicuri!
Ma fate pure come volete, io non vi assomiglierò, mi metterò al di fuori e ragionerò su quello che voi fate. C'è sempre qualcosa di sbagliato in ogni cosa, io lo troverò e ne parlerò. Questo è pure qualcosa!»
Così infatti fece, e la gente disse di lui: «In lui c'è veramente qualcosa! Ha un bell'ingegno, ma non fa nulla!». Proprio per questo era qualcosa.
Questa non è che una storiella, ma non avrà mai fine, finché esisterà il mondo.
Ma non accadde niente ai cinque fratelli? Niente, eh? Sentite un po', è una vera e propria storia.
Il maggiore, che faceva mattoni, capì che da ogni mattone finito veniva fuori un soldino, di rame, è vero, ma tanti soldini di rame, messi insieme, diventano un tallero lucente, e quando con questo si bussa alla porta del panettiere, del macellaio o del sarto, insomma di tutti quanti, la porta si spalanca e si può avere quello di cui si ha bisogno. Questo diedero i mattoni, alcuni però andarono in pezzi o si ruppero in due, ma tornarono ugualmente utili.
Alla diga c'era donna Margherita, una poveretta che tanto desiderava costruirsi una piccola casa: ricevette tutti i pezzi dei mattoni rotti e qualche mattone intero, dato che il fratello maggiore aveva buon cuore, anche se non faceva altro che costruire mattoni. Quella poveretta costruì da sola la sua casa, che risultò stretta, con una finestra storta e la porta troppo bassa. Anche il tetto di paglia poteva essere fatto meglio, ma la casa era comunque un riparo, e la si poteva riconoscere da lontano, dal mare, che nella sua furia si frangeva contro la diga. Goccioline d'acqua salata si infrangevano sulla casa, che rimase in piedi anche quando colui che aveva fatto i mattoni era già morto da un pezzo.
Il secondo fratello sapeva costruire meglio, certo, aveva anche studiato! Diventato garzone, raccolse le sue cose e cantò la canzone dell'artigiano:
Viaggerò finché son giovane, e le case costruirò. Il lavoro è la mia ricchezza, la gioventù la mia fortuna. Poi tornerò nella mia patria per sposarmi con l'amata. Urrà! Un bravo artigiano si adatta in ogni luogo!
E così fece. Quando tornò in città e divenne capomastro costruì case su case, un'intera strada. Poi, quando fu finita, fu così bella e diede buona fama alla città, così le case costruirono una casetta per lui, una casetta che fosse proprio sua. Ma come potevano le case costruire? Se lo chiedi a loro non ti rispondono, ma la gente racconta: «Certo che quella strada ha costruito una casa per lui! Era piccola, con un pavimento di argilla, ma quando lui vi ballò con la sua sposa, divenne liscio e lucido, e da ogni mattone delle pareti spuntò un fiore, così fu come avere una preziosa tappezzeria. Era proprio una casa carina e la coppia era felice. La bandiera della corporazione sventolava fuori casa e i garzoni e gli apprendisti gridavano: "Urrà!" Questo era qualcosa!» e così morì, e anche questo era qualcosa.
Poi venne l'architetto, il terzo fratello, che prima aveva fatto l'apprendista di falegname e era andato in giro col berretto a fare le commissioni in città. Dopo l'Accademia era diventato architetto "nobile e rispettabile". Le case della strada avevano costruito una casa per suo fratello, il capomastro, lui diede il suo nome alla strada e la casa più bella di quella strada divenne sua; questo era qualcosa e lui stesso era qualcosa, con un lungo titolo davanti e dietro al nome. I suoi figli furono considerati nobili, e una volta morto lui, sua moglie divenne una vedova di rango - era qualcosa! Il suo nome rimase per sempre scritto sull'angolo della strada e fu sulla bocca di tutti, come nome d una strada - questo sì è qualcosa!
Poi venne il genio, il quarto fratello che voleva costruire qualcosa di nuovo, di strano, con un piano in più, ma questo gli crollò davanti agli occhi, e lui cadde e si ruppe il collo - ebbe però uno splendido funerale con le bandiere della corporazione e la musica, con un elogio sul giornale e fiori per la strada.
Vennero pronunciati tre discorsi funebri, uno molto più lungo dell'altro, e questi avrebbero sicuramente rallegrato il morto, dato che gli piaceva molto che si parlasse di lui. Fu eretto un monumento sulla tomba, a un piano solo, ma è pur sempre qualcosa!
Ormai era morto, come gli altri tre fratelli; l'ultimo invece, che faceva i ragionamenti, sopravvisse a tutti gli altri e fu giusto così, perché ebbe l'ultima parola e per lui era molto importante avere l'ultima parola. «È la mente della famiglia!» diceva la gente. Poi venne anche la sua ora e morì e si presentò al portone del regno dei cieli. Qui si arriva sempre a due a due, così si trovò vicino a un'altra anima, che pure voleva entrare: non era altri che la vecchia donna Margherita della diga.
"È sicuramente per la legge del contrasto che mi tocca arrivare qui con un'anima così miserevole!" commentò il ragionatore "e chi è poi? La vecchia della diga!" «Vuole entrare anche lei?» le chiese. La vecchia donna chinò il capo come potè, perché credeva che fosse San Pietro in persona che le parlava. «Sono una povera disgraziata, senza famiglia. La povera Margherita della diga.»
«E che cosa hai fatto o concluso laggiù?»
«Non ho proprio concluso nulla nel mondo! Nessuno mi può aprire. Sarà sicuramente un'azione misericordiosa del Signore se avrò il permesso di entrare.»
«Come hai lasciato il mondo?» chiese l'altro, tanto per poter parlare di qualcosa dato che si annoiava a star lì a aspettare.
«Non so come ho lasciato il mondo! Sono stata molto malata negli ultimi anni e non ho sopportato il fatto di essermi alzata dal letto e di essere uscita al freddo. È stato un duro inverno, ma ormai è passato. Ci sono stati due giorni calmi come l'olio ma terribilmente freddi, come il Reverendo sa. Il ghiaccio si era formato lungo la spiaggia e non si vedeva la fine, così tutti gli abitanti del villaggio andarono sul ghiaccio. Ci furono corse sui pattini e danze, credo che si chiamino così, c'era musica e possibilità di ristorarsi. Io li sentivo bene dalla mia stanza, dove mi trovavo a letto. Verso sera la luna s'era già alzata, ma io non avevo ancora recuperato le forze, guardai dal mio letto fuori verso la spiaggia e proprio al confine tra il mare e il cielo vidi una strana nube bianca. Continuai a guardarla e notai che nel mezzo aveva un punto nero che diventava sempre più grande. Sapevo cosa significava; sono vecchia e piena di esperienza; anche se quel segno non lo si vede spesso! Lo riconobbi e mi vennero i brividi. In tutta la mia vita lo avevo visto solo due volte, sapevo che annunciava una terribile tempesta con alta marea. Questa si sarebbe riversata su quella povera gente che c'era laggiù, e che beveva, saltava e festeggiava. Giovani e vecchi, tutto il paese era là, chi poteva avvisarli se nessuno aveva visto e riconosciuto quello che io avevo notato? Mi spaventi talmente e mi sentii forte come non ero stata da molto tempo! Mi alzai dal letto e andai alla finestra, ma non riuscii a proseguire. La aprii e vidi che la gente correva e saltava sul ghiaccio, notai le bandiere variopinte, sentii i ragazzi gridare Urrà! e i giovani cantare; c'era molta allegria, ma la nuvola bianca col suo sacco nero nel mezzo si innalzava sempre più in alto. Gridai più forte che potei ma nessuno mi sentì, ero troppo lontana. Presto si sarebbe scatenata la tempesta e il ghiaccio si sarebbe rotto. Così tutti sarebbero affogati, senza speranza. Non potevano sentirmi e io non ero in grado di raggiungerli, ma dovevo richiamarli sulla terraferma. Allora il Signore mi diede l'idea di dar fuoco al mio letto, o di far bruciare la casa, pur di non far morire tanta gente in modo così miserevole. Accesi il fuoco e guardai la fiamma rossa, riuscii a uscire dalla porta, ma poi caddi a terra, non ce la facevo più; le fiamme mi inseguirono, uscirono dalla finestra e raggiunsero il tetto. Quelli che erano alla spiaggia le videro e corsero più che poterono per aiutare una povera vecchia, che credevano stesse bruciando in casa. Tutti, indistintamente, si affrettarono verso di me, li sentii arrivare, ma sentii anche come, in un attimo, l'aria si schiantò. Ci fu poi un rumore simile a un colpo di cannone, l'alta marea sollevò il ghiaccio che si spezzò ma tutti erano arrivati alla diga, dove le scintille già mi colpivano. Li salvai tutti, ma non riuscii a tollerare il freddo e la paura, così sono arrivata alla porta del regno dei cieli. Dicono che si aprirà anche per una poveretta come me! e poi ora non ho più la mia casetta alla diga, ma questo non mi assicura l'ingresso qui.»
La porta del cielo si spalancò e l'angelo portò dentro la vecchia donna; lei perse una pagliuzza, un filo della paglia che si trovava sul suo letto, che lei aveva incendiato per salvare tante persone: ora era diventato d'oro zecchino, di un oro che cresceva e si intrecciava formando meravigliosi ornamenti.
«Guarda cosa aveva quella povera donna!» disse l'angelo. «Che cosa porti tu, invece? So che non hai fatto nulla, neppure un mattone. Se solo tu potessi tornare indietro e portarcene almeno uno! Non sarebbe servito a niente, se lo avessi fatto tu, ma almeno lo avresti fatto con buona volontà, e è sempre qualcosa. Ma non puoi tornare indietro e io non posso fare nulla per te.»
Allora la povera anima della donna della diga pregò per lui: «Suo fratello ha fatto e mi ha dato tutti i mattoni e i cocci di mattone e con questi ho innalzato la mia casetta. È stato un lavoro tremendo per una poveretta come me! Tutti i cocci e i pezzetti di mattone non possono valere per un mattone intero fatto da lui? Sarebbe proprio una azione della grazia. Lui ora ne ha bisogno e questa in fondo è la casa della gloria!».
«Tuo fratello, quello che tu consideravi più mediocre» spiegò l'angelo «e il cui lavoro così onesto era considerato il più infimo di tutti, ti darà il suo obolo per il regno dei cieli. Non sarai cacciato e ti permetteremo di restare qui fuori a meditare su quanto hai fatto nella vita terrena; entrerai però solo quando avrai concluso qualcosa di buono, qualcosa!»
"Io avrei potuto esprimermi meglio!" pensò il ragionatore, ma non lo disse a voce alta e questo fu già qualcosa.

FINE


 
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C'è differenza

Post n°891 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Era il mese di maggio, il vento soffiava ancora freddo; ma c'era già la primavera, così dicevano cespugli e alberi, campi e prati; comparivano fiori dappertutto, anche sulla siepe, e lì la primavera parlava di sé, e parlava da un piccolo melo, il cui tronco si assottigliava in un unico ramo; ma così fresco così fiorito, ricoperto di sottili gemme di color rosso pallido che stavano per sbocciare; lui stesso sapeva bene quanto fosse bello, perché lo sa la linfa quanto il sangue, e per questo non si meravigliò quando una carrozza signorile si fermò sulla strada davanti a lui e la giovane contessa esclamò che quel ramo di melo era la cosa più graziosa del mondo, e che era la primavera stessa nella sua più bella incarnazione. Il ramo venne spezzato e lei lo tenne tra le mani delicate proteggendolo dal sole col parasole di seta. Giunsero al castello, dove c'erano sale altissime e tutte addobbate. Bianche tende luminose si gonfiavano davanti alle finestre aperte, e magnifici fiori riempivano vasi trasparenti. In uno di questi, che sembrava fatto di neve appena caduta, fu messo il ramo di melo, insieme a rami freschi e lucenti di faggio; era un piacere guardarlo!
Il ramo diventò superbo, e questo era più che umano!
In casa giungevano molte persone, che, secondo la considerazione che ricevevano, osavano esprimere la loro meraviglia; alcune non dissero nulla, altre dissero troppo, e il ramo di melo comprese che esisteva la stessa differenza tra gli uomini e tra le piante. "Alcuni sono fatti per la bellezza, altri per l'utilità, ci sono altri che addirittura potrebbero benissimo non esistere!" pensava il ramo di melo il quale, essendo stato messo vicino alla finestra aperta, da cui poteva vedere sia nel giardino che nel campo, aveva molti fiori e piante su cui meditare. C'erano piante ricche e povere, e altre addirittura miserevoli.
«Povere erbe ripudiate!» esclamò il ramo di melo. «È proprio vero che c'è differenza! Chissà come devono sentirsi infelici, se per caso sentono come sento io e i miei simili. C'è proprio differenza, ma è giusto che ci sia, altrimenti saremmo tutti uguali!»
Il ramo di melo guardava intanto con una certa compassione soprattutto un tipo di fiore che si trovava in enorme quantità nei campi e lungo i fossi; nessuno ne faceva mazzi, erano fiori troppo comuni, si potevano persino trovare tra le pietre del selciato, crescevano come la tenace gramigna e poi avevano un bruttissimo nome: soffioni.
«Povera pianta disprezzata!» esclamò il ramo di melo. «Non puoi farci nulla se sei fatta così, se sei così comune, se hai questo orribile nome! Ma tra le piante dev'essere come tra gli uomini: ci dev'essere una differenza!»
«Una differenza!» disse il raggio di sole baciando il ramo di melo in fiore, ma baciò anche i gialli soffioni del campo, tutti i fratelli del raggio di sole baciarono tanto i fiori poveri quanto quelli ricchi.
Il ramo di melo non aveva mai meditato sull'infinito amore che il Signore ha per tutto ciò che vive e che si rinnova in lui, e neppure aveva mai pensato alle cose belle e buone che possono trovarsi nascoste, ma non dimenticate; ma anche questo era molto umano!
Il raggio di sole, i raggi di luce sapevano di più: «Tu non vedi lontano, non vedi chiaramente. Qual è la pianta disprezzata che più compiangi?».
«I soffioni gialli» rispose il ramo di melo. «Non sono mai colti in mazzetti, vengono calpestati, sono in troppi e quando diventano semi si disperdono sulla strada come fili di lana tagliati e si attaccano ai vestiti della gente. È gramigna! E forse così deve essere! Io sono molto riconoscente di non essere uno di loro.»
Nel campo giunse un gruppo di bambini; il più piccolo era così piccino che lo portavano in collo gli altri; quando poi fu messo a sedere sull'erba, tra i fiori gialli, si rotolò un po', colse i fiori e li baciò con dolce innocenza. I bambini un po' più grandi staccarono invece il fiore dallo stelo cavo, e piegarono lo stelo unendo le due estremità per ottenere anelli e poi una catena: una per il collo, una per le spalle e per la vita, poi per il petto e per la testa; era una magnificenza di catene e ghirlande verdi. I bambini più grandi ancora presero invece con attenzione le piante fiorite, lo stelo che reggeva quella meravigliosa corona di soffici semi, quel lieve e soffice fiore di lana che è un vero minuscolo capolavoro d'arte e sembra fatto di finissime piume e penne; lo portarono alla bocca e cercarono con un bel soffio di spargerlo al vento. Chi ci fosse riuscito, avrebbe ricevuto nuovi vestiti entro l'anno, così diceva la nonna.
Il fiore disprezzato diventava in quell'occasione un vero profeta.
«Vedi!» disse il raggio di sole «vedi la sua bellezza, il suo potere!»
«Sì, ma solo per i bambini!» replicò il ramo di melo.
Giunse al campo una vecchietta e si mise a scavare col coltello spuntato e senza manico proprio intorno alle radici del fiore, e lo estirpò; con alcune radici avrebbe fatto il caffè, con le altre avrebbe guadagnato qualche soldo portandole al farmacista.
«La bellezza però è qualcosa di più alto!» disse il ramo di melo. «Solo gli eletti entrano nel regno della bellezza! C'è differenza tra le piante, proprio come c'è differenza tra gli uomini!»
Il raggio di sole parlò dell'amore infinito di Dio per tutte le cose create e per tutto ciò che ha vita, e della giusta divisione di tutto nel tempo e nell'eternità.
«Questo è ciò che pensa lei!» gli rispose il ramo di melo.
Entrò gente nella stanza, e tra questa anche la giovane contessa che aveva messo il ramo di melo con tanta cura nel vaso trasparente dove la luce del sole brillava; aveva con sé un fiore, o qualcosa di simile, nascosto fra tre o quattro grandi foglie che lo avvolgevano come un cartoccetto per evitare che la corrente d'aria o un soffio di vento lo danneggiasse; e lo portava con tanta delicatezza quale non aveva avuto neppure per il bel ramo di melo.
Piano piano le grandi foglie vennero allontanate e si potè vedere la bella corona di soffici semi del tanto disprezzato soffione giallo. Era questo il fiore che era stato colto con tanta attenzione e che con tanta premura era stato trasportato affinché non andasse perduta neppure una delle finissime, fragili piume che formano quella figura di nebbia. Ora era lì, splendido e intatto; la giovane contessa ne ammirava la bella forma, il soffice splendore, la particolare conformazione, tutta la bellezza, destinata a perdersi nel vento.
«Guardate dunque! Che meravigliosa bellezza il Signore gli ha dato!» esclamò la contessa. «Voglio dipingerlo insieme al ramo di melo; il ramo appare meraviglioso a tutti, ma anche questo povero fiore ha ricevuto tanto dal Signore, sebbene in un altro modo. Sono così diversi, eppure entrambi sono figli del regno della bellezza.»
E il raggio di sole baciò il povero fiore e baciò il ramo di melo fiorito, le cui foglie sembrarono arrossire un po'.

FINE

 
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Storia di una madre

Post n°890 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Una madre sedeva accanto al suo bambino, era molto triste e temeva che morisse. Era così pallido, con gli occhietti chiusi, respirava a fatica e ogni tanto tirava un sospiro, ansimante quasi un gemito; la madre lo guardava allora col cuore ancora più addolorato.

Bussarono alla porta e entrò un povero vecchio, avvolto in una grande coperta di quelle che si mettono di solito sui cavalli e che teneva molto caldo, e proprio di questo lui aveva bisogno, perché era un inverno rigido: fuori tutto era coperto di neve e di ghiaccio e il vento soffiava da tagliare il viso.
Il vecchio tremava per il freddo, e poiché il bambino si era assopito un momento, la madre andò a mettere della birra sulla stufa, affinché si scaldasse e potesse riscaldare il vecchio mentre lui cullava il bambino, poi gli sedette accanto, guardò i bambino malato che respirava a fatica, e gli sollevò una manina.

«Credi che lo perderò?» chiese. «Il Signore non vorrà togliermelo!»
Il vecchio, che era la morte in persona, fece un cenno molto strano che poteva significare sì o no. La madre abbassò lo sguardo e le lacrime le scorsero lungo il viso; la testa le si appesantì; per tre giorni e tre notti non aveva chiuso occhio e ora si assopì, ma solo per un istante, poi sussultò, con un brivido di freddo. «Che è successo?» esclamò guardando da ogni parte. Il vecchio se n'era andato, e anche il suo bambino era sparito; il vecchio l'aveva portato via con sé. Dall'angolo giungeva il tic-tac dell'orologio, poi il grande pendolo rotolò sul pavimento, bum! e anche l'orologio si fermò.
La povera madre si precipitò fuori casa chiamando il suo bambino.
Là fuori, nella neve, si trovava una donna con un lungo abito nero che le disse: «La morte è stata a casa tua, l'ho vista uscire di corsa col tuo bambino; va più veloce del vento e non riporta mai quello che ha preso!».
«Dimmi da che parte è andata!» implorò la madre «dimmi la direzione e io la troverò.»
«Io la conosco!» rispose la vecchia vestita di nero «ma prima che te lo dica, devi cantare per me tutte le canzoni che hai cantato al tuo bambino! Mi piacciono molto, le ho già sentite perché io sono la notte, e ho visto le tue lacrime mentre le cantavi!»
«Te le canterò tutte, tutte!» rispose la madre «ma non mi fermare ora, devo raggiungerli, devo trovare mio figlio!»
Ma la notte rimase muta e immobile, e la madre, torcendosi le mani, cantò e pianse; erano molte le canzoni, ma erano molte di più le lacrime! Infine la notte disse: «Vai a destra e inoltrati nel buio bosco di abeti, lì ho visto dirigersi la morte col tuo bambino».
Nel bosco le strade si incrociavano e la povera donna non seppe più da che parte andare; vide un rovo, senza più fiori né foglie, perché era inverno, e dai rami pendevano soltanto ghiaccioli.
«Hai forse visto passare la morte e il mio bambino?»
«Sì» rispose il rovo «ma non ti dirò da che parte sono andati se non mi riscalderai sul tuo cuore! Sto morendo di freddo e sono tutto gelato!».
E lei strinse forte al petto il rovo, affinché questo si riscaldasse; le spine le penetrarono nella carne e da lì sgorgarono grosse gocce di sangue, ma al rovo spuntarono in quella gelida notte invernale nuove foglioline verdi e sbocciarono fiori; tanto ardeva il cuore di quella madre in pena! Il rovo le indicò poi la strada.
Lei giunse a un grande lago, dove non c'erano né navi né barche. Il lago non era gelato tanto da poterla reggere, ma neppure era tanto basso che potesse attraversarlo a guado pure doveva attraversarlo, se voleva ritrovare il suo bambino. Allora si chinò per bere tutta l'acqua del lago; non era una cosa possibile per un essere umano, ma poteva sempre avvenire un miracolo.
«No, è impossibile!» le disse il lago «cerchiamo invece di metterci d'accordo. Io colleziono perle e i tuoi occhi sono le perle più lucenti che abbia mai visto. Se piangerai tanto da farli cadere dentro di me, ti porterò sull'altra riva, alla grande serra dove la morte abita e coltiva alberi e piante; ognuno di loro è una vita umana.»
«Oh, cosa non darei per raggiungere mio figlio!» esclamò la madre piangendo, e pianse finché gli occhi caddero nel lago trasformandosi in due perle preziose. Il lago allora la sollevò, e a lei sembrò di essere in altalena, e volò in un colpo solo fino all'altra riva, dove si trovava una dimora molto strana che si estendeva per miglia e miglia e non si capiva se era una montagna con boschi e grotte, o se era stata edificata ma la povera madre non potè vederla, perché non aveva più gli occhi per il gran piangere.
«Dove posso trovare la morte, che s'è presa il mio bambino?» chiese la madre.
«Qui non è ancora arrivata» rispose la vecchia becchina che faceva la guardia alla grande serra della morte. «Come hai fatto a arrivare fin qui, chi ti ha aiutato?»
«Il Signore mi ha aiutata!» rispose la madre. «Egli è misericordioso e siilo anche tu: dove posso trovare il mio bambino?»
«Io non lo conosco» rispose la donna «e tu non ci vedi! Molti fiori e molte piante sono appassiti questa notte e la morte arriverà presto per trapiantarli. Tu sai che ogni essere umano ha il suo albero della vita o il suo fiore, a seconda di come ciascuno è fatto. Apparentemente sono come le altre piante della natura, ma hanno un cuore che batte. Anche il cuore dei bambini batte! Ascoltali! Forse saprai riconoscere quello di tuo figlio. Ma che cosa mi dai, perché ti dica che altro devi fare?»
«Non ho nulla da darti» disse la madre afflitta «ma andrei in capo al mondo per te!»
«No, non ho nulla da fare là!» rispose la donna «ma mi puoi dare i tuoi lunghi capelli neri. Tu stessa sai quanto sono belli e a me piacciono! Avrai i miei capelli bianchi in cambio. È sempre qualcosa!»
«Se non desideri altro» le rispose la madre «te li do con gioia!» e così le diede i suoi bei capelli neri e ricevette quelli della vecchia, bianchi come la neve.
Entrarono nella grande serra della morte, dove fiori e piante crescevano mescolati in modo strano. C'erano sottili giacinti sotto campane di vetro e c'erano peonie grosse e robuste; crescevano piante acquatiche, alcune molto fresche, altre un po' malate; vi si appoggiavano le bisce acquatiche, e i granchi neri ne afferravano gli steli. C'erano splendide palme, platani e querce, piantine di prezzemolo e di timo fiorito; ogni albero e ogni fiore aveva il suo nome e ognuno rappresentava una vita umana, una persona ancora in vita, in Cina, in Groenlandia, in tutto il mondo. C'erano grandi piante in vasi molto piccoli, che soffocavano e sembrava che stessero per spezzare il vaso, c'erano anche da molte parti piccoli fiori insignificanti piantati nella terra, circondati dal muschio, ben custoditi e curati. La madre afflitta si chinava sulle piante più piccole e ascoltava il loro cuore che batteva, e tra milioni di cuori riconobbe quello del suo bambino.
«È questo!» gridò, e tese la mano verso un piccolo croco azzurro, debolmente piegato da un lato.
«Non toccare il fiore!» gridò la vecchia «mettiti qui e quando la morte arriverà, e sarà qui tra poco, impediscile di strappare la pianta minacciando di strappare tutti gli altri fiori. Avrà paura, perché ne risponde davanti al Signore, e nessuno può sradicarli senza il suo permesso.»
Improvvisamente soffiò un'aria gelida per il salone e la madre cieca capì che la morte stava arrivando.
«Come hai fatto a arrivare fin qui?» le chiese «come hai potuto arrivare prima di me?»
«Sono una madre!» rispose lei.
E la morte tese la sua lunga mano verso quel fiorellino delicato, ma lei vi tenne sopra le mani sfiorandolo quasi e temendo di toccare uno solo dei suoi petali. Allora la morte soffiò su quelle mani, e lei sentì che era ben più fredda del vento gelato, e le sue mani ricaddero inerti.
«Tu non puoi nulla contro di me!» disse la morte.
«Ma lo può il Signore!» rispose la madre.
«Io faccio ciò che Lui vuole!» replicò la morte. «Io sono il suo giardiniere! Colgo tutte le sue piante e i suoi fiori e li ripianto nel grande giardino del paradiso, in una terra sconosciuta, ma non oso raccontarti come vi crescano e come sia il luogo.»
«Rendimi mio figlio!» supplicò la madre piangendo, e improvvisamente afferrò due bei fiori che si trovavano lì vicino e gridò alla morte: «Strapperò tutti i tuoi fiori! Sono disperata!».
«Non toccarli!» disse la morte. «Dici di essere infelice e ora vuoi rendere un'altra madre altrettanto infelice?»
«Un'altra madre?» chiese la povera donna, lasciando immediatamente i due fiori.
«Ecco i tuoi occhi, li ho ripescati dal lago» disse la morte «splendevano lucentissimi, ma non sapevo che fossero tuoi. Riprendili, ora vedrai meglio di prima; guarda nel pozzo profondo qui vicino: io chiamerò per nome i due fiori che tu volevi strappare, così potrai vedere il loro futuro, la loro vita di uomini; guarda quello che volevi turbare e distruggere!»
La madre guardò nel pozzo; era una gioia osservare come uno dei fiori diventasse una benedizione per il mondo, e quanta gioia e felicità si spandesse intorno a lui. Poi guardò la vita dell'altro fiore, e era solo dolore e miseria, orrore e infelicità.
«Entrambi sono volontà di Dio!» commentò la morte.
«Quali dei due fiori è quello dell'infelicità e quale quello della benedizione?» chiese la madre.
«Non te lo dico» rispose la morte «ma sappi che uno dei due fiori è quello di tuo figlio; hai visto il destino di tuo figlio, il suo futuro!»
La madre gridò di terrore: «Quale dei due era mio figlio? Dimmelo! Salva l'innocente! Salva mio figlio da tutta quella miseria! Portalo via, piuttosto! Portalo nel regno di Dio! Dimentica le mie lacrime, dimentica le mie preghiere e tutto quello che ho detto e fatto!».
«Non ti capisco!» disse la morte «vuoi riavere tuo figlio oppure devo portarlo nel paese che ti è sconosciuto?»
La madre si gettò in ginocchio e, torcendosi le mani, pregò il Signore: «Non ascoltarmi, se prego contro la tua volontà, che è la migliore! Non ascoltarmi! Non ascoltarmi!».
E piegò il capo in grembo.
La morte se ne andò col bambino in quel paese sconosciuto.

FINE

 
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Benedizione (Pirandello)

Post n°889 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

– Io non so com’è la gente! – soleva ripetere don Marchino per lo meno una ventina di volte al giorno, insaccandosi nelle spalle e aprendo le mani a ventaglio davanti al petto, con gli angoli della bocca contratti in giù: – Io non so com’è la gente!

Perché la gente in tanti e tanti casi non si regolava com’egli si sarebbe regolato; o anche perché la gente spessissimo trovava da ridire su tutto ciò che faceva lui e che a lui pareva ben fatto.
Ma, santo cielo, per qual mai ragione fin da principio lo avevano veduto così male a Stravignano, i suoi parrocchiani? Non gli perdonavano d’aver ridotto a podere (col beneplacito dei superiori, s’intende!) il querceto che prima sorgeva dietro la chiesetta a valle e prendeva tutto il beneficio della cura. Eh, quel benedetto podere ancora non lo mandavano giù, e neanche il quartierino di quattro stanze che aveva fatto fabbricare coi denari ricavati dalla vendita degli alberi, attaccato alla chiesetta, come di là era attaccata la casuccia a terreno per sé e per la sorella Marianna. Ma con parte di quei denari non s’era fors’anche riattata la chiesetta? E che male c’era, se ogni anno d’estate affittava quel quartierino a qualche famiglia che veniva a villeggiare a Stravignano?
Gli stravignanesi volevano per forza più povero di Santo Giobbe il loro curato. E il bello era questo: che, da un canto, egli doveva essere il servitore di tutti; ma guai, dall’altro, se lo vedevano con la zappa in mano o badare alle bestie. Perché non si sporcasse la zimarra, eh? perché non gli s’incallissero le mani che dovevano toccar l’Ostia Consacrata? Ma la coscienza, la coscienza non doveva essere sporca o incallita; non le mani!
Don Marchino, aveva ragione, ma, se pur si vedeva, non s’accorgeva più che, tanto lui quanto la sorella Marianna, avevano le gambe a modo delle papere, su le quali, andando, si dimenavano proprio come due papere: tutt’e due della stessa statura, grassottelli e senza collo. Don Marchino non si sentiva parlare, o seppur si sentiva, non aveva l’impressione che la sua voce, oppressa dal naso sempre intasato, fosse miagolante. Ora l’antipatia che i suoi parrocchiani avevano per lui dipendeva anche, e non per poco, da queste cose, di cui egli non si poteva render conto: la figura, la voce e anche il suo particolar modo di parlare.
Per esempio, gli andavano a chiedere in prestito la somara, in un caso d’urgenza, come sarebbe di andare a chiamare a un bisogno di notte il medico a Nocera? Don Marchino rispondeva invariabilmente:

– Non ti ci fa arrivare. Ti accadrà di romperti due o tre volte il collo, bello mio; mi contento di tre e non di più.

Parlava così, ripetendo spesso di queste frasucce argute, che aveva sentito dire chi sa quando e da chi; ma le ripeteva ormai come se fossero un modo di dire naturale, senz’alcuna intenzione di arguzia. Quella somara poi era viziosa davvero: così viziosa che, a prestarla, don Marchino credeva in coscienza di non potersi arrischiare a cuor leggero. Se tante volte, santo cielo, essa non permetteva neanche a lui di far montare qualcuno sul biroccio! E per non farsi mordere o calciare, quando doveva sellarla o attaccarla, gli toccava usarle le maniere più garbate e dirle tante dolci paroline e ammonirla paternamente d’aver pazienza e rassegnazione, poiché Dio aveva voluto farla nascere somara.
Ma sfido! – dicevano a Stravignano. Quella somara, a cui attendeva quasi sempre don Marchino; le galline e i tre majali, a cui attendeva sempre la sorella Marianna; le due vacche, a cui attendeva Rosa, la serva scalza; nel vedere in mezzo a loro quel padrone lì, e la sorella, come due papere, dovevano sentire per forza una certa affinità bestiale con essi, per cui si pigliavano confidenze che, certamente, con altri padroni non si sarebbero permesse. E ridevano tutti del poco rispetto che quelle bestie maleducate portavano al loro curato e alla sorella; dei dispetti, forse amorosi, che i tre grossi majali cretacei facevano alla Marianna; della disperazione di questa nell’andar cercando ogni mattina le uova, che le galline apposta le nascondevano, scappando a fetare di qua e di là. Tutte con le calze al piede, quelle galline, perché, non si scambiassero!

– E i porchettoni perché no, sora Marianna, con un bel fiocchetto celeste alla coda?

Ma guardate se queste eran cose da dire alla povera sorella d’un povero curato, che non dava fastidio neanche all’aria! Mah.. E don Marchino s’insaccava nelle spalle, apriva a ventaglio davanti al petto le mani, e, contraendo gli angoli della bocca, ripeteva:

– Io non so com’è la gente...

Ebbe più che mai ragione di ripetere questa sua abituale esclamazione, il giorno che scese a Nocera per il mercato del bestiame.
Non aveva né da comperare né da vendere; andava soltanto per vedere e sentire; gli scadeva quell’anno il contratto coi coloni della cura, di cui era scontento; aveva già dato voce che per l’anno nuovo si sarebbe messo con altri; ora il tempo era venuto; e là alla fiera, tra la gente di campagna accorsa da tutti i dintorni, voleva sapere chi comperava e chi vendeva, e i discorsi che si facevano su questo e su quello
Proprio coloro che in chiesa non si vedevano mai, oh, neppure per le feste principali, lo accusarono quel giorno d’aver lasciato la cura per andare braccando alla fiera fino alla calata del sole. Ma questo fu niente. Quand’era già montato sul biroccino per ritornarsene a Stravignano, con tutto quel ventaccio che s’era levato all’improvviso, gli si fece incontro una certa Nunziata, con un ragazzo di circa otto anni sulle braccia e una capretta dietro, gridando che le desse ajuto per amor di Dio.
Da ragazzina, tanti e tanti anni fa, questa Nunziata aveva prestato servizio alla cura: sotto gli occhi di don Marchino s’era fatta la più bella giovine di Stravignano, e don Marchino avrebbe voluto darla in moglie al figliuolo del suo vecchio colono d’allora, buon ragazzone che se n’era innamorato. Ma tutt’a un tratto, senza volerne dire la ragione, ella aveva voltato le spalle a questo giovine e si era sposata con uno del prossimo villaggio di Sorìfa. Erano ormai passati nove anni: don Marchino aveva già mutato quattro coloni, stava per mutare il quinto, e di Nunziata, uscita dalla sua parrocchia, non s’era più dato pensiero. A Stravignano dapprima avevano detto ch’ella a Sorìfa stava bene, che il marito era un buon lavoratore; poi avevano cominciato a dire che stava male, perché al marito era venuta una brutta malattia alle reni per via d’un ramo che gli s’era sciancato sotto mentre lo potava. Pareva che il male gli avesse covato dentro e poi dato fuori in tanto gonfiore alle gambe, per cui il medico gli aveva proibito di lavorare e consigliato di starsene a letto ben guardato e di nutrirsi di solo latte. Bei consigli da dare a uno che campava con le sue braccia!
Stentò a riconoscerla, don Marchino, lì a Nocera, come una mendica, coi piedi scalzi e quella vesterella che faceva più compassione, perché voleva parer nuova. Ma la somara, tra il vento furioso, tra il rimescolio della gente e delle bestie che s’affrettavano al ritorno sotto la minaccia di una grossa burrasca, s’era più che mai stizzita e non voleva più stare alle mosse; sicché appena Nunziata chiese per carità che don Marchino si togliesse sul biroccio fino a Stravignano quel ragazzo che non le si reggeva più in piedi, malato anch’esso, peggio del padre, che poi ella più tardi, passando per lo stradone per ritornare a Sorìfa se lo sarebbe ripreso; don Marchino, che faceva sforzi erculei per trattener la somara, provò un dispetto feroce, e sgranando tanto d’occhi, le gridò:

– Ma ti pare, figliuola mia!

Gli crebbe il dispetto, quando alcuni curiosi, che s’eran fermati a guardare, pensarono bene di tener ferma e quieta la somara, perché egli avesse agio d’ascoltare quel che voleva da lui quella povera donna così avvilita; e poi, ostinandosi egli nel rifiuto con la scusa delle smanie stizzose della somara, gli gridarono che se ne doveva vergognare, perdio, un sacerdote! La somara? ma che somara! Là, due belle frustate! due buone strappate di briglia! Quella poveretta... quel povero piccino... ma lo guardasse, giallo come la cera! e quella capra... oh, Dio, che aveva? le si potevano contar le ossa... Ah, da Sorìfa? se l’era portata giù da Sorìfa a piedi, per cercare di venderla? quanto? nove scudi? ah, nove scudi l’aveva comperata!... adesso, neanche mezzo scudo...
Non era proprio il caso per don Marchino di esclamare: « Io non so com’è la gente »?
Che obbligo poteva aver lui, se quella donna da tant’anni non era più della sua parrocchia? Per carità? Così di prepotenza? Ma no, no e poi no! Perché era anche contro ogni ragione. Che carità! La prima carità avrebbe dovuta averla lei, madre, per il suo piccino, a non portarselo così malato per tanta via; e sarebbe stata carità facile. Nossignore! Costringere a una carità difficile chi non ne aveva nessun obbligo! Difficile, sicuro, difficile per tante ragioni! Un carico di quella fatta, un ragazzo malato, che non si reggeva ritto, con una somara... ma sì! ma sì! lo doveva dir lui, che la conosceva bene! con una somara che non voleva saper d’altri carichi e specialmente in salita e con tutto quel vento. No, no, via! via! largo... largo...
E, minacciando con la frusta, don Marchino prese la corsa seguìto da urli, fischi, e altri rumori sguajati.
Il vento lo investì alle spalle, e parve lo volesse sollevare dall’erto stradone con tutta la somara e il biroccino, come sollevava la polvere e le foglie morte.

Quando, a sera chiusa, scese dal biroccino davanti alla chiesetta attaccata alla cura, là, a uno svolto dello stradone, si sentì il braccio intormentito dallo sforzo di reggersi in capo il nicchio buono, felpato, che se ne voleva scappar via con quel ventaccio maledetto, il quale urlava così forte, e così forte faceva stormir gli alberi, qua, del viale, e là del poggio incontro alla chiesetta, che la Marianna ecco, non aveva sentito il bubbolo della somara e non era accorsa come le altre volte a dargli subito una mano. Bisognò che la chiamasse, picchiando anche col manico della frusta alla porta, col rischio – e come no? – di sciupar frusta e porta.
Marianna, al picchio, venne fuori col lume. Brava, oca! Il vento glielo spense subito e... uh, le sottane! ma, Dio benedetto, che testa! e il lume? tutte le sottane rivoltate in faccia, mamma mia, col lume in mano per fare una vampata... Via, dentro! via dentro! e don Marchino, arrabbiatissimo, si mise da solo a staccar la somara, borbottando anche per la sorella:

– Io non so com’è la gente...

Condotta Nina alla stalla, ch’era scavata nel poggio incontro alla chiesetta, e tirato il biroccio, prima di entrar nella cura disse alla sorella che sarebbe stato opportuno metter fuori le conche e le botticine, perché quella notte senza dubbio sarebbe piovuto, abbattendo il vento. A Nocera aveva sentito brontolar il tuono.

– È ancora alla lontana, ma si viene accostando. E ci darà dentro per davvero questa notte.

A cena, poco dopo, ingollando svogliato quella bioscia che Rosa gli aveva apparecchiata, narrò a Marianna il caso che gli era occorso a Nocera, della bella sfacciataggine di quella Nunziata e della prepotenza che gli volevano fare. Ma poi, confortato dal buon vinetto della vigna, che per un pezzo dopo cena si gusteggiava a sorsellini, non ci pensò più. Si mise a parlare di quel che aveva veduto e sentito alla fiera, e intanto guardava in giro, satollo e pago, quella sua comoda e tepida saletta da pranzo, e fumava la pipa, mentre Marianna medicava i piedi di Rosa, per carità, sì, ma anche perché essa la mattina dopo, alla punta dell’alba, non vi trovasse una scusa per non condurre al pascolo le vacche.
Il vento, fuori, seguitava a urlare più che mai minaccioso.
Il vento? Ma no. Era proprio qualcuno che picchiava alla porta.

– A quest’ora? – disse don Marchino, guardando costernato la sorella e la serva.

Questa andò a vedere, e fratello e sorella tesero gli orecchi. Stettero un pezzo così, sospesi. Si udiva di là parlare; ma né l’uno né l’altra riuscivano a indovinar chi fosse.
A un tratto, nel vento, un lungo e tremulo belato lamentoso.
Don Marchino diede un pugno su la tavola, scrollandosi tutto rabbiosamente.

– È lei! Ancora! – disse. – Ma che vuole da me costei? Che posso farle io?

E a Rosa, che rientrava in quel momento, domandò:

– Alloggio? la somara? che vuole?

Rosa negò col capo:

– Dice se lei volesse avere la bontà di farle una benedizione.

Don Marchino cascò dalle nuvole.

– Una benedizione? a chi? a lei? T’ha detto una benedizione? Che benedizione? Va’, falla entrare! ma sola! È capace di trascinarmi qua dentro la capra e il figliuolo... Una benedizione a quest’ora!

Nunziata entrò coi piedi scalzi, ravviandosi con le mani i capelli scarmigliati dal vento. Alla vista di quella saletta quieta nella casa del suo vecchio curato che le ricordava altri tempi, dal capo si passò le mani sul volto e si mise a piangere. Marianna allora le domandò del marito, se davvero stava tanto male, e lei disse di sì, a cenni.

– Ma che è caso di morte?

– Proprio a questo no, pare che non sia venuto ancora, – rispose. – Mah...

E scosse il capo, non però desolatamente, anzi con un lampo d’odio negli occhi lagrimosi.

– So chi è stato! – gridò. – Qua, qua, me l’hanno fatto qua il malocchio. Mi sapevano contenta e tranquilla... E non gli è bastato su lui, anche sul figliuolo me l’hanno fatto e su l’unica bestiola rimasta, che la guardavo come la pupilla degli occhi, perché mi faceva il latte per lui... Ah, infami! infami!

Fino a poco tempo fa – narrò – quella capra, comperata per nove scudi, era l’invidia di tutti. Ora, mentre il ragazzo la badava al pascolo, tutt’a un tratto le si era « spaurita ». Tutti e due, il ragazzo e la capra, le erano ritornati in casa una sera, così «spauriti» e da allora un deperimento continuo: il ragazzo... ah, bisognava vederlo di là, come si era ridotto, e la capra... la capra peggio del ragazzo! Nessuno l’aveva voluta alla fiera, neanche per due scudi. Don Marchino quella sera stessa glieli doveva benedire tutti e due, per carità.

– Ma se ci hai il tuo curato adesso, a Sorìfa! – le disse agro don Marchino.

– No, è lei, è lei il mio curato! – supplicò Nunziata. – E qua li voglio benedetti, perché di qua è partito il malocchio, e io lo so, io lo so!

Don Marchino si provò a dimostrarle che era una superstizione sciocca quella del malocchio, e che se ella ne incolpava quel giovane con cui da ragazza aveva fatto all’amore, via, non ci pensasse neppure, perché quello... Ma no! Nunziata non volle dire chi ne incolpava. Vole va la benedizione, voleva.

– Ma a quest’ora? – ripeté don Marchino, sbuffando.

S’intese di nuovo, nel vento, il tremulo belato della capra.

– La sente? – disse Nunziata. – Per carità!

– Ma tutti e due no, allora! – protestò don Marchino. – È affar lungo, cara mia, ed è già tardi. Mi disponevo ad andar a letto, figurati! Via, sbrighiamoci! o la capra o il figliuolo: chi n’ha più bisogno?

– Il figliuolo, – rispose subito Nunziata. – È buttato lì fuori sulla panca del sagrato come uno straccio. Ah quel che ho penato, don Marchino mio, a trascinarmelo fin quassù, un po’ a piedi, un po’ su queste braccia che non me le sento più!

Don Marchino montò su tutte le furie:

– Ma come si fa, dico io, come si fa a portarsi fino a Nocera un ragazzo in quello stato?

– Ma perché la capra, don Marchino, s’affrettò a spiegargli Nunziata, – non vuole più dare un passo senza di lui. La bestiola sente che tutti due sono legati dallo stesso male e lo chiama e gli parla e non vuole più scostarsi da lui.

– Basta. Dunque, il ragazzo ? – concluse don Marchino.

Nunziata restò perplessa a pensare, poi disse:

– Se non vuole tutti e due...

– No! tutt’e due, no; o l’uno o l’altra, abbiamo detto!

– Ebbene, allora... mi benedica la capra, che mi rifaccia almeno il latte per il mio Gigi, ecco.

Uscita all’aperto, nel vento, nel bujo della notte tempestosa, volse prima gli occhi alla panca su cui il figliuolo si era raggricchiato a dormire...

– Gildino... – chiamò.

Il ragazzo non rispose. E allora ella provò uno strano sgomento allo spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento. Fuggivano squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita, e pareva si trascinassero seco la luna; gli alberi si contorcevano cigolando, spasimando senza requie, come per sradicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole, a un tempestoso convegno. Ella sciolse la capra legata a un tronco d’albero, e stette un bel pezzo all’aspetto lì davanti alla porta della chiesetta, perché don Marchino volle prima finirsi il bicchiere senza fretta, poi dovette rindossare la tonaca e prendere il libro e l’aspersorio e la lumierina a olio.
La capra non poteva entrare in chiesa. La benedizione doveva esser fatta lì davanti la porta. Don Marchino, dall’interno, ne aprì mezza; collocò la lumierina su una traversa dell’altra mezza, per ripararla dal vento. La donna, tenendo la capra pel collo, s’inginocchiò davanti a quello spiraglio di luce vacillante.

– Bisogna adattarsi così, – disse il prete.

– Sì, don Marchino; ma me la faccia bene, per carità!

– Santo cielo, vuoi che te la faccia male? Qua com’è scritta nel libro te la faccio.

E con le lenti insellate su la punta del naso cominciò a miagolar lo scongiuro. Di tratto in tratto la capra belava e volgeva il capo verso la panca dove giaceva il ragazzo. A un certo punto don Marchino s’interruppe:

– Senti eh? a malis oculis, a malis oculis, che vuol dire appunto dal malocchio.

Ella, che accompagnava inginocchiata quello scongiuro, pregando col più intenso fervore, all’interruzione chinò più volte il capo, per significargli che aveva capito. Sì, sì, a malis oculis, a malis oculis...
Finita la benedizione, don Marchino s’affrettò a richiudere la porta della chiesetta, con la scusa che il vento poteva spegnere la lumierina; e lasciò fuori la donna ancora inginocchiata. Ma non era ancora arrivato a passar dall’interno della chiesetta alla cura, che udì uno strillo, un ululo di belva ferita, là nel sagrato. Gli vennero incontro la sorella e la serva, spaventate.

– Che altro c’è? – gridò don Marchino. – Oh sentite, io non mi scomodo più, neanche se casca il mondo!

Ma dovette pur troppo scomodarsi, poiché tutta Stravignano scasò quella notte alle grida di quell’infelice, che aveva trovato morto sulla panca il figliuolo; e questa volta dovette anche prestar la somara don Marchino a coloro che caritatevolmente si proffersero di condurre a Sorìfa il morticino. Dimenandosi sulle gambe a roncolo tra la folla agitata nel vento, badava a dire:

– E ha voluto benedetta la capra, oh! e non il figliuolo.

Ma poiché tutti gli voltavano le spalle, indignati, protendeva il collo, apriva a ventaglio davanti al petto le mani, e, contraendo in giù gli angoli della bocca, ripeteva tra sé:

– Io non so com’è la gente!

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L'Ermione briaca

Post n°888 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Sì lo so,l'Ermione è una bambina e quindi non potete immaginare che si possa ubriacare.Invece il nostro angelo con le corna ha preso una ciucca degna di quelle di Be'erino e ne ha fatte di goni.
Tutto è cominciato tre giorni fa,quando il fratello di Geremia,Agenore, ha avuto la bella pensata di invitare i parenti a una bella grigliata.
La discola si annoiava a morte,e le è pure venuta sete.Ha quindi trafugato una bottiglia di vinsanto e,al riparo di un covone da fieno,se l'è scolata.
E si è scatenato il finimondo!
In preda ai fumi dell'alcool,la tremenda si è impossessata del trattore di Agenore (che,cretino cretino,aveva lasciato le chiavi attaccate),piombando sul parentado che stava per mettersi a tavola sull'aia.
C'è stato un fuggifuggi ridoliniano: la Fidalma,con Tarquinio in braccio,si è fiondata su un fico;Agenore si è catapultato nel covone di fieno di cui sopra;il nonno è scappato a balzelloni giù per la collina,scomparendo in una nube di polvere.
L'Ermione ha poi abbattuto il pollaio,uccidendo 35 galline e galli.
Per fortuna il trattore non è più ripartito.
L'Ermione è allora corsa in casa,ha impugnato il fucile da caccia dell'Agenore e hacominciato a dare la caccia all'incredibile Hulk e all'Uomo Ragno (allucinazioni alcoliche).
Il bucato steso dietro casa è stato crivellato di colpi.Ad ogni centro l'Ermione cantava a sqaurciagola:-Sto ammazzando l'Uomo Ragno,trallallero trallallà!-
Ha poi rivolto la sua attenzione a dei sacchi di patate,sforacchiando pure quelli:era convinto che Hulk ci si nascondesse dentro.
Liquidato pure lui (e finite le munizioni)l'Ermione è salita sul tetto e ha cominciato a tirar tegole ai parenti,urlando:-Non mi avrete mai viva!-
Era convinta,nel suo delirio alcolico,di essere Bonnie senza Clyde.
Lo zio Ernesto ha avuto un piede fratturato;la nonna Camilla è stata presa in testa 5 volte di fila;Iil cugino Milziade ha preso una tegolata nei denti e l'antenna Tv per poco non ha infilzato Geremia.
Per finire,l'Ermione ha preso la rincorsa,agitando le braccia come ali ,e si è gettata dal tetto,cantando:-Volare,oh,oh-
Per fortuna il dio che protegge ubriachi e imbecilli l'ha salvata,facendola atterrare sul covne di cui sopra,dove si è addormentata di botto.
Questo accadeva tre giorni orsono.
Il nonno non si trova.
Milaziade va avanti a frullati.
La nonna è convinta di essere Anastasia,l'ultima figlia dello zar.
Geremia è in preda al tremito continuo.
L'Ermione dorme ancora,morta al mondo.
Sperando che si desti il più tardi possibile,passo e chiudo


  


 
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Sull'amore (Hesse)

Post n°887 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Si chiama amore ogni superiorità,
ogni capacità di comprensione,
ogni capacità di sorridere nel dolore.

Amore per noi stessi e per il nostro destino,
affettuosa adesione ciò che l'Imperscrutabile
vuole fare di noi anche quando
non siamo ancora in grado di vederlo
e di comprenderlo -
questo è ciò a cui tendiamo.

 
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Libri dimenticati:Croce e delizia (Dandolo)

Post n°886 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Amelia,Carlotta, Laura,unite da una sola passione:la lirica.
Sullo sfondo del Risorgimento,il romanzo di tre donne che vivono per il canto

 
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Frase del giorno

Post n°885 pubblicato il 03 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

I sogni muoiono all'alba

 
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Buon pomeriggio.Tiziana
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
 
i gatti sono proprio così.:)
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
 
questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

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