Messaggi del 08/10/2011

Il lino

Post n°946 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il lino era in fiore. Aveva bellissimi fiori blu, morbidi come le ali di una falena, o forse ancora più morbidi. Il sole splendeva sul lino e le nuvole di pioggia lo innaffiavano, e a lui piaceva come a un bambino piace essere lavato e avere un bacio dalla mamma; i bambini diventano ancora più belli e lo stesso accadeva al lino.
«La gente dice che io sto molto bene» esclamava il lino «e che diventerò bello alto e mi trasformerò in una pezza di stoffa. Oh, come sono felice! Sono certamente il più felice di tutti! Sto proprio bene e diventerò qualcuno. Come mi rallegra il sole e che buon profumo ha l'aria, e come mi rinfresca la pioggia! Sono immensamente felice, il più felice di tutti!»
«Certo, certo!» dissero le assi dello steccato. «Tu non conosci il mondo, noi invece lo conosciamo e ci sono venuti i nodi per i tanti affanni!» e scricchiolavano pietosamente:
Snip, snap, snurre, Basselurre, la canzone è finita.
«Non è vero!» rispose il lino. «Il sole splende, la pioggia fa bene, io mi sento crescere e so di essere in fiore! Sono il più felice di tutti!»
Ma un giorno arrivò gente che afferrò il lino dalla cima e lo sradicò, che male! Poi venne messo nell'acqua, come se lo dovessero affogare, e infine fu posto sul fuoco, e gli sembrava di arrostire: che sofferenza!
"Non si può stare sempre bene!" si disse il lino. "Per sapere qualcosa, bisogna provarlo!"
Ma diventò sempre più terribile. Il lino venne spezzettato e tritato, pestato e pettinato: già, cosa ne sapeva lui di come si dice! Fu messo sul rocchetto e, snurre rur! era impossibile raccogliere i propri pensieri!
"Sono stato straordinariamente felice!" pensò nel suo dolore. "Bisogna essere contenti delle cose belle che si sono ricevute. Contenti, contenti!" e stava ancora dicendo così quando si trovò sui telaio. Così si trasformò in una bella pezza di tela. Tutto il lino, ogni singola fibra, si trasformò in quell'unica pezza.
"È incredibile! Non l'avrei mai pensato. La fortuna mi assiste! Le assi dello steccato non la conoscevano proprio la vita, con il loro:
Snip, snap, snurre, Basselurre!
La canzone non è affatto terminata! Comincia proprio ora! È incredibile! Certo, ho sofferto un po', ma ora sono diventato qualcuno! Sono il più felice di tutti! Sono così forte e morbido, così bianco e lungo. È tutta un'altra cosa che essere una pianta, anche se avevo i fiori. Non venivo curato e l'acqua la ricevevo solo quando pioveva. Adesso sono servito a puntino! La cameriera mi gira ogni mattina e ogni sera vengo bagnato con l'innaffiatoio. Persino la moglie del pastore ha parlato di me e ha detto che ero la pezza di stoffa più bella in tutta la parrocchia. Non potrei essere più felice!"
La tela venne portata in casa e venne trattata con le forbici. Come tagliavano, come squarciavano, e come pungevano gli aghi, quando arrivavano! Non fu un divertimento. La tela si trasformò in dodici capi di biancheria, di quella che non si può nominare, ma che tutte le persone devono avere. Ecco, dodici capi di quella.
"Adesso sono diventato importante! Era il mio destino! Un destino benedetto! Adesso sono utile al mondo, e così dev'essere, perché questa è la vera gioia. Ora siamo dodici capi, ma restiamo comunque una cosa sola, siamo una dozzina! Che gioia incredibile!"
Passarono gli anni, e, alla fine, si consumarono.
"Arriva la fine per tutto, prima o poi!" esclamò ogni capo. "Avrei voluto resistere ancora un po', ma non si può pretendere l'impossibile!" Così vennero trasformati in stracci e brandelli; credettero che tutto fosse ormai finito, perché furono tritati e macerati e cotti, e altre cose che non sapevano neppure loro, e alla fine diventarono una bella carta bianca sottilissima.
"Che sorpresa, che meravigliosa sorpresa!" esclamò la carta. "Adesso sono ancora più sottile di prima, e dovranno scrivere su di me. Che cosa scriveranno? Che straordinaria fortuna!" E vennero scritte le storie più belle, e la gente le ascoltò perché erano così vere e così belle che resero le persone migliori e più sagge. Era proprio una benedizione che, attraverso le parole, veniva impartita alla carta.
"È molto più di quanto avessi mai sognato, quando ero un piccolo fiore blu del campo! Come avrei potuto immaginare che avrei dovuto portare gioia e sapere tra gli uomini? Ma è proprio così! Il Signore sa che io personalmente non ho fatto nulla se non quello che era necessario perché sopravvivessi. Eppure mi sta ricoprendo di gioie e di onori, uno dopo l'altro. Ogni volta mi ripeto: La canzone è finita! e invece mi succede qualcosa di molto meglio e più elevato. Adesso dovrò certamente viaggiare, essere mandato in tutto il mondo, affinché tutti gli uomini possano leggermi! È la cosa più probabile. Prima avevo fiorellini blu, ora per ogni fiore posseggo i pensieri più belli! Sono il più felice di tutti!"
Ma la carta non si mise a viaggiare, andò invece in tipografia e tutto quello che vi era stato scritto venne stampato in un libro, o meglio, in molte centinaia di libri, perché così molta gente potè trarne gioia e utilità; se quell'unico foglio di carta su cui si era scritto fosse stato mandato in giro per il mondo, a metà strada sarebbe già stato logoro.
"Questa è la soluzione più ragionevole!" pensò la carta scritta. "Non ci avevo affatto pensato! Così io resto a casa e ricevo gli onori come un vecchio nonno. Hanno scritto su di me, le parole dalla penna sono scivolate su di me. Io resto qui e i libri se ne vanno in giro. Adesso si comincia a concludere qualcosa. Come sono felice! Come sono fortunato!"
La carta venne raccolta a fasci e posta su uno scaffale. "È bello riposarsi e meditare sul proprio operato!" esclamò la carta. "E è giusto che ci si raccolga a meditare su quello che si ha dentro. Solo adesso so con precisione cosa ho dentro di me. Conoscere se stessi è il vero progresso. Chissà cosa accadrà adesso? Naturalmente accadrà qualcosa di nuovo, perché è sempre così."
Un giorno tutta la carta venne messa nel camino; doveva essere bruciata, dato che non poteva essere data al droghiere per avvolgervi il burro o lo zucchero. Tutti i bambini della casa si erano raccolti per vedere la carta prendere fuoco, per vedere le numerose scintille rosse della cenere che scappavano via e si spegnevano, una dopo l'altra, molto velocemente; sembrano i bambini che escono da scuola, e l'ultima scintilla è il maestro, si crede che sia già andato via, e invece eccolo che arriva poco dopo gli altri.
Tutta la carta fu messa nel fuoco in un unico fascio. Come prese fuoco subito! "Uh!" disse, e fu tutta una fiamma. Guizzò altissima, dove mai il lino aveva saputo alzare il suo fiorellino blu, e brillò come mai la bianca tela aveva saputo brillare. Tutte le lettere scritte diventarono rosse in un attimo e tutte le parole e i pensieri presero fuoco.
«Ora arrivo fino al sole!» disse una voce tra le fiamme, e fu come se migliaia di voci l'avessero detto contemporaneamente; e la fiamma uscì all'aperto attraverso il camino; lì, ancora più eteree della fiamma stessa e invisibili agli occhi degli uomini, volarono piccolissime creature, tante quanti erano stati i fiorellini del lino. Erano ancora più leggere della fiamma da cui erano nate, e quando questa si spense e della carta rimase solo nera cenere, danzarono un'ultima volta prima di posarsi, poi lasciarono soltanto le loro impronte, le rosse scintille.
I bambini erano usciti da scuola e il maestro per ultimo, era proprio un divertimento guardarli, e i bambini della casa si misero a cantare intorno alla cenere spenta:
Snip, snap, snurre, Basselurre, la canzone è finita.
Ma ognuno di quei piccoli esseri invisibili diceva: «La canzone non è mai finita! Questa è la cosa più bella! Io lo so e per questo sono il più felice del mondo!».
Ma i bambini non vedevano e non capivano e del resto era giusto così, perché i bambini non devono sapere tutto.

FINE



 
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Le vicende del cardo

Post n°945 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Vicino a una bella casa si trovava un bellissimo giardino ben tenuto, con alberi e fiori piuttosto rari. Gli ospiti esprimevano la loro ammirazione per quelle piante, la gente dei dintorni veniva dalla campagna e dalle città di domenica e negli altri giorni di festa e chiedeva il permesso di visitare il giardino, intere scuole si presentavano per lo stesso scopo.
Fuori dal giardino, appoggiato a uno steccato vicino alla strada dei campi, si trovava un grande cardo; era molto grande, ramificato già sin dalla radice così da allargarsi parecchio, e quindi si poteva ben chiamare un cespuglio di cardo. Nessuno lo guardava, eccetto il vecchio asino che tirava il carro del latte delle mungitrici; quello allungava il collo verso il cardo dicendo: «Sei bello, potrei mangiarti!». Ma la corda non era abbastanza lunga e l'asino non riusciva a arrivare.
C'era una grande festa in giardino; famiglie nobili della capitale, fanciulle molto graziose, e tra queste una signorina che veniva da molto lontano, dalla Scozia, e era di alto casato ricca di beni e di oro: una sposa che valeva proprio la pena di conquistare, dicevano parecchi giovani signori in accordo con le loro madri.
La gioventù si riunì su un prato giocando a croquet; camminavano tra i fiori, e ognuna delle fanciulle ne colse uno e lo mise all'occhiello di uno dei giovanotti; ma la ragazza scozzese si guardò a lungo intorno, scartando in continuità: nessuno dei fiori sembrava le piacesse; infine guardò oltre
10 steccato, là fuori c'era quel grande cespuglio di cardo con i robusti fiori rossi e blu, li vide, sorrise e chiese al figlio del padrone di coglierne uno.
«È il fiore della Scozia!» esclamò. «Splende sullo stemma del mio Paese; me lo colga.»
Così lui andò a prendere il più bello, ma si punse le dita; era come se la più aguzza spina di rosa crescesse su quel fiore.
La ragazza lo infilò nell'occhiello di quel giovane, e lui si sentì molto onorato. Ognuno degli altri giovani avrebbe volentieri rinunciato al proprio fiore per poter portare quello donato dalle mani delicate di quella fanciulla scozzese. Se il figlio del padrone si sentiva onorato, pensate come si sentiva il cespuglio di cardo: fu come tutto pervaso di rugiada e di sole.
"Valgo più di quanto non credessi!" disse tra sé. "In realtà dovrei trovarmi dentro lo steccato, non fuori. Ma si è messi al mondo in modo così strano! Però ora uno dei miei fiori è passato oltre lo steccato e se ne va in giro all'occhiello."
A ogni gemma che gli spuntava e che sbocciava, la pianta raccontava quell'evento, e non passarono molti giorni che il cardo venne a sapere, non dagli uomini, non dagli uccelli, ma dall'aria stessa che conserva e ripropone ogni suono, e che veniva dai viali più interni del giardino e dalle stanze stesse della casa, dove le finestre e le porte stavano aperte, che il giovane che aveva ricevuto quel fiore di cardo dalle manine delicate della fanciulla scozzese, ora aveva ottenuto la sua mano e il suo cuore. Era proprio una bella coppia, un ottimo matrimonio.
"Io li ho uniti!" pensò la pianta di cardo, ricordando il fiore che era stato messo all'occhiello. Ogni fiore che spuntò venne a sapere dell'avvenimento.
"Ora verrò certo trapiantato nel giardino!" pensava. "Forse sarò messo in un vaso che stringe: sembra sia il massimo degli onori."
Il cardo ci pensò tanto che alla fine disse con grande convinzione: "Andrò nel vaso!".
Prometteva a ogni fiorellino che spuntava che anche lui sarebbe finito nel vaso, forse in un occhiello; e che quella era la più alta onorificenza che si potesse raggiungere. Ma nessuno finì nel vaso, e neppure in un occhiello. Ricevevano aria e luce, si godevano il sole di giorno e la rugiada di notte, fiorivano, venivano visitati da api e da vespe che cercavano la dote, il loro miele, e la prendevano, ma loro lasciavano correre. «Che briganti!» diceva la pianta di cardo. «Se solo potessi infilzarli! Ma non posso.»
I fiori piegavano il capo, languivano, ma ne sopraggiungevano di nuovi.
«Arrivate come se foste stati chiamati» diceva il cardo. «Ogni momento aspetto che vengano a trasferirci al di là dello steccato.»
Alcune margheritine innocenti e alte erbe lì vicine ascoltavano con grande ammirazione, credendo a tutto quel che veniva detto.
II vecchio asino del carro del latte sbirciava dal ciglio della strada verso quel cardo in fiore, ma la corda era sempre troppo corta per raggiungerlo.
Il cardo pensò così a lungo al cardo della Scozia, del quale si sentiva parente, che credette di venire dalla Scozia e che i suoi genitori in persona fossero cresciuti sullo stemma del regno. Era un grande pensiero, ma quel grande cardo poteva ben avere grandi pensieri.
«Spesso si proviene da famiglie così distinte che non si osa neppure saperlo» disse l'ortica che cresceva lì vicino Anche lei aveva la sensazione che sarebbe potuta diventare "mussolina" se fosse stata trattata nel modo giusto.
Giunse l'estate, poi l'autunno, le foglie caddero dagli alberi, i fiori si colorarono più intensamente ma con meno profumo. L'apprendista del giardiniere cantava in giardino di là dallo steccato:
Su per la collina, giù per la collina, tutto l'anno si cammina!
I giovani abeti del bosco cominciarono a avere nostalgia di Natale, ma c'era ancora tempo per Natale.
«Io sono ancora qui!» disse il cardo. «Sembra che nessuno abbia pensato a me; e pensare che ho combinato io il matrimonio; si sono fidanzati, e hanno festeggiato il matrimonio già otto giorni fa. Io invece non faccio nemmeno un passo perché non posso.»
Passarono altre settimane, il cardo ora si trovava col suo ultimo e unico fiore, grande e rigoglioso, che era spuntato proprio vicino alla radice. Il vento soffiava freddo su di lui, i colori svanirono, la bellezza svanì, il calice del fiore, grande come quello di un fusto di pisello, appariva ora come un girasole d'argento.
Allora giunse nel giardino quella giovane coppia, ora marito e moglie: camminavano lungo lo steccato, e la giovane donna guardò oltre.
«Il grande cardo è ancora lì!» esclamò. «Ora non ha più fiori.»
«Ma c'è il fantasma dell'ultimo!» rispose il marito, e indicò quel resto argentato del fiore, che pure era un fiore.
«È bello!» disse lei. «Uno così dovremmo intagliarlo nella cornice intorno al nostro ritratto.»
Così il giovane dovette di nuovo scavalcare lo steccato e cogliere il calice del cardo. Si punse le dita, anche se lo aveva chiamato "fantasma". Così quello entrò nel giardino, nella casa, nel salone dove c'era un quadro: La giovane coppia. All'occhiello dello sposo era disegnato un fiore di cardo. Si parlò di quello e si parlò del calice del fiore che loro avevano portato, l'ultimo fiore del cardo che brillava d'argento e che doveva essere intagliato nella cornice.
L'aria portò fuori il discorso, lontano.
«Cosa mi deve succedere!» disse il cespuglio di cardo. «Il mio primogenito finì nell'occhiello e il mio ultimogenito nella cornice. Dove finirò io?»
E l'asino stava sempre sul ciglio della strada sbirciando verso la pianta.
«Vieni da me, mio caro! Io non riesco a venire fin da te, la corda non è abbastanza lunga!»
Ma il cespuglio di cardo non rispose, continuava a pensare, pensò e pensò fino a Natale, e allora il pensiero fiorì.
«Quando i figli sono sistemati, una madre si può adattare a rimanere fuori dallo steccato!»
«È un pensiero dignitoso!» disse il raggio di sole. «Anche lei avrà un buon posto!»
«Nel vaso o nella cornice?» chiese il cardo.
«In una fiaba!» rispose il raggio di sole.
Eccola qui.

FINE


 
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Il principe cattivo

Post n°944 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un principe cattivo e superbo, il cui unico pensiero era di vincere tutti i paesi del mondo e seminare lo spavento con il suo solo nome; avanzava col ferro e col fuoco; i suoi soldati calpestavano il grano dei campi, incendiavano le case dei contadini perché le rosse fiamme lambissero le foglie degli alberi e i frutti pendessero arrostiti dai rami neri e bruciati. Molte povere madri si nascondevano con i loro figli nudi al seno dietro le mura fumanti, i soldati le cercavano e quando le trovavano coi bambini, si scatenava la loro gioia diabolica; gli spiriti cattivi non avrebbero potuto comportarsi peggio! Ma il principe pensava che tutto andasse come doveva; giorno dopo giorno cresceva il suo potere, il suo nome era temuto da tutti, e la fortuna lo accompagnava in ogni sua impresa. Dalle città conquistate portava via oro e grandi tesori; nella sua capitale si stava accumulando una ricchezza come non si trovava da nessun'altra parte. Allora fece costruire meravigliosi castelli, chiese e archi, e chiunque vedeva quelle meraviglie esclamava: «Che grande principe!», ma non pensava alla miseria che egli aveva causato negli altri paesi, non sentiva i singhiozzi e i lamenti che si levavano dalle città incendiate.
Il principe ammirava il suo oro, guardava quei meravigliosi edifici e pensava, come la folla: "Che grande principe! Ma devo avere di più, molto di più! Nessuna potenza può essere uguale alla mia e tanto meno più grande!". Così dichiarò guerra a tutti i suoi vicini e li vinse tutti. Poi fece attaccare al suo carro i re sconfitti con catene d'oro, quando passava per le strade; e quando era a tavola, i re dovevano giacere ai suoi piedi e ai piedi di tutti i suoi cortigiani, e raccogliere i pezzi di pane che venivano gettati.
Il principe fece poi innalzare la sua statua nelle piazze e nei castelli reali, sì, voleva metterla anche in chiesa, davanti all'altare del Signore, ma i preti gli dissero: «Principe, tu sei grande, ma Dio è più grande, noi non osiamo!».
«Bene!» esclamò il principe cattivo. «Allora vincerò anche Lui!» e nella superbia del cuore e pieno di follia fece costruire una nave con cui poter viaggiare attraverso l'aria, una nave variopinta come la coda del pavone e come quella disseminata di mille occhi, ma ogni occhio era in realtà una canna di fucile; il principe sedeva proprio nel mezzo della nave: gli bastava premere una molla che subito partivano migliaia di pallottole, e un attimo dopo le canne erano cariche come prima. Cento aquile robuste tiravano la nave, e in questo modo lui volava verso il sole.
La terra si trovava ormai lontana, all'inizio, con le montagne e i boschi, sembrava un campo arato dove il verde spunta tra le zolle rimosse; in seguito assomigliava a una piatta carta geografica, e ben presto venne completamente nascosta dalla nebbia e dalle nuvole. Le aquile volavano sempre più in alto, allora Dio mandò uno dei suoi innumerevoli angeli, il principe cattivo sparò contro di lui mille pallottole, ma le pallottole rimbalzarono come grandine sulle ali scintillanti dell'angelo una goccia di sangue, una sola, sgorgò dalla candida ala, cadde sulla nave in cui si trovava il principe e vi si fissò; pesava più di cento quintali di piombo e trascinò a grande velocità la nave verso la terra. Le forti ali delle aquile si spezzarono, il vento soffiò intorno al principe, le nuvole gli sibilarono vicino, nuvole formate dal fumo delle città incendiate e raffiguranti immagini minacciose: lunghissimi polipi che distendevano i tentacoli verso il principe, rocce rotolanti, draghi che vomitavano fuoco. Il principe giaceva mezzo morto nella nave che infine si incagliò nei fitti rami del bosco.
«Io vincerò Dio!» disse. «L'ho giurato e il mio volere dovrà compiersi!»
Per sette anni fece costruire nuove navi per navigare nell'aria, fece preparare saette con il duro acciaio perché voleva far saltare la fortezza del cielo. Da tutti i suoi territori raccolse grandi eserciti che ricoprivano lo spazio di parecchie miglia, quando erano schierati uno di fianco all'altro. Questi salirono sulle navi, il principe stesso si stava avvicinando alla sua, quando Dio mandò uno sciame di zanzare, solo un piccolo sciame che ronzò intorno al principe e lo punse in volto e sulle mani. Lui estrasse la spada infuriato, ma batteva solo la vuota aria e non riusciva a colpire le zanzare. Allora ordinò che portassero preziosi tappeti e glieli avvolgessero intorno: così nessuna zanzara avrebbe potuto bucarlo col suo pungiglione. Venne fatto come lui aveva ordinato. Ma un'unica zanzara si infilò sotto il primo tappeto, strisciò fino all'orecchio del principe e lo punse; bruciava come il fuoco e il veleno salì fino al cervello; il principe si strappò i tappeti di dosso, si strappò i vestiti e ballò nudo davanti ai brutali, rozzi soldati, che ora ridevano del principe pazzo che voleva assaltare Dio e era stato sconfitto da un'unica piccola zanzara.

FINE


 
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Alberi civili

Post n°943 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Che noia dev’esser la vostra, poveri alberi appajati in fila lungo i viali della città e anche talvolta lungo le vie lastricate, di qua e di là su i marciapiedi, o sorgenti solitari fra piante nane dentro qualche vasto atrio silenzioso d’antico palazzo o in qualche cortile!
Ne conosco alcuni, in fondo a una delle vie più larghe e più popolate di Roma, che fan veramente pietà. Son venuti su miseri e squallidi, ed han quasi un’aria smarrita, paurosa, come se chiedessero che stieno a farci lì, fra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestio della vita cittadina. Con che mesta meraviglia, i poveretti, si vedon rispecchiati nelle splendide vetrine delle botteghe! E par che loro stessi si commiserino, scotendo lentamente i rami a qualche soffio di vento.
Ogni qual volta passo per quella via, guardando quegli alberetti, penso ai tanti e tanti infelici che, attratti dal miraggio della città, hanno abbandonato le loro campagne e son venuti qui a intristirsi, a smarrirsi nel laberinto d’una vita che non è per loro. E immaginando il pentimento amaro e sconsolato di questi infelici e il rimpianto della terra lontana, della vita semplice e buona che vi traevano un giorno, prima che la maledetta tentazione la recasse loro a dispetto accendendo le lusinghe d’altra fortuna; immagino anche di qual viva e spontanea letizia di germoglio si animerebbero all’aperto questi miseri alberetti; come brillerebbero le loro foglie e come si stenderebbero ad abbracciar l’aria pura questi rami aggranchiti, attediati.
Ecco: il breve cerchio che il lastrico della via lascia attorno al tronco, è tutta la loro campagna; per esso la terra beve a stento l’acqua del cielo e respira. Questo breve cerchio è pur talvolta coperto da una grata di ferro, per una protezione che può anche sembrare maggior crudeltà: i poveri alberi allora par che vengan su da una carcere, condannati a star lì; e dormono e sognano tristi, scotendosi di tanto in tanto, quasi per brivido di commozione, alle notizie che il vento lieve reca loro da lontano, dai campi già rinascenti al sorriso del nuovo aprile.

Ah, lo sentono anch’essi, i poveri alberi della città: sentono anch’essi un non so che nell’aria ilare e fresca. Sotto il duro lastrico opprimente, alberi in esilio, la terra vi parla del rinnovato amor del sole, e voi fremendo l’ascoltate, beati nel pensiero ch’ella non si è dimenticata di voi lontani, di voi sperduti fra il trambusto della città. Sotto le case innumerevoli che la schiacciano, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti, ella vive, vive, e voi sentite con le radici l’ardore di questa sua novella vita che non sa tenersi nascosta e schiuma quasi di tra le selci in tenui fili d’erba. Ah, voi forse, mirando quei verdi ciuffi timidi, concepite la folle speranza che la terra voglia far le vostre vendette, invader la città per riscattarvi; e vedete in sogno quei ciuffi crescere, e la via diventare un prato e la città campagna!
Sì, ma che fanno intanto quegli stradini accosciati, curvi sul selciato? che raschiano? - Lo domandate a un passero che dai tetti è venuto a posarsi su voi; e il passero garrulo e pettegolo vi risponde sghignando:

- E non vedete? Son barbieri: fan la barba alla via.

Ma più triste ancora è la sorte di altri alberi cittadini, che non debbon soltanto scortare, in ordinata processione lungo i marciapiedi delle vie, le insulse e laide nostre vanità; ma che, in ordine più serrato, fondendo le varie corone, son costretti a formare quasi un portico vegetale.
Le cesoje del giardiniere han pareggiato simmetricamente le cime di questi alberi e internamente hanno imposto ai rami la curva d’una galleria e, ai lati, gli archi d’un loggiato.
Così svisati, con sapiente barbarie mutilati, a chi posson più davvero parer belli e far piacere questi alberi? Confesso che a me danno un senso di ribrezzo, come se mi offrissero uno spettacolo di perpetua tortura. E mi vien voglia di gridare: «Ma costruite di pietra i vostri portici! Questi son esseri vivi, che soffrono e fan soffrire: è crudele impedir loro così la viva spontaneità del germoglio, l’espansione della vita!».
E non sapete, o giardinieri d’Italia, che la pena di morte è abolita fra noi? Per chi osi alzar la testa oltre le corde livellatrici delle leggi, che stanno a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, non c’è più il boja che gliela tagli. Or perché quella povera fronda che voglia spingersi un po’ oltre la linea imposta dalle vostre forbici dev’essere decapitata?
Per quegli alberi, o giardinieri, il vostro mestiere è ancor quello del boja!

E so d’un albero nato, non si sa come, in un angusto sudicio cortile presso una brutta via affollata di vecchie case. Quel povero albero s’era levato dritto dritto sul magro stelo cinereo, con evidente sforzo, con evidente pena, quasi angosciato nel desiderio di vedere il sole e l’aria libera dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. E finalmente c’era arrivato!
Come brillavan felici le frondi della cima, e quanta invidia destavano in quelle che stavan giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami in autunno, le foglie di lassù eran più felici: volavan via col vento in alto, cadevan su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivan nel fango della via, calpestate.
In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva dessero convegno da tutti i tetti della città. Più d’ali che di foglie palpitavano allora quei rami; pareva che ogni foglia avesse voce, che tutto l’albero cantasse fremebondo.
Dalle finestre delle case i bambini assistevano, sorridendo storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Talvolta, un vecchietto si affacciava a una finestra e batteva due volte le mani: allora, d’un tratto, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime. Di lì a poco però, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridio e di quello degli altri e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.
Ora avvenne che il proprietario della casa, entro al cui cortile l’albero era cresciuto, un bel giorno pensò di alzar tutto in giro le mura per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento s’era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.

«Su! su!» pareva gli gridassero dalle grondaje i passeri che abitavan su quel tetto, e spiccavano il volo per incitarlo più davvicino a rizzarsi: «Su! su!». E forse anche loro ripetevano al vecchio albero quelle solite frasi, quegli inutili consigli, quei vani ammonimenti che soglion darsi ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! non bisogna avvilirsi! raccogli le forze! rialzati!».

Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rigoglio: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva più andare. Meglio morire.
Ancora sul tramonto si raccoglievan su lui a mille a mille i passeri a far sbaldore. Ma non più l’albero pareva cantasse tutto. I passeri vivevano: l’albero era morto, piegato su se stesso. E invano quelli col loro gridio tentavano di richiamarlo in vita.

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Chi dice donna...

Post n°942 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Non me ne vogliano le lettrici,ma quanno ce vo' ce vo'!
E chi potrebbe essere più d'accordo con me,se non Odoacre Puzzettoni che di donne in casa ne ha deu,ovvero moglie e madre?
A causa loro il pover'uomo ha passato giorni infernali,che da bravo cronista vi racconto nei minimi particolari.
LUNEDI'- La Puzzettoni e la nuora sono due brave donna,salvo quando vengono colti da accessi di "buttite acuta",sindrome che spinge chi ne soffre (solo donne) a gettar via periodicamente quanto ai loro occhi appare superfluo.
Oggi
1) La Gelsomina si è disfatta di un'intera raccolta de "Il Corriere dei Piccoli" che il Puzzettono stava per vendere in blocco ad un collezionista per la modica somma di 50 milioni
2)Si è disfatta di un giubbotto di pelle del marito risalente ai suoi anni di motociclista pazzoide. Non sapeva cheOdoacre conserva nella tasca interna i suoi risparmi segreti,ovvero 5 milioni.
3)La Puzzettoni ha buttato lo scatolone di cartone che il figlio conserva sotto il letto.Dentro,oltre alle dichiarazioni dei redditi degli ultimi 15 anni,c'erano pureBOT per un valore di 20 milioni.
Odoacre ha preso a testate il WC fino a svenire.
MARTEDI'- Una volta al mese le due donne ricevono la visita della loro intima amica,la celebre medium rumena
Violeta Mortulescu.
Odoacre,tornato a casa con una terribile colica di fegato,è capitato nel bel mezzo della seduta.
Madre e moglie,intente a dialogare con l'anima del bisnonno Trismegisto per avere i numeri al lotto,non lo hanno filato pari neanche quando è arrivata l'ambulanza.
MERCOLEDI'- Per farsi perdonare la madre ha preparato a Odoacre,che stava ancora a letto,una borsa dell'acqua calda.Un secondo dopo, il Puzzettoni,urlando come un forsennato,è schizzato per aria,battendo una craniata contro il soffitto.la madre lo ha preso a ceffoni dandogli dell'ingrato.
La Gelsomina gli ha praticato un'iniezione di antidolorifico.
Un secondo dopo Odoacre impattava di nuovo col soffitto:per essere sicura che l'ago entrasse, la Gelsomina aveva usato un martello.La siringa si è conficcata saldamente nel posteriore del marito
Anche lei lo ha schiaffeggiato e gli ha dato dell'ingrato.
GIOVEDI'- Odoacre è rimasto chiuso in bagno.
La madre e la moglie,intente a seguire su TeleCampagnola6 lo special sui 50 anni di Miguel Pezzentones,non lo hanno sentito.
Il pover'uomo dopo tre ore si è calato sul terrazzo sottostante usando una corda fatta coi suoi indumenti.
La signora Scannafù,quando lo ha visto in costume adamitico,ha urlato al maniaco,lo ha tramortito a scarapte e ha chiamato Cuccurullo.
Il pover'uomo ha passato una notte in guardina
VENERDI'- Odoacre,a Firenze per lavoro,ha provato per tre ore a chiamare casa,ma telefono e cellulare risultavano occupati,
Pensando a qualche guaio,ha chiamato Cuccurullo.che,recatosi, a casa Puzzettoni,ha trovato le due donne immerse in conversazione.Si stavano chiamando a vicenda!
Odoacre ha rotto il telefono con l'accetta e scaraventato il cellulare nel cesso.
SABATO- Il guardaroba di Odoacre,secondo le due donne,faceva pietà ,orrore e pure schifo e hanno trascinato il poveraccio in un centro commerciale.
Risultato:loro hanno il guardaroba nuovo,quello di Odoacre fa sempre pietà,orrore e schifo.
Odoacre è più povero di 5 milioni.
DOMENICA-Quando madre e moglie gli hanno comunicato che la Mortulescu,sfrattata,si sarebbe trasferita da loro, Odoacre ha preso il mattarello e si è messo d'impegno a diventare orfano e vedovo.
Per fermarlo ci sono voluti 20 agenti.
Sono passati 7 giorni.
La Mortulescu assiste amorevolmente le Puzzettoni in ospedale.
Odoacre è a Sollicciano:volevano dargli i domiciliari ma lui ha fatto lo sciopero della fame.
Sta così bene che chiama "Babbo"il direttore e "fratelli"gli altri detenuti.Contento lui...
Per ora vi lascio,lettori miei.A presto risentirci (tanto state sicuri che a S.Tobia ne succede praticamente una al giorno!)




 
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Septembre (Cantat)

Post n°941 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Juste le temps de battre des cils,
Un souffle, un éclat bleu,
Un instant, qui dit mieux,
L'équilibre est fragile

J'ai tout vu
Je n'ai rien retenu

Pendant que ton ombre
En douce te quitte
Entends-tu les autres qui se battent
A la périphérie
Et même si tes yeux
Dissolvent les comètes
Qui me passent une à une
Au travers de la tête

J'y pense encore
J'y pense

A cette époque on n'écoutait qu'à peine
Le clic-cloc des pendules
A l'heure où je te parle
Sans entraves... il circule
En septembre, en attendant la suite
Des carnages il se peut, qu'arrivent la limite

J'y pense encore
J'y pense

Ensemble, maintenant
On peut prendre la fuite
Disparus, pfffuit
Avant qu'ils aient fait ouf

J'y pense encore
J'y pense
J'y pense encore
J'y pense...

 

 
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Libri dimenticati:Il giglio rosso

Post n°940 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Therese,figlia di un politico e moglie di un uomo importante,accetta un soggiorno a Firenze presso amici,
Incontra uno scultore francese Jacques e fra loro nasce una relazione,che però si conclude quando lui apprende che Therese ha avuto una precedente relazione.
Bel romanzo di Anatole France,scritto in modo impeccabile

 
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Frase del giorno

Post n°939 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Non c'è rosa senza spine,ma perchè tutte le spine devono toccare solo a me?

 
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