Messaggi del 04/10/2011

Stasera piango una donna coraggiosa

Post n°908 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Addio Anna staccato Lisa
Hai commosso tutti con la tua storia,ci hai stupito col tuo coraggio,ci hai estasiato coronando il tuo sogno d'amore in un hospice e credendoci fino in fondo.
Abbraccio i tuoi.
Sit tibi terra levis

 
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Il giardiniere e i padroni

Post n°907 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

A un miglio di strada dalla capitale si trovava un vecchio castello con grosse mura, torri e tetti merlati.
Qui vivevano, ma solo d'estate, nobili e ricchi signori; quel castello era il migliore e il più bello di quelli da loro posseduti; da fuori sembrava appena costruito e all'interno aveva tutte le comodità e gli agi. L'insegna della famiglia era scolpita nella pietra proprio sopra il portone, e intorno e sul torrione si intrecciavano bellissime rose; un unico tappeto d'erba si stendeva intorno al castello, c'erano rovi e biancospini, e fiori rari anche fuori dalla serra.
I padroni avevano anche un ottimo giardiniere, era proprio un piacere ammirare il giardino, il frutteto e l'orto. Lì vicino si trovava ancora un resto del vecchio giardino del castello, con siepi di bosso tagliate a forma di corone e di piramidi. Dietro si trovavano due vecchissimi e enormi alberi; erano quasi sempre senza foglie, ma si poteva credere che una bufera o una tempesta li avesse cosparsi di grossi pezzi di becchime: ogni pezzo era un nido per gli uccelli.
Qui, da tempo immemorabile, costruivano il nido una gran quantità di corvi e cornacchie; era come un'intera città di uccelli; gli uccelli facevano da padroni, erano i proprietari della tenuta, la più antica famiglia del luogo, i veri padroni del castello. A loro non interessavano gli uomini, ma sopportavano quelle creature che camminavano così in basso, anche se ogni tanto sparavano coi fucili; allora gli uccelli sentivano i brividi alla schiena e si alzavano in volo per lo spavento gridando: «Cra, era!».
II giardiniere diceva spesso ai suoi padroni di far abbattere quei vecchi alberi che non erano affatto belli, così ci si sarebbe forse liberati di quegli uccelli gracchianti che avrebbero cercato un altro luogo. Ma i padroni non volevano liberarsi né degli alberi né degli uccelli; era qualcosa che il castello non poteva perdere, qualcosa che risaliva ai tempi passati e che quindi non bisognava assolutamente distruggere.
«Quegli alberi sono proprietà degli uccelli; lasci che continuino a averli, mio buon Larsen!»
Il giardiniere si chiamava Larsen, ma questo non ha molta importanza.
«Non le basta, signor Larsen, tutto il posto che ha? l'intero giardino, la serra, il frutteto e l'orto?»
Lui aveva tutto questo, lo curava, lo sorvegliava e lo coltivava con zelo e bravura; i padroni lo riconoscevano, ma non nascondevano che in casa d'altri mangiavano spesso frutti e vedevano fiori superiori a quelli del loro giardino; questo rattristava il giardiniere, perché voleva sempre il meglio e faceva del suo meglio. Aveva buon cuore e era bravo nel suo lavoro.
Un giorno i padroni lo chiamarono e gli dissero con molto garbo che il giorno prima avevano visto in casa di nobili amici una qualità di mele e di pere così succose, così saporite, che loro, e tutti gli altri ospiti, avevano espresso grande meraviglia. Quei frutti non erano certo del loro paese, ma dovevano venire importati e coltivati, se il clima lo avesse permesso. Si sapeva che erano stati acquistati in città dal primo fruttivendolo; il giardiniere doveva recarsi là per sapere da dove provenivano e ordinare i rami per l'innesto.
Il giardiniere conosceva bene quel fruttivendolo, era proprio a lui che vendeva per conto dei padroni il sovrappiù dei frutti cresciuti nel giardino del castello.
Andò dunque in città e chiese al fruttivendolo da dove aveva ricevuto quelle lodatissime mele e pere.
«Vengono dal vostro giardino!» disse il fruttivendolo, e gli mostrò i frutti che il giardiniere riconobbe subito.
Oh, come fu felice il giardiniere! Si affrettò dai padroni per raccontare che sia le mele che le pere provenivano dal loro giardino.
I padroni gli credettero a malapena. «Non è possibile, Larsen! Può procurarci una dichiarazione scritta da parte del fruttivendolo?»
Naturalmente lui poteva, e così portò loro un attestato scritto.
«È straordinario!» dissero i padroni.
Da allora ogni giorno sul tavolo dei padroni vennero portati grossi recipienti pieni di meravigliose mele e pere che provenivano dal loro giardino. Furono poi mandati stai e barili dei frutti agli amici che abitavano in città e fuori città, persino all'estero Era proprio un piacere! Dovevano però riconoscere che avevano avuto due estati veramente eccezionali per gli alberi da frutto, come era successo in tutto il paese.
Passò del tempo e i padroni furono invitati a cena a corte. Il giorno dopo il giardiniere venne chiamato. Avevano mangiato a tavola meloni proprio succosi e saporiti che provenivano dalla serra reale.
«Deve recarsi dal giardiniere di corte, buon Larsen, e procurarci alcuni semi di questi preziosissimi meloni!»
«Ma il giardiniere di corte ha avuto i semi da noi!» esclamò il giardiniere tutto contento.
«Allora quell'uomo ha sicuramente fatto crescere meglio i meloni!» risposero i padroni. «Ogni melone era straordinario.»
«Bene, allora devo proprio esserne orgoglioso!» disse il giardiniere. «Lor signori devono sapere che il giardiniere di corte non ha avuto fortuna coi suoi meloni e dopo aver visto quanto fossero belli i nostri, dopo averli assaggiati, ne ha ordinati tre da portare al castello reale.»
«Larsen, non si metta in testa che erano i meloni del nostro giardino!»
«Credo proprio di sì» rispose il giardiniere. Andò dal giardiniere di corte e ebbe da lui una dichiarazione scritta che attestava come i meloni presentati a tavola provenissero dal castello dei suoi padroni.
Fu veramente una sorpresa per i padroni che non tennero per sé la storia; anzi mostrarono l'attestato, mandarono semi di meloni ovunque, proprio come avevano fatto prima con i rami d'innesto.
Vennero poi a sapere che quelli avevano attecchito bene, avevano messo frutti meravigliosi e erano stati chiamati col nome del castello, così che ora il nome si poteva leggere in inglese, in tedesco e in francese. Una cosa simile non la si poteva certo immaginare!
«Basta che il giardiniere non si monti la testa!» dissero i padroni.
Lui la prese in un altro modo; voleva, per mantenere la fama di essere uno dei migliori giardinieri del paese, cercare di ottenere ogni anno qualcosa di straordinario dalle piante del giardino; e così fece; ma spesso dovette sentirsi dire che i primissimi frutti che aveva portato, quelle mele e quelle pere, erano comunque le migliori e che tutte le altre specie non erano allo stesso livello. I meloni erano molto buoni, ma erano un genere diverso, le fragole potevano dirsi ottime, ma non erano migliori di quelle degli altri giardini, e quando un anno i ravanelli crebbero male, si parlò solo di quegli sfortunati ravanelli e non di tutte le altre cose buone che erano state prodotte.
Era come se i padroni provassero sollievo nel dire: «Quest'anno non è andata, caro Larsen!». Erano proprio felici nel poter dire: «È andata male quest'anno!».
Due o tre volte la settimana il giardiniere portava fiori freschi nel salone, sempre preparati con buon gusto, così da mettere in risalto i colori.
«Lei ha buon gusto, Larsen!» dicevano i padroni «è un dono che le è stato dato dal Signore, non è merito suo!»
Un giorno il giardiniere giunse con una grande coppa di cristallo dove, su una foglia di ninfea, posava, con il suo lungo e grosso stelo infilato nell'acqua, un fiore turchino molto luminoso, grande come un girasole.
«È un fior di loto dell'Indostan!» esclamarono i padroni. Non avevano mai visto un fiore così; di giorno venne messo al sole e di sera sotto la luce riflessa. Chiunque lo vedeva lo trovava estremamente bello e particolare; la stessa cosa disse anche la più nobile delle damigelle del regno, che era principessa: era buona e intelligente.
I padroni furono onorati di donarle il fiore che giunse così a corte insieme alla principessa.
Allora i padroni scesero in giardino per cogliere un fiore della stessa specie, se ce ne fosse stato uno, ma non lo trovarono. Chiamarono dunque il giardiniere e gli chiesero da dove provenisse quel fior di loto blu.
«L'abbiamo cercato invano» spiegarono. «Siamo stati nella serra e in tutto il giardino.»
«No, lì non si trova di sicuro» disse il giardiniere. «È solo un fiore dell'orto! Ma è bello, non è vero? Sembra un cactus azzurro, e in realtà è il fiore del carciofo.»
«Avrebbe dovuto dircelo subito» dissero i padroni. «Noi credevamo che fosse un fiore molto raro e esotico. Ci ha umiliato davanti alla giovane principessa! Lei ha visto il fiore a casa nostra, l'ha trovato così bello, non lo conosceva, anche se è esperta di botanica; ma la botanica non ha niente a che vedere con gli ortaggi. Come le è venuto in mente, Larsen di portare un fiore come quello nel salone? Così ci ha reso ridicoli!»
E il bel fiore turchino, che era stato preso dall'orto, non venne più ammesso al salone dei padroni perché non era ritenuto adatto; poi i padroni si scusarono con la principessa, raccontarono che il fiore era solo un modesto ortaggio che il giardiniere aveva avuto l'idea di mettere in mostra; ma per questo era stato rimproverato severamente.
«È un peccato, un'ingiustizia!» esclamò la principessa. «Lui ci ha aperto gli occhi davanti a un fiore meraviglioso a cui non avevamo mai prestato attenzione, ci ha mostrato la bellezza che si trova dove non abbiamo mai pensato di cercarla! Il giardiniere del castello, ogni giorno, per tutto il tempo in cui i carciofi avranno i fiori, dovrà portarne uno nella mia camera.»
E così accadde.
I padroni fecero dire al giardiniere che ora poteva portare di nuovo un fiore fresco di carciofo nel salone.
«In fondo è bello!» dissero. «È proprio strano!» Il giardiniere venne lodato.
«A Larsen questo fa piacere!» dissero i padroni. «È come un bambino viziato.»
In autunno ci fu una tempesta terribile, fu così violenta nel cuore della notte che molti grossi alberi ai margini del bosco vennero sradicati, e, con gran dolore dei padroni - dissero loro - ma con grande gioia del giardiniere, i due grandi alberi pieni di nidi di uccelli furono abbattuti. Si sentirono nella tempesta le grida dei corvi e delle cornacchie che sbattevano le ali contro i vetri, raccontava la gente del castello.
«Ora sarà felice, Larsen» dissero i padroni. «La tempesta ha sradicato gli alberi e gli uccelli hanno trovato rifugio nel bosco. Qui non c'è più nulla dei vecchi tempi; ogni segno e ogni traccia sono scomparsi. E molto triste!»
Il giardiniere non disse nulla, ma pensò a quello a cui aveva pensato a lungo, di utilizzare quello splendido spiazzo al sole, che prima aveva dovuto lasciar stare, e di trasformarlo in ornamento per tutto il giardino e motivo di gioia per i padroni.
I grandi alberi abbattuti avevano soffocato e schiacciato le vecchissime siepi di bosso, tagliate in vari modi. Lui piantò una serie di piante diverse, tutte del paese, prese dai campi e dai boschi.
Piantò quello che nessun altro giardiniere avrebbe mai pensato di piantare in gran quantità nel giardino dei padroni, mise ogni specie nella terra più adatta, all'ombra o al sole secondo le esigenze di ogni specie. Le curò con amore e queste crebbero meravigliose.
II cespuglio di ginepro della landa dello Jutland si innalzò con la forma e il colore del cipresso italiano, e il lucido agrifoglio spinoso, sempreverde nel freddo dell'inverno come nel sole dell'estate, era bellissimo a vedersi. Davanti crescevano felci, di molte specie diverse: alcune sembravano nate da una palma, altre sembravano i genitori di quella sottile e deliziosa pianta che noi chiamiamo capelvenere; c'era la disprezzata lappola, così bella nella sua freschezza, che sta molto bene in mazzetti. La lappola cresceva all'asciutto, ma più in basso, dal terreno umido, cresceva il farfaraccio, altra pianta disprezzata e pure così artistica per la sua altezza e per le foglie enormi. Altissimo, con i fiori molto vicini tra loro come uno straordinario candelabro a molte braccia, si innalzava il verbasco trapiantato dal campo. C'erano le asperule, l'acetosella e i mughetti, le calle selvatiche e il sottile trifoglio del bosco. Era proprio una meraviglia!
Davanti, sostenute da fili d'acciaio, crescevano in fila piccole piante di pere che provenivano dalla Francia: avevano sole e cure e davano grandi frutti succosi, proprio come nel paese d'origine.
Al posto dei due vecchi alberi senza foglie fu messo un grande palo portabandiera, su cui sventolava la bandiera nazionale, e lì vicino un altro palo, dove in estate e in autunno si attorcigliava il luppolo con i suoi grappoli di fiori profumati; ma d'inverno, secondo un'antica usanza veniva appeso un manipolo di avena, perché gli uccelli del cielo avessero da mangiare nel periodo natalizio.
«Il buon Larsen diventa sentimentale con gli anni» dissero i padroni. «Ma è fedele e devoto.»
Per Capodanno, in una rivista illustrata della capitale, comparve una fotografia di quel vecchio castello; si vedeva il palo della bandiera e quello dell'avena per gli uccellini del cielo nel periodo natalizio. Si diceva che era stata una bella idea che un'usanza così antica fosse stata ripresa, un'idea degna di quel vecchio castello.
«Per tutto quello che Larsen fa» dissero i padroni «si battono i tamburi. È proprio un uomo fortunato! Dovremmo quasi essere fieri di lui!»
Ma non erano davvero fieri di lui! Sapevano di essere i padroni, potevano licenziare Larsen, ma non lo facevano perché erano brave persone; ci sono molte brave persone come loro, e questa è una fortuna per ogni Larsen.
Sì, questa e la storia del "giardiniere e i padroni".
Adesso riflettici sopra!

 
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La teiera

Post n°906 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una teiera orgogliosa, orgogliosa della sua porcellana, del suo lungo beccuccio, del suo largo manico. Aveva qualcosa davanti e qualcosa dietro, il beccuccio davanti e il manico dietro, e parlava sempre di quelli, ma non parlava mai del coperchio che era scheggiato; quello era una mancanza, e delle proprie mancanze non si parla volentieri non lo fanno nemmeno gli altri. Le tazze, la zuccheriera e il bricco del latte, tutto il servizio da tè avrebbe certamente ricordato il coperchio rotto più che non quel manico e quello splendido beccuccio; la teiera lo sapeva bene.
"Li conosco!" diceva tra sé. "Conosco anche la mia mancanza e la riconosco, in questo sta la mia modestia, la mia umiltà; tutti abbiamo difetti, ma abbiamo anche pregi. Le tazze hanno un manico, la zuccheriera ha un coperchio, io ho ricevuto entrambe e una cosa in più, che gli altri non hanno, ho ricevuto un beccuccio che mi rende regina del tavolo da tè. La zuccheriera, il bricco del latte si vantano di essere le ancelle del buon sapore, ma io sono colei che distribuisce, che domina, io spargo la benedizione tra l'umanità assetata; dentro di me le foglie cinesi trasformano l'acqua bollente senza sapore."
Tutto questo la teiera l'aveva detto nella sua tranquilla gioventù. Ma ora stava sul tavolo apparecchiato, e venne sollevata dalla mano più curata ma la mano più curata era maldestra, così la teiera cadde, il beccuccio si ruppe e pure il manico, per non parlare del coperchio di cui abbiamo già detto fin troppo. La teiera rimase svenuta sul pavimento e l'acqua bollente uscì fuori. Fu un brutto colpo, ma la cosa peggiore fu che tutti risero, risero di lei e non della mano maldestra.
"Quello me io ricorderò sempre!" diceva la teiera quando ripensava alla vita trascorsa. "Venni chiamata invalida, messa in un angolo, e il giorno dopo regalata a una donna che mendicava; caddi in miseria, rimasi stupefatta e incerta sul da farsi, ma proprio in quello stato cominciò la mia vita migliore: si è una cosa e si diventa un'altra. Dentro di me fu messa della terra e questo per una teiera significa essere seppellita, ma nella terra fu posto un bulbo; chi lo fece, chi lo donò, lo ignoro, ma accadde, e fu una ricompensa per quelle foglie cinesi e per quell'acqua bollente, una ricompensa per il manico e il beccuccio rotti. Il bulbo rimase nella terra, rimase dentro di me, divenne il mio cuore, il mio cuore vivente: uno così non l'avevo mai avuto prima. C'era vita in me, c'era nuova forza energia, il polso batteva, il bulbo gettò le gemme che stavano per scoppiare a causa dei pensieri e dei sentimenti; poi sbocciarono in tanti fiori; io li vidi li portai, dimenticai me stessa nella loro bellezza. È meraviglioso dimenticare se stessi per un altro! Quelli non mi dissero grazie, non pensarono affatto a me, vennero ammirati e lodati, io ne ero felicissima, come non potevano essere neanche loro stessi. Un giorno sentii dire che il bulbo meritava un vaso migliore. Mi ruppero a metà e mi fece molto male, ma il fiore ebbe un vaso migliore e io venni gettata nel cortile e mi trovo lì come un vecchio coccio, ma ho i ricordi, che non perderò mai."


 

 
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Penna e calamaio

Post n°905 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nella camera di un poeta, guardando il suo calamaio sul tavolino, qualcuno disse: «È strano quante cose possono uscire da questo calamaio! Che cosa ne uscirà la prossima volta? Sì, è proprio strano!».
«È vero» commentò il calamaio «è incomprensibile. Proprio quello che dico sempre!» e aggiunse rivolto alla penna d'oca e agli altri oggetti sul tavolino che potevano sentirlo: «È strano quante cose escono da me! Quasi da non credere! E nemmeno io so in realtà che cosa uscirà adesso, quando l'uomo comincerà a attingere da me. Una sola goccia di me è sufficiente per mezzo foglio, e lì ci stanno proprio tante cose! Sono davvero straordinario! Da me provengono tutte le opere del poeta! Quei personaggi viventi che la gente crede di riconoscere, quei sentimenti profondi, quel buon umore, quelle meravigliose descrizioni della natura, non le capisco neppure io, perché io non conosco la natura, ma in me è tutto innato! Da me sono uscite e escono quelle graziose fanciulle danzanti, quei cavalieri arditi su cavalcature travolgenti, personaggi come Per il Sordo o Kirsten la Stravagante. Non lo capisco io stesso, ve l'assicuro, non ci penso neppure».
«Ha ragione!» rispose la penna d'oca. «Lei non ci pensa affatto, perché se ci pensasse capirebbe di essere soltanto la materia fluida! Lei dà il liquido in modo che io possa esprimere e rendere visibile sulla carta quello che ho in me, e che trascrivo. E la penna quella che scrive! Di questo non dubita nessuno, eppure molti non si intendono di poesia più di un vecchio calamaio!»
«Lei ha ben poca esperienza!» replicò il calamaio. «È al servizio solo da una settimana e già è mezza consumata. E si immagina di essere lei il poeta! Lei è solo una serva, del suo genere ne ho avute tante prima che arrivasse lei, sia della famiglia delle oche che di una fabbrica inglese. Io conosco sia la penna d'oca, che quelle d'acciaio. Ne ho avute tante al mio servizio, e ne avrò ancora di più, quando lui, l'uomo che si muove per me, verrà a scrivere quello che ricava dal mio intimo. Mi piacerebbe proprio sapere quale sarà la prima cosa che ricaverà da me.»
«Botte d'inchiostro!» gli disse la penna.
A sera tardi il poeta rientrò a casa; era stato al concerto dove aveva sentito un bravissimo violinista e era ancora tutto commosso da quella sensazionale esibizione. L'artista aveva tratto dal suo strumento una straordinaria armonia di toni; ora sembravano gocce d'acqua, cascate di perle, ora invece cinguettìi di uccelli in coro, ora una tormenta che soffiava tra un bosco di abeti. Gli era sembrato di sentir piangere il suo cuore, ma il pianto era una melodia sgorgata da una bella voce di donna. Gli era sembrato che non solo le corde del violino suonassero, ma persino il ponticello, le viti e la cassa armonica; era straordinario e doveva essere stato difficilissimo, anche se ora sembrava un gioco; era come se l'archetto volasse avanti e indietro sulle corde, e pareva che chiunque sarebbe stato in grado di farlo. Il violino suonava da solo, l'archetto suonava da solo, erano loro due a fare tutto, e si dimenticava il maestro che li muoveva, che dava loro vita e anima. Si dimenticava il maestro; ma a lui pensò il poeta; ne pronunciò il nome e scrisse:
"Come sarebbe sciocco se l'archetto e il violino volessero vantarsi della loro opera! È proprio quello che noi uomini facciamo così spesso; il poeta, l'artista, lo scienziato e il generale: tutti ci vantiamo e tutti in realtà siamo strumenti del Signore; a Lui solo la gloria! Noi non abbiamo nulla di cui vantarci.»
Così scrisse il poeta, lo scrisse come una parabola e la chiamò// maestro e gli strumenti.
«Questo è per lei, signore!» disse la penna al calamaio, quando i due rimasero di nuovo soli. «Ha certo sentito quando ha letto a voce alta quel che io ho scritto?»
«Sì, quello che io le ho dato da scrivere!» esclamò il calamaio. «È stata una frecciata a lei, alla sua superbia! Possibile non capisca che mi sto prendendo gioco di lei? Le ho dato proprio un colpo dal profondo del cuore: crede che io non sappia riconoscere la mia malizia?»
«Contenitore d'inchiostro!» gridò la penna.
«Stecchino da scrivere!» rispose il calamaio.
Ognuno di loro era convinto di aver risposto bene, e questa è sempre una piacevole convinzione, perché ci si può dormire sopra, e così fecero. Ma il poeta non dormiva, i pensieri si agitavano in lui come le note del violino, tintinnando come perle, rombando come una tormenta nel bosco, e in quei pensieri riconobbe il suo cuore, riconobbe lo sfolgorio che derivava dall'eterno maestro.
A Lui solo la gloria!


 

 
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Ingiustizia e fatta

Post n°904 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Lo sapevamo tutti che finiva così,ma lo schiaffo si sente.
Meredith è morta.
Non potrà continuare gli studi,parlare,ballare,cantare,trovare l'uomo che l'ama,avere dei figli.I suoi fratelli non potranno vederla mai più,i genitori moriranno senza lei accanto.
Diciamocelo signori:assolvendo Amanda ci siamo piegati a 90  gradi agli States e forse abbiamo barattato la libertà di un italiano rinchiuso nelle loro carceri da anni.
Si chiama Carlo Parlanti e la sua grande colpa è di aver convissuto con una ragazza americana che,mal digerendo il suo abbandono,si è inventata un'accusa di stupro.
Carlo è tornato in Italia,si è fatto una vita, a lei non pensava più,finchè dopo sei anni è tornato in USA per affari e non è più tornato in Italia:lo hanno arrestato e processato.
La sua donna,Katia,comebatte per lui da anni in Italia,ma Carlo è in prigione e in prigione si è anche seriamente ammalato.
Questo i giornali non velo raccontano,ve lo racconto io.
Amanda in prigione può vedere gente,ballare,cantare,suonare la chitarra,partecipare ad un cortometraggio.Carlo ste cose se le sogna.
Lei ha ucciso,lui NON ha stuprato.
Allora ditemi la giustizia dove accidenti é????

 
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E' proprio vero

Post n°903 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

«È una storia terribile!» esclamò una gallina in una zona della città dove non era accaduto il fatto «uno spaventoso scandalo in un pollaio! Non me la sento proprio di dormire da sola questa notte! Per fortuna siamo in tante sulla pertica.» E intanto raccontò in modo tale che le galline drizzarono le penne e il gallo fece afflosciare la cresta. «È proprio vero!»
È meglio cominciare dal principio, e il principio accadde in un pollaio in un'altra parte della città.
II sole tramontava e le galline salivano sulla pertica; una di loro, con le piume bianche e le zampe corte, aveva deposto l'uovo regolarmente; era una gallina rispettabile in tutti i sensi e mentre saliva sulla pertica si beccò e così le volò via una piumetta.
«È andata» disse. «Più mi spenno e più divento bella!» Naturalmente lo disse in tono scherzoso, perché era una gallina spiritosa, anche se molto rispettabile, come ho già detto. E così si addormentò.
Tutt'intorno era buio; le galline stavano una accanto all'altra, ma quella che le stava più vicino non dormiva; sentì e non sentì, come si deve fare in questo mondo per poter vivere in pace; ma non potè fare a meno di dire all'altra sua vicina: «Hai sentito cosa hanno detto? Non faccio nomi, ma c'è una gallina che vuole spennarsi per sembrare più bella! Se io fossi il gallo la disprezzerei!».
Proprio sopra la gallina si trovava la civetta col marito e i bambini; avevano un udito fino in quella famiglia, e sentirono ogni parola detta dalla gallina; stralunarono gli occhi e mamma civetta si fece aria con le ali: «Non ascoltate! ma avrete certo sentito quello che han detto! Io l'ho sentito con le mie orecchie e dovrò sentirne ancora molte altre prima che mi cadano! Una delle galline si è dimenticata a tal punto di quel che si conviene a una gallina che si è messa a beccarsi tutte le penne facendosi vedere dal gallo!».
«Prenez garde aux enfants!» esclamò papà civetta. «Non è roba per bambini.»
«Però devo raccontarlo alla nostra vicina civetta. È una civetta così stimata nel nostro ambiente!» e così volò via.
«Uh-Uh! Uhuh!» gridarono tutti e due i colombi che abitavano la colombaia di sotto. «Avete sentito? Avete sentito? Uhuh! C'è una gallina che si è tolta tutte le penne per colpa del gallo! E ora sta morendo di freddo, se non è già morta!»
«Dove? Dove?» chiesero i colombi.
«Nel cortile qui vicino! È come se l'avessi vista con i miei occhi, è una storia quasi da non poter raccontare, ma è proprio vero!»
«Lo credo, credo a ogni parola!» risposero i colombi e si chinarono verso il loro cortile. «C'è una gallina, anzi alcuni dicono due, che si sono tolte tutte le penne per essere diverse dalle altre e attirare l'attenzione del gallo. È un gioco rischioso si può morire di freddo, e loro sono morte entrambe.»
«Sveglia! Sveglia!» cantò il gallo e volò sullo steccato. Aveva gli occhi ancora assonnati, ma cantava ugualmente: «Tre galline sono morte di amore infelice per un gallo! Si erano tolte tutte le penne! È una storia orribile, non voglio tenerla per me raccontatela, raccontatela!» e così la storia passò da un pollaio a un altro finché non tornò nel luogo da dove era partita.
«Ci sono cinque galline» si diceva «che si sono tolte le penne per mostrare chi di loro si era più consumata d'amore infelice per il gallo; poi si sono beccate a sangue e sono morte, con vergogna e scandalo per le loro famiglie e grossa perdita per il padrone.»
E la gallina che aveva perduto quella piccola e soffice piuma naturalmente non riconobbe la sua storia e poiché era una gallina rispettabile disse: «Io disprezzo quelle galline! Ma ce ne sono molte di quel genere! Un fatto simile non deve essere taciuto e farò il possibile affinché questa storia appaia sul giornale, così che si diffonda per tutto il paese; ben gli sta a quelle galline e alle loro famiglie!».
E la storia arrivò davvero al giornale, fu stampata e è proprio vero: "Una piccola piuma si può trasformare in cinque galline!"


 

 
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Lo scarabeo

Post n°902 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il cavallo dell'imperatore ricevette i ferri d'oro per gli zoccoli; un ferro d'oro per ogni zampa.
Perché gli diedero i ferri d'oro?
Era un animale bellissimo, aveva zampe snelle, occhi intelligenti e una criniera che scendeva dal collo come un velo di seta. Aveva trasportato il suo signore tra il fumo dei cannoni e tra la pioggia di pallottole, le aveva sentite cantare e fischiare, aveva dato morsi, calciato, lottato, quando il nemico avanzava; col suo imperatore aveva saltato oltre il cavallo del nemico abbattuto, aveva salvato la corona fatta d'oro rosso, aveva salvato la vita stessa dell'imperatore che valeva molto più dell'oro rosso della corona: per tutto questo al cavallo dell'imperatore furono messi i ferri d'oro. Un ferro d'oro per ogni zampa.
Lo scarabeo spuntò fuori.
«Prima i grandi, poi i piccoli!» disse. «Comunque non è la grandezza che conta» e allungò le zampette sottili.
«Cosa vuoi?» chiese il fabbro.
«Dei ferri d'oro» rispose lo scarabeo.
«Tu sei matto!» disse il fabbro. «Vuoi anche tu i ferri d'oro?»
«I ferri d'oro!» ripetè lo scarabeo. «Non valgo forse come quel grande animale che deve essere custodito, strigliato, curato, sfamato e dissetato? Non appartengo anch'io alla stalla dell'imperatore?»
«Ma non capisci perché il cavallo riceve i ferri d'oro?»
«Capisco? Capisco che è una cattiveria nei miei confronti» rispose lo scarabeo «è un'offesa, per questo me ne vado per il mondo!»
«Accomodati!» disse il fabbro.
«Che maleducato!» gli rispose lo scarabeo, poi se ne uscì, volò per un po', e si trovò in un graziosissimo giardino di fiori dove c'era profumo di rose e di lavanda.
«Non è bello?» disse un maggiolino che volava lì intorno con le sue ali rosse a puntini neri, robuste come scudi «c'è un profumo delizioso e tutto è bellissimo.»
«Io sono abituato meglio!» disse lo scarabeo. «Tu chiami questo bello? Non c'è neppure un po' di letame.»
E così proseguì fino all'ombra di una grande violacciocca, dove strisciava un bruco.
«Com'è bello il mondo!» esclamò il bruco. «Il sole è così caldo! Tutto è meraviglioso! E quando io un giorno mi addormenterò e morirò, come dicono, poi mi sveglierò e sarò una farfalla.»
«Figurati!» rispose lo scarabeo «pensi di volare come una farfalla? Io provengo dalla stalla dell'imperatore ma nessuno là, neppure il cavallo dell'imperatore, che pure usa i miei ferri d'oro smessi, ha di queste pretese. Ricevere le ali! volare! ah, questa poi!» e lo scarabeo se ne volò via. «Non voglio arrabbiarmi, ma non posso farne a meno.» Si posò poi su un grande manto erboso; lì si sdraiò e si addormentò.
Accidenti, che acquazzone! Lo scarabeo fu svegliato dalla pioggia e subito volle infilarsi nel terreno, ma non ci riuscì, si rivoltò, nuotò sulla schiena e sulla pancia, non poteva certo pensare di volare, non sarebbe mai uscito vivo da quel prato; così rimase lì.
Quando ci fu una schiarita, lo scarabeo si liberò gli occhi dall'acqua e notò qualcosa di bianco: era una tela che doveva imbiancare. La raggiunse e si infilò in una piega di quella tela bagnata; non era certo come trovarsi nel tiepido mucchio di letame della stalla, ma qui non c'era niente di meglio, così rimase lì un giorno intero e una notte intera; e anche la pioggia continuò.
Al mattino lo scarabeo uscì. Era molto arrabbiato per quel clima.
Sulla tela si trovavano due rane, i loro occhi trasparenti brillavano dalla gioia. «È proprio un tempo meraviglioso!» disse una «che frescura! e questa tela trattiene benissimo l'acqua! Mi fa solletico sotto le zampe posteriori, come se dovessi nuotare.»
«Mi piacerebbe sapere» disse l'altra «se la rondine che vola così lontano, durante uno dei suoi molti viaggi all'estero abbia mai trovato un clima migliore del nostro; questa pioggerella, e questa umidità, è proprio come trovarsi in un fosso! Se non si è contenti, vuol dire che non si ama la propria patria.»
«Non siete mai state nella stalla dell'imperatore?» chiese lo scarabeo. «Là è bagnato, ma è anche caldo e pieno di aromi, io sono abituato così, quello è il mio clima, ma non lo si può portare con sé durante il viaggio. Non c'è una serra qui nel giardino, dove le persone autorevoli come me possano alloggiare e sentirsi a casa?»
Le rane non lo capirono o non vollero capirlo.
«Io non chiedo mai una seconda volta» disse lo scarabeo che aveva già chiesto tre volte senza che gli fosse risposto.
Così se ne andò per un po' e arrivò a un coccio di vaso. Non avrebbe dovuto star lì, ma dato che c'era costituiva un riparo. Vi abitavano diverse famiglie di forfecchie, che non pretendono molto spazio, solo un po' di compagnia. Soprattutto le signore sono particolarmente dotate di amore per i piccoli, perciò il figlio di ognuna era naturalmente il più bello e il più intelligente.
«Nostro figlio si è fidanzato» disse una madre «che innocenza! La sua massima aspirazione è poter un giorno salire fino all'orecchio di un prete. È ingenuo in modo delizioso, e il fidanzamento lo terrà lontano dal compiere stranezze. E questo fa felice una madre.»
«Nostro figlio» disse un'altra «era appena uscito dall'uovo e già si divertiva; ci sono scintille in lui; deve sfogarsi. È proprio un piacere immenso per una madre. Non è vero, signor scarabeo?»
Avevano infatti riconosciuto lo straniero dall'aspetto.
«Avete ragione entrambe» disse lo scarabeo, e così venne invitato nella stanza, sotto quel coccio di vaso.
«Ora deve vedere le mie piccole forfecchie» dissero una terza e quarta madre «sono i bambini più deliziosi e più divertenti del mondo! Non sono mai cattivi, solo quando hanno mal di pancia, ma capita spesso alla loro età.»
Così parlava ogni madre dei suoi piccoli, e anche i piccoli parlavano e usavano la forchettina che hanno sulla coda per tirare i baffi dello scarabeo.
«Trovano sempre qualcosa di nuovo, questi bricconcelli!» dissero le madri piene di affetto; ma la cosa irritò lo scarabeo, e così lui chiese se c'era molta strada per arrivare alla serra delle piante.
«È lontano da qui, dall'altra parte del fosso» disse una forfecchia «così lontano che spero che nessuno dei miei figli ci arriverà mai, altrimenti ne morirei.»
«Io invece voglio provare a arrivarci» commentò lo scarabeo e se ne andò senza salutare, il che è considerato molto galante.
Vicino al fosso incontrò molti della sua specie, tutti scarabei.
«Noi viviamo qui!» dissero «e si sta bene al caldo! Non vuole venire giù nella terra grassa? Il viaggio l'ha certamente stancata!»
«È vero!» rispose lo scarabeo. «Sono stato su una tela mentre pioveva, e la pulizia mi ha sciupato parecchio, poi mi sono venuti i reumatismi in un'ala per essere stato in mezzo alla corrente sotto un coccio di vaso. È proprio un piacere trovarsi finalmente tra i propri simili.»
«Forse viene dalla serra?» chiese uno dei più anziani.
«Da molto più su» rispose lo scarabeo. «Vengo dalla stalla dell'imperatore, dove sono nato con i ferri d'oro, viaggio in missione segreta, ma non fatemi domande, tanto non dirò nulla.»
E così lo scarabeo si infilò nel fango molle, dove si trovavano tre giovani scarabee che ridacchiavano perché non sapevano che cosa dire.
«Non sono fidanzate» disse la madre, e così ridacchiarono ancora, ma questa volta per timidezza.
«Io non ne ho viste di più belle nemmeno nella stalla dell'imperatore» disse lo scarabeo viaggiante.
«Non importuni le mie figliole! e non parli con loro se non ha delle intenzioni serie, ma lei le ha di certo e io le do la mia approvazione.»
«Urrà!» dissero tutti gli altri, e così lo scarabeo si trovò fidanzato. Prima il fidanzamento, poi il matrimonio: non c'era nessun motivo di aspettare.
Il giorno dopo andò molto bene, il secondo un po' meno, ma al terzo giorno bisognava cominciare a pensare a mantenere la moglie e forse i figli.
"Mi sono lasciato sorprendere!" si disse "ma adesso li sorprenderò io!" e così fece. Sparì, sparì per tutto il giorno, e anche di notte, così la moglie divenne vedova. Gli altri scarabei dissero che quello che avevano accolto in famiglia era proprio un vagabondo. La moglie adesso restava a loro carico.
«Tornerà a vivere da signorina» disse la madre «come mia figlia; vergogna! Brutto impostore che l'hai abbandonata!»
Lui intanto era in viaggio e era arrivato dall'altra parte del fosso, dove la mattina giunsero due uomini che lo videro, lo presero in mano, lo girarono e rigirarono; entrambi erano molto istruiti, soprattutto il ragazzo. «Allah vede uno scarabeo nero sulla pietra nera nella montagna nera. Non è scritto così nel Corano?» chiese, e tradusse il nome dello scarabeo in latino, spiegandone il genere e la natura. L'esperto più anziano sostenne che non doveva essere portato a casa, perché avevano già tanti ottimi esemplari, e questo non sembrò molto gentile allo scarabeo, il quale se ne volò via dalla sua mano, volò per un po', in modo che le ali si asciugassero per bene, e così raggiunse la serra dove entrò in tutta tranquillità, dato che una finestra era aperta, e si seppellì nel concime fresco.
"Qui è meraviglioso!" si disse.
Presto si addormentò e sognò che il cavallo dell'imperatore era stato abbattuto e che il signor scarabeo aveva ricevuto i ferri d'oro del cavallo insieme alla promessa di altri due. Fu proprio un sogno bellissimo e quando lo scarabeo si svegliò sbucò dalla terra e si guardò intorno. Che meraviglia in quella serra! Le grandi palme a ventaglio si allargavano verso l'alba, il sole le rendeva trasparenti, e ai loro piedi crescevano una grande quantità di piante verdi, e fiori meravigliosi che brillavano rossi come il fuoco, gialli come l'ambra e bianchi come la neve appena caduta.
"È una vegetazione meravigliosa! Come sarà gustosa quando andrà in putrefazione!" pensò lo scarabeo. "È proprio un'ottima dispensa! Qui ci abita certamente qualcuno della mia famiglia, voglio andare in esplorazione, provare a vedere se trovo qualcuno con cui stare in compagnia. Io sono orgoglioso e questo è il mio vanto." E così se ne andò pensando al suo sogno del cavallo morto e dei ferri d'oro ereditati.
Improvvisamente una mano afferrò lo scarabeo, che venne stretto e girato più volte.
Il figlioletto del giardiniere e un suo amico si trovavano nella serra, avevano visto lo scarabeo e volevano divertirsi. Messo in una foglia di vite, fu posto in una calda tasca dei pantaloni; lui si rigirò e si agitò, ma venne stretto dalle dita del ragazzo, che si dirigeva in fretta verso il grande lago in fondo al giardino. Lì lo scarabeo fu messo in un vecchio zoccolo di legno rotto, a cui si era staccata la tomaia e a cui era stato fissato un rametto come albero maestro; poi lo scarabeo venne legato con un filo di lana: ora era un marinaio e doveva navigare.
Era un lago molto grande, allo scarabeo sembrava l'oceano; ne rimase così sbalordito che si rovesciò sulla schiena agitando le zampe.
Lo zoccolo navigava, c'era corrente nell'acqua, ma quando quella imbarcazione si allontanava un po' troppo, allora un ragazzo immediatamente si rimboccava i calzoni e entrava nell'acqua per andarla a prendere; aveva di nuovo ripreso a navigare quando i ragazzi vennero chiamati, chiamati sul serio, e si affrettarono lasciando lo zoccolo e se stesso. Questo navigò sempre più lontano dalla riva; era terribile per lo scarabeo che non poteva volare perché era legato all'albero maestro.
A un tratto ricevette la visita di una mosca.
«Abbiamo proprio un bel tempo!» disse. «Voglio riposarmi un po' qui. Qui posso prendere il sole. Lei è fortunato!»
«Ma non capisce proprio niente lei? non vede che sono legato?»
«Io non sono legata» disse la mosca, e se ne volò via.
"Ora conosco il mondo" commentò lo scarabeo "è proprio un mondo meschino. Io sono l'unico onesto in questo mondo! Prima mi negano i ferri d'oro, poi sono costretto a stare su una tela bagnata, esposto alla corrente, e alla fine mi affibbiano una moglie. Quindi mi incammino per il mondo per vedere come si sta e come dovrei vivere, quando arriva un cucciolo d'uomo che mi mette nel mare aperto. E intanto il cavallo dell'imperatore se ne va con i suoi ferri d'oro. Questo è quel che mi dà più fastidio, ma non ci si può certo aspettare comprensione in questo mondo! Il corso della mia vita è molto interessante, ma a che cosa serve se nessuno lo conosce? Il mondo non si merita neppure di conoscerlo, altrimenti mi avrebbe dato i ferri d'oro nella stalla dell'imperatore, quando il cavallo è stato ferrato e ha allungato le zampe. Se avessi avuto i ferri d'oro sarei diventato un onore per la stalla, ora invece mi hanno perduto, il mondo mi ha perduto, tutto è finito!"
Ma non tutto era ancora finito; sopraggiunse una barchetta con due ragazzine.
«Là naviga uno zoccolo» disse una.
«C'è un animale legato!» disse l'altra.
Si avvicinarono allo zoccolo, lo sollevarono, una delle ragazze prese delle forbici e tagliò il filo di lana senza far male allo scarabeo. Quando poi giunsero sulla terra, lo misero nell'erba.
«Vai, vai, vola, vola, se puoi!» disse. «La libertà è una bella cosa.»
Così lo scarabeo se ne volò via fino a una finestra aperta di un grande edifìcio e lì si posò sulla finissima criniera bionda del cavallo preferito dell'imperatore, che si trovava nella stalla a cui sia lui che lo scarabeo appartenevano. Si afferrò stretto alla criniera e lì rimase un pochino per riprendersi. "Ora sono sul cavallo preferito dell'imperatore! È come se fossi cavaliere! Ma cosa dico? Già, adesso è tutto chiaro: è una buona idea e è proprio vero. Perché il cavallo ha avuto i ferri d'oro? Me lo aveva chiesto anche il fabbro. Adesso lo comprendo! È per me che il cavallo ha avuto i ferri d'oro." E così lo scarabeo ritrovò il buon umore.
"Si diventa intelligenti a viaggiare" disse.
Il sole lo illuminava e splendeva bellissimo. "Il mondo in fondo non è così terribile" disse "bisogna solo sapere come prenderlo!» Il mondo era bello perché il cavallo prediletto dell'imperatore aveva ricevuto i ferri d'oro affinché lo scarabeo diventasse suo cavaliere. "Ora voglio scendere dagli altri scarabei per raccontare tutto quello che è stato fatto per me, voglio raccontare tutte le meraviglie che ho trovato durante il mio viaggio all'estero e voglio dire che ora me ne resterò a casa finché il cavallo non avrà consumato i suoi ferri d'oro."

FINE



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Le cicogne

Post n°901 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Sull'ultima casa di un villaggio si trovava un nido di cicogne. Mamma cicogna se ne stava nel nido con i suoi quattro cicognini, i quali si affacciavano con i loro piccoli becchi neri, che poi sarebbero diventati rossi. Poco lontano dal nido, sempre sul tetto, stava, dritto e immobile, papà cicogna, il quale aveva sollevato una zampa, per stare un po' scomodo dato che stava di guardia. Sembrava scolpito nel legno, tanto era immobile, "È molto elegante che mia moglie abbia una sentinella vicino al nido!" pensava "e non possono sapere che sono suo marito, credono sul serio che sia stato ingaggiato per stare qui. Fa proprio una bella impressione!" e intanto continuava a stare lì su una zampa sola.
Per la strada giocava un gruppo di ragazzi, vedendo le cicogne, uno dei più spavaldi intonò la vecchia canzone delle cicogne, ma la cantavano con queste parole, come la ricordava papà cicogna:
Cicogna, cicogna ardita vola, vola a casa tua tua moglie sta nel nido con i quattro cicognini, il primo verrà impiccato il secondo verrà infilzato il terzo verrà bruciato il quarto scorticato!
«Senti cosa cantano i ragazzi?» esclamarono i giovani cicognini «dicono che saremo impiccati e bruciati!»
«Non dovete preoccuparvi!» li tranquillizzò mamma cicogna «non ascoltateli e non succederà niente.»
Ma i ragazzi continuavano a cantare, e indicavano con le dita le cicogne, solo un ragazzo di nome Peter disse che era male prendere in giro gli animali, e non volle cantare con gli altri. Mamma cicogna consolava intanto i cicognini. «Non preoccupatevene!» ripeteva «guardate come sta tranquillo vostro padre, e su una zampa sola!»
«Abbiamo tanta paura!» dicevano i giovani cicognini, nascondendo la testa in fondo al nido.
Il giorno dopo i ragazzi si radunarono di nuovo per giocare e, vedendo le cicogne, ricominciarono con la loro canzone:
Il primo verrà impiccato, il secondo verrà bruciato!...
«Verremo davvero impiccati e bruciati?» domandarono i cicognini.
«Certo che no!» li rassicurò la madre «dovete imparare a volare, e ve lo insegnerò io. Poi andremo nel prato e faremo visita alle rane che si inchineranno davanti a noi, dicendo "era era", e noi le mangeremo. Sarà proprio un divertimento!»
«E poi?» chiesero i cicognini.
«Poi si raduneranno tutte le cicogne che sono in questo paese, e cominceremo le manovre autunnali; in quel momento bisogna saper volare bene: è molto importante, perché il generale infilzerà con il becco coloro che non sanno volare quindi cercate di imparare, quando inizi eranno gli esercizi.»
«Allora verremo infilzati, come affermano i ragazzi, e sentite ora lo dicono di nuovo!»
«Ascoltate me e non loro!» disse loro mamma cicogna. «Dopo le grandi manovre voleremo verso i paesi caldi - sì molto lontano da qui, oltre le montagne e i boschi. Voleremo fino in Egitto, dove si trovano case triangolari in pietra, che finiscono a punta oltre le nubi: si chiamano piramidi e sono più antiche di quanto una cicogna possa immaginare. C'è un fiume che straripa, così il paese è pieno di paludi. Noi andremo alle paludi a mangiare le rane.»
«Oh!» esclamarono i cicognini.
«Sì, è proprio bello! non si fa altro che mangiare tutto il giorno, e mentre noi là stiamo così bene, in questo paese non rimarrà una sola foglia sugli alberi, qui sarà così freddo che le nuvole geleranno e si romperanno facendo cadere piccoli pezzetti bianchi.» Naturalmente intendeva la neve, ma non sapeva spiegarsi più chiaramente.
«Anche i ragazzi cattivi si romperanno per il freddo?» domandarono i cicognini.
«No, non si romperanno per il freddo, ma ci andranno vicino. E dovranno restare chiusi a ammuffire in una stanza buia. Voi intanto volerete in un paese straniero, dove ci sono fiori e dove splende il sole.»
Ormai era passato del tempo e i cicognini erano cresciuti e riuscivano a stare in piedi nel nido per guardarsi intorno, e papà cicogna arrivava ogni giorno con belle rane, piccoli serpentelli e tutte le altre buone cose che piacevano alle cicogne e che lui riusciva a trovare.
Com'era divertente vedere le acrobazie che faceva per loro. Metteva la testa sulla coda e col becco faceva il verso della raganella, e poi raccontava loro storie che parlavano della palude.
«Bene, ora dovete imparare a volare» disse un giorno mamma cicogna, e i quattro cicognini dovettero salire sul tetto; oh, come traballavano sulle zampe e come cercavano di tenersi in equilibrio con le ali! e comunque erano sempre sul punto di cadere giù.
«Guardate come faccio io» disse la madre «dovete tenere la testa in questo modo, e le zampe in quest'altro! un-due! un-due! è questo che vi aiuterà nella vita!» e così volò per un pochino, e i cicognini fecero un saltino molto goffo e bum! si trovarono per terra, perché il sedere era troppo pesante.
«Io non voglio volare» disse un cicognino e si rifugiò nel nido «non mi importa di andare nei paesi caldi!»
«Allora resterai qui e morirai di freddo quando verrà l'inverno! Vuoi che vengano i ragazzi a impiccarti, o bruciarti o infilzarti? Ora te li chiamo!»
«No, no!» gridò il cicognino, e saltò di nuovo sul tetto vicino agli altri, il terzo giorno sapevano già volare un pochino e così credettero di potersi già librare nell'aria, ma quando ci provarono, bum! caddero, e dovettero ricominciare a muovere le ali. In quel mentre giunsero i ragazzi della strada e cantarono la loro canzone:
Cicogna, cicogna ardita....
«Possiamo volare giù e cavar loro gli occhi?» chiesero i cicognini.
«No, lasciate perdere!» rispose la madre. «State a sentire me piuttosto. È molto più importante! un -due - tre! adesso voliamo a destra, un - due - tre!, ora voliamo a sinistra, intorno al comignolo. Molto bene! L'ultimo colpo di ali era giusto e ben fatto, quindi domani potrete venire con me alla palude. Ci saranno altre famiglie di cicogne, molto perbene, con i loro figli: dimostratemi di essere i più educati; e tenete la testa alta, perché sta bene e accresce la nostra considerazione.»
«Ma non dobbiamo vendicarci di quei ragazzacci?» chiesero i cicognini.
«Lasciate che gridino quello che vogliono. Voi volerete verso le nubi e sarete nel paese delle piramidi quando loro avranno freddo e non ci sarà più una foglia verde o una sola mela!»
«Ma noi vogliamo vendicarci!» si dicevano sottovoce i cicognini, e intanto si esercitavano di nuovo.
Tra tutti quei ragazzacci di strada il più dispettoso era proprio quello che aveva cominciato a cantare, e era molto piccolo, non aveva più di sei anni; ma i cicognini credettero che avesse più di cento anni, dato che era molto più alto dei loro genitori; che cosa ne sapevano loro di quanti anni potessero avere i bambini e gli adulti? La loro vendetta doveva colpire quell'unico ragazzo, perché lui aveva cominciato e non la smetteva mai. I cicognini erano molto irritati, e diventando grandi sopportavano sempre più malvolentieri; alla fine la madre dovette promettere che si sarebbero vendicati, ma voleva aspettare l'ultimo giorno trascorso in quel paese.
«Dobbiamo prima vedere come ve la cavate alle manovre, se sbaglierete e il generale vi infilzerà il becco nel petto, allora i ragazzi in un certo senso avrebbero ragione. Staremo a vedere!»
«Vedrai» le dissero i cicognini, e fecero del loro meglio; si esercitarono ogni giorno e impararono a volare con tale facilità e grazia che era un piacere guardarli.
Venne l'autunno: tutte le cicogne cominciarono a radunarsi per volare verso i paesi caldi, quando da noi c'è l'inverno. Che manovre! Dovevano volare sui boschi e sui villaggi, solo per mostrare le loro capacità, perché era un gran viaggio quello che si accingevano a compiere. I cicognini volarono con una tale grazia che ottennero "ottimo con rane e serpenti". Era il voto più alto e le rane e i serpenti si potevano mangiare, e così fecero i cicognini.
«Adesso possiamo vendicarci!» dissero.
«Certo!» rispose la madre. «Ho pensato una giusta vendetta! Io so dov'è lo stagno in cui si trovano tutti i bambini piccoli in attesa che le cicogne li portino dai loro genitori. Questi cari neonati dormono e sognano cose bellissime che non sogneranno mai più. Tutti i genitori desiderano quei bei bambini e tutti i bambini desiderano un fratellino o una sorellina. Ora noi andremo allo stagno e porteremo un bambino a ogni ragazzo che non ha cantato quella cattiva canzone e non si è burlato delle cicogne, mentre quanti l'hanno fatto non avranno niente.»
«Ma che cosa faremo a quel ragazzo cattivo e antipatico che per primo ha cominciato a cantare?» gridavano i cicognini.
«Nello stagno si trova anche un bambino morto, morto perché ha sognato troppo; lo porteremo a quel ragazzo, così piangerà, perché gli abbiamo portato un fratellino morto; invece a quel bravo ragazzo che aveva detto: " È male prendersi gioco degli animali!", non l'avete dimenticato, vero?, ebbene, a lui, porteremo sia un fratellino che una sorellina e dato che quel ragazzo si chiama Peter, anche voi tutti vi chiamerete Peter!»
E le cose andarono proprio così, e tutte le cicogne si chiamarono Peter, e così si chiamano ancor oggi.

FINE



Conf

 
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Ritorno (Pirandello)

Post n°900 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Dopo tant’anni, di ritorno al suo triste paese in cima al colle, Paolo Marra capì che la rovina del padre doveva esser cominciata proprio nel momento che s’era messo a costruire la casa per sé, dopo averne costruite tante per gli altri.
E lo capì rivedendo appunto la casa, non più sua, dove aveva abitato da ragazzo per poco tempo, in una di quelle vecchie strade alte, tutte a sdrucciolo, che parevan torrenti che non scorressero più: letti di ciottoli.
L’immagine della rovina era in quell’arco di porta senza la porta, che superava di tutta la cèntina da una parte e dall’altra i muri di cinta della vasta corte davanti, non finiti: muri ora vecchi, di pietra rossa.
Passato l’arco, la corte in salita, acciottolata come la strada, aveva in mezzo una gran cisterna. La ruggine s’era quasi mangiata fin d’allora la vernice rossigna del gambo di ferro che reggeva in cima la carrucola. E com’era triste quello sbiadito color di vernice su quel gambo di ferro che ne pareva malato! Malato fors’anche della malinconia dei cigolii della carrucola quando il vento, di notte, moveva la fune della secchia; e sulla corte deserta era la chiarità del cielo stellato ma velato, che in quella chiarità vana, di polvere, sembrava fissato là sopra, così, per sempre.
Ecco: il padre aveva voluto mettere, tra la casa e la strada, quella corte. Poi, forse presentendo l’inutilità di quel riparo, aveva lasciato così sguarnito l’arco e a mezzo i muri di cinta.
Dapprima nessuno, passando, s’era attentato a entrare, perché ancora per terra rimanevano tante pietre intagliate, e pareva con esse che la fabbrica, per poco interrotta, sarebbe stata presto ripresa. Ma appena l’erba aveva cominciato a crescere tra i ciottoli e lungo i muri, quelle pietre inutili eran parse subito come crollate e vecchie. Parte erano state portate via, dopo la morte del padre, quando la casa era stata svenduta a tre diversi compratori e quella corte era rimasta senza nessuno che vi accampasse sopra diritti; e parte erano divenute col tempo i sedili delle comari del vicinato, le quali ormai consideravano quella corte come loro, come loro l’acqua della cisterna, e vi lavavano e vi stendevano ad asciugare i panni e poi, col sole che abbagliava allegro da quel bianco di lenzuoli e di camice svolazzanti sui cordini tesi, si scioglievano sulle spalle i capelli lustri d’olio per «cercarsi» in capo, l’una all’altra, come fanno le scimmie tra loro.
La strada, insomma, s’era ripresa la corte rimasta senza la porta che impedisse l’ingresso.

E Paolo Marra, che vedeva adesso per la prima volta quella invasione, e distrutta la soglia sotto l’arco, e scortecciati agli spigoli i pilastri, guasto l’acciottolato dalle ruote delle carrozze e dei carri che avevan trovato posto negli ariosi puliti magazzini a destra della casa, chi sa da quanto tempo ridotti sudice rimesse d’affitto; appestato dal lezzo del letame e delle lettiere marcite, col nero tra i piedi delle risciacquature che colava deviando tra i ciottoli giù fino alla strada, provò pena e disgusto, invece di quel senso d’arcano sgomento con cui quella corte viveva nel suo lontano ricordo infantile quand’era deserta, col cielo sopra, stellato, il vasto biancore illividito di tutti quei ciottoli in pendio e la cisterna in mezzo, misteriosamente sonora.
Donne e marmocchi stavano intanto a mirarlo da un pezzo, maravigliati del suo vecchio abito lungo, che a lui forse pareva confacente alla sua qualità di professore, ma che invece gli dava l’aspetto d’un pastore evangelico d’un altro clima e di un’altra razza, con la zazzera scoposa sulle spallucce aggobbite e gli occhiali a stanghetta; e come lo videro andar via con tutto quel disgusto nel viso pallido, scoppiarono a ridere.
L’ira, lì per lì, lo spinse a rientrare in quella corte di cui era ancora il padrone, per strappare quelle donne, una dopo l’altra, dalle pietre su cui stavan sedute e cacciarle via a spintoni. Ma, abituato ormai a riflettere, considerò che se esse sotto quel suo aspetto straniero, e forse un po’ buffo, d’uomo precocemente invecchiato e imbruttito da una vita di studi difficile e disgraziata, non riconoscevano più il ragazzo ch’egli era stato e che qualcuna di loro poteva forse ricordare ancora, non doveva far caso del diritto che gli negavano di provare quel disinganno e quel disgusto, per tutta la pena dei suoi antichi ricordi.
Uno, tra questi ricordi, del resto, bastava a fargli cader l’animo di rivoltarsi contro quelle donne; il ricordo, ancora cocente, di sua madre che usciva per sempre da quella casa, con lui per mano e reggendosi con l’altra, sulla faccia voltata, una cocca del fazzoletto nero che teneva in capo, per nascondere il pianto e i segni delle atroci percosse del marito.
Era stato lui, ragazzo, la causa di quelle percosse, della rottura insanabile che n’era seguita tra moglie e marito e della conseguente morte della madre, per crepacuore, appena un anno dopo: lui, sciocco, per aver voluto farsi, a quattordici anni, paladino di lei contro il padre che la tradiva; senza comprendere, come comprendeva ora da grande, che alla madre, orribilmente svisata fin da bambina da una caduta dalla finestra nella strada, era fatto l’obbligo di sopportare quel tradimento, se voleva seguitare a convivere col marito.
Per lui, figlio, la mamma era quella. Non poteva concepirne un’altra diversa. Si sentiva avvolto e protetto dall’infinita tenerezza che spirava da quegli occhi, che sarebbero stati pur belli, così neri, se le palpebre, sotto, non se ne fossero staccate, mostrando il roseo smorto delle congiuntive e scivolando con le occhiaje e le guance nel cavo dell’orrenda ammaccatura, da cui emergeva appena la punta del naso. E tutta la carnale e santa amorosità della mamma sentiva nella voce di lei, senza badare che quella voce, più che dalla povera enorme bocca, le sfiatasse quasi vana dai fori del naso.
Sapeva che il padre, venuto su dalla strada, era diventato signore per lei; e s’irritava vedendo che ella, nonché pretenderne almeno un po’ di gratitudine, per poco non metteva la faccia – quella sua povera faccia! – dove lui i piedi; e che lo serviva come una schiava, dimostrandogli lei, anzi, in ogni atto, a ogni momento, quella gratitudine tutta tremiti delle bestie avvilite; sempre in apprensione di non esser pronta abbastanza a prevenire ogni suo desiderio o bisogno, ad accogliere qualche sua distratta benevolenza come una grazia immeritata.

Non aveva ancora sei anni, e già si rivoltava, indignato, e scappava via sulle furie nel vedersi mostrato da lei a chi la rimproverava di quella sua troppa remissione; si turava gli orecchi per non udire dall’altra stanza le parole con cui di solito ella accompagnava quel gesto rimasto a mezzo per la sua fuga: che aveva un figlio e che questo, data la sua disgrazia, fosse già un premio veramente insperato che Dio le aveva voluto concedere.
A quell’età non poteva ancora comprendere ch’ella poneva avanti questa scusa del figlio per dissimulare, fors’anche a se stessa, l’inconfessabile miseria della sua povera carne che mendicava con tanta umiliazione a quell’uomo l’amore, pur sapendolo preso e posseduto da un’altra donna, pur avvertendo certamente la repulsione con cui ogni volta la tremenda elemosina le doveva esser fatta. E s’era creduto in obbligo di risarcirla di quell’avvilimento davanti a tutti, patito per lui.
Era a conoscenza che il padre s’era messo con una vedova, popolana, sua cugina, una certa Nuzza La Dia ch’era stata sua fidanzata e ch’egli aveva lasciata per sposare una d’un paraggio superiore al suo e con ricca dote: pazienza, se brutta; figlia dell’ingegnere che lo aveva ajutato a tirarsi su e che, accollatario di tanti lavori, lo avrebbe preso come socio in tutti gli appalti.
Sapeva che le domeniche mattina i due si davano convegno al parlatorietto riservato alla madre badessa del monastero di San Vincenzo, ch’era una loro zia. Fingevano d’andarle a far visita; e la vecchia badessa, che forse scusava con la parentela tra i due la tenera intimità di quei convegni, godeva nel vederseli davanti, l’uno di fronte all’altra, ai due lati del tavolino sotto la doppia grata: lui, diventato un signore, con l’abito turchino delle domeniche che pareva gli dovesse scoppiare sulle spalle rudi, il solino duro che gli segava le garge paonazze, e la cravatta rossa; lei d’una piacenza tutta carnale ma placida perchè soddisfatta, vestita di raso nero e luccicante d’ori nella penombra di quel parlatorietto che aveva il rigido delle chiese.
S’imbeccavano, un boccone tu, un boccone io, le innocenti confezioni della badia, e dai bicchierini il pallido rosolio con l’essenza di cannella, un sorso tu, un sorso io. E ridevano. E anche la vecchia zia badessa, come una balla dietro la doppia grata, si buttava via dalle risa.
Era andato a sorprenderli, una di quelle domeniche.

Il padre aveva fatto a tempo a nascondersi dietro una tenda verde che riparava a destra un usciolo; ma la tenda era corta, e sotto i peneri ancora mossi si vedevano bene le due grosse scarpe di coppale lisce e lustre; ella era rimasta a sedere davanti al tavolino, col bicchierino ancora tra le dita, in atto di bere.
Le era andato di fronte e s’era tirato un po’ indietro col busto per scagliarle con più forza in faccia lo sputo. Il padre non s’era mosso dalla tenda. E a lui, poi, a casa, non aveva torto un capello né detto nulla. S’era vendicato sopra la madre; l’aveva percossa a sangue e cacciata via; poi s’era tolta in casa pubblicamente la ganza, senza voler più sapere né della moglie né del figlio.
Morta dopo un anno la madre, egli era stato messo in collegio fuori del paese; e non aveva riveduto il padre mai più.
Ora, in quel suo ritorno dopo tanto tempo al paese natale, non era stato riconosciuto da nessuno.
Solo un tale gli s’era accostato, che a lui però non era riuscito d’immaginare chi potesse essere; un certo omino ammantellato, che pareva quasi per ridere, tanto era piccolo e il mantello grande.
Misteriosamente costui, chiamandoselo prima con la mano in disparte, s’era messo a parlargli a bassissima voce della casa e del diritto da far valere sulla corte di essa, o per sè, o, se per sè non voleva, a favore d’una disgraziata che sarebbe stata carità fiorita ricompensare dell’amore e della devozione che aveva avuto per il padre e dei servizi che egli aveva reso fino all’ultimo, quando, perso di tutto il corpo e muto, s’era ridotto alla fame: una certa Nuzza La Dia sì, che fin d’allora s’era data a mendicare per lui, e che ora, senza tetto, si trascinava ogni notte a dormire là, in un sottoscala della casa.

Paolo Marra s’era voltato a guardare quell’omino come fosse il diavolo.
Ed ecco che quell’omino, in risposta al suo sguardo, subito gli aveva strizzato un occhio, ammiccando con l’altro, improvvisamente acceso d’una furbizia davvero diabolica. Proprio come se fosse stato lui a far precipitare da bambina la madre dalla finestra, per svisarla; lui a far così bella, per la tentazione del padre, quella Nuzza La Dia; lui a indurlo, ragazzo, a tirare in faccia a quella donna bella lo sputo per la rovina di tutti.
E dopo aver così ammiccato, quel diavolo lì, ravvolgendosi con gran vento nel suo spropositato mantello, era andato via.
Sapeva bene Paolo Marra che questa era tutta sua immaginazione, la quale nasceva dal fatto che da un pezzo si sentiva pungere segretamente dal rimorso d’aver lasciato morire il padre nella miseria, senza volersene più curare.
Anche in quel momento se ne sentì pungere; ma subito respinse quel rimorso con un urto d’odio che pur sapeva non vero. L’urto, difatti, proveniva da un altro sentimento ch’egli non aveva mai voluto precisare dentro di sé per non offendere tra le sue memorie quella che gli doleva di più: la memoria della madre. E questa memoria era mista adesso a un senso atroce di vergogna e ad un avvilimento tanto più grande, in quanto ogni volta, accanto alla faccia della madre, deturpata, gli appariva d’improvviso, bella, la faccia di quell’altra, col ricordo indelebile di com’ella lo aveva guardato, mentre ancora lo sputo le pendeva dalla guancia: un sorriso incerto, di quasi allegra sorpresa, che le luceva sui denti tra le labbra rosse; e tanta pena, invece, tanta pena negli occhi.

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Pandemonio a S.Tobia

Post n°899 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Cari lettori,eccomi di nuovo qua a raccontarvi che succede nel nostro ameno paesino.Stavolta è roba piccante che più piccante non si può!
Tutto è iniziato quando il gestore della discoteca Perepepè Gelindo Frollocconi (uno dei 56 nipoti dell'Ildebrando)ha avuto la brillante idea di far esibire nel suo locale,in occasione della festa della donna,il famoso gruppo di spogliarellisti "American Pigs" (che di american hanno ben poco,essendo 4 tizi nerboruti provenienti da uno sperduto paesino ciociaro).
La serata ha avuto luogo tre giorni fa e il locale era gremito come e forse più del Maracanà.
Primo a esibirsi è stato Natalino Strettebraghe,alias American Cowboy.
Alla sua vista la Clementina si è buttata in ginocchio dicendo che il giovinotto è una delle poche prove dell'esistenza di Dio,e poi è caduta in estasi mistica.
La signora Puzzettoni,presidentessa a vita del comitato locale delle parrocchiane e pressochè in odore di santità,gridando:"ti voglio tivoglio mi piaci ti spoglio!"si è lanciata verso di lui saltando da un tavolo all'altro,finchè non è caduta rovinosamente.
Ma questo era nulla,lettori miei!
Dopo di lui èarrivato Gaetanino Cianciconi,alias Strong American Macho.
Quando l'imbecille,pensando di riscaldare l'atmosfera,ha lanciato un pedalino in mezzo alla folla,è scoppiato il finimondo.
Dimentiche della parentela,l'Armida,la Fidalma e la Cesira si sono azzuffate,prendendosi a parolacce,morsi e graffi.
La Gelsomina ha semiscotennato Elvira Scozzagalli,e la Scannafù ha quasi decapitato a morsi la madre del Mangiapaperi.
Il pedalino è finito in faccia al Cuccurullo,per la cronaca e lo ha quasi messo KO per l'odore mefitico.
In Cianciconi è stato arrestato per istigazione alla rivolta.
A questo punto una persona normale avrebbe interrotto lo spettacolo,ma Gelindo ha fatto salire sul palco il numero clou della serata ,i gemelli Aroldo e Nando Sportacchioni,alias "American Crazy Pigs".
Le donne hanno travolto il servizio d'ordine e li hanno assali e ci sono volute tre cariche e gli idranti per riportarle alla ragione.
I disordini si sono protratti fino all'alba.
A tre giorni dai fatti,questa la situazione.
Il Perepepè è stato chiuso a tempo indeterminato.
Il Frollocconi è ricoverato nella clinica Luminaris.
La Clementina è ancora in estasi.
Teobaldo e geremia hanno chiesto la separazione,Odoacre Puzzettoni ha ripudiato la madre e la Gelsomina,
I quattro giovanotti hanno abbandonato la carriera:uno è a Tukambakabalo,uno si farà monaco trappista e i gemelli si sono arruolati nella Legione Straniera.
Da s.Tobia (almeno per ora)è tutto.Passo e chiudo



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Se tu non parli (Tagore)

Post n°898 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Se tu non parli
Riempirò il mio cuore del tuo silenzio
E lo sopporterò.
Resterò qui fermo ad aspettare
Come la notte
Nella sua veglia stellata
Con il capo chino a terra
Paziente.

Ma arriverà il mattino
Le ombre della notte svaniranno
E la tua voce
In rivoli dorati inonderà il cielo.
Allora le tue parole
Nel canto
Prenderanno ali
Da tutti i miei nidi di uccelli
E le tue melodie
Spunteranno come fiori
Su tutti gli alberi della mia foresta.

 
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Libri dimenticati:Celluloide

Post n°897 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

E' la storia della nascita di uno dei più grandi capolavori del cinema italiano. "Roma città aperta" di Roberto Rossellini

 
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Frase del giorno

Post n°896 pubblicato il 04 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Festina lente

 
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