Messaggi del 06/10/2011

I fidanzati

Post n°930 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Un trottolino e una palla stavano in un cassetto insieme a altri giocattoli e il trottolino propose alla palla: «Perché non ci fidanziamo, dato che siamo insieme nel cassetto?» ma la palla che era fatta di marocchino e si credeva una signorina per bene non volle neppure rispondere.

II giorno dopo venne il bambino che possedeva quei giocattoli, prese il trottolino, lo dipinse di rosso e giallo e vi piantò nel mezzo un chiodo di ottone; ci stava proprio bene soprattutto quando girava.

«Mi guardi!» disse il trottolino alla palla. «Che cosa ne dice adesso? non possiamo fidanzarci? Stiamo proprio bene insieme, lei salta e io danzo! nessuno potrebbe essere più felice di noi.»

«Lei crede?» rispose la palla «forse non sa che mio padre e mia madre sono state pantofole di marocchino, e che io ho una valvola in vita!»
«Va bene, ma io sono in legno di mogano!» replicò il trottolino «e mi ha tornito il sindaco del paese personalmente: possiede un tornio e si è divertito moltissimo!»

«Devo crederle?» chiese la palla.

«Che io non venga più fatto rotolare, se dico una bugia!» esclamò il trottolino.
«Lei parla bene» concluse la palla «ma io non posso accettare sono quasi fidanzata con un rondone! Ogni volta che sono per aria, si affaccia dal nido e mi dice: "Accetta? accetta?" e ora ho già detto di sì dentro di me, e questo è quasi un fidanzamento! Ma le prometto che non la dimenticherò mai!»

«Che bella consolazione!» commentò il trottolino, e da allora non si parlarono più.

Il giorno dopo la palla venne tolta dal cassetto, il trottolino vide come veniva lanciata in alto, sembrava un uccello; alla fine non la si scorgeva più; ma ogni volta ritornava indietro, e poi quando toccava terra spiccava un altro gran salto, e questo a causa della nostalgia o della valvola che aveva in vita.
Al nono salto la palla sparì e non tornò più indietro; il bambino la cercò a lungo, ma non la trovo più.

«Io so dove è finita!» sospirò il trottolino. «Si trova nel nido del rondone e si è sposata con lui.»

Più pensava alla palla, più il trottolino se ne innamorava; proprio perché non poteva averla, provava sempre più amore, e il fatto che lei avesse scelto un altro era quello che più gli dispiaceva. Rotolava e girava su se stesso, ma continuava a pensare alla palla, che nell'immaginazione diventava sempre più graziosa. Così passarono molti anni e quello divenne un antico amore.
Il trottolino non era più giovane! Un giorno venne dorato da cima a fondo: non era mai stato così bello. Ora era un trottolino dorato e saltava e girava a più non posso. Che divertimento! ma a un certo momento saltò troppo in alto e... sparì!

Lo cercarono a lungo, persino in cantina, ma non riuscirono a trovarlo. Dov'era finito?

Era caduto nel deposito della spazzatura dove c'era di tutto: torsoli di cavolo, manici di scopa e tanti calcinacci caduti dalla grondaia.
«Adesso sono a posto! qui perderò presto la doratura, e guarda un po' con chi mi tocca stare!» e intanto sbirciava verso un lungo torsolo di cavolo che era stato rosicchiato fin troppo, e verso uno strano oggetto rotondo che sembrava una vecchia mela, ma non era una mela, bensì una vecchia palla, che per tanti anni era rimasta sulla grondaia e che l'acqua aveva afflosciato.
«Fortunatamente è arrivato qualcuno del mio ceto con cui poter parlare!» esclamò la palla osservando il trottolino dorato. «Io sono fatta di marocchino, cucita da una damigella. E ho una valvola in vita, ma nessuno lo capirebbe ora! Stavo per sposarmi con un rondone, quando caddi sulla grondaia e lì rimasi per cinque anni affondata nell'acqua. È molto tempo, mi creda, per una signorina.»
Ma il trottolino non disse nulla, pensava al suo antico amore, e più la ascoltava, più si convinceva che era lei.

Poi giunse la domestica per vuotare il secchio della spazzatura e «Eccolo qui, il trottolino dorato!» esclamò.

Il giocattolo venne così riportato nella stanza con tutti gli onori; della palla invece non si seppe nulla e il trottolino non parlò mai più del suo antico amore; l'amore passa quando la propria amata è rimasta cinque anni a marcire in una grondaia; non la si riconosce nemmeno, se la si incontra nel deposito della spazzatura.

 
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La margheritina

Post n°929 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Ascolta un po'!
Laggiù in campagna, vicino alla strada, si trovava una villa, l'hai certamente vista qualche volta. Proprio davanti c'è un giardinetto con vari fiori e un cancello dipinto; vicino al fossato, in mezzo a un bel prato verde, era cresciuta una margheritina; il sole splendeva caldo su di lei così come sui grandi fiori da giardino, e per questo il fiorellino cresceva molto in fretta. Una mattina era tutta sbocciata con i suoi piccoli petali bianchi luminosi, che sembravano raggi disposti intorno al piccolo sole giallo del centro. La margheritina non pensava certo che nessuno l'avrebbe notata lì nell'erba, e neppure pensava di essere un povero fiore disprezzato; no, si sentiva contenta e si voltò verso il caldo sole, volse lo sguardo verso l'alto e ascoltò l'allodola che stava cantando.
La margheritina era così felice che le sembrava un giorno di festa; in realtà era solo lunedì e tutti i bambini erano a scuola; mentre quelli erano seduti nei loro banchi e imparavano qualcosa, il fiorellino se ne stava fermo sul suo piccolo gambo verde e imparava dal sole caldo e da tutto quel che la circondava quanto fosse buono Dio, e le piaceva che l'allodola cantasse così bene e così chiaramente tutto quello che lei stessa sentiva in silenzio; guardava con una certa riverenza verso quel fortunato uccello, che poteva cantare e volare, ma non era triste per il fatto di non poterlo fare lei stessa. "Io posso vederlo e ascoltarlo!" pensava. "Il sole splende su di me e il vento mi bacia! Oh, quanti doni mi sono stati concessi!".
Dietro il cancello si trovavano molti fiori, rigidi e aristocratici, e quanto meno profumo avevano, tanto più si sentivano importanti.
Le peonie si gonfiavano per diventare più grandi delle rose ma non era certo la grandezza che importava! I tulipani avevano i colori più belli e lo sapevano bene, e stavano ben diritti per farsi notare meglio. Tutti quei fiori non notarono affatto la giovane margheritina che si trovava fuori, ma lei invece li guardava continuamente e pensava: "Come sono belli e ricchi! Sicuramente quello splendido uccello volerà giù da loro! Grazie a Dio, io sono così vicina che potrò vedere quello splendore!" e mentre pensava così "quirrevit!" arrivò l'allodola in volo, che non si posò sulle peonie o sui tulipani, bensì giù nell'erba, dalla povera margheritina; e lei fu così turbata da quella gioia che non riuscì più a pensare.
L'uccellino le danzò intorno cantando: «Oh! com'è tenera l'erba! e che grazioso fiorellino col cuore d'oro e l'abito argentato!». Il bottone giallo della margheritina sembrava proprio d'oro e i piccoli petali bianchi luccicavano come argento.
Nessuno può immaginare quanto fosse felice la piccola margheritina! L'uccellino la baciò col suo becco, cantò per lei e poi volò di nuovo in alto, verso il cielo azzurro. Ci volle più di un quarto d'ora prima che il fiorellino si riprendesse. Un po' vergognosa, ma anche profondamente felice, la margheritina guardò verso i fiori del giardino: avevano visto l'onore e la beatitudine che le erano toccati, potevano certo immaginare quale gioia fosse per lei; ma i tulipani erano ancora più dritti di prima e erano arcigni e rossi in volto, perché si erano arrabbiati. Le peonie invece erano gonfie in viso, per fortuna non potevano parlare, altrimenti la margheritina le avrebbe proprio sentite! Il povero fiorellino capì che non erano di buon umore e se ne dispiacque molto. In quel momento giunse in giardino una ragazza con un grosso coltello, affilato e lucente; si diresse verso i tulipani e li recise tutti, uno dopo l'altro. "Uh!" sospirò la margheritina "è terribile, per loro è finita!" E così la ragazza se ne andò con i tulipani. La margheritina si rallegrò di trovarsi fuori dal giardino, tra l'erba, e di essere un povero fiorellino: se ne sentì riconoscente, e quando il sole tramontò, richiuse i petali e si addormentò sognando per tutta la notte il sole e l'uccellino.
Il mattino dopo, quando il fiore riaprì i bianchi petali come piccole braccia verso l'aria e la luce, riconobbe la voce dell'uccello, ma come era doloroso il suo canto! E la povera allodola aveva ragione di essere così triste: era stata catturata e ora si trovava in una gabbia posta vicino a una finestra aperta. Cantava di poter volare libera e felice, cantava del giovane grano verde dei campi e dello splendido viaggio che poteva intraprendere nell'aria. Il povero uccello non era certo di buon umore, rinchiuso com'era nella gabbia.
La margheritina avrebbe voluto aiutarlo, ma come poteva fare? Non era facile trovare il modo. Dimenticò subito le bellezze che la circondavano, il sole caldo che splendeva, dimenticò com'erano graziosi i suoi petali bianchi, pensava solo all'uccello rinchiuso, per il quale non era in grado di fare nulla.
In quel mentre giunsero due ragazzetti dal giardino; uno di loro aveva in mano un coltello, grosso e affilato come quello usato dalla ragazza per tagliare i tulipani. Si dirigevano proprio verso la margheritina, che non riusciva a immaginare che cosa volessero.
«Qui possiamo prendere una bella zolla d'erba per l'allodola» disse uno dei ragazzi, e cominciò a tagliare un quadrato di terra, proprio intorno alla margheritina, che così si trovò in mezzo alla zolla.
«Strappa quel fiore» disse uno dei ragazzi, e la margheritina cominciò a tremare di paura, perché essere strappata significava perdere la vita e lei ora desiderava vivere e entrare nella gabbia dell'allodola con la zolla di erba.
«No, lasciala» rispose l'altro ragazzo «ci sta così bene!» e così il fiore restò lì e giunse nella gabbia dell'allodola.
Ma il povero uccello si lamentava a voce alta della libertà perduta e batteva con le ali contro le sbarre della gabbia; la margheritina non poteva parlare, non poteva dirgli una sola parola di conforto, come pure desiderava tanto. Così passò tutta la mattina.
«Qui non c'è acqua» disse l'allodola prigioniera. «Tutti sono usciti e non mi hanno dato una sola goccia d'acqua; ho la gola secca e infuocata, c'è fuoco e ghiaccio dentro di me e l'aria è così pesante! Ah, devo morire, lasciare il sole caldo, il fresco verde, tutte quelle bellezze che Dio ha creato!» e intanto affondava il becco nella fresca zolla d'erba, per refrigerarsi un po'; in quel momento il suo sguardo si posò sulla margheritina e l'uccello le fece un cenno di saluto, la baciò con il becco e esclamò: «Anche tu dovrai appassire qui dentro, povero fiorellino! Mi hanno portato te e la piccola zolla d'erba al posto del mondo intero che avevo là fuori! Ogni stelo d'erba è per me come un albero verde, ognuno dei tuoi petali bianchi un fiore profumato! Ah, voi mi ricordate quanto ho perduto!»
"Se solo potessi consolarlo!" pensava la margheritina, ma non poteva muovere neppure un petalo. Tuttavia, il profumo che i sottili petali emanavano era molto più intenso di quello che di solito hanno le margherite; e anche l'uccello lo notò tanto che, sebbene stesse morendo di sete e nella sua disperazione strappasse ogni filo d'erba, non toccò affatto il fiorellino.
Venne sera, ma ancora nessuno portò acqua al povero uccello; l'allodola allora allargò le belle ali, le agitò convulsamente, e il suo canto divenne un malinconico cip-cip, la testolina si piegò sul fiore e il cuore dell'uccello si spezzò per inedia e nostalgia; e il fiore non potè chiudere i petali e dormire, come faceva ogni sera, ma si piegò malato e triste verso la terra.
Solo il mattino dopo giunsero i ragazzi e, vedendo che l'uccello era morto, piansero, piansero a lungo e lo seppellirono in una graziosa fossa che ornarono con petali di fiori. Il corpo dell'uccello fu posto in una bella scatola rossa; doveva avere un funerale da re quel povero uccellino! Quando era vivo e cantava, lo avevano dimenticato, abbandonato nella gabbia a soffrire di nostalgia; ora ricevette onori e molte lacrime.
Ma la zolla di terra con la margheritina fu gettata via, nella polvere della strada. Nessuno pensò a lei, che aveva sofferto più di tutti per l'uccellino e che avrebbe tanto voluto consolarlo.

 
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Il bucaneve

Post n°928 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Era inverno, l'aria era fredda, il vento tagliente, ma in casa si stava bene e faceva caldo; e il fiore stava in casa, nel suo bulbo sotto la terra e sotto la neve.
Un giorno cadde la pioggia, le gocce penetrarono oltre la coltre di neve fino alla terra, toccarono il bulbo del fiore, gli annunciarono il mondo luminoso di sopra; presto il raggio di sole, sottile e penetrante, passò attraverso la neve fino al bulbo e busso.
«Avanti!» disse il fiore.
«Non posso» rispose il raggio «non sono abbastanza forte per aprire, diventerò più forte in estate.»
«Quando verrà l'estate?» chiese il fiore, e lo chiese di nuovo ogni volta che un raggio di sole arrivava laggiù. Ma c'era ancora tanto tempo prima dell'estate, la neve era ancora lì e ogni notte l'acqua gelava.
«Quanto dura!» disse il fiore. «Io mi sento solleticare, devo stendermi, allungarmi, aprirmi, devo uscire! Voglio dire buongiorno all'estate; sarà un tempo meraviglioso!»
Il fiore si allungò e si stirò contro la scorza sottile che l'acqua aveva ammorbidito, la neve e la terra avevano riscaldato, il raggio di sole aveva punzecchiato; così sotto la neve spuntò una gemma verde chiaro, su uno stelo verde, con foglioline grosse che sembravano volerla proteggere. La neve era fredda, ma tutta illuminata, e era così facile attraversarla, e sopraggiunse un raggio di sole che aveva più forza di prima.
«Benvenuto, benvenuto!» cantavano e risuonavano tutti i raggi, e il fiore si sollevò oltre la neve nel mondo luminoso. I raggi lo accarezzarono e lo baciarono, così si aprì tutto, bianco come la neve e adorno di striscioline verdi. Piegava il capo per la gioia e l'umiltà.
«Bel fiore» cantavano i raggi «come sei fresco e puro! Tu sei il primo, l'unico, sei il nostro amore. Tu annunci l'estate, la bella estate in campagna e nelle città. Tutta la neve si scioglierà; i freddi venti se ne andranno. Noi domineremo. Tutto rinverdirà, e tu avrai compagnia, il lillà, il glicine e alla fine le rose; ma tu sei il primo, così delicato e puro!»
Era proprio divertente. Era come se l'aria cantasse e risuonasse, come se i raggi di sole penetrassero nei suoi petali e nel suo stelo, lui era lì, così sottile e delicato e facile a spezzarsi, eppure così forte, nella sua giovanile bellezza; era lì in mantello bianco e nastri verdi, e lodava l'estate. Ma c'era ancora tempo prima dell'estate; nuvole nascosero il sole, e venti taglienti soffiarono sul fiorellino.
«Sei arrivato troppo presto!» dissero il vento e l'aria. «Noi abbiamo ancora il potere, dovrai adattarti! Saresti dovuto rimanere chiuso in casa, non dovevi correre fuori per farti ammirare, non è ancora tempo.»
C'era un freddo pungente! I giorni che vennero non portarono un solo raggio di sole, c'era un tale freddo che ci si poteva spezzare, soprattutto un fiorellino così delicato. Ma in lui c'era molta più forza di quanto lui stesso sospettasse, era la forza della gioia e della fede per l'estate che doveva giungere, che gli era stata annunciata da una profonda nostalgia e confermata dalla calda luce del sole; quindi resistette con la sua speranza, nel suo abito bianco sulla bianca neve, piegando il capo quando i fiocchi cadevano pesanti e fitti, quando i venti gelati soffiavano su di lui.
«Ti spezzerai!» gli dicevano. «Appassirai, gelerai! Perché hai voluto uscire? perché non sei rimasto chiuso in casa? Il raggio di sole ti ha ingannato. E adesso ti sta bene, fiorellino che hai voluto bucare la neve!»
«Bucaneve!» ripetè quello nel freddo mattino.
«Bucaneve!» gridarono alcuni bambini che erano giunti nel giardino «ce n'è uno, così grazioso, così carino, è il primo, l'unico!»
Quelle parole fecero bene al fiore, erano come caldi raggi di sole. Il fiore, preso dalla sua gioia, non si accorse neppure d'essere stato colto; si trovò nella mano di un bambino, venne baciato dalle labbra di un bambino, poi fu portato in una stanza riscaldata, osservato da occhi affettuosi, e messo nell'acqua: era così rinfrescante, così ristoratrice, e il fiore credette improvvisamente d'essere entrato nell'estate.
La fanciulla della casa, una ragazza graziosa che era già stata cresimata, aveva un caro amico che pure era stato cresimato e che ora studiava per trovarsi una sistemazione. «Sarà lui il mio fiorellino beffato dall'estate!» esclamò la fanciulla, prese quel fiore sottile e lo mise in un foglio di carta profumato su cui erano scritti dei versi, versi su un fiore che cominciavano con "fiorellino beffato dall'estate" e terminavano con "beffato dall'estate".
"Caro amico, beffato dall'estate!" Lei lo aveva beffato d'estate. Tutto questo fu scritto in versi e spedito come una lettera; il fiore era là dentro e c'era proprio buio intorno a lui, buio come quando era nel bulbo. Il fiore viaggiò, si trovò nei sacco della posta, venne schiacciato, premuto; non era affatto piacevole, ma finì.
Il viaggio terminò, la lettera fu aperta e letta dal caro amico lui era molto contento, baciò il fiore che fu messo insieme ai versi in un cassetto, insieme a tante altre belle lettere che però non avevano un fiore; lui era il primo, l'unico, proprio come i raggi del sole lo avevano chiamato: com'era bello pensarlo!
Ebbe la possibilità di pensarlo a lungo, e pensò mentre l'estate finiva, e poi finiva il lungo inverno, e venne estate di nuovo, e allora fu tirato fuori. Ma il giovane non era affatto felice; afferrò i fogli con violenza, gettò via i versi, e il fiore cadde sul pavimento, piatto e appassito; non per questo doveva essere gettato sul pavimento! Comunque meglio lì che nel fuoco, dove tutti i versi e le lettere finirono. Cosa era successo? Quello che succede spesso. Il fiore lo aveva beffato, ma quello era uno scherzo; la fanciulla lo aveva beffato, e quello non era uno scherzo; lei si era trovato un altro amico nel mezzo dell'estate.
Al mattino il sole brillò su quel piccolo bucaneve schiacciato che sembrava dipinto sul pavimento.
La ragazza che faceva le pulizie lo raccolse e lo mise in uno dei libri appoggiati sul tavolo, perché credeva ne fosse caduto mentre lei faceva le pulizie e metteva in ordine. Il fiore si trovò di nuovo tra versi stampati, e questi sono più distinti di quelli scritti a mano, per lo meno costano di più.
Così passarono gli anni e il libro rimase nello scaffale; poi venne preso, aperto e letto; era un bel libro: erano versi e canti del poeta danese Ambrosius Stub, che vale certo la pena di conoscere. L'uomo che leggeva quel libro girò la pagina. «Oh, c'è un fiore!» esclamò «un bucaneve! È stato messo qui certamente con un preciso significato; povero Ambrosius Stub! Anche lui era un fiore beffato, una vittima della poesia. Era giunto troppo in anticipo sul suo tempo, per questo subì tempeste e venti pungenti, passò da un signore della Fionia all'altro, come un fiore in un vaso d'acqua, come un fiore in una lettera di versi! Fiorellino, beffato dall'estate, zimbello dell'inverno, vittima di scherzi e di giochi, eppure il primo, l'unico poeta danese pieno di gioventù. Ora sei un segnalibro, piccolo bucaneve! Certo non sei stato messo qui a caso!»
Così il bucaneve fu rimesso nel libro e si sentì onorato e felice sapendo di essere il segnalibro di quel meraviglioso libro di canti e apprendendo che chi per primo aveva cantato e scritto di lui, era pure stato un bucaneve, beffato dall'estate e vittima dell'inverno. Il fiore capì naturalmente tutto a modo suo, proprio come anche noi capiamo le cose a modo nostro.
Questa è la fiaba del bucaneve.

 

 
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Ogni cosa al suo posto

Post n°927 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Sono passati più di cento anni!
Dietro il bosco, vicino a un grande lago, sorgeva un vecchio castello, e intorno si stendevano fossati profondi in cui crescevano piante di sala, giunchi e canne. Vicino al ponte dell'ingresso principale c'era un vecchio salice che si piegava sul canneto.
Dal sentiero in basso si sentiva un suono di corni e lo scalpitare di cavalli, e la piccola guardiana delle oche si affretto a spostarle a lato del ponte, prima che la compagnia dei cacciatori giungesse al galoppo. Arrivarono a una tale velocità che lei dovette saltare molto in fretta su una pietra più alta del ponte, per non venire travolta.
Era ancora una bambina gracile e magra, ma con un'espressione dolce sul viso e due occhi belli e chiari; ma il padrone non ci badò, passò a una velocità incredibile, voltò il frustino e con una cruda allegria le diede un tale colpo sul petto con manico, che lei cadde all'indietro.
«Ogni cosa al suo posto!» gridò «nel fango!» e si mise a ridere come se la cosa fosse molto divertente, e anche gli altri risero, tutta la compagnia cominciò a gridare e i cani da caccia abbaiarono. È proprio vero che: "Gli uccelli ricchi arrivano fischiando!".
Ma chissà per quanto tempo ancora sarebbe stato ricco!
La povera guardiana delle oche, cadendo, cercò di aggrapparsi a qualcosa, e afferrò un ramo del salice; vi si tenne stretta, sospesa sul pantano, e quando il padrone e i cani ebbero oltrepassato il portone, cercò di risalire, ma il ramo si staccò e lei ricadde tra le canne. In quel momento l'afferrò una mano robusta. Era un mereiaio ambulante che da lontano aveva visto l'accaduto e si era affrettato per portarle aiuto.
«Ogni cosa al suo posto!» disse rifacendo il verso al padrone, e intanto la tirò su all'asciutto. Rimise poi il ramo spezzato nel punto da cui si era staccato, ma "Ogni cosa al suo posto!" non vale sempre; così lo infilò nel terreno: «Cresci, se puoi, e prepara un bel concerto per quelli del castello!»; gli sarebbe piaciuta, per il padrone e i suoi ospiti, una bella sinfonia a suon di bastonate. Poi si diresse al castello, ma non nelle sale padronali: non era all'altezza. Andò nelle stanze della servitù, e la servitù guardò la sua merce e contrattò, dalla sala del banchetto venivano grida e urla, che dovevano essere canzoni ma non sapevano fare di meglio. Si sentivano risate e guaiti di cani; lassù si gozzovigliava e ci si rimpinzava: il vino e la birra spumeggiavano nei bicchieri e nei boccali, e anche i cani preferiti mangiavano con i padroni. Uno dei giovani gentiluomini ogni tanto ne baciava uno dopo avergli asciugato il muso con una delle lunghe orecchie.
Il mereiaio venne chiamato di sopra con la sua mercanzia, ma solo perché volevano divertirsi un po' con lui. Il vino aveva preso il sopravvento sul buon senso. Gli versarono della birra in una calza e da lì dovette bere, e in fretta! Era proprio una cosa straordinariamente spiritosa. Intere mandrie, contadini e fattorie vennero puntati su una carta e perduti.
«Ogni cosa al suo posto!» esclamò il mereiaio quando fu via da quella Sodoma e Gomorra, come la chiamava. «La strada maestra, quella è il mio posto! lassù non ero affatto a mio agio.» E la piccola guardiana delle oche lo salutò con un cenno dal cancelletto del campo.
Passarono molte settimane, e quel ramo rotto che il mercante aveva piantato nel fossato si era mantenuto fresco e verde; anzi, erano spuntate nuove gemme; la guardiana delle oche pensò che doveva aver messo radici e si rallegrò molto tra sé; quello ormai era il suo albero.
Il ramo progrediva, ma non così il castello; si stava perdendo tutto con le feste e col gioco, che non aiutano davvero a stare in piedi.
Non erano passati sei anni che il padrone del castello dovette andarsene con un bastone e una bisaccia, come un pover'uomo, e la tenuta venne acquistata da un ricco mereiaio, proprio quello che era stato deriso e preso in giro e a cui avevano fatto bere la birra in una calza, l'onestà e la buona volontà hanno il vento in poppa, e ora era diventato lui padrone del castello. Ma da quel momento non vi si giocò mai più a carte. «È un'attività pericolosa» diceva il mercante «è nata il giorno in cui il diavolo, vedendo la Bibbia, volle contraffarla e inventò le carte!»
Il nuovo padrone prese moglie e chi fu? La guardiana delle oche che era stata sempre così brava, buona e pia. Nei nuovi abiti era tanto graziosa e fine da sembrare una nobile damigella.
Come andò? È una storia troppo lunga per questi nostri tempi frettolosi, ma andò, e la cosa più importante venne dopo.
Si stava molto bene nel vecchio castello, la padrona seguiva di persona le faccende domestiche e il padrone quelle esterne; sembrava che tutto fosse benedetto e il benessere chiama altro benessere. Il vecchio castello venne ripulito e ridipinto, i fossati prosciugati, e vi vennero piantati alberi da frutto; tutto appariva in perfetto ordine, il pavimento delle stanze era lucido come uno specchio. Nelle sere d'inverno la padrona sedeva con le domestiche nella sala grande a filare la lana e il lino.
Ogni domenica sera si leggeva la Bibbia a voce alta, e la leggeva il consigliere in persona, infatti il mercante dopo molto tempo era diventato consigliere. I figli crebbero, ebbero a loro volta figli e tutti vennero istruiti bene, ma non avevano tutti lo stesso cervello, come accade in ogni famiglia.
Il ramo del salice era diventato un meraviglioso albero, bellissimo e indisturbato. «È il nostro albero di famiglia» dicevano i vecchi e raccomandavano ai figli, anche a quelli con poco cervello, che quell'albero venisse rispettato e onorato.
Così passarono cento anni.
E si giunse ai nostri giorni; il lago era diventato una palude, il vecchio castello sembrava fosse stato cancellato, e una lunga pozza d'acqua circondata da rovine era tutto quanto restava dei profondi fossati, ma si innalzava ancora un vecchio albero meraviglioso con i rami pendenti: l'albero di famiglia. Stava lì e mostrava quanto possa essere bello un salice quando ha la possibilità di crescere liberamente. Il tronco aveva una spaccatura nel mezzo, che andava dalle radici fino alla fronda, e la tempesta lo aveva un po' piegato; ma era sempre in piedi, e da tutte le fessure e le crepe in cui il vento e la pioggia avevano deposto terriccio, spuntavano fiori e erba. Soprattutto in cima, dove i rami più grandi si dividevano, c'era come un piccolo giardino pensile, con lamponi e erba gallina, e perfino un piccolo alberello di sorbo aveva messo le radici e cresceva slanciato e sottile proprio in mezzo al vecchio salice, riflettendosi nell'acqua scura quando il vento spingeva verso l'orlo della pozzanghera le piante acquatiche. Un minuscolo sentiero attraverso i campi passava proprio davanti al salice.
In cima alla collina, vicino al bosco, là dove c'era una splendida vista, si trovava il nuovo castello, grande e maestoso, con vetrate così trasparenti che sembrava neppure ci fossero. La grande scalinata d'ingresso era come interamente ricoperta da un pergolato di rose e latifoglie, le aiuole erano così verdi e pulite che sembrava ogni filo d'erba fosse controllato al mattino e alla sera. Nel salone, dove erano appesi quadri preziosi, si trovavano sedie e divani, fatti di seta e di velluto che quasi erano in grado di muoversi da soli, e tavoli con lucidi piani di marmo e libri con copertine di marocchino e dorate... eh, sì! era proprio gente ricca quella che ci viveva, gente distinta; qui abitava la famiglia del barone.
Ogni cosa era in armonia con l'altra. "Ogni cosa al suo posto!" si diceva, e per questo tutti i quadri che una volta erano stati bellezza e ornamento del vecchio castello ora si trovavano nei corridoi della servitù; era proprio anticaglia, soprattutto due vecchi ritratti: un uomo vestito di rosa e con la parrucca, e una signora con i capelli incipriati e pettinati all'insù e una rosa rossa in mano, entrambi circondati da una corona di rami di salice. C'erano molti buchi nei due quadri perché i baroncini si divertivano a colpirli con le loro frecce; erano il consigliere e sua moglie, i capostipiti di tutta la famiglia.
«Ma non appartengono proprio alla nostra famiglia!» esclamò uno del baroncini. «Lui era un mercante e lei la guardiana delle oche. Non erano certo come il papà e la mamma!»
I quadri non valevano proprio niente, e "Ogni cosa al suo posto!" si diceva: e così il bisnonno e la bisnonna finirono nel corridoio della servitù.
II figlio del pastore era precettore al castello, un giorno andò a passeggiare con i baroncini e la loro sorellina grande, che era appena stata cresimata; passarono sul sentiero che portava al vecchio salice e mentre camminavano la ragazza fece un mazzolino di erba del campo; "Ogni cosa al suo posto!": l'insieme risultò una meraviglia. Intanto lei ascoltava molto attentamente tutto quel che veniva detto, e le piaceva molto sentire il figlio del pastore parlare delle forze della natura e dei grandi personaggi della storia; era una fanciulla sana e bella, nobile d'animo e di pensiero, e con un cuore fatto per amare tutto quello che Dio ha creato.
Si fermarono vicino al vecchio salice, e il più grande dei baroncini voleva che gli intagliassero un flauto, come quelli che aveva già ricevuto da altri rami di salice; così il figlio del pastore spezzò un rametto.
«Oh, non lo faccia!» gridò la baronessina, ma ormai era troppo tardi. «È il nostro vecchio, famoso albero: gli voglio così bene! Si burlano di me in casa per questo, ma non importa! C'è una leggenda sull'albero.»
E così raccontò tutto quello che aveva sentito dell'albero, del castello, della guardiana delle oche e del mercante, che si erano incontrati proprio lì e erano diventati i progenitori della famiglia e della baronessina.
«Non vollero diventare nobili, quei cari vecchi» disse. «Avevano un motto: "Ogni cosa al suo posto!" e non pensavano che fosse giusto diventare nobili per merito del denaro. Fu il loro figlio, mio nonno, che divenne barone; doveva essere molto istruito, e era stimato e amato da principi e principesse, che lo invitavano sempre alle loro feste. A casa tutti tengono soprattutto a lui, ma quanto a me, c'è qualcosa in quella vecchia coppia che mi tocca il cuore, dev'essere stato così piacevole vivere in quel vecchio castello patriarcale, dove la padrona filava con le domestiche e il vecchio padrone leggeva la Bibbia a voce alta.»
«Erano ottime persone e molto sensate!» disse il figlio del pastore, e subito si misero a parlare di nobiltà e borghesia, e sembrava quasi che il figlio del pastore non fosse un borghese tanto era entusiasta della nobiltà.
«È una fortuna appartenere a una famiglia che si è distinta! È come avere nel sangue qualcosa che spinge sulla via della virtù. È bello avere un titolo, è un ingresso sicuro nelle migliori famiglie. Nobiltà significa essere nobili d'animo, è una moneta d'oro incisa con il simbolo del suo valore. È usanza di oggi, e molti poeti naturalmente lo sostengono, dire che tutto quel che è nobile deve essere cattivo e stupido, e che tra i poveri, più si scende, più si trova la luce. Io non la penso così: mi sembra falso e sciocco. Nelle classi più alte si trovano molte azioni commoventi; mia madre me ne ha raccontata una, ma io ne conosco altre. Una volta era in città in visita in una casa distinta, credo che mia nonna avesse fatto da balia alla padrona. Mia madre era nel salone con il vecchio signore, quando questi vide entrare nel cortile una vecchia con le stampelle: arrivava ogni domenica e le davano sempre qualche moneta. "Ecco la povera vecchia!" esclamò il signore "fa fatica a camminare!" e prima che mia madre comprendesse, era già uscito dalla sala e aveva sceso le scale; lui, quel nobile signore, con i suoi settanta anni, era sceso da quella povera donna per risparmiarle la faticosa salita delle scale in cerca di un po' di soldi. È un gesto da nulla, ma come "l'obolo della vedova" tocca in profondo il cuore, la natura umana. A questo deve rivolgersi il poeta, nel nostro tempo deve cantare proprio tali gesti, che fanno bene e rendono più dolci e rappacificano. Ma quando un uomo di sangue nobile, e con l'albero genealogico come un purosangue arabo, si impenna e si insuperbisce per strada, e in casa esclama: "Qui è venuta gente di strada!" quando è entrato un borghese, allora la nobiltà è marcita, è diventata una maschera, come quella che si fece Tespi, e quell'uomo viene deriso e diventa oggetto della più spietata satira.»
Questo fu il discorso del figlio del pastore, forse un po' lungo, ma intanto il flauto era pronto.
C'era molta gente al castello molti ospiti venuti dai dintorni e dalla capitale e signore vestite con e senza buongusto. La grande sala era letteralmente zeppa di persone. I pastori della zona se ne stavano rispettosi in un angolo: sembrava un funerale, ma in realtà doveva essere un divertimento, solo che questo ancora non era cominciato.
Doveva esserci un concerto e proprio per questo il baroncino aveva portato con sé il flauto fatto col ramo del salice, ma non riuscì a soffiarci dentro, e non ci riuscì neppure suo padre; il flauto non serviva a nulla.
C'erano musica e canzoni, di quelle che divertono soprattutto chi le canta; comunque l'insieme era piacevole.
«Lei è un virtuoso» disse un cavaliere, un vero figlio di papà «sa suonare il flauto, e se lo fabbrica anche da sé. E il genio che conta, che ha il posto d'onore. Dio ci protegga! Io sono al passo con i tempi, come è necessario. Non è vero che ora lei ci intratterrà con questo piccolo strumento?» e porse al figlio del pastore il flauto che lui stesso aveva fabbricato con un ramo del salice, giù alla pozza d'acqua, e annunciò a voce alta che il precettore avrebbe suonato un "a solo" col flauto.
Volevano prenderlo in giro, ci voleva poco a capirlo, e il precettore non voleva suonare, sebbene ne fosse capace; ma loro insistettero e lo implorarono, così alla fine prese il flauto e se lo mise alla bocca.
Che strano flauto! Ne uscì un suono stridulo come il fischio di una locomotiva a vapore, anzi molto più intenso; risuonò per tutto il castello, nel giardino e nel bosco, e per varie miglia nel paese, e col suono sopraggiunse un vento tempestoso che fischiava: «Ogni cosa al suo posto!», e il padre, come portato dal vento, volò in cortile fino alla casa del bovaro, il bovaro invece volò, non nel salone, perché non avrebbe potuto, ma nella camera della servitù, tra i domestici più raffinati, che indossavano le calze di seta; e come restarono sorpresi quei superbi servitori nel vedere che una persona tanto inferiore osava mettersi a tavola con loro!
Nel salone la baronessina volò al posto d'onore, dove meritava di sedere, il figlio del pastore si trovò al suo fianco e li sedettero entrambi, come una coppia di sposi. Un vecchio conte che apparteneva alla più antica nobiltà del paese rimase immobile al suo posto d'onore: infatti il flauto era giusto, e così doveva essere. Quel cavaliere spiritoso colpevole di aver voluto far suonare il flauto, che era un vero figlio di papà, volò a testa in giù tra le galline, e non fu il solo.
Per un miglio tutt'intorno risuonò il flauto e si sentirono grandi avvenimenti. Una ricca famiglia di commercianti, che girava in un tiro a quattro, fu soffiata via dalla carrozza, e non ottenne neppure di poter stare dietro, al posto dei servi; due ricchi contadini che di recente erano cresciuti molto più del loro campo di grano, furono gettati in un fossato. Era proprio un flauto pericoloso! Fortunatamente si ruppe al primo suono, e fu un bene, così fu rimesso in tasca: "Ogni cosa al suo posto!".
Il giorno dopo non si parlò dell'accaduto, e per questo è nato il detto: "Rimettere in tasca il flauto". Tutto tornò nell'ordine di prima, solo i due vecchi quadri del mercante e della guardiana delle oche rimasero appesi nel salone principale: erano volati lì su una parete, e dato che un autentico critico d'arte aveva dichiarato che erano stati fatti da una mano maestra, rimasero appesi lì e furono restaurati. Certo prima non si sapeva che valessero qualcosa, ma come si poteva saperlo? Ora si trovarono al posto d'onore! "Ogni cosa al suo posto!" E così accadrà! L'eternità è lunga, molto più lunga di questa storia.

FINE



Confronti due lingue:
Confronti questo racconto in due lingue al lato di a vicenda.

 
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Il guardiano dei porci

Post n°926 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un principe povero, che aveva un regno molto piccolo, ma grande abbastanza per potersi sposare; e sposarsi era proprio quello che desiderava.
Certo ci voleva un bel coraggio a chiedere alla figlia dell'imperatore "Mi vuoi sposare?", ma egli osò ugualmente, perché il suo nome era conosciuto dappertutto e c'erano centinaia di principesse che avrebbero accettato volentieri; ma vediamo cosa fece quella principessa.
Sulla tomba del padre del principe cresceva una pianta di rose, e che meraviglia era! Fioriva solo ogni cinque anni e faceva una sola rosa, ma era una rosa con un profumo così dolce che, annusandolo, si dimenticavano tutti i dolori e le preoccupazioni. Il principe aveva anche un usignolo, e cantava così bene che sembrava lui solo conoscesse le melodie più belle. La principessa doveva ricevere in dono sia la rosa che l'usignolo: il principe li mise in due grandi astucci d'argento e glieli mandò.
L'imperatore li fece portare nella grande sala dove la principessa stava giocando, come sempre, alle "signore" con le sue dame di corte, e quando vide i due astucci con i regali batté la mani di gioia.
«Speriamo che sia un micino! » disse, ma trovò invece la bella rosa.
«Uh! come è fatta bene!» esclamarono insieme le dame di corte.
«È più che ben fatta!» aggiunse l'imperatore «è bella!»
Ma la principessa la toccò e si mise quasi a piangere.
«Peccato papà» disse la fanciulla «non è fìnta, è vera!»
«Peccato» ripeterono le cortigiane «è vera!»
«Guardiamo cosa c'è nell'altro astuccio, prima di inquietarci!» disse l'imperatore, e così comparve l'usignolo, e cantò così bene che non fu possibile dire nulla di male di lui.
«Superbe, charmant!» commentarono le cortigiane, che parlavano francese tra loro, ma una peggio dell'altra.
«Come mi ricorda il carillon della defunta imperatrice!» disse un vecchio cavaliere. «Si, è proprio la stessa tonalità, la stessa espressione.»
«Sì» esclamò l'imperatore, e si mise a piangere come un bambino.
«Non posso credere che sia vero!» disse la principessa.
«Sì, è un uccello vero!» risposero coloro che lo avevano portato.
«Ah, allora lasciatelo volare» disse la principessa, e non permise assolutamente che il principe entrasse.
Ma lui non si perse d'animo; si dipinse il viso di nero, si mise in testa un cappello e bussò alla reggia. «Buon giorno, imperatore» disse «potrei mettermi al vostro servizio qui al castello?»
«Uh, sono tanti quelli che cercano lavoro!» rispose l'imperatore. «Ma fammi pensare: ho bisogno di uno che curi i maiali. Di maiali ne abbiamo tanti!»
E così il principe venne assunto come guardiano reale dei porci.
Gli diedero una brutta e piccola stanza vicino al recinto dei porci e lì dovette rimanere. Per tutto il giorno lavorò e quando venne la sera, aveva già finito un pentolino molto carino che aveva tutt'intorno dei campanelli, che, non appena il pentolino bolliva, suonavano in modo delizioso quella vecchia melodia:
Ach, Du lieber Augustin, Alles ist weg, weg, weg!
Ma la cosa più curiosa accadeva quando si metteva un dito nel vapore del pentolino; allora si poteva annusare il cibo che era stato cotto su ogni fornello della città; questo era ben altro che una rosa!
Passò di lì la principessa con le sue dame, e quando sentì la melodia, si fermò e si rallegrò; infatti sapeva suonare anche leiAch, Du lieber Augustin , anzi era l'unica cosa che sapesse suonare, e con un dito solo! «È quello che so anch'io» esclamò «dev'essere un guardiano di porci istruito. Presto, va' a chiedergli quanto costa quello strumento.» E così una delle dame dovette entrare nel porcile, ma si mise gli zoccoli ai piedi.
«Quanto vuoi per quel pentolino?» chiese la dama.
«Voglio dieci baci della principessa!» rispose il guardiano dei porci.
«Dio ci protegga!» esclamò la dama.
«Sì, non lo vendo per meno» aggiunse il guardiano dei porci.
«Allora, che cosa dice?» chiese la principessa.
«Non oso dirlo» rispose la dama «è troppo orribile!»
«Allora dimmelo in un orecchio.» E lei così fece.
«Che cattivo!» disse la principessa, e subito se ne andò, ma aveva fatto solo un pezzo di strada, e i campanelli ricominciarono a suonare soavemente:
Ach, Du lieber Augustin Alles ist weg, weg weg!
«Senti» disse la principessa «chiedigli se non vuole invece dieci baci dalle mie dame.»
«No, grazie!» rispose il guardiano dei porci «dieci baci della principessa, altrimenti mi tengo la pentola.»
«Che noia!» sbuffò la principessa «ma allora voi dovete mettervi davanti, affinché nessuno mi possa vedere!»
E le dame se misero davanti a lei, e allargarono le vesti, così il guardiano ebbe i dieci baci e lei ottenne la pentola.
Che divertimento! giorno e notte la pentola doveva bollire: non c'era un solo fornello in tutta la città di cui non si sapesse che cosa vi si cuoceva, sia presso il ciambellano che presso il calzolaio. Le dame ballavano e battevano le mani.
«Sappiamo chi mangerà la zuppa e chi le frittelle, chi avrà la farinata e chi le braciole! com'è interessante!»
«Proprio interessante!» disse l'intendente economa.
«Sì, ma non dirlo a nessuno. Io sono la figlia dell'imperatore!»
«Il Signore ci salvi!» esclamarono tutte.
Il guardiano dei porci, o meglio il principe anche se tutti lo credevano un vero guardiano di porci, non passò il tempo senza concludere niente, ma fece una raganella, quando la si faceva ruotare, ne uscivano tutti i valzer, le polche e i balli che erano stati suonati dalla creazione del mondo.
«Ma èsuperbe » esclamò la principessa quando passò di lì «non ho mai sentito una composizione più bella! Sentite, andate a chiedergli quanto costa quello strumento; ma badate, io non bacio più!»
«Vuole cento baci dalla principessa!» disse la dama che era entrata a chiedere.
«Sono certa che sia matto!» esclamò la principessa, e se ne andò: ma dopo qualche passo si fermò e: «L'arte va incoraggiata!» disse «io sono la figlia dell'imperatore! Ditegli che riceverà dieci baci come ieri. Il resto lo avrà dalle mie dame».
«Sì, ma a noi non va l'idea!» esclamarono le dame di corte.
«Quante storie!» disse la principessa. «Se posso baciarlo io, allora lo potete fare anche voi! Ricordatevi che io vi pago e vi mantengo» e così la dama dovette tornare da lui.
«Cento baci dalla principessa! » ripetè lui «altrimenti ognuno si tiene il suo.»
«Mettetevi davanti!» gridò lei, e subito le dame le si misero davanti e i due si baciarono.
«Che cosa ci fa tutta quella folla vicino al recinto dei maiali?» si chiese l'imperatore che era uscito sul balcone; si stropicciò gli occhi e si mise gli occhiali. «Ma sono le dame che stanno combinando qualcosa. È meglio che vada giù a vedere!» e così si infilò bene le ciabatte, che veramente una volta erano state le sue scarpe.
Accidenti, come si affrettò!
Giunto nel cortile si avvicinò molto lentamente, e le dame non si accorsero di lui, perché erano troppo occupate a contare i baci: tutto doveva svolgersi onestamente e il guardiano non doveva avere più baci di quelli previsti, ma neppure di meno.
L'imperatore si alzò sulla punta dei piedi.
«Che succede?» gridò quando vide che si stavano baciando e li colpì in testa con la ciabatta, proprio mentre il guardiano stava ricevendo il suo ottantaseiesimo bacio. «Fuori di qui!» gridò l'imperatore, perché era molto arrabbiato, e così sia la principessa che il guardiano dei porci furono cacciati dall'impero.
Lei si mise a piangere, mentre il guardiano dei porci la rimproverava. Intanto cominciò a piovere.
«Ah, povera me!» si lamentava la principessa «se avessi accettato quel bel principe! ah, come sono infelice!»
Il guardiano dei porci si nascose dietro un albero, si tolse il nero del viso, gettò via quei poveri stracci e ricomparve nel suo abito regale, che era così bello che la principessa si inchinò.
«Adesso ti disprezzo!» le disse il principe. «Non hai voluto un principe, non hai saputo apprezzare né la rosa né l'usignolo, ma per un gingillo qualsiasi hai baciato il guardiano dei porci. Ti sta proprio bene!»
E così dicendo rientrò nel suo regno e chiuse la porta col catenaccio; e a lei non restò altro da fare che star seduta là fuori e cantare:
Ach, Du lieber Augustin, Alles ist weg, weg, weg!

FINE



Conf

 
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Il collo di bottiglia

Post n°925 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nella stretta stradina tutta a curve, tra molte altre case misere se ne trovava una molto stretta e molto alta, le cui travi cedevano da tutte le parti; vi abitava della povera gente, ma ancor più misero sembrava l'abbaino, che davanti alla finestrella aveva appesa al sole una vecchia gabbia ammaccata, senza neppure un recipiente adatto a contenere l'acqua per l'uccellino, ma solo un collo di bottiglia rovesciato, con un tappo infilato nella parte inferiore e riempito d'acqua. Una vecchia zitella stava affacciata alla finestra; aveva appena adornato la gabbia con un po' d'erba e un piccolo fanello ora saltellava da uno stelo all'altro cantando con forza.
"Eh già, tu puoi ben cantare" disse il collo di bottiglia, o meglio non disse proprio così come diremmo noi, perché un collo di bottiglia non sa parlare, ma lo pensò dentro di sé come anche noi uomini sappiamo fare. "Tu puoi proprio cantare! Hai ancora tutte le membra, tu. Dovresti provare a avere perso la parte inferiore, come è successo a me, a avere solo il collo e la bocca, e per di più con un tappo infilato dentro, proprio come me, allora non canteresti più. Ma per fortuna c'è qualcuno che si diverte! Io non ho motivo di cantare e poi non potrei neppure. Ma potevo farlo quando ero una bottiglia intera e la gente mi stappava. Allora mi chiamavano l'allodola, la Grande Allodola, e andai nel bosco con la famiglia del pellicciaio quando sua figlia si fidanzò - eh, sì, lo ricordo come fosse ieri. Quante cose ho vissuto, a pensarci! Sono stata nel fuoco e nell'acqua, giù nella terra nera e più in alto della maggior parte della gente, e ora sto appesa fuori da una gabbia all'aria e al sole; potrebbe forse valere la pena di ascoltare la mia storia, ma io non parlo forte, dato che non posso.
E così la raccontò tra sé, la ripensò dentro di sé, e era una storia abbastanza strana; intanto l'uccellino cantava felice la sua canzone e per la strada la gente passava a piedi e in carrozza, ognuno pensava alle sue cose o non pensava affatto, ma il collo di bottiglia pensava.
Ripensò alla fornace accesa della fabbrica dove era stata soffiata alla vita, ricordava ancora di essere stata bollente, di aver guardato di nuovo quel forno roboante, suo luogo d'origine, e di aver avuto una voglia incredibile di rigettarsi dentro, ma poi a poco a poco si era raffreddata e si era sentita bene dov'era; così si trovò in fila con un intero reggimento di fratelli e sorelle, tutti provenienti dallo stesso forno, ma alcuni soffiati come bottiglie da spumante, altre come bottiglie da birra, e c'era una bella differenza! Fuori nel mondo, una bottiglia da birra potrebbe anche contenere quelle preziose Lacrimae Christi e una bottiglia da spumante essere riempita di nerofumo, ma dalla forma si capisce a che cosa si era destinati: un nobile resta nobile, anche se pieno di nerofumo.
Tutte le bottiglie vennero imballate, e con loro anche la nostra, che a quel tempo non pensava certo che sarebbe finita come collo di bottiglia a servire da recipiente per gli uccelli, anche se si tratta comunque di un'esistenza non priva di dignità, dato che si è sempre qualcosa!
Rivide la luce solo quando, con le sue compagne, venne tolta dall'imballaggio nella cantina di un commerciante di vini e per la prima volta venne sciacquata, il che fu proprio una sensazione divertente! Rimase vuota e senza tappo e si sentì turbata; le mancava qualcosa, ma non sapeva ancora bene che cosa. Poi venne riempita con un vino proprio delizioso, le fu messo il tappo e il sigillo su cui venne incollato: "Prima qualità"; era come se avesse avuto il risultato del primo esame, ma il vino era buono e così lo era anche la bottiglia; quando si è giovani si è poeti! Dentro di lei risuonava e si sentiva un canto di qualcosa che la bottiglia non conosceva, le verdi montagne illuminate dal sole dove cresce la vite, dove ragazze audaci e allegri ragazzi cantano e si baciano; oh! com'è bello vivere! Tutto questo risuonava nella bottiglia, proprio come nei giovani poeti, spesso loro stessi non molto esperti.
Una mattina venne acquistata: il garzone del pellicciaio doveva prendere una bottiglia di vino della migliore qualità; e finì in una cesta vicino al prosciutto, al formaggio e alla salsiccia; c'era anche dell'ottimo burro e il pane più buono. La figlia del pellicciaio incartò tutto personalmente; era così giovane e così carina, gli occhi scuri ridevano, la bocca sorrideva e parlava proprio come gli occhi. Aveva mani morbide, sottili e molto bianche, il collo e il petto erano ancora più bianchi. Si vedeva subito che era una delle ragazze più belle del paese, anche se non era ancora fidanzata.
Il cestino le fu messo in grembo, mentre la famiglia si dirigeva verso il bosco; il collo della bottiglia sporgeva tra i lembi della tovaglia bianca; aveva un sigillo rosso sul tappo e guardava fisso il viso della fanciulla. Guardò poi anche il giovane timoniere che le sedeva accanto; era un amico d'infanzia, figlio del pittore. Aveva appena superato brillantemente l'esame da timoniere e l'indomani sarebbe partito con una nave verso paesi sconosciuti. Di questo si era parlato molto durante i preparativi della gita e in quel momento non c'era gioia negli occhi e sulla bocca della bella figlia del pellicciaio.
I due giovani andarono per il bosco e parlarono insieme, di che cosa? La bottiglia non li sentì, perché era rimasta nel cestino. Passò parecchio tempo prima che la tirassero fuori, ma quando quel momento giunse, erano già successe molte cose piacevoli, tutti gli sguardi ridevano, anche la figlia del pellicciaio rideva, ma parlava poco e le guance arrossivano come due rose rosse.
II padre prese la bottiglia piena e il cavatappi. È proprio strano farsi stappare la prima volta! Il collo di bottiglia non potè mai dimenticare quel momento solenne in cui sentì "plop" dentro di sé, poi il tappo partì e ci fu un gorgoglio quando il vino venne versato nei bicchieri.
«Un brindisi per i fidanzati!» esclamò il padre, e ogni bicchiere venne vuotato fino in fondo, poi il giovane timoniere baciò la sua bella fidanzata.
«Buona fortuna! E che siate benedetti!» dissero i due genitori.
Non c'era più del vino dentro di lei, ma qualcosa di altrettanto buono; e sempre, quando Peter Jensen la tirava fuori, i suoi compagni la chiamavano "il farmacista", perché forniva la buona medicina che faceva bene allo stomaco. E infatti fece bene finché ce ne fu una sola goccia. Erano bei tempi, e la bottiglia cantava quando la si stappava, per questo fu soprannominata la Grande Allodola, "l'Allodola di Peter Jensen".
Passò molto tempo, e la bottiglia rimase vuota in un angolo, finché accadde una tempesta. Che fosse durante il viaggio di andata o di ritorno la bottiglia non lo sapeva con precisione dato che non era sbarcata. Grandi onde si sollevarono nere e pesanti, alzarono la nave e la rigettarono in basso; l'albero maestro si spezzò, un'ondata ruppe un'asse e le pompe non funzionarono più; era una notte molto buia, la nave affondò, ma all'ultimo momento il giovane timoniere scrisse su un foglio: "In nome di Gesù! Affondiamo!", poi vi scrisse il nome della sua fidanzata, il suo e quello della nave, e infilò il biglietto in una bottiglia vuota che era lì vicino, la chiuse bene col tappo e la gettò nel mare in tempesta. Non sapeva che era la stessa bottiglia con cui avevano brindato pieni di gioia e di speranza; ora questa dondolava tra le onde con un saluto e un messaggio di morte.
La nave affondò e con la nave l'equipaggio, ma la bottiglia volò come un uccello; aveva un cuore e un messaggio d'amore dentro di sé. Il sole apparve e tramontò, per la bottiglia fu come rivedere quel forno scoppiettante da cui era nata, e sentì nostalgia e desiderio di rigettarsi dentro. Visse momenti di bonaccia e nuove tempeste, non cozzò contro le rocce e non venne inghiottita da nessun pescecane, vagò per più di un anno, a volte verso nord a volte verso sud, a seconda di dove la portavano le correnti. Era comunque padrona di se stessa, ma di questo ci si può anche stancare.
Quel foglio scritto, l'addio dello sposo all'amata, avrebbe portato solo dolore se fosse giunto nelle mani giuste, ma dov'erano quelle mani che avevano brillato nel loro biancore quando avevano steso la tovaglia sull'erbetta nel bosco, il giorno del fidanzamento? Dov'era la figlia del pellicciaio? Già, dov'era la terra e quale paese era il più vicino? Questo la bottiglia non lo sapeva, vagava continuamente e alla fine fu stanca di andare in giro, ma non spettava a lei decidere. Continuò a navigare finché raggiunse la terra, una terra straniera. Non capiva una sola parola di quello che Il giovane poi riempì di nuovo i bicchieri e «Fra un anno il ritorno e le nozze!» gridò, e quando i bicchieri furono di nuovo vuoti, prese la bottiglia, la sollevò in aria e esclamò: «Tu hai partecipato al più bel giorno della mia vita, ora non dovrai più servire a nessun altro!».
E la gettò in aria. Allora la figlia del pellicciaio non pensò affatto che l'avrebbe vista volare di nuovo, come poi avvenne; la bottiglia finì tra le fìtte canne vicino al laghetto del bosco; il collo di bottiglia ricordava ancora molto chiaramente di essere rimasto là a pensare: "Ho dato loro del vino e loro mi danno acqua stagnante, ma avevano buone intenzioni!". Non poteva più vedere i due fidanzati e i genitori felici, ma li sentiva ancora cantare e far festa. Poi arrivarono due ragazzetti figli di contadini, si misero a guardare tra le canne, videro la bottiglia e la presero con loro; ormai aveva l'avvenire sicuro!
Nella loro casa nel bosco c'era stato, il giorno prima, il fratello maggiore, per salutare, perché era marinaio e doveva partire per un lungo viaggio. La madre stava preparando varie cose che il padre avrebbe dovuto portare con sé in paese quella sera, dato che avrebbe visto ancora una volta il figlio prima della partenza e gli avrebbe trasmesso i saluti della madre. Nel pacco era stata messa una bottiglietta piena di acquavite aromatica, ma ora i ragazzi ne avevano una più grande e più robusta, era quella che avevano trovato; poteva contenere più acquavite di quella piccola e era proprio un'acquavite adatta contro il mal di stomaco: vi era stata messa anche qualche foglia di iperico. Non era più il vino rosso della prima volta quello che la bottiglia ricevette, ma gocce amare; comunque erano ottime per lo stomaco. Usarono dunque quella bottiglia nuova e non la piccola preparata prima, e così la nostra bottiglia ricominciò a viaggiare. Salì a bordo con Peter Jensen e si trovò sulla stessa nave del giovane timoniere. Lui però non la vide e comunque non l'avrebbe certamente riconosciuta, né avrebbe pensato: "È quella con la quale abbiamo brindato al fidanzamento e al mio ritorno a casa".
dicevano, non era la lingua che aveva sentito parlare una volta, e uno si sente perduto quando non comprende la lingua.
La bottiglia venne raccolta e osservata, il biglietto che conteneva fu visto, tirato fuori e rigirato più volte, ma non capirono quello che c'era scritto; intuirono che la bottiglia era stata gettata in mare da una nave e che su quel biglietto c'era scritto qualcosa di quel che era successo, ma che cosa esattamente vi fosse scritto risultò incomprensibile, e dunque il foglietto fu rimesso nella bottiglia e questa fu riposta in un grande armadio, in una grande stanza, in una grande casa.
Ogni volta che arrivava qualche straniero, il biglietto veniva tirato fuori e rigirato più volte, così la scritta, che era stata fatta a matita, divenne sempre più illeggibile e alla fine non si potè più vedere che c'erano delle lettere. La bottiglia rimase per un altro anno in quell'armadio, poi fu portata in soffitta e si coprì di polvere e di ragnatele. Allora ripensò ai bei tempi, quando aveva versato vino rosso nel bosco e quando aveva viaggiato sulle onde portando con sé un segreto, una lettera, un sospiro d'addio.
Rimase in soffitta per ventanni, e ci sarebbe rimasta ancora a lungo se la casa non avesse dovuto essere ricostruita. Tolsero il tetto e così videro la bottiglia e ne parlarono, ma questa non capiva la lingua; non la si impara certo a stare in soffitta, anche se per vent'anni. "Se fossi rimasta in salotto" pensò giustamente "allora l'avrei certo imparata!"
Venne lavata e sciacquata, e ne aveva proprio bisogno; si sentì bella, pulita e trasparente, si sentì ancora giovane, nonostante l'età, ma il biglietto che aveva conservato se ne andò con il lavaggio.
Venne riempita di semi di grano, di cui non conosceva la specie, fu poi tappata e imballata, e non vide più né la lanterna né altra luce, e neppure il sole o la luna, anche se qualcosa si sarebbe pur dovuto vedere viaggiando, si diceva la bottiglia; ma pazienza anche così; la cosa più importante la stava facendo: viaggiava; e quando giunse dove era destinata venne tolta dall'imballaggio.
«Che disturbo si sono dati all'estero per questo!» sentì osservare «tanto si sarà rotta ugualmente!» e invece non si era rotta. La bottiglia capiva ogni singola parola di quel che veniva detto, era la lingua che aveva sentito vicino alla fornace, dal vinaio, nel bosco e sulla nave, l'unica giusta e vecchia lingua che era in grado di capire; era tornata nella sua terra e le davano il benvenuto. Per la gioia stava per scivolare dalle loro mani, e notò a malapena di essere stata stappata e vuotata e poi messa in cantina dove sarebbe stata dimenticata. Essere a casa era la cosa più bella, non importava se era in cantina, non le venne mai in mente di calcolare per quanto tempo rimanesse li; si trovava bene e ci restò per moltissimi anni, finché un giorno giunse della gente a prendere le bottiglie, e tra queste anche lei.
Fuori in giardino avevano preparato una grande festa; erano state appese ghirlande di lampade, lampioni di carta brillavano come grossi tulipani trasparenti, e era una bellissima serata, un tempo calmo e limpido. Le stelle scintillavano lucenti e il primo quarto di luna s'era acceso, ma in realtà si poteva vedere tutta la luna, bella e tonda come una palla grigio-blu con mezzo bordo dorato: era proprio bella per chi aveva una buona vista.
Anche le stradine laterali erano illuminate, abbastanza per poter vedere dove si camminava. Tra le siepi erano state messe candele infisse nelle bottiglie, e lì si trovava anche la bottiglia che conosciamo noi, quella che poi sarebbe diventata col suo collo il recipiente per gli uccelli. In quel momento trovò tutto meravigliosamente splendido, era di nuovo tra il verde, tra la gioia di una festa, sentiva canti e musica, sussurri e mormorii dalle moltissime persone, soprattutto da quell'angolo del giardino dove ardevano le lampade e scintillavano i lampioni con i loro colori. Si trovava in una stradina laterale, è vero, ma così poteva pensare meglio; reggeva la candela e si rendeva utile dando divertimento, e questo era giusto: in un momento simile si dimenticano vent'anni di soffitta, e è proprio bene dimenticare.
Lì vicino passò una coppia a braccetto, come quella coppia di fidanzati nel bosco, il timoniere e la figlia del pellicciaio. Alla bottiglia sembrò di rivivere.
Gli ospiti erano nel giardino e arrivava gente che voleva salutarli e partecipare alla festa; tra loro c'era una vecchia signorina senza parenti, ma non senza amici, che pensava proprio le stesse cose della bottiglia; pensava al verde bosco e a una giovane coppia di fidanzati che aveva molta importanza per lei, poiché era lei la donna della coppia. Quello era stato per lei il momento più bello, indimenticabile, anche se poi era diventata una vecchia zitella. Ma non riconobbe la bottiglia e neppure questa riconobbe lei; così nel mondo ci si passa vicino senza sostare, finché non ci si incontra di nuovo, e così successe a quelle due, che ora abitavano nella stessa città.
La bottiglia dal giardino finì nella cantina del vinaio, venne di nuovo riempita di vino e venduta all'aeronauta che la domenica successiva avrebbe fatto un viaggetto in mongolfiera. C'era una certa folla di gente venuta a vedere, c'era la banda del reggimento e erano stati fatti molti preparativi. La bottiglia vide tutto da un cestino in cui si trovava vicino a un coniglio vivo, che era piuttosto scoraggiato, sapendo che doveva salire in aria e poi venir lanciato col paracadute. La bottiglia invece non sapeva nulla, né della salita, né della discesa; notò che il pallone si gonfiava enormemente e che quando non potè diventare più grosso cominciò a sollevarsi sempre più in alto, e diventò molto irrequieto, così le corde che lo trattenevano vennero tagliate e quello si librò con l'aeronauta, il cesto, la bottiglia e il coniglio; la musica risuonò e tutta la gente gridò: «Urrà!».
"È proprio curioso andarsene per l'aria!" pensò la bottiglia "è un nuovo modo di navigare, quassù non ci si può arenare!"
Molte migliaia di persone osservarono la mongolfiera, e lo stesso fece la vecchia zitella, si trovava alla finestra e vi era rimasta a lungo. Lì c'era appesa la gabbia del piccolo fanello che a quel tempo non aveva ancora un recipiente per l'acqua e doveva accontentarsi di una tazza. Sulla finestra c'era una piantina di mirto, spostata un po' di lato per non essere d'intralcio quando la vecchietta stava affacciata a vedere; distinse chiaramente l'aeronauta del pallone quando lanciò il coniglio col paracadute e quando brindò alla salute di tutti; poi gettò la bottiglia in aria; lei non pensò affatto di averla già vista volare per aria davanti a sé e al suo fidanzato in quel giorno felice, nel verde bosco, durante la sua giovinezza.
La bottiglia non ebbe il tempo di pensare; era giunta in modo così inaspettato al culmine della sua vita: le torri e i tetti stavano laggiù lontani, e gli uomini erano proprio piccoli a vedersi.
Poi cominciò a cadere, e, con una ben diversa velocità rispetto al coniglio, faceva le capriole in aria, si sentiva così giovane, così piena di gioia, era mezza piena di vino, ma non per molto. Che viaggio! Il sole brillava su di lei, tutta la gente la vide, il pallone era molto lontano ormai e poco dopo anche la bottiglia se ne andò; cadde su un tetto e si ruppe, e le schegge presero un tale colpo che non si fermarono lì, ma saltarono e rotolarono fino a arrivare nel cortile dove si ruppero in altri pezzetti. Solo il collo della bottiglia restò intero e sembrava che fosse stato tagliato da un diamante.
"Questo può andare bene come recipiente per l'acqua di un uccello!" pensò il bottegaio, ma non aveva né un uccello né una gabbia e certo non voleva procurarseli solo perché ora aveva un collo di bottiglia che poteva usare come recipiente; ma la vecchietta della soffitta poteva forse averne bisogno. Così il collo di bottiglia arrivò là in cima, fu chiuso con un tappo, e la parte che prima era rivolta verso l'alto fu posta in basso, proprio come spesso succede quando c'è qualche cambiamento. Fu riempito d'acqua fresca e venne appeso davanti alla gabbia di quell'uccellino che cantava a più non posso.
"E già, tu puoi ben cantare!" fu quello che il collo di bottiglia disse; presentava un certo interesse perché era stato nel pallone, ma non si sapeva altro della sua storia. Ora faceva da recipiente per l'acqua dell'uccellino, sentiva la gente che passava per la strada e la vecchietta che parlava nella sua camera; aveva visite, un'amica, e parlavano tra loro, non del collo di bottiglia, ma della pianta di mirto sulla finestra.
«Non devi proprio buttar via due talleri per un mazzolino da sposa per tua figlia!» disse la vecchia signorina. «Te ne darò uno io, pieno di fiori. Guarda com'è bella questa pianta. È un germoglio di quella piantina di mirto che mi regalasti il giorno dopo il mio fidanzamento, e da quella avrei dovuto ottenere il mio mazzolino da sposa, quando fosse passato un anno. Ma quel giorno non venne! Quegli occhi che avrebbero dovuto risplendere per me, pieni di gioia e di benedizione, si chiusero. Ora dorme dolcemente in fondo al mare, quell'anima buona! L'alberello invecchiò ma io divenni ancora più vecchia di lui; quando poi iniziò a seccare, tagliai l'ultimo rametto fresco che aveva e lo piantai di nuovo nella terra, e ora è diventata una piantina robusta e finalmente sarà usata a un matrimonio, sarà il mazzolino da sposa di tua figlia!»
Alla vecchietta erano venute le lacrime agli occhi; raccontò del suo amico di gioventù e del fidanzamento nel bosco, pensò al brindisi che era stato fatto e al primo bacio, ma questo non lo raccontò, perché era una vecchia zitella. Pensò a tante cose, ma non pensò che proprio fuori dalla finestra c'era ancora un ricordo di quel tempo, il collo di quella bottiglia che aveva fatto pum! quando era stata stappata per il brindisi. Neppure il collo di bottiglia la riconobbe, poiché non aveva ascoltato quello che lei raccontava: non faceva che pensare a se stesso.

FINE


 

 
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Resti mortali (Pirandello)

Post n°924 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Disperazione dei nipoti, che pur gli dovevano volere un gran bene se, dopo che s’era spogliato per loro di tutto il suo, ancora avevano tanta sopportazione di lui, il signor Federico Biobin (zio Fifo, come lo chiamavano) si alzava col lume, e subito, zitto zitto, piccolino com’era di statura, col testoncino a pera che gli lustrava, calvo fino alla nuca, una ventina di duri peluzzi ritinti, dieci per parte drizzati sul musetto da topo, si metteva a frugolare per casa, sorsando, soffiando, dando smusatine, come per tenere in continuo esercizio d’esplorazione il naso puntuto, le labbra armate di quei venti spunzoncini; finché all’improvviso tutta la casa non sobbalzava dal sonno o per un rovinio di scodelle dalla piattaja in cucina o di casse che crollavano a catafascio nel ripostiglio. Accorrevano tutti, chi in camicia, chi in pigiama, chi in sottana.

– Zio, che hai fatto? che è stato?

Dava le risposte più inaspettate:

– Niente: sento puzza di mobili vecchi.

Ma come se tutto quel fracasso non l’avesse fatto lui e non l’avesse nemmeno sentito, e placido e un po’ seccato parlasse ancora dal silenzio che c’era prima nella casa.
Non lasciava giorno, senza che ne facesse una. E il bello si era che i fastidi che dava, i dispetti che faceva, per cui le budella ai nipoti, alle serve, si ritorcevano dentro come una fune, lui li chiamava servizi. Capace di stare giornate sane in cucina a ritagliare e tentar d’incollare striscioline di carta per medicare un vetro rotto della finestra a usciale che dava su una specie di ballatojo, dov’era puzzolentissimo il casottino del cesso. La cuoca si dannava.

– Ma lei che sente la puzza dei mobili vecchi, o non la sente codesta del cesso?

Non la sentiva, quella; e seguitava, sorsando, soffiando, smusando, a tentare d’incollare quelle striscioline di carta.
E ora eccolo giù in giardino, infuriato contro un’ala del cancello che, interrata, non voleva più andare né avanti né indietro. Illividito dalla congestione e con le vene del cranio che gli scoppiavano, dava certe scrollate che le braccia, appena i ferri del cancello brandivano in contrasto, pareva gli si dovessero staccar nette dal busto. I nipoti gli gridavano dalle finestre:

– Smettila, zio! Non vedi che non s’apre?

– La smetto? O io l’apro, o ci crepo!

Non l’apriva e non ci crepava: veniva su, tutto slogato, in un bagno di sudore, presentando le manine ridotte una pietà, perché gli fossero unte d’olio e fasciate.
Quando poi era stanco di farne ai suoi di casa, usciva e si metteva a far dispetti alla gente per via: per esempio, certe giornate che pioveva a dirotto, andando a pigliarsi apposta sull’ombrello lo sgrondo di tutte le case, con un’aria così parlante di farlo per dispetto, che veniva la tentazione a chi gli passava accanto di strapparlo per un braccio accosto al muro. Il piacere maligno, che sotto sotto ne provava, gli faceva arricciare agli angoli il labbro con tutti quei suoi venti peluzzi irti, quasi in un digrignamento appena percettibile, di cagnolino bizzoso.
L’ultimo fu quello della spolverina grigia d’alpagà, comperata per veste da camera, quando i nipoti, ridendo della compera, gli fecero notare ch’era una spolverina da viaggio, quella.

– Da viaggio? E allora parto!

– Parti? Dove vai?

– A Bergamo, da Ernesto, a salutarlo prima che vada a Genova a imbarcarsi per l’America.

Non ci fu verso di rimuoverlo più da quel ticchio di partire lì per lì. Anzi, che la sua visita per quel povero Ernesto dovesse essere un gravissimo imbarazzo piuttosto che un piacere nel trambusto in cui doveva trovarsi alla vigilia di salpar per l’America: ragione di più. E che il medico gli avesse ordinato di star tranquillo e non strapazzarsi per la sclerosi cardiaca di cui era affetto: ragione di più, anche questa. Voleva morire! Ma come, a Bergamo? morire a Bergamo, mentre Ernesto vi spiantava la casa? Sissignori, morire a Bergamo, nella casa spiantata.
Partì con quella spolverina grigia; e purtroppo la minaccia di quel pericolo che i nipoti di Roma, senza punto crederci, gli avevano fatto balenare per trattenerlo, s’avverò. La notizia fulminea della morte di zio Fifo lo stesso giorno che arrivò a Bergamo, lasciò quasi basiti i nipoti di Roma per il fatto che, pur senza crederci, l’avevano preveduta; e che, pur avendola preveduta, per quel non crederci, avessero lasciato partire lo zio.
Di quest’ultimo dispetto ai nipoti lontani e dell’altro ancor più acerbo al nipote vicino, là a Bergamo, zio Fifo, in mezzo alla confusione della casa tutta sossopra per lo sgombero, stecchito sul lettino di ferro, con la sua brava spolverina grigia da cui spuntavano i due piedini giunti, più che soddisfatto, pareva ora felicissimo.
Tra gli altri mobili della camera scostati dalle pareti e fuori di posto, comodissimo comodissimo ci stava lui, su quel lettino di ferro che nessuno, finché ci stava lui, avrebbe potuto toccare, coi quattro ceri accesi, due da capo, due da piedi; le manine intrecciate sul ventre che gli s’era un po’ gonfiato.
Pareva proprio che sorridesse, sornione, con gli occhi chiusi e quei venti spunzoncini ancora drizzati sul musetto da topo.
Difatti, il compito di venire a morire a Bergamo per maggior ristoro del nipote Ernesto in partenza per l’America, lui lo aveva assolto; ora toccava agli altri quello di rimuoverlo di lì, o per seppellirlo nel cimitero di Bergamo o per rispedirlo a Roma se lo volevano là nella tomba di famiglia.
Stimò più sbrigativo il nipote Ernesto rispedirlo a Roma e lasciare ai cugini la cura e il resto delle spese per i funerali all’arrivo: aveva i minuti contati; sarebbe arrivato a Genova appena in tempo per imbarcarsi. Malauguratamente però, nel fare la spedizione, credette che l’uso della frase «resti mortali» invece della cruda parola «cadavere» fosse lecito, com’era certo più gentile e pietoso; e se ne volle servire, forse a compensare il povero zio di tutte le imprecazioni che gli aveva scagliate per esser venuto a buttarglisi morto tra i piedi in un frangente come quello.
Ora ai nipoti di Roma venuti alla stazione a ricevere il feretro con molte corone di fiori e un magnifico carro funebre di prima classe a quattro cavalli e più d’un centinajo d’amici e conoscenti e rappresentanze di sodalizi con labari e bandiere e il parroco per la benedizione alla salma e due belle file di monache e chierici con le candele in mano; appunto per l’uso gentile e pietoso di quella frase, l’ufficiale di dogana presentò una bolletta gravata da una multa di parecchie migliaja di lire. – Multa? E perché?

– Falso in denunzia.

– Falso? Che falso?

– Ma credono lor signori, che si possa impunemente denunziare un feretro come resti mortali? I resti mortali sono un conto: un mucchietto d’ossa e di cenere in una cassettina di latta; e pagano per tali, secondo una loro tariffa. Un feretro è un altro conto. Per quanto piccolo, bisogna che paghi come feretro. Altra tariffa.

Protestarono i nipoti che intenzione di frode nel cugino Ernesto non poteva esserci stata; ma, anche ammesso e non concesso che ci fosse stata, la multa, se mai, doveva pagarla chi aveva spedito e non chi riceveva. Erano pronti a pagare il di più della spesa, secondo la tariffa, trattandosi realmente di un feretro e non di resti mortali (benché la distinzione potesse parere a prima giunta sofistica); ma, a ogni modo, la multa no, no e no.
Non avevano nessuna colpa, loro. Il cugino Ernesto era partito per l’America, e responsabile dello sbaglio (non diciamo frode, per carità!) restava allora l’ufficio di spedizione alla dogana di Bergamo che s’era ricevuto a occhi chiusi e aveva «inoltrato» come resti mortali un feretro intero. Per placare il capo–stazione chiamato a dare man forte all’ufficiale di dogana, i nipoti si mostrarono disposti a scusare, del resto, anche l’ufficio di spedizione della dogana di Bergamo, informando che il cugino Ernesto doveva aver spedito in quei giorni chi sa quanti colli, per cui sapendosi in città ch’egli era sul punto di lasciare l’Italia per sempre, quell’ufficiale di dogana, addetto alla spedizione, facilmente aveva potuto supporre che spedisse anche i resti mortali di qualche parente sepolto da tempo nel cimitero di Bergamo, per non lasciarli colà. La colpa, in questo caso, si riduceva soltanto a una mancata verifica. Gli volevano far pagare la multa per questo? Ecco, ma a lui sempre, la multa, se mai; mica a loro che non c’entravano né punto né poco.
Mentre così si discuteva nell’ufficio di dogana, fuori nello spiazzale quelli ch’eran venuti per l’accompagnamento funebre vestiti di nero e in tubino, s’erano ritratti e impalati in fila, gomito a gomito, a ridosso al muro, per ripararsi da un terribile sole d’agosto, prossimo al meriggio. C’era a mala pena, lungo quel muro, un filo d’ombra che non arrivava a riparare fino alla punta neanche i piedi; e davanti, tutte le cose, a quella vampa di sole, abbarbagliavano. Così tutti impalati, con gli occhi fuori del capo, guardavano l’enorme carro funebre, rimasto in mezzo allo spiazzale, là, ferocemente nero e dorato, e pareva ne avessero un formidabile incubo, come di quelle monache che se ne stavano impassibili, a occhi bassi, così infagottate in quelle loro tonache di pesantissimo panno marrone, con quel cappuccetto nero a capanna in capo, tutte bene appettate sotto il modestino bianco insaldato, e le candele accese in mano. Dio, quelle candele, la cui fiamma nel sole non si vedeva, e se ne vedeva invece il fumighio tremolante! Ma che avveniva? Perché non portavano il feretro? Che s’aspettava? Alcuni, più impazienti, andarono a sentire; poi a poco a poco, tutti, tranne il cocchiere sul carro funebre, le monache, i chierici e i portatori dei labari e delle bandiere, entrarono nel fresco delizioso dell’ufficio della dogana, ch’era un alto e vasto magazzino ingombro tutt’intorno alle pareti di casse rammontate e di balle e di colli.
Vi rintronavano i gridi della contesa tra i nipoti del morto da una parte, e il capo–stazione e gli ufficiali di dogana dall’altra. Gli animi s’erano accesi. Il capo–stazione era irremovibile: o pagare la multa, o niente feretro! Il maggiore dei nipoti, furibondo, minacciava che glielo avrebbero lasciato lì. Non era mica merce, un morto, che si potesse rivendere all’asta! Volevano vedere che cosa il capo–stazione se ne farebbe! E il capo–stazione sghignazzava e rispondeva che, chiestane licenza a chi di dovere, lo avrebbe mandato a seppellire con due facchini; e che poi a far pagare le spese e la tariffa e la multa ci avrebbero pensato con comodo gli uscieri. Un fremito d’indignazione accolse questa risposta e allora l’altro nipote, confortato dal consenso di tutti, lo diffidò dal farlo: avrebbe chiamato responsabile l’amministrazione dei danni morali e materiali, perché non era mica un cane il loro zio da esser mandato a seppellire in quel modo; c’erano là centinaja di persone venute a rendergli i meritati onori funebri, labari e bandiere di sodalizi, un carro di prima classe, un santo sacerdote, monache e chierici con più di quaranta candele!
E i due nipoti, rossi come gamberi, con le camice bianche che, nello scompiglio dell’esagitazione, strabuzzavano loro dalle maniche nere e perfino di sotto il panciotto, tutti tremanti per lo sfogo violento e piangenti dalla rabbia, furono condotti via.
Ora quell’incubo di carro funebre che se n’andava vuoto e traballante, diretto alla rimessa, e quelle monache e quei chierici che capovolgevano le candele per smorzarle in terra, diedero a tutti, anche ai nipoti, in quell’animazione insolita, un senso di leggerezza, come se zio Fifo, mandato a monte il funerale, non fosse più morto.
Ma si poteva veramente dir morto zio Fifo, se seguitava a fare con tanta pervicacia ciò che aveva sempre fatto in vita: dispetti a tutti?

So bene che non s’è mai dato il caso che un morto si sia staccate le mani dal petto per cacciarsi una mosca dal naso; ma per zio Fifo riparato dalla doppia cassa di zinco e di noce, là sotto gli occhi del capo–stazione rimasto solo nel magazzino della dogana a grattarsi la testa, mi par proprio lecito immaginare che se le sia staccate davvero, quelle sue gracili manine dal petto, per darsi contentone una bella stropicciatina.

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Inni alla Notte IV (Novalis)

Post n°923 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Ora so quando sarà l'ultimo mattino - quando la luce non mette più in fuga la notte e l'amore - quando eterno sarà il sonno e un solo sogno inesauribile. Celeste stanchezza sento in me. - Lungo e faticoso mi fu il pellegrinaggio alla tomba santa, grave la croce. Chi ha assaporato l'onda cristallina che, impercettibile ai sensi comuni, zampilla nel grembo oscuro del tumulo, ai cui piedi s'infrange il flutto terrestre, chi stette sopra le montagne all'estremo limite del mondo, e guardò di là, nella nuova terra, nella dimora della notte - costui davvero non torna al travaglio del mondo, alla terra dove la luce abita in eterna inquietudine. Lassù costruisce le sue capanne, capanne di pace, ardentemente desidera e ama, guarda al di là, finché la più gradita di tutte le ore non lo trascina giù, nella vena della fonte - dove galleggiano i residui terrestri, sospinti indietro dai turbini; ma ciò che sacro divenne al contatto d'amore, corre disciolto per tramiti oscuri alla sfera ultraterrena, dove si fonde, simile a vapore, con gli amori assopiti.

Ancora tu risvegli,
allegra luce,
lo stanco al lavoro - mi infondi
vita gioiosa -
però non mi attiri
lontano dal monumento
muscoso del ricordo.
Lieto voglio agitare
le mani operose,
guardarmi intorno, dovunque
tu avrai bisogno di me -
esaltare la piena
magnificenza del tuo splendore -
assiduamente perseguire
la bella concordanza
della tua opera ingegnosa -
lieto voglio osservare
il saggio cammino
del tuo potente orologio che splende -
scrutare l'equilibrio delle forze
e le norme
del giuoco prodigioso
degli spazi innumerevoli
e dei loro tempi.

Ma fedele il mio cuore
segreto rimane alla notte,
e a suo figlio, l'amore che crea.
Puoi tu mostrarmi un cuore
fedele in eterno?
Ha il tuo sole
occhi amici
che mi ravvisino?
e le tue stelle afferrano
la mia mano supplichevole?
Mi rendono in cambio
la tenera stretta
e la parola affettuosa?
Tu l'hai adornata
di colori e lievi contorni -
o fu lei che diede
significato più alto e più caro
alla tua grazia?
Quale voluttà,
quale godimento offre la tua vita,
che in fascino equivalgano
ai rapimenti della morte?
Non porta i colori della notte
tutto quanto ci esalta?
Lei ti porta
maternamente,
e tu le devi tutta la tua gloria.
Svaniresti in te stessa -
nell'infinito spazio
ti sperderesti,
se lei non ti tenesse,
né ti serrasse,
così che calda, accesa,
con la tua fiamma generassi il mondo.
Veramente ero prima che tu fossi -
la madre mi inviava ad abitare
coi miei fratelli il tuo mondo,
a consacrarlo con l'amore,
perché fosse un monumento
da contemplarsi in eterno -
e a trapiantarvi fiori
che non appassiranno.
Non sono ancora maturati
questi pensieri divini -
E sono ancora scarse le tracce
della nostra rivelazione -
Un giorno il tuo quadrante segnerà
la fine del tempo,
quando una nostra eguale,
o luce, tu sarai;
piena di nostalgia, di fervore
ti spegnerai e morirai.
Sento in me
la fine dell'opera tua laboriosa -
libertà celeste,
ritorno beato.
In selvaggi dolori
riconosco la tua lontananza
dalla nostra patria,
la tua riluttanza all'antico
splendido cielo.
La tua furia e il tuo sdegno sono vani.
Indistruttibile
sta la croce -
vittoriosa insegna
della nostra stirpe.

Mi libro al di là
ed ogni mia pena
sarà uno stimolo
di ebbrezza eterna.
Tra poco libero
sarò da catene,
giacerò inebriato
nel grembo d'amore.
In me vita ondeggia
potente, infinita:
io guardo dall'alto
laggiù, verso te.
Si spegne il tuo vivo
fulgore sul colle -
ed un'ombra porta
la fresca corona.
Aspirami in te,
o amato, con forza,
perché mi addormenti
e impari ad amare.
Sento in me della morte
l'onda che fa giovani,
in balsamo ed etere
si muta il mio sangue -
Io vivo di giorno
con fede e coraggio
e muoio le notti
in ardore sacro.

 
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La scocciatura corre sul filo

Post n°922 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Settimana di passione per molti qui a S.Tobia.
Tutto è cominciato con l'arrivo nella locale scuola media di Reginaldo Trappoloni,figlio del nuovo postino.
Chi poteva pensare che questo ragazzino dall'aspetto anonimo fosse invece uno scocciatore megagalattico?
Tant'è:per una settimana,via telefono, ha rotto le scatole ad un numero impressionante di persone e provocato danni inimmaginabili.
Ma diamo il via alle dolenti note
LUNEDI'- Alle 4 del mattino è suonato il telefono in casa Capricorni.Berengario è cadito dal letto battendo la testa sul comodino e rimanendo tramortito.La Taide e la Carolina,precipitatesi per le scale a rispondere,sono finite una addosso all'altra,formando un groviglio umano,districato dopo tre ore.
Lucio Cornelio ha espresso il suo disappunto con berci disumani (i pratesi pensavano che fosse di nuovo scoppiata la guerra e quello fosse l'allarme aereo)Quando Ercolino ha risposto,si è sentito chiedere se c'era storia o geografia alla terza ora il giorno dopo
MARTEDI'- Leopoldo Pollacchioni è il primo della classe.Il Trappoloni gli ha telefonato 123 volte!Quando i Pollacchioni hanno inserito la segreteria telefonica,l'aggeggio è andato in tilt.Gnecco ha sfasciato il telefono a scarpate.
MERCOLEDI'- Volendo mettersi in contatto con Asmodeo Cuccurullo e non trovandolo,Reginaldo ha chiamato in caserma.
Dopo 320 volte,il centralino è esploso.
GIOVEDI'- Alle tre di notte Reginaldo si è svegliato di soprassalto:non ricordava quanto fa 2+2!
Per saperlo ha telefonato a casa della Giuditta 84 volte.
Geremia voleva andare a levare dal mondo l'intera famiglia Trappoloni e lo hanno dovuto legare al letto
VENERDI'- Mardocheo Puzzettoni ha dato a Reginaldo un numero falso.
Peccato che il numero fosse quello della canonica.
Dopo 423 volte Ireneo ha ucciso il telefono col kalashnikov
SABATO-Convinto di aver finalmente trovato il numero di Mardocheo,Reginaldo ha invece telefonato a Geppo per 200 volte.i cani hanno dato di matto,azzannando lui e la Marianna.
Per catturarli ci sono volute due ore.
DOMENICA-Il postino Trappoloni con procedura d'urgenza è stato trasferito a Tukambakabalo ,dove dirigerà l'ufficio postale delle scimmie piangine.
Tutto il paese,con tanto di banda,li ha accompagnati all'aeroporto.
Questo accadeva due settimane fa.
Da allora a S.Tobia è festa ininterrotta,
Stretta la foglia,larga la via dite che è vostra la mia.


 
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Libri dimenticati:Parigi brucia?

Post n°921 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Questa la domanda che Hitler rivolge per telefono al comnadante della piazza di Parigi mentre la città viene liberata.
La cronaca della liberazione di Parigi,vista da persone normali e persone che in futuro avranno un grosso peso nella politica francese,come Jacques Chaban-Delmas

 
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Frase del giorno

Post n°920 pubblicato il 06 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La morte acquieta l'invida completamente,la vecchiaia lo fa per metà (Schopenhauer)

 
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