Messaggi del 07/10/2011

Stasera penso a te

Post n°938 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Rita Atria (Partanna, 4 settembre 1974Roma, 26 luglio 1992) è stata una testimone di giustizia italiana.

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Biografia [modifica]

Rita Atria nasce in una famiglia mafiosa ed a undici anni perde, ucciso dalla mafia, il padre Vito, mafioso della famiglia di Partanna. Sono gli anni dell'ascesa dei corleonesi e della seconda guerra di mafia che li vedrà impegnati in sanguinosi omicidi di uomini delle cosche rivali per la presa del potere.

Alla morte del padre, Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata Piera Aiello. Di Nicola, anch'egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. Nel giugno 1991 Nicola Atria verrà ucciso dalla mafia, e sua moglie Piera Aiello decide di collaborare con la giustizia.

Rita Atria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decide di seguire le orme della cognata, cercando, nella magistratura, giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu Paolo Borsellino al quale ella si legò come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre deposizioni hanno permesso di arrestare diversi mafiosi e di avviare un'indagine sul politico Vincenzino Culicchia, per trent'anni sindaco di Partanna.

Una settimana dopo la strage di via d'Amelio, Rita Atria si uccise a Roma, dove viveva in segreto, lanciandosi dal settimo piano.

Rita Atria per molti rappresenta un'eroina, per la sua capacità di rinunciare a tutto, finanche agli affetti della madre (che la ripudiò e che dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate), per inseguire un ideale di giustizia attraverso un percorso di crescita interiore che la porterà dal desiderio di vendetta al desiderio di una vera giustizia. Rita (così come Piera Aiello) non era una pentita di mafia: non aveva infatti mai commesso alcun reato di cui pentirsi. Correttamente ci si riferisce a lei come testimone di giustizia, figura questa che è stata legislativamente riconosciuta con la legge 45 del 13 febbraio 2001[1].

 
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Incantevole!

Post n°937 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Lo scultore Alfredo lo conosci bene, vero? Lo conosciamo tutti: ottenne la medaglia d'oro, viaggiò in Italia e poi tornò a casa; allora era giovane, lo è anche adesso, ma ha sempre una decina d'anni più di allora.
Tornò dunque in patria e andò in visita in una di quelle cittadine della Selandia; tutto il paese sapeva di quello straniero, sapeva chi fosse; per lui si diede un ricevimento in una delle famiglie più ricche. Tutti quelli che erano qualcuno o che avevano qualcosa erano stati invitati, era un avvenimento, il paese lo sapeva senza che fosse stato annunciato col tamburo; i garzoni delle botteghe, i bambinetti e con loro qualche genitore stavano fuori dalla casa del ricevimento e guardavano attraverso le tende illuminate che erano state abbassate. La guardia notturna poteva quasi immaginarsi di far parte del ricevimento, tante erano le persone che si trovavano nelle sue strade; c'era aria di festa, e là dentro c'era proprio una festa, a cui partecipava Alfredo lo scultore.
Lui parlò, raccontò, e tutti là dentro lo ascoltarono con gioia, con attenzione, ma nessuno più della vedova di un funzionario, non più giovane; per tutto quello che il signor Alfredo diceva era come un pezzo di carta grigia immacolata che assorbe immediatamente quel che viene detto e anzi chiede di sapere di più; era estremamente impressionabile, incredibilmente ignorante, era una Kaspar Hauser in gonnella.
«Mi piacerebbe vedere Roma!» esclamò. «Deve essere una bellissima città con tutti quegli stranieri che ci vanno; ci descriva Roma! Come appare quando si entra dalle porte?»
«Non è facile da descrivere» rispose il giovane scultore. «C'è una grande piazza, in mezzo si trova un obelisco, vecchio di quattromila anni.»
«Un organista?» esclamò la donna. Non aveva mai sentito prima la parola "obelisco". Alcuni stavano per ridere, persino lo scultore, ma la sua risata si trasformò in ammirazione quando vide vicino a quella donna due grandi occhi azzurri: era la figlia della donna che parlava, e quando si ha una tale figlia non si può essere sciocchi. La madre era una fonte inesauribile di domande, la figlia era la ninfa di quella fonte. Era incantevole! Era proprio qualcosa che doveva essere ammirata da uno scultore, ma non partecipava alla conversazione, non diceva nulla, o comunque molto poco.
«Il Papa ha una grande famiglia?» chiese la donna.
Il giovane rispose come se la domanda fosse stata formulata in modo migliore. «No, non viene da una grande famiglia.»
«Non intendo questo» disse la donna. «Intendo se ha moglie e figli.»
«Il Papa non può sposarsi» rispose lui.
«Non mi piace» disse la donna.
Avrebbe naturalmente potuto fare domande più intelligenti, ma se non avesse chiesto nulla, come invece non faceva, sua figlia sarebbe rimasta lì appoggiata alle sue spalle, con quel sorriso quasi commovente?
Il signor Alfredo parlò, parlò dei magnifici colori dell'Italia, delle montagne azzurre, dell'azzurro Mar Mediterraneo, dell'azzurro del sud, una bellezza che nel nord si trova solo negli occhi azzurri delle donne.
E questo venne detto con intenzione, ma colei che doveva capirlo non fece notare di averlo capito; e anche questo era incantevole!
«L'Italia!» sospirò qualcuno. «Viaggiare!» sospirò qualcun altro. «Bellissimo, incantevole!»
«Sì, se vinco cinquantamila talleri alla lotteria» disse la vedova «allora viaggeremo! Io, mia figlia e lei, signor Alfredo! Lei deve guidarci. Viaggeremo tutti e tre e anche qualche buon amico verrà con noi.» E intanto fece un cenno a tutti quanti, in modo che ciascuno potesse credere che era rivolto a sé. «Andremo in Italia! Ma non dobbiamo andare dove ci sono i briganti, restiamo a Roma e sulle grandi strade maestre, dove si sta sicuri.»
La figlia sospirò; quante cose può voler dire un piccolo sospiro, e quante cose possono venirvi lette; il giovane scultore ne immaginò molte; quei due occhi azzurri quella sera luccicavano per lui, nascondevano tesori, tesori del cuore e dello spirito preziosi come tutte le meraviglie di Roma; e quando lui lasciò la compagnia, era già innamorato cotto della signorina.
La casa della vedova venne così frequentata da Alfredo lo scultore più di tutte le altre; si poteva immaginare che non fosse a causa della madre, sebbene lui e lei parlassero sempre; doveva essere per la figlia che si recava là. Lei veniva chiamata Kala, ma si chiamava Karen Malene, e i due nomi erano stati uniti formando Kala; era incantevole, ma un po' pigra, diceva qualcuno; le piaceva stare a letto a lungo al mattino.
«È abituata così fin dall'infanzia» disse la madre «è sempre stata una giovane Venere, e quelle si stancano facilmente. Sta a letto un po' troppo a lungo, ma è per questo che ha gli occhi così chiari.»
Che potere c'era in quei chiari occhi! Quell'acqua azzurra, quell'acqua tranquilla, e profonda! Il giovane lo aveva scoperto perché si trovava proprio in quelle profondità. Parlava e raccontava, e la mamma continuava a fargli domande con la stessa vivacità, incoscienza e ingenuità come la prima volta.
Era proprio un piacere ascoltare Alfredo che raccontava, raccontava di Napoli, delle passeggiate sul Vesuvio, e mostrava quadri a colori sulle varie eruzioni. La vedova non ne aveva mai sentito nulla o non lo aveva mai preso in considerazione.
«Oh, Signore!» disse. «Quindi esiste una montagna che spruzza fuoco! Non possono venirne dei danni?»
«Intere città sono state distrutte» rispose lui. «Pompei, Ercolano!»
«Oh, poveri infelici! E lei ha visto tutto?»
«No, nessuna delle eruzioni che ho in questi quadri ho visto di persona, ma le posso mostrare un disegno fatto da me, dove si vede l'eruzione che ho visto io.»
Così trasse uno schizzo a matita e la mamma, tutta presa dall'ammirazione per i quadri a tinte violente, guardando quel tenue schizzo a matita si meravigliò e esclamò: «Ha visto proprio che spruzzava bianco?».
Per un attimo la stima del signor Alfredo per la madre si oscurò, ma subito, alla luce di Kala, comprese che la madre non aveva il senso dei colori: tutto qui. Ma aveva la cosa migliore, la più bella: aveva Kala.
Alfredo si fidanzò con Kala, come era prevedibile. Il fidanzamento fu annunciato nel giornale della città. La madre ne comprò trenta esemplari per ritagliare l'articolo e spedirlo a amici e conoscenti. I fidanzati erano felici e anche la suocera; per lei era come essere entrata nella famiglia di Thorvaldsen.
«Lei è certo un suo discendente!» esclamò.
Alfredo pensò che dicesse qualcosa di spiritoso, Kala non disse nulla, ma i suoi occhi brillavano; sorrideva, e ogni suo movimento era incantevole, incantevole era lei stessa, ma non lo si deve dire troppo spesso.
Alfredo fece un busto di Kala e della suocera; erano sedute davanti a lui e guardavano come lui lisciava e modellava la molle creta con le dita.
«È per noi che lei fa di persona questo semplice lavoro» disse la mamma «e non lo lascia fare invece al suo domestico?»
«Ma è necessario che sia io a modellare la creta!» rispose lui.
«Sì, lei è sempre fin troppo galante!» aggiunse la mamma, e Kala premette la mano di lui coperta di creta.
Lui poi spiegò a entrambe la meraviglia della natura del creato, come il mondo dei vivi sovrastasse gli Inferi, le piante sovrastassero i minerali, gli animali le piante, l'uomo gli animali. Spiegò come lo spirito e la bellezza si manifestino attraverso la forma e spiegò che lo scultore esprime in forma concreta la bellezza del creato.
Kala restava zitta, cullando i pensieri di lui, la suocera invece confessava: «È diffìcile seguirla! Io vado piano a capire i pensieri, ma una volta compresi me li tengo stretti».
La bellezza teneva stretto Alfredo, lo riempiva, lo prendeva e lo dominava. La bellezza brillava dalla figura di Kala, dal suo sguardo, dagli angoli della bocca, persino dai movimenti di ogni singolo dito. Alfredo diceva queste cose, e come scultore le capiva, parlava solo di lei, pensava solo a lei, i due divennero una cosa sola, e così anche lei cominciò a parlare molto, dato che lui parlava molto.
Ci fu la festa del fidanzamento e poi venne il matrimonio con le damigelle e i regali per le nozze, e dell'intera cerimonia si parlò nel discorso nuziale.
La suocera aveva messo a capotavola un busto di Thorvaldsen con intorno una vestaglia, doveva essere l'ospite d'onore! L'idea era stata naturalmente sua; furono cantate varie canzoni e vennero fatti molti brindisi, fu proprio un bel matrimonio, e loro erano una splendida coppia. "Pigmalione ebbe la sua Galatea!" si diceva in una canzone. «È qualcosa che ha a che fare con la mitologia» commentò la suocera.
Il giorno dopo la giovane coppia andò a Copenaghen, dove doveva stabilirsi la suocera li seguì per occuparsi delle cose più pesanti, come disse lei, e cioè dell'andamento della casa. Kala doveva rimanere come una bambola! Tutto era nuovo, lucido e meraviglioso! Lì stavano tutti e tre, Alfredo, per usare un'espressione significativa, sedeva come un pascià!
La magia della forma lo aveva sedotto; lui aveva visto l'astuccio e non quello che c'era dentro, e questo era un male, una disgrazia per il matrimonio. Quando infatti l'astuccio si sfilaccia e la doratura si stacca, ci si pente dell'affare. In società è molto spiacevole accorgersi che si sono persi entrambi i bottoni delle bretelle e sapere che non si può contare sulla cintura perché non si ha nessuna cintura, ma è ancora peggio in società accorgersi che la moglie e la suocera dicono stupidaggini e che non si può contare su se stessi per mascherarle con qualche battuta di spirito.
La giovane coppia era seduta molto spesso mano nella mano: lui parlava, lei diceva qualche singola parola, sempre la stessa melodia, sempre le stesse due o tre note. Si poteva respirare quando veniva Sofia, una loro amica.
Sofia non era molto bella; non aveva nessun difetto fisico ma era un pochino storta, diceva Kala, comunque lo notavano solo le sue amiche. Era una ragazza piena di buon senso, però non si accorse di poter diventare un pericolo; era come una boccata di aria fresca nella casa di bambole, e tutti sapevano che c'era bisogno di aria fresca. Bisognava cambiare aria, così partirono per cambiare aria; la giovane coppia e la suocera andarono in Italia.
«Oh, per fortuna siamo tornati a casa di nuovo!» esclamarono madre e figlia quando l'anno successivo tornarono indietro insieme a Alfredo.
«Non c'è nessun divertimento a viaggiare» esclamò la suocera «è noiosissimo! Scusate se lo dico: io mi sono annoiata, nonostante avessi i ragazzi con me, e poi è costoso, molto costoso viaggiare. Tutte quelle gallerie che si devono visitare, tutto quel correre che si deve fare! E poi bisogna vergognarsi davanti agli altri, quando una volta tornati a casa non si conosce quello che gli altri chiedono. E sentire che la cosa più bella è quella che si è dimenticata di vedere. Mi sono proprio annoiata a vedere tutte quelle Madonne, alla fine lo diventavo anch'io!»
«E che cibo!» aggiunse Kala.
«Neanche una zuppa di carne decente!» disse la madre. «La loro cucina è orribile.»
Kala si era stancata molto durante il viaggio; rimase stanca a lungo, e questa fu la cosa peggiore. Sofìa venne spesso in casa a aiutare.
Si doveva riconoscere, disse la suocera, che Sofìa era in grado di seguire le faccende domestiche e era brava in tutte le arti che il suo patrimonio non le permetteva. Inoltre era anche molto seria e fidata, e lo dimostrò soprattutto quando Kala si ammalò più seriamente.
Quando l'astuccio è tutto, deve conservarsi bene, altrimenti addio astuccio! E difatti Kala morì.
«Era incantevole» disse la madre «era tutta un'altra cosa rispetto alle statue antiche così mal ridotte! Kala era perfetta e così deve essere una bellezza.»
Alfredo pianse, anche la madre pianse, entrambi si vestirono di nero, alla mamma il nero stava particolarmente bene, e così portò il lutto più a lungo. Poi ebbe il dolore di vedere Alfredo che si sposava di nuovo. Si sposò con Sofìa, che non aveva doti esteriori.
«È passato all'altro estremo» disse la suocera «è passato dalla cosa più bella alla più brutta, e ha potuto dimenticare la sua prima moglie. Non c'è costanza negli uomini. Mio marito era diverso, ma è anche morto prima di me.»
«Pigmalione ha avuto la sua Galatea!» esclamò Alfredo «come si diceva nel canto nuziale; io mi ero proprio innamorato di una bellissima statua che aveva avuto la vita dalle mie braccia, ma quell'anima gemella che il cielo ci manda, uno dei suoi angeli che può dividere i sentimenti con noi, pensare con noi, sollevarci quando ci pieghiamo, l'ho trovata e meritata solo adesso: sei tu, Sofia! Non adorna di bellezza, come di raggi splendenti, ma va bene ugualmente: sei più bella di quanto sia necessario. La cosa principale è questa. Sei venuta a insegnare allo scultore che il suo lavoro è solo creta, polvere, solo un'impronta della sostanza più intima che dobbiamo cercare. Povera Kala! La nostra vita terrena è stata come un viaggio! Lassù, dove ci uniremo secondo le nostre inclinazioni, forse saremo estranei l'uno all'altra.»
«Non è detto con amore» disse Sofìa «non è molto cristiano. Lassù, dove non ci si deve sposare, ma, come dici tu, le anime devono incontrarsi a seconda delle inclinazioni, là, dove tutto è bello e tutto si eleva, la sua anima forse risuonerà di una pienezza armoniosa, di molto superiore alla mia, e tu, tu allora forse pronuncerai quel tuo primo grido d'innamorato: incantevole, incantevole!»

FINE



Confronti due lingue:
Confronti questo racconto in due lingue al lato di a vicenda.

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Il solino

Post n°936 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C’era una volta un bel cavaliere, che possedeva solamente un cavastivali e un pettine: aveva però il solino più bello del mondo, e è proprio di questo che dobbiamo sentire la storia. Era così vecchio che pensò di sposarsi, e così durante il bucato incontrò una giarrettiera.

“Oh,” esclamò il solino, “non ho mai visto niente di così magro e elegante, così morbido e grazioso. Posso chiedere il suo nome?”

“Non lo dico!” rispose la giarrettiera.

“Dove sta di casa?” domandò il solino.

Ma la giarrettiera era molto timida e pensò che fosse una domanda un po’ strana.

“Lei è certo una cintura!” esclamò il solino, “una cintura intima. Vedo bene che lei ha una funzione pratica e elegante, bella signorina.”

“Lei non deve parlare con me!” gli disse la giarrettiera, “non credo di avergliene dato il pretesto!”

“È vero, ma con una persona graziosa come lei,” le rispose il solino, “ce ne sono a bizzeffe di pretesti!”

“Eviti di venirmi così vicino!” aggiunse la giarrettiera. “Ha un aspetto così virile!”

“Sono anche un bel cavaliere,” disse il solino, “e ho un cavastivali e un pettine!” In realtà non era vero: era il suo padrone a possederli, ma lui si vantava.

“Non si avvicini!” gridò la giarrettiera. “Non sono abituata a tanta familiarità.”

“Smorfiosa,” esclamò il solino, e intanto venne tolto dalla vasca; venne poi inamidato, appeso a una sedia al sole e infine portato sull’asse da stirare; lì arrivò il ferro da stiro ben caldo.

“Signora!” disse il solino, “bella vedovella! Mi sto scaldando tutto! Sto diventando un altro, sto uscendo di senno, lei mi sta bruciando tutto! uh! Vuole sposarmi?”

“Straccio!” disse il ferro da stiro e con fierezza gli passò sopra: immaginava di essere una locomotiva che viaggiava sui binari e tirava i vagoni.

“Straccio!” ripetè.

Il solino era un po’ sfilacciato ai bordi, così sopraggiunse la forbice per tagliar via i fili.

“Oh,” esclamò il solino, “lei è certo prima ballerina! Com’è brava a fare la spaccata! È la cosa più graziosa che io abbia mai visto! Nessun essere umano la sa imitare!”

“Lo so bene!” rispose la forbice.

“Lei meriterebbe di essere contessa!” le disse il solino. “Tutto quanto possiedo è un bel cavaliere, un cavastivali e un pettine! Se solo avessi una contea!”

“Sta chiedendo la mia mano?” chiese la forbice, che si era infuriata, e così gli diede un bel taglio e lo rovinò!

“Posso sempre chiedere la mano al pettine! È sorprendente come lei riesca a conservare tutti i suoi denti, signorina!” disse il solino. “Non ha mai pensato di fidanzarsi?”

“Certo, e lo dovrebbe anche sapere!” rispose il pettine. “Sono fidanzata con il cavastivali.”

“Fidanzata?” ripetè il solino. Ora non c’era più nessuno a cui chiedere la mano, e allora divenne sprezzante.

Passò parecchio tempo, poi il solino arrivò alla cartiera, dentro una cassa: c’era una grande riunione di stracci, quelli più fini da una parte, quelli più grossolani dall’altra, proprio come deve essere. Tutti avevano tante cose da raccontare, ma più di tutti il solino che faceva lo sbruffone.

“Io ho avuto moltissime fidanzate!” raccontava. “Non potevo stare in pace! Ero proprio un bel cavaliere, tutto inamidato! Possedevo il cavastivali e il pettine, che non ho mai usato! Avreste dovuto vedermi allora, quando stavo disteso! Non dimenticherò mai la mia prima fidanzata, era una cintura, così delicata, morbida e molto carina, si gettò in un catino d’acqua per me! Ci fu anche una vedova, che arse per me, ma io la lasciai e così divenne nera! Poi la prima ballerina mi fece questo sfregio, che ho ancora adesso; era così aggressiva! Il mio pettine si innamorò di me e perse tutti i suoi denti per il patimento d’amore. Eh sì, ne ho passate delle belle! Ma soprattutto mi dispiace per la giarrettiera, cioè la cintura, che si gettò nel catino d’acqua. Ho un gran peso sulla coscienza, non vedo l’ora di trasformarmi in carta bianca!”

E così accadde; tutti gli stracci diventarono carta bianca, e il solino diventò proprio questo pezzo di carta bianca che vediamo qui, su cui è stata stampata la storia, e accadde così perché si vantò tanto di quel che non era mai accaduto. Stiamo attenti a non comportarci come lui: non possiamo sapere se non ci capiterà di trovarci in una cassa di stracci e di essere trasformati in carta bianca su cui poi verrà stampata la nostra storia completa, comprese le cose più segrete, e di dover poi andare in giro a raccontarla, proprio come è accaduto al solino!

FINE

Immagine: Il solino (Andersen)

 
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I due giganti

Post n°935 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Un antico muro scrostato - ma sì, lo vedo bene. E forse fu rosso cent’anni fa. Sferzato dalle pioggie alte invernali, argine ai polveroni turbinosi di tramontana, s’è fatto terroso, con appena una velatura sporca, tra le crepe, di quell’antica mano di rosso. E dove le vestigia slavate e ingiallite dell’intonaco sussistono, i luridi monelli del viale hanno schizzato a punta di sasso o col carbone segnacci osceni, motti sconci, sgorbii di cani, di serve e di carabinieri. Ma sorveglia più giù il barbuto guardiano gallonato, dalla mattina alla sera con le spalle appoggiate alla cancellata, mangiandosi i sozzi mustacchi strinati al passaggio d’ogni solitario signore ben vestito.
È il muro di cinta dell’ultimo lembo superstite d’un magnifico parco patrizio, ricco un tempo di pini e di cipressi. Seguiva prima, ininterrotto, quasi tutto il lato destro del lungo e vasto viale, dalla porta della città fino in fondo, per circa un miglio. Ora son case e vie ove il parco dominava selvaggio e maestoso: dadi di casette bianche, quasi di giuoco infantile, vialetti rassettati e piazzalini sterrati puliti, su cui incombe di tratto in tratto, come a schiacciarli, qua il tronco poderoso d’un pino dall’immensa cupola intramata di neri bronchi, di cielo chiaro e di fosco verde; là, isolato, escluso nell’azzurro, un notturno cipresso centenario, alla cui punta pare s’impiglino le nuvole. Rimasti l’uno e l’altro staccati, come in esilio, guardano da lontano con tristezza al folto dei compagni più giù, nel lembo superstite, cinto da quest’antico muro.
Ebbene, fu qua che i due giganti m’apparvero, una notte di quest’inverno. Qua, nel punto del muro propriamente ove quel pino sorge come un grande O accanto a quel cipresso dritto come un grande I, che alti la notte nel cielo stellato possono, oh beati!, scrivere un IO in due.


*****

Una notte di quest’inverno. Ma per parlare della maravigliosa vita di questi due giganti bisogna rimontare a un’epoca favolosa, remotissima, quando l’ultima primavera brillò con tutte le sue foglie dagli alberi di questo viale. Lo scorso maggio? Sette, otto mesi fa?
Sì. A contare il tempo ad anni, a mesi, a giorni, non più di otto mesi fa. Ma io pensavo - scusate - che quando una cosa è accaduta, jeri, un minuto fa, non accadrà mai più; e che il minuto che segna una fine possiamo contarlo da quelli che seguono; dire: cinque, dieci, venti minuti fa; poi, assommandosi e facendosi troppi, non li contiamo più, e diciamo jeri, diciamo l’altro jeri; poi, una settimana, un mese, due mesi fa; e poi, se era la fine d’una piccola cosa, non ci pensiamo più, ed eccola svanita quella piccola cosa, una vita, un oggetto che c’era caro, nel vuoto dell’eternità.
Otto mesi, dal giorno che queste foglie ora sparse qua per terra lungo il muro, secche accartocciate sfrante, spuntarono verdi e brillarono fresche dai rami alti degli alberi di questo viale, in un azzurro che non è più, che non sarà mai più; otto mesi, credete, son pure un’epoca favolosa, remotissima.
E chi vi dice poi, che riavranno un’altra primavera tutti quanti gli alberi di questo viale? Ciò che loro sanno, ciò che sa quell’ultimo cimignolo lì in vetta in vetta, del mistero della terra profonda, ove s’aggrappano cieche le loro radici, né io né voi sappiamo. Son note a loro, forse, quelle oscure necessità della vita e della morte, che a noi il falso lume dell’intelligenza non fa vedere. Forse il lume vero è dove è bujo per noi, in queste necessità che ci restano oscure, nelle quali le cose, la pianta e la pietra, vivono assorte e immemori.
Del resto, che sapete voi di ciò che poteva essere accaduto nel mio spirito in quella notte d’inverno, per cui l’ultima primavera gli appariva come un’epoca favolosa, remotissima? Che sapete voi donde io tornassi quella notte, e quale combattimento avessi sostenuto con me stesso per ricacciare indietro il tempo che mi si voleva far presente e vivo con una sua tentatrice immagine di primavera?


*****


A lungo, a lungo due giovanili occhi intenti da un viso chiaro, di rosea freschezza, tra un vivido lampeggìo festoso di specchi, di lumi, di gemme, m’avevano fissato con una pena che ardeva di cangiarsi subito in gioja, se per poco i duri miei occhi che li fuggivano si fossero arrestati a dir sì.
Volevano esser fascino, quegli occhi; furono stupore triste in prima per me; poi cupo sdegno.
Nel primo stupore i miei occhi avevano voluto allontanare di almeno trent’anni, di almeno trent’anni da me quell’immagine di giovinezza, per indurla pietosamente a riconoscersi così da lontano, come in uno specchio, con quei suoi occhi intenti, nel mio vero aspetto - vecchia. Vecchia, sì, come di qui a trent’anni si sarebbe ella stessa veduta in un ritratto che l’avesse rappresentata a sé con l’immagine d’ora; vecchia come quando, nel mirar questo ritratto, avrebbe potuto dire: - Oh, guarda! Ero così...

- Vecchia così tu sei ora per me, immagine di giovinezza, - dicevano i miei occhi nel loro stupor triste a quegli occhi che s’ostinavano a fissarmi intenti.

E dicevano anche:

- Ti vedo lontana lontana... Sì, con codesti occhi stessi E il tuo piedino, ricordi? premeva sul mio piede. Non ti risuonano fievoli con angosciosa dolcezza le note di quelle musiche lontane, nell’affollato passeggio delle balsamiche sere estive, al mare, con tutte quelle lampade e i guizzi fuggevoli dei cocchi signorili, l’odore delle alghe che viene dalle banchine, la fragranza inebriante dei gelsomini e delle zagare che viene dai giardini? Se tu ti alzi, io lo so, il tuo piedino zoppica un poco... Ma com’è, dimmi, che sei ancora così fresca? Ti dai certo il belletto su le guance, cara, e ti ritingi i capelli... Non vedi che i miei su le tempie sono già bianchi?

S’ostinavano a dir no, quegli occhi, che non era vero. M’invitavano a respirare da presso la fragrante freschezza dei capelli e delle carni, e dicevano ch’io farneticavo a immaginare che uno dei piedini di lei zoppicasse. Dove? Quando? O che era forse il diavolo? Perché non andavo a invitarla a danzare? Avrei subito veduto che i suoi piedini, altro che zoppicare! volavano, reggendo su le elastiche punte tutta la leggiadra persona come una piuma.

- Trent’anni fa...

- No, qua, ora, - dicevano quegli occhi; insistevano: - Ora, ora! - con cupida intensità.

- Ora? Ma che dici? Tu sei pazza; o tu vuoi riderti di me. Via! via! Non di trent’anni solamente, ma d’un incommensurabile tempo, tu e queste luci di festa e quanti ti girano attorno mi siete lontani.

- Lontani? Ma io sono qua! Ora, sì, ora... Non vedi? Perché non vieni? Non ti son più lontana d’otto o dieci passi...

- No, cara, sempre, anche se venissi ad abbracciarti, resterebbe in me quest’infinita lontananza da cui ora ti guardo! Posso, come niente, spogliarti di codesta veste verde di seta che t’inguaina, e vederti uscir nuda da una corteccia di querce, ninfa di bosco, alla luna che t’invoglia insieme con le tue ninfe compagne a una danza coi satiri procaci. Questo rumor di festa, che nei tuoi occhi s’è incantato in un silenzio di sogno tentatore, è per me il frusciare di quel bosco favoloso, dove tu sei ninfa ignuda con prolissi capelli di viola. Anche tu, così incantata nel silenzio, non sei più qua, ora. Che vedi? Me, giovine? In un tempo immemorabile, cara. Giovine io fui in quell’epoca favolosa che tu eri ninfa di bosco; e fui allora gigante di tale prodigiosa statura, che mi bastava alzare appena una mano per prendere in cielo la falce della luna a falciare le selve sempre rinascenti dei miei sogni misteriosi. Credi, credi pure che un tuo piedino, cara, zoppica un poco, da quando quel rovo maligno te lo punse nel bosco. Io lo so.


*****


Fuori, la tramontana, urlando come per spasimi ignoti e spaventevoli dello spazio tenebroso, aveva spento tutti i fanali di questo lungo e vasto viale, a cui io m’affacciai quasi impaurito, varcata la scura porta solenne della città ancora tutta illuminata, sebbene deserta.
Era adesso nella tenebra un silenzio e un gelo, un silenzio che dopo il sogno mi parve la fine di tutte le cose, un gelo che dava alle apparenze superstiti di esse, come s’intravedevano appena, spettrali, a un vano raro barlume ch’era quasi un brulichio della tenebra stessa, un disperato irremovibile avvilimento.
Discernevo in quel barlume il nero groviglio dei rami e del frondame secco di tutti questi alberi in lunghissima fila, e orribilmente in quel silenzio gelato sentivo scricchiolare sotto i piedi le foglie accartocciate.
Quand’ecco, in quella tenebra, in quel silenzio, in quel gelo, rovente, squillante fiammeggiò a incendiare tutta la notte, rosso e nuovo, quest’antico muro di cinta, come del riverbero d’una prodigiosa aurora, e su esso così tutto fiammeggiante i due giganti maravigliosi apparvero e mossero tra lo stupore immoto degli alberi e delle case i loro terribili gesti.
Restai atterrito a mirarli da lontano, dalla profondità gelida della mia notte.
Neri, enormi, in quella fiamma prodigiosa, scrollavano a ogni minimo gesto tutta la notte, come se dalla tenebra volessero ricreare il mondo, ridargli forze, abolendo il tempo, una sempiterna giovinezza e davvero la falce della luna e le selve dei misteriosi sogni da falciare. E via, via le città dalla faccia della terra, vile ingombro da mandar con un calcio per aria, rotolio di minuscoli mondi grotteschi, con cieli di tegole e travi e lumini da notte per stelle; e restituire gli uomini all’altezza dei cieli veri e delle montagne e dei boschi; all’ampiezza dei mari senza più gusci di navi; restituirli alla loro statura di giganti, da prendere in cielo, sollevando appena un braccio, la falce della luna; da scavalcar con un passo le montagne; da traversare a piedi a livello della cintola i mari; e tentare, tentar di nuovo la scalata dei cieli; poggiare su un’altra più degna stella e far con un calcio rotolare negli abissi degli spazii infiniti questa vile pallottola della terra.
Ecco, alzava il piede possente uno dei giganti; l’altro levava fino al cielo le braccia in attesa del crollo della terra, quando tutt’a un tratto la fiamma prodigiosa manco.

Ma sì, lo so bene, due luridi straccioni del viale tendevano un piede e le mani al focherello che si spegneva d’un mucchietto di foglie secche raccolte presso quest’antico muro di cinta, il quale - ma sì! - è tutto crepe, lo vedo, e con appena una velatura sporca della sua antica mano di rosso. Anche però il vostro volto, s’io vedo bene, è tutto crepe e solchi di rughe, e anche i vostri capelli hanno appena appena un vestigio del loro primo color biondo d’oro; e vorrei pregarvi di ricordare, se non sono importuno, che cosa vi sembrava codesta miserabile vecchia mezzo gobba che ancora vi strascinate accanto e tutto il mondo e la vostra stessa persona, quando vi ardevano dentro in belle fiammate illusioni, speranze e desiderii.

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I 4 della papera zoppa

Post n°934 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

No,lettori miei,non sono impazzito (anche se vivendo a S.Tobia non si può mai dire che non cominci a dare i numeri pure io)Stosolo per narrarvi quel che è successo giorni orsono nel nostro ameno paesino a causa delle mattane di di Evaristo Cornacchioni,BernabòTrogoloni,Melchiorre Scozzagalli e Be'erino.
Una bella mattina incontratisi al bar i 4 hanno concluso che S.Tobia era un vero mortorio e che bisognava fa qualcosa per muovere le acque.
Così,dopo lunga e ponderata (?) riflessione,hanno pensato bene di iscriversi ad una scuola di paracadutismo all'insaputa di tutti e di effettuare il loro primo lancio sulla piazza del paese.
Se il loro intento era quello di lasciare a bocca aperta i loro compaesani,vi assicuro che ci sono pienamente riusciti,ma con risultati a dir poco catastrofici.
Quel fatidico giorno il primo a lanciarsi è stato Be'erino.
Manco a dirlo,per vincere l'emozione si è bevuto due fiaschi di Chianti e,briaco come un tegolo,si è complentamente dimeticato di essersi lanciato.
Figuratevi quindi se pensava di aprire il paracadute!
Per fortuna sua il dio che protegge ubriachi e imbecilli ha fatto sì che,con una gomitata, Be'erino,ormai a pochissima distanza dal suolo,aprisse quel cavolo di paracadute ,atterrando sulla statua in cima alla fontana.
Convinto,nel suo delirio alcolico,che quella splendida donna nuda si fosse innamorata di lui, le si è avvinghiato come e peggio dell'edera di Nilla Pizzi per difenderla dalle insidie degli altri uomini.
Ne ha fatto le spese Cuccurullo,che si è trovato un orecchio semistaccato a morsi prima che Be'erino fosse immobilizzato.
Un errore di calcolo ha fatto atterrare Melchiorre sul tetto della Clementina e il vecchiardo è rimasto impigliato al comignolo per 4 ore finchè non lo hanno liberato.
Un'improvvisa folata di vento ha fatto atterrare Evaristo in groppa al toro Cesarone che stava pascolando.
Alla vista del Cornacchioni il toro è stato trafitto dalla freccia di Cupido e ,pazzo d'amore,ha inseguito il poveraccio per tutto il paese,finchè il veterinario Brodolotti non gli ha sparato una siringa piena di supersonnifero che lo ha spedito fra le braccia di Morfeo.
Unico dei 4,Bernabò è riuscito ad atterrare sulla piazza,dove ha trovato un comitato che di accogliente aveva ben poco,di minaccioso e imbufalito tutto.
Non gli è restato altro da fare che sparire all'orizzonte in una nube di polvere.
A una settimana dal fatto,questa è la situazione.
Be'erino è in galera.
Telesforo somiglia spiccicato all'autoritratto di Van Gogh con l'orecchio mozzato.
Ieri Asmodeo glielo ha fatto notare ed è vivo solo perchè si è precipitosamente arrampicato sull'unico lampione di S.Tobia,pernottandovi.
Melchiorre si lancia ancora col paracadute,ma non da solo:fra lui e la Clementina è scoppiata una passione travolgente e lanostra beghina,piantato Anatolio,è diventata una paracadutista provetta.
Evaristo èricoverato nella clinica Luminaris.Dorme col martello sotto il cuscino perchè teme che Cesarone nottetempo venga a stuprarlo e vuol vender cara la pellaccia.
Cesarone,malato d'amore,piange notte e giorno il perduto bene con muggiti strazianti.I Trogoloni sono stati denunciati per inquinamento acustico dagli abitanti di S.Tobia,S.Giosuè,S.Pancrazio e da pratesi,fiorentini e pistoiesi.
Di Bernabò nessuna notizia.
Cosa ci riserva il futuro,lettori miei?Meglio non saperlo,ve lo dico io!




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Anelito di morte (Novalis)

Post n°933 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Laggiù nel suo grembo, lontano
Dai regni della luce, ci accolga
La terra! Furia di dolori e spinta
Selvaggia è segno di lieta partenza.
Dentro l'angusta barca è veloce
L'approdo alla riva del cielo.

Sia lodata da noi l'eterna notte,
Sia lodato il sonno eterno.
Ci ha riscaldati il torrido giorno,
ci ha fatti avvizzire il lungo affanno.
Non ci attraggono più terre straniere,
vogliamo tornare alla casa del Padre.

 
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Libri dimenticati:Quel giorno smettemo di ridere

Post n°932 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

1921.
Una govane donna,Virignia Rappe,muore dopo un'atroce agonia.
Del suo omicidio e stupro è accusato Roscoe Arbuckle ovvero Fatty,il comico di punta degli studi di Mack Sennett.
Questo libro ricostruisce gli avvenimenti e cerca di far luce su un mistero che dura da anni:fu o non fu Fatty a uccidere Virginia?

 
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Frase del giorno

Post n°931 pubblicato il 07 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Stay hungry stay foolish (Steve Jobs)

 
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