Messaggi del 09/10/2011

La gallina che volle fare guerra al re

Post n°953 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta una gallina che, per il fatto di avere nel sedere il bastone del cdomando e il mare, si mise in testa di muovere guerra al re. Ogni giorno si recava presso il palazzo reale, e cantava: "Coccodè, coccodè! Voglio fare la guerra al re ". La sentinella che era di guardia al palazzo reale, chiamò il suo capitano e gli raccontò il fatto. La cosa arrivò all'orecchio del re che ruppe in una fragorosa risata. Ma poi divenne rosso per la rabbia e ordinò: "Ciò deve finire: prendete la gallina e gettatela in pasto ai maiali ". - "Si Maestà", assicurò il capitano, "sarà fatto". Infatti i soldati, quando videro la gallina che come al solito cantava nei pressi del palazzo reale: "Coccodè, coccodè! Voglio fare la guerra al re", la catturarono e la portarono dove pascolavano i suini. Aprirono i cancelli e la gettarono dentro, ridendo di cuore e dicendo: "Ha avuto ciò che meritava. Ora si faccia divorare dai maiali, altro che fare la guerra al re".
La gallina, quando si vide fra le bestie che volevano divorarla, gridò: "Uno, due e tre, esci bastone dal mio sedere!" La mazza venne fuori e cominciò a menar botte da una parte e dall'altra, tanto che uccise tutti i maiali. Fatto ciò, la gallina scappò via. I soldati se ne accorsero e avvisarono il loro capitano, che immediatamente si recò dal re per narrargli l'accaduto. Il re esclamò: "Oh! possibile?" E ordinò: "Allora aprite gli occhi. Questa volta, appena catturata, gettatela nel fuoco e lasciatela distruggere dalle fiamme". Il giorno successivo la gallinà si ripresentò presso la reggia per ripetere le sue gesta, i soldati la presero, accesero un fuoco e ve la gettarono. La gallina subito cominciò a dire: "Uno, due e tre, esci mare dal mio sedere". Non finì di parlare, che cominciò ad uscire dal di dietro della gallina tanta acqua che il fuoco si estinse. Allora i soldati si recarono a raccontare il fatto al loro comandante, e appena il re lo seppe scappò con tutti i soldati, pensando come avesse potuto una gallina uccidere i maiali e spegnere il fuoco. La gallina, tutta tronfia perchè aveva vinto, cominciò a cantare: "Coccodè, coccodè, ho vinto la battaglia col re. - Coccodè, coccodè, ho vinto la battaglia col re".

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L'anatra bianca

Post n°952 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta uno zar grande e potente, che sposò una bellissima principessa. Non c'era al mondo una coppia più felice di loro, ma la loro luna di miele fu ben presto interrotta ed essi furono costretti a separarsi, poiché lo zar fu chiamato in una spedizione di guerra contro un paese nemico. La giovane sposa pianse a calde e amare lacrime, mentre egli cercava in vano di consolarla e prepararla al distacco dandole dei consigli per quando sarebbe rimasta sola; le raccomandò sopratutto di non allontanarsi mai dal castello, di non dare confidenze a estranei, di guardarsi sempre dai cattivi consiglieri e specialmente dalle donne strane. La giovane zarina promise di ubbidire scrupolosamente alle parole del suo signore e consorte. Così, quando lo zar se ne fu andato, ella si ritirò con le sue fedeli dame di corte nei suoi appartamenti, trascorrendo il suo tempo a tessere e filare, e naturalmente, pensando al suo caro sposo lontano.

La zarina era sempre triste e addolorata, e accadde un giorno, che, mentre stava seduta alla finestra, piangendo sul suo lavoro, si affacciò una vecchia con un bastone, dall'aspetto e dai modi gentili e rassicuranti, che le disse in tono amichevole e lusinghiero: "Perché ve ne state lì tutta sola e triste, mia splendida regina? Non dovreste starvene chiusa tutto il giorno nella vostra stanza a deprimervi, uscite, uscite fuori in giardino, che è tutto verde e rigoglioso; venite a sentire gli uccellini che cantano, e a osservare le belle farfalle volare tra i fiori, a udire il ronzio delle api e degli altri insetti. Lasciatevi trasportare dal calore dei raggi solari che sciolgono le gocce di rugiada dai petali di rose e dai gigli in fiore. L'aria aperta e il sole vi gioverebbero molto, e vi aiuterebbero a dimenticare le vostre pene, regina." Per un bel pò la zarina resistette alle parole adulatorie della vecchia, ricordando la promessa che aveva fatto al marito, ma alla fine disse a se stessa che in fondo non c'era niente di male a passare le giornate in giardino, rilassandosi al caldo dei raggi del sole, e a godere di tutte le delizie della natura, che la vecchia le aveva così sapientemente descritto e cedette alla tentazione. Purtroppo ella non poteva sapere che la gentile vecchina dai modi così garbati e rassicuranti era in realtà una strega cattiva, invidiosa della sua buona fortuna, e desiderosa di vendicarsi e rovinarla. E così, siccome si fidava di lei e ignorava la verità, un giorno seguì la vecchia nel giardino reale e diede retta alle sue parole suadenti e adulatorie.

Lì, in mezzo al giardino c'era uno stagno, chiaro e limpido come il cristallo, e la vecchia strega disse alla zarina: "Splendida regina, oggi fa così caldo, il sole scotta talmente che un bel bagno rinfrescante in questo stagno sarebbe l'ideale: è così invitante.." "Preferirei di no" rispose la zarina, ma subito dopo pensò: ' In fondo, che male c'è a fare un bagno in quest'acqua così chiara e fresca? ' Così dicendosi, si svestì e s'avvicinò timidamente alla fonte; ma non aveva ancora immerso un piede nell'acqua, quando avvertì un grosso spintone alle spalle, e TUF! La stregaccia cattiva la buttò in acqua, esclamando malignamente: "E adesso nuota, anitra bianca!" Poi la perfida strega assunse le sembianze e gli abiti della zarina, prendendo il suo posto al palazzo reale, e aspettando il ritorno del sovrano suo marito.

Poco tempo dopo i cani udirono il rumore degli zoccoli dei cavalli e abbaiarono per annunciare che lo zar era tornato. La strega, irriconoscibile nelle sembianze della zarina, corse incontro allo zar e gli buttò le braccia al collo e lo baciò. Lo zar era felicissimo di poter finalmente riabbracciare la sua adorata sposa, ma naturalmente non poteva immaginare che la donna che stava tra la sue braccia non era sua moglie, bensì una perfida strega. "Nel frattempo, fuori del palazzo, la povera Anatra Bianca era confinata nello stagno, presso il quale un giorno essa depositò tre uova, e quando si dischiusero, vennero fuori due soffici anitrelle e un brutto anatroccolo. Anatra Bianca allevò i suoi piccoli, i quali zampettavano nello stagno sempre dietro a lei, pescavano i pesciolini d'oro, e saltellavano sulla riva, starnazzando qua e la tutto il giorno e anatrando: "Qua! Qua!" mentre passeggiavano tutti impettiti. Ma la mamma raccomandava sempre di non allontanarsi troppo, perché nel castello viveva una strega cattiva, spiegò, che l'odiava e che le aveva fatto del male, e che quindi, avrebbe fatto male anche a loro. Gli anatroccoli però non ascoltavano abbastanza le raccomandazioni materne, e così un giorno, mentre si erano spinti a giocare nel giardino, presero a gironzolare proprio sotto le finestre del castello. La strega li riconobbe subito dall'odore e cominciò a digrignare i denti per la rabbia; allora cercò di celare i suoi sentimenti nel tentativo di avvicinarli e fece finta di essere gentile e simpatica; li attirò a sé chiamandoli con finta dolcezza, scherzò un pò con loro, e li condusse in una bella sala, dove diede loro da mangiare e un soffice cuscino dove dormire. Poi li lasciò lì e scese nelle cucine, dove disse ai servi di affilare i coltelli e accendere un bel fuoco molto caldo, e mettervi a bollire una grossa pentola d'acqua. Intanto le due anatrelle si erano addormentate, con il fratellino accucciato in mezzo a loro, avvolti dalle loro piume per stare al calduccio, ma l'anatroccolo non riusciva a dormire, così quella notte udì la strega alla porta chiedere: "Anatroccoli, state dormendo?" E l'anatroccolo rispose al posto delle sorelle:

"Non riusciamo a dormire, siamo svegli e piangiamo
Perché pronto è già il coltello ed è affilato;
Bolle l'acqua sul fuoco ardente,
Così ora svegli siamo, qui tremando."

' Mmm.. sono ancora svegli ' brontolò tra sé la strega, ' sarà meglio entrare a dare un'occhiata. ' Così aprì piano piano la porta, e vedendo che sembravano addormentati, li uccise. Il mattino dopo Anatra Bianca vagava preoccupata intorno allo stagno alla ricerca dei figli; li chiamò e li chiamò, li cercò ovunque ma non riuscì a trovarli. Allora ella d'istinto ebbe il presentimento che gli fosse capitato qualcosa di male, e che fosse stata la strega, così, si fiondò d'impeto fuori dell'acqua e si precipitò al castello, e lì, sul pavimento di marmo della corte, giacevano i corpi morti dei suoi tre figli. Anatra Bianca si riversò sui loro corpicini, e coprendoli con le sue ali, gridò disperata:

"Qua! Qua! Quaaaaa! I miei piccoli tesori!
Qua! Qua! Quaaaaa! Mie piccole tortore!
Vi ho messi al mondo in dolore e dispiacere,
E adesso morti tra le mie braccia voi giacete.
Ho cercato di proteggervi,
tenendovi al caldo del mio nido
Vi ho tanto amato e vegliato su di voi, il giorno e le notti
Voi che siete stati la mia unica gioia, la luce dei miei occhi."

Ora, accadde che proprio in quel momento, lo zar, che era lì vicino, udì il disperato lamento di Anatra Bianca, e chiamata la presunta moglie le disse: "Ma che strana meraviglia è questa? Senti, senti quella Anatra Bianca che lamenti che fà!". Ma la strega rispose: "Mio caro marito, a cosa ti riferisci? Non trovo niente di speciale nello schiamazzo di un'anatra. Servi, venite qui! Prendete quell'anatra, cacciatela via dal cortile." Ma per quanta caccia i servi diedero all'anatra, non riuscirono a liberarsene, perché ella continuava a vagare su e giù come impazzita per tutta la corte; loro tentavano di mandarla via e lei puntualmente ritornava sul giaciglio dei suoi piccoli, e gridava:

"Qua! Qua! Quaaaaa! I miei piccoli tesori!
Qua! Qua! Quaaaaa! Mie piccole tortore!
La perfida strega le vostre vite si è prese,
La malvagia fattucchiera, scaltra serpe in seno.
Prima il mio Re m'ha rubato,
E ora ai miei fanciulli la vita ha strappato.
Da felice sposa che ero
in forma d'anatra per la vita m'ha condannato;
Di nuovo regina vorrei tornar
E i miei piccoli ancora in vita vorrei veder!"

Quando il re ascoltò queste parole, cominciò a sospettare che qualcosa non tornasse, e che fosse stato ingannato; convocò i servi e ordinò: "Presto, prendete quell'anatra e portatemela qui subito." Ma per quanto i servi corressero su e giù per la corte, non riuscivano ad acchiapparla, perché lei non si lasciava prendere. Allora intervenne anche lo zar, e come lo vide arrivare, l'anatra gli volò tra le braccia; e nel momento stesso in cui il suo corpo le colpì le ali, ella riacquistò la sua forma umana, ed egli riconobbe la sua cara sposa. Allora ella gli raccontò tutto quello che era successo in sua assenza, e gli disse di andare a cercare una certa bottiglia che stava nel nido in giardino, che conteneva delle gocce guaritive della primavera. Le portarono le gocce miracolose, con le quali lavarono i corpicini delle anatrelle e dell'anatroccolo, e all'improvviso dai corpi dei tre morticini, uscirono tre bellissimi bambini, svegli e pieni di vita. Lo zar e la zarina furono pazzi di gioia per aver ritrovato i loro tre bambini, e così poterono tornare a vivere felicemente insieme, al palazzo reale, per sempre. Però la cattiva strega non se la passò altrettanto bene, e sopra di lei passò la terribile scure della punizione.

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La betulla incantata

Post n°951 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

C'erano una volta un uomo e una donna che avevano un'unica figlia. Un giorno accadde che una delle loro pecore si smarrì, e allora la cercarono ovunque, in ogni angolo del bosco. La brava donna incontrò alla fine una strega, che le disse: "Bada, donna, se solo mi sputi sul coltello o mi passi tra le gambe, ti trasformo in una pecora nera." La donna non fece nessuna delle due cose, ma la strega la trasformò lo stesso in una pecora, poi prese le sembianze della sua vittima, e gridò al marito: "Ho trovato la pecora! Ho trovato la pecora!" L'uomo non si accorse di nulla, e credette che quella fosse sua moglie, mentre ignorava che la vera moglie era la pecora, così la riportò a casa, contento e sollevato per aver ritrovato la pecorella smarrita. Quando furono a casa, la strega disse all'uomo: "Senti, bisogna ammazzare quella pecora prima che scappi un'altra volta." L'uomo, che era un tipo tranquillo e conciliante, non fece obiezioni e disse: "Va bene, come vuoi." La ragazza però aveva sentito tutto, e corse dalla pecora e le disse: "Mammina mia, vogliono ucciderti!" "Se lo fanno, non mangiare la mia carne, ma conserva bene tutte le mie ossa, fai una buca nel terreno e seppelliscile."

Poco tempo, infatti, la pecorella nera fu uccisa. La strega fece una zuppa di piselli con le sue carni, e la mise davanti alla figliastra; ella però si ricordò bene delle parole della sua mamma, e non toccò con un dito la zuppa, ma portò gli ossicini della pecora sul bordo del campo e li seppellì, e proprio lì, dove essa aveva seminato, di lì a poco spuntò su una bellissima betulla.

Passò un pò di tempo, tanto o poco non si sa, quando un giorno la stregaccia, che nel frattempo aveva avuto un figlio, cominciò a nutrire rancore nei confronti della figliastra e a tormentarla in tutti i modi possibili. Un giorno ci fu un grande festival presso il castello reale, e il re aveva fatto rilasciare un editto in cui si proclamava che l'invito era rivolto a tutti, e l'editto diceva così:

"L'invito è rivolto a tutte le genti, siano esse povere e misere, cieche o storpie. Vengano tutti, che sia da terra o dal mare."

E così tutti i reietti, i mutilati, i ciechi e i più miseri furono invitati a palazzo. Anche in casa dell'uomo c'era fermento e si facevano i preparativi per partecipare; la strega disse al marito: "Vai avanti tu intanto, con la nostra figlia più giovane, mentre io do del lavoro da fare alla grande, così non rimarrà in ozio." Così il buon uomo prese la figlia minore e si avviò al palazzo. La strega intanto accese il fuoco, poi buttò una gran quantità di chicchi di grano tra la cenere, e disse alla ragazza: "Bada, se non dividi tutti questi chicchi d'orzo dalla cenere e non li rimetti a posto prima che faccia notte, ti mangio!" Ciò detto si affrettò a raggiungere il marito e la figlia, e la povera ragazza rimase sola a casa a piangere. Allora provò con tutta la buona volontà del mondo, a raccogliere i chicchi sparsi nella cenere, ma si accorse ben presto di quanto fosse inutile e senza possibilità di riuscita il suo tentativo. Così profondamente addolorata andò presso la betulla dove si trovava la tomba della sua mamma, e pianse tanto, al pensiero della sua povera mamma morta che giaceva sotto la zolla erbosa, che non poteva più aiutarla. All'improvviso sentì la voce di sua madre parlare da sottoterra, e disse: "Perché piangi, figliola mia?" "La strega ha sparpagliato tanti chicchi d'orzo nella cenere, e mi ha minacciato di mangiarmi, se non riuscirò a dividerli e a rimetterli a posto prima che faccia notte," disse la ragazza, "per questo piango, mammina mia." "Non piangere, bimba mia," disse la madre, consolandola. "Prendi uno dei miei rami, spezzalo, e battilo sul focolare; vedrai che tutto si aggiusterà." La ragazza seguì il consiglio della madre, e meraviglia delle meraviglie! A un colpo di ramo sul focolare, ecco per magia tutti i chicchi d'orzo fuoriuscire dalla cenere, mettendosi tutti in ordine nel loro barattolo. Poi la ragazza tornò presso l'albero e rimise il ramo sulla tomba. Allora la mamma disse alla figlia di bagnarsi al ruscello, asciugarsi e vestirsi. Quando la fanciulla fu pulita e vestita, era così bella da non avere rivali sulla terra. La mamma le aveva fatto indossare uno splendido abito, e la fece salire in groppa a un magnifico cavallo dal pelo d'oro, d'argento e d'altre pietre preziose. La fanciulla montò sul cavallo e corse più veloce di una freccia al palazzo.

Quando le venne incontro il figlio del re per darle il benvenuto, egli legò il suo cavallo a un pilastro, e la accompagnò dentro. Era così bella che il principe non la lasciò un attimo, e tutti la osservavano ammirati, chiedendosi chi fosse quella bellissima fanciulla e da quale castello venisse. Ma nessuno la riconobbe; nessuno sapeva nulla di lei. A pranzo il principe la invitò a sedere con lui al tavolo d'onore, ma c'era anche la figlia della strega, che rosicchiava degli ossicini sotto il tavolo. Il principe non la vide, e pensando che fosse un cane, gli diede una pedata così forte da romperle un braccio. Non vi dispiace per la figlia della strega? In fondo, non era colpa sua se sua madre era una strega.

Verso sera, la fanciulla pensò che fosse ora di tornare a casa, ma quando fu sul punto di uscire, il suo anello rimase incastrato nella serratura della porta, poiché il principe l'aveva imbrattata di catrame. La ragazza non perse tempo per recuperarlo, ma anzi, slegò il cavallo dalla colonna e si affrettò verso casa, veloce come una freccia. Arrivata a casa, tornò alla betulla, dove si spogliò del suo bel vestito, lasciò lì il suo cavallo, e corse a casa, per farsi trovare al suo solito posto in cucina. Poco dopo tornarono il padre e la strega, la quale si rivolse alla figliastra e disse, per farle rabbia: Ah, eccoti qua, piccola sventurata, dove potevi essere? Sapessi come ce la siamo spassata, al palazzo del re! Il principe ha passato tutto il tempo con la mia bambina, ma la poverina è caduta e si è rotta un braccio." La ragazza sapeva molto bene come stavano realmente le cose, ma fece finta di non saperlo, e se ne stette muta presso il forno.

Il giorno dopo tutti furono invitati di nuovo al palazzo reale. "Hei, vecchio!" disse la strega, "sbrigati a vestirti; siamo tutti invitati di nuovo dal re. Vai avanti con nostra figlia, io intanto do un pò di lavoro alla grande, così non resterà senza far niente." Andò ad accendere il fuoco, gettò una grossa manciata di semi di canapa tra la cenere, e disse alla figliastra: "Se non metti a posto tutti questi semi sparsi tra la cenere, quando torno ti uccido!" La ragazza si disperò e pianse, poi andò alla betulla, si lavò e si asciugò, e le diedero dei vestiti ancora più belli ed eleganti dell'ultima volta, e un bellissimo cavallo. Strappò un altro ramo dalla betulla, lo batté sul caminetto, e in un attimo tutti i semi di canapa furono separati dalla cenere e messi in ordine nel recipiente, e la fanciulla corse al castello.

Il figlio del re l'accolse di nuovo con calore, legò bene il suo cavallo, e la scortò nella sala del banchetto. La ragazza sedette vicino a lui come l'altra volta, ma la figlia della strega sgranocchiava qualche osso sotto la tavola, e per sbaglio il principe le diede uno spintone, e quella si ruppe una gamba, perché lui non si era accorto della sua presenza. Era veramente sfortunata! La nostra eroina si affrettò poi a tornare a casa, ma il principe aveva fatto ungere le porte con del catrame, e l'anello d'oro della ragazza rimase impigliato. Non ebbe il tempo di cercarlo, ma saltò sul suo cavallo come un razzo e fuggì a casa. Quando ritornò presso l'albero fatato, depositò lì cavallo e abito, e disse alla sua mamma: "Ho perso il mio bracciale al castello, perché la porta era piena di catrame, così è rimasto bloccato." "Non fa nulla" rispose la mamma, "te ne darò degli altri, ancora più belli." La ragazza poi tornò in fretta a casa, e quando il padre rientrò con la strega, ella si fece trovare al suo solito cantuccio in cucina, e la strega le disse: "Ah, eccoti qua, piccola sventurata, sapessi che colpo allo stomaco sei, al confronto di quella incredibile visione che c'era oggi al palazzo! Il principe non si è staccato un momento dalla mia figliola, ma sfortunatamente egli l'ha lasciata cadere, e la mia povera piccola si è rotta una gamba." La figliastra sapeva come stavano le cose, ma fece finta di niente e riprese il suo lavoro come se niente fosse.

Il mattino dopo, appena all'alba, la strega svegliò il marito, gridando: "Sveglia, vecchio! Alzati, che siamo invitati al palazzo reale!" L'uomo si alzò, la strega gli affidò la figlia e disse: "Andate avanti voi, mentre io do del lavoro da fare alla grande, così non si annoierà a stare qui da sola." Fece come al solito; questa volta versò del latte tra la cenere e disse: "Se per quando torno, non avrai raccolto tutto il latte tra la cenere, te ne farò pentire!" Questa volta la poverina era veramente terrorizzata dall'impossibile compito, così corse spaventata alla tomba della sua mamma, e grazie al rametto magico anche questa volta tutto fu risolto facilmente, poi, splendidamente agghindata e pulita, la fanciulla andò alla festa. Il principe era già lì che l'aspettava; legò il cavallo, e la scortò dentro, dove fu ammirata da tutti i presenti. A tavola la figlia della strega sgranocchiava degli ossicini sotto il tavolo, così, senza volere, qualcuno le diede una botta in faccia e quella perse un occhio. Poi all'ora di andare via, nessuno sapeva chi fosse la bella fanciulla che aveva stregato il principe, né da dove venisse, ma il principe aveva fatto spargere della pece sull'ingresso, così mentre ella fuggiva via, perse le sue scarpe d'oro. Per non perdere tempo a raccoglierle, saltò sul suo cavallo e fuggì. Quando arrivò alla betulla, disse alla madre: "Mammina mia, purtroppo ho perso le scarpe, che mi sono rimaste attaccate al pavimento dell'ingresso!" "Non preoccuparti, bambina mia," rispose la mamma, "te ne farò avere delle altre ancora più belle." Quando il padre e la strega tornarono, ella aveva ripreso il suo posto davanti al fuoco, e la perfida matrigna si divertì a prenderla in giro: "Ah, eccoti qua, piccola sventurata, dove potevi essere? Sapessi come ce la siamo spassata, al palazzo del re! Il principe ha passato tutto il tempo con la mia bambina, ma la poverina è caduta e ha perso un occhio. Tu, piccola sciocca, cosa sai della faccenda?" "Oh, proprio niente. Come potrei sapere qualcosa io?" rispose, "ho già abbastanza da fare a tenere pulita la cucina."

Nel frattempo, il principe, che aveva conservato tutti gli oggetti che la fanciulla aveva perso, si era deciso a rintracciare la sua dama ad ogni costo. Per riuscirci, decise di dare un altro grande ricevimento il quarto giorno, dove tutti furono nuovamente invitati. Anche la strega fu pronta a tornarvi con la sua diletta figlia, e per non far vedere tutte le ferite che aveva, la mascherò e la trucco ben bene, e la portò al castello. Quando tutti furono riuniti nel salone, il principe avanzò tra la folla, e gridò: "Signori, la dama che portava questo anello, questo bracciale e che calzava queste scarpe d'oro, sarà la mia sposa." Allora ci fu un gran clamore tra i presenti, e tutte le damigelle presenti si accalcarono per indossare anello, bracciale e scarpe, ma a nessuna di loro andavano bene. "La sguattera non è presente." disse alla fine il principe, "andate a chiamarla, e fatela venire a provare queste cose." La fanciulla fu accompagnata davanti al principe, ma la strega lo trattenne, dicendo: "Aspettate, Maestà, non date questi gioielli proprio a lei, che è tutta sporca di pece, fateli indossare invece a mia figlia." Allora il principe diede alla figlia della strega l'anello, e quella in un attimo lo limò e lo ridusse della dimensione giusta per il dito della figlia, ed infatti l'anello ora entrava. La stessa fece con il bracciale e le scarpe, che furono forzate finché entrarono nel polso e ai piedi della ragazza. Allora il principe fu costretto a mantenere la parola, e doveva da quel momento fidanzarsi con la figlia della strega e sposarla, volente o nolente. Allora sgusciò via in tutta fretta a casa della ragazza, perché si vergognava di avere una sposa una sposa così brutta.

Passò qualche giorno, e alla fine il principe dovette riportare al palazzo la sua futura sposa. Erano pronti a partire, quando all'improvviso la sguattera si affacciò dal suo cantuccio in cucina, con il pretesto di portare qualcosa dalla stalla, nel passare di lì, si avvicinò di soppiatto, e bisbigliò alle orecchie del principe: "Per favore, Altezza, non spogliatemi del mio argento e del mio oro." Allora il principe riconobbe in lei la servetta che gli era stata portata, e prese con sé tutte e due le ragazze e partì. Avevano fatto solo poca strada, quando giunsero sulla riva di un fiume, e il principe lanciò giù la figlia della strega a far loro da ponte, e con la sguattera attraversò il fiume. La figlia della strega rimase lì sul fiume da sola, e non riusciva neanche a muoversi, tanto il suo cuore era dilaniato. Lontana da qualsiasi aiuto umano, si disperò molto: "Possa crescere una pianta di cicuta d'oro dal mio corpo, forse mia mamma mi riconoscerà!" Appena ebbe pronunciate queste parole, il suo desiderio fu esaudito.

Dopo che il principe si fu liberato della brutta figlia della strega, prese la sguattera per sposa, e insieme si recarono alla tomba della madre di lei, presso la betulla incantata. Lì, essi furono onorati di grandi quantità di tesori e ricchezze d'oro e d'argento, e anche di un magnifico cavallo, con il quale tornarono al palazzo reale. Lì vissero felici, e dopo un pò di tempo, la giovane sposa diede alla luce un bimbo. Allora fu inviata la lieta novella a casa della strega, poiché tutti pensavano che questa fosse effettivamente sua figlia. ' Bene, bene, ' disse la strega fra sé, ' andrò da sola al palazzo a portare il mio dono al neonato. ' Partì, e quando arrivò al fiume, e vide la pianta dorata nel bel mezzo del ponte, e quando cominciò a tagliarla per portarla al principino, udì una voce lamentarsi: "No, madre, non tagliarmi così!" "Tu sei qui?" domandò la strega. "Si, mammina," rispose la cicuta, "mi gettarono sul fiume perché facessi loro da ponte." In un attimo la strega aveva ridotto in briciole il ponte, e poi si affrettò al palazzo reale. Salì le scale, e arrivò presso il letto della principessa, ed esercitò su di lei le sue arti magiche e disse: "Sputa sul mio coltello, miserabile, e ti trasformerò in una renna." "Siete venuta qui per farmi del male?" disse la giovane principessa. Fece appena in tempo ad aprir bocca che fu trasformata in renna, e al suo posto nel letto mise sua figlia. Ma al bambino mancavano le cure della sua mamma, ed era perciò inquieto e piangeva sempre. Le balie provavano a calmarlo in ogni maniera, ma non c'era niente da fare, piangeva continuamente. "Ma perché fa così?" chiese allora consiglio il principe a una vedova. "Ahi, ahi, Maestà. Vostra moglie non è in casa con voi, è stata mutata in renna e adesso vaga per la foresta." spiegò la donna, "Siete stato ingannato da una strega, la stessa che ha trasformato la principessa e ha messo sua figlia al suo posto." "E non c'è modo di riavere mia moglie?"chiese il principe. "Lasciate il bambino con me; me lo porterò al pascolo domani. Forse il fruscio delle betulle e il tremolio dei pioppi lo tranquillizzeranno un pò" "Va bene, vi lascerò il bambino, perché lo portiate nel bosco con voi." disse il principe, e lasciò la vedova nel castello.

Quando la strega sentì che il principe voleva far portare dalla vecchia vedova il bimbo al pascolo, cercò di opporsi, ma il principe rimase fermo sulle sue posizioni e fece portare via il bambino dalla vedova nel bosco, al pascolo. La donna al margine della palude, e vedendo un branco di renne, cominciò a cantare:

"Bella renna dagli occhi chiari e dalla pelle rossa, vieni a prenderti cura del tuo pargolo! Quel terribile mostro senza cuore, quella spietata mangiatrice d'uomini non se ne prende più cura e lo ha abbandonato a se stesso, e possono forzarlo quanto vogliono, ma egli non vuole lei, vuole la sua mamma."

Immediatamente la renna si avvicinò, si spogliò delle sue sembianze animali, e tornò donna; prese il suo bambino tra le braccia, lo cullò e lo coccolò tutto il giorno, ma venuta sera, essa doveva tornare dal branco, così disse alla brava donna: "Portatemelo ancora domani e dopodomani; dopo sarò condannata a vagare con il branco verso altre terre."

La mattina dopo la vedova tornò al castello a prendere il bambino. La perfida strega naturalmente cercò di opporsi, ma il principe disse: "Prendetelo e portatelo all'aria aperta, così stanotte sarà certamente più tranquillo." La donna prese il piccolo tra le braccia, e lo portò nella foresta. Giunta sul posto dove avevaincontrato la renna il giorno prima, ricominciò a cantare il suo richiamo:

"Bella renna dagli occhi chiari e dalla pelle rossa, vieni a prenderti cura del tuo pargolo! Quel terribile mostro senza cuore, quella spietata mangiatrice d'uomini non se ne prende più cura e lo ha abbandonato a se stesso, e possono forzarlo quanto vogliono, ma egli non vuole lei, vuole la sua mamma."

Immediatamente la renna lasciò il branco e venne ad accudire il bambino come aveva fatto il giorno prima, e tra le braccia della mamma il bimbo era tranquillo e felice. Il principe, che intanto meditava sul da farsi, tornò a chiedere alla vecchia se ci fosse il modo di ritrasformare la renna in donna. "Non lo so" rispose, "venite domani nel bosco con me, e quando la renna si spoglia della sua pelle, io le pettinerò i capelli, e mentre io farò così, voi brucerete la sua pelle."

Il giorno dopo andarono tutti e tre nel bosco, e come gli altri giorni, la buona donna chiamò la renna, la quale accorse ad accudire il suo piccolo come al solito. Allora ella disse alla principessa: "Dal momento che da domani non vi vedrò più, lasciate che vi pettini la vostra bella chioma per l'ultima volta, così mi ricorderò meglio di voi." La principessa acconsentì; si tolse la pelle di renna e si lasciò pettinare dalla vedova; nello stesso momento, il principe, senza farsi vedere, buttò la pelle tra il falò. "Sento odore di bruciato" disse la principessa, e guardandosi intorno, vide suo marito. "Siete voi! Avete bruciato la mia pelle! Perché l'avete fatto, marito mio?" "Per restituivi la forma umana." "Avete fatto male, adesso non ho più niente per coprirmi, me disgraziata!" disse la principessa, e si trasformò prima in una rocca, poi in uno scarabeo, poi in un fuso, e in altre incredibili forme. Ma ad ogni sua trasformazione il principe distruggeva tutto, finché alla fine ella tornò di nuovo donna. "Ahimè, perché vuoi portarmi a casa, adesso, dove c'è la strega che sicuramente mi mangerà?£ disse la principessa. "No, non ti mangerà" rispose il marito, e insieme tornarono a casa con il bambino. Ma quando la strega li vide arrivare, lei prese sua figlia e scappò via con lei, e se non si è fermata, sta ancora scappando. Così il principe, la vera sposa e il bambino vissero a lungo felici e contenti.

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Niente (Pirandello)

Post n°950 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La botticella che corre fragorosa nella notte per la vasta piazza deserta, si ferma davanti al freddo chiarore d'una vetrata opaca di farmacia all'angolo di via San Lorenzo. Un signore impellicciato si lancia sulla maniglia di quella vetrata per aprirla. Piega di qua, piega di là – che diavolo? – non s'apre.

– Provi a sonare, – suggerisce il vetturino.

– Dove, come si suona?

– Guardi, c'è lì il pallino. Tiri.

Quel signore tira con furia rabbiosa.

– Bell'assistenza notturna!

E le parole, sotto il lume della lanterna rossa, vaporano nel gelo della notte, quasi andandosene in fumo.
Si leva lamentoso dalla prossima stazione il fischio d'un treno in partenza. Il vetturino cava l'orologio; si china verso uno dei fanaletti; dice:

– Eh, vicino le tre...

Alla fine il giovine di farmacia, tutto irto di sonno, col bavero della giacca tirato fin sopra gli orecchi, viene ad aprire.
E subito il signore:

– C'è un medico?

Ma quegli, avvertendo sulla faccia e sulle mani il gelo di fuori, dà indietro, alza le braccia, stringe le pugna e comincia a stropicciarsi gli occhi, sbadigliando:

– A quest'ora?

Poi, per interrompere le proteste dell'avventore, il quale – ma sì, Dio mio, sì – tutta quella furia, sì, con ragione: chi dice di no? – ma dovrebbe pure compatire chi a quell'ora ha anche ragione d'aver sonno – ecco, ecco, si toglie le mani dagli occhi e prima di tutto gli fa cenno d'aspettare; poi, di seguirlo dietro il banco, nel laboratorio della farmacia.
Il vetturino intanto, rimasto fuori, smonta da cassetta e vuole prendersi la soddisfazione di sbottonarsi i calzoni per far lì apertamente, al cospetto della vasta piazza deserta tutta intersecata dai lucidi binarii delle tramvie, quel che di giorno non è lecito senza i debiti ripari.
Perché è pure un piacere, mentre qualcuno si dibatte in preda a qualche briga per cui deve chiedere agli altri soccorso e assistenza, attendere tranquillamente, così, alla soddisfazione d'un piccolo bisogno naturale, e vedere che tutto rimane al suo posto: là, quei lecci neri in fila che costeggiano la piazza, gli alti tubi di ghisa che sorreggono la trama dei fili tramviari, tutte quelle lune vane in cima ai lampioni, e qua gli uffici della dogana accanto alla stazione.

Il laboratorio della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso davanti a un'immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto all'entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso. La tavola in mezzo, ingombra di bocce, Visetti, bilance, mortai e imbuti, impedisce di vedere in prima se sul logoro divanuccio di cuojo, là sotto a quello scaffale dirimpetto all'entrata, sia rimasto a dormire il medico di guardia.

– Eccolo, c'è – dice il giovine di farmacia, indicando un pezzo d'amene che dorme penosamente, tutto aggruppato e raffagottato, con la faccia schiacciata contro la spalliera.

– E lo chiami, perdio!

– Eh, una parola! Capace di tirarmi un calcio,

– Ma è medico?

– Medico, medico. Il dottor Mangoni.

– E tira calci?

– Capirà, svegliarlo a quest'ora...

– Lo chiamo io!

E il signore, risolutamente, si china sul divanuccio e scuote il dormente.

– Dottore! dottore!

Il dottor Mangoni muggisce dentro la barbaccia arruffata che gl'invade quasi fin sotto gli occhi le guance; poi stringe le pugna sul petto e alza i gomiti per stirarsi; infine si pone a sedere, curvo, con gli occhi ancora chiusi sotto le sopracciglia spioventi. Uno dei calzoni gli è rimasto tirato sul grosso polpaccio della gamba e scopre le mutande di tela legate all'antica con una cordellina sulla rozza calza nera di cotone

– Ecco, dottore... subito, la prego, – dice impaziente il signore. – Un caso d'asfissia...

– Col carbone? – domanda il dottore, volgendosi ma senza aprir gli occhi. Alza una mano a un gesto melodrammatico e, provandosi a tirar fuori la voce dalla gola ancora addormentata, accenna l'aria della « Gioconda »: – Suicidio? In questi fieeeriii momenti...

Quel signore fa un atto di stupore e d'indignazione. Ma il dottor Mangoni, subito, arrovescia indietro il capo e incignando ad aprire un occhio solo:

– Scusi, – dice, – è un suo parente?

– Nossignore! Ma la prego, faccia presto! Le spiegherò strada facendo. Ho qui la vettura. Se ha da prendere qualche cosa...

– Sì, dammi... dammi... – comincia a dire il dottor Mangoni, tentando d'alzarsi, rivolto al giovine di farmacia.

– Penso io, penso io, signor dottore, – risponde quello, girando la chiavetta della luce elettrica e dandosi attorno tutt'a un tratto con una allegra fretta che impressiona l'avventore notturno.

Il dottor Mangoni storce il capo come un bue che si disponga a cozzare, per difendersi gli occhi dalla subita luce.

– Sì, bravo figliuolo, – dice. – Ma mi hai accecato. Oh, e il mio elmo? dov'è?

L'elmo è il cappello. Lo ha, sì. Per averlo, lo ha: positivo. Ricorda d'averlo posato, prima d'addormentarsi, su lo sgabello accanto al divanuccio. Dov'è andato a finire?
Si mette a cercarlo. Ci si mette anche l'avventore; poi anche il vetturino, entrato a riconfortarsi al caldo della farmacia. E intanto il commesso farmacista ha tutto il tempo di preparare un bel paccone di rimedii urgenti.

– La siringa per le iniezioni, dottore, ce l'ha?

– Io? – si volta a rispondergli il dottor Mangoni con una maraviglia che provoca in quello uno scoppio di risa.

– Bene bene. Dunque, si dice, carte senapate. Otto, basteranno? Caffeina, stricnina. Una Pravaz. E l'ossigeno, dottore? Ci vorrà pure un sacco d'ossigeno, mi figuro.

– Il cappello ci vuole! il cappello! il cappello prima di tutto! – grida tra gli sbuffi il dottor Mangoni. E spiega che, tra l'altro, c'è affezionato lui a quel cappello, perché è un cappello storico: comperato circa undici anni addietro in occasione dei solenni funerali di Suor Maria dell'Udienza, superiora del ricovero notturno al vicolo del Falco, in Trastevere, dove si reca spesso a mangiare ottime ciotole di minestra economica, e a dormire, quando non è di guardia nelle farmacie.

Finalmente il cappello è trovato, non lì nel laboratorio ma di là, sotto il banco della farmacia. Ci ha giocato il gattino.

L'avventore freme d'impazienza. Ma un'altra lunga discussione ha luogo, perché il dottor Mangoni, con la tuba tutta ammaccata tra le mani, vuole dimostrare che il gattino, sì, senza dubbio, ci ha giocato, ma che anche lui, il giovine di farmacia, le ha dovuto dare col piede, per giunta, una buona acciaccata sotto il banco. Basta. Un gran pugno allungato dentro la tuba, che per miracolo non la sfonda, e il dottor Mangoni se la butta in capo su le ventitré.

– Ai suoi ordini, pregiatissimo signore!

– Un povero giovine, – prende a dir subito il signore rimontando sulla botticella e stendendo la coperta su le gambe del dottore e su le proprie.

– Ah, bravo! Grazie.

– Un povero giovine che m'era stato tanto raccomandato da un mio fratello, perché gli trovassi un collocamento. Eh già, capisce? come se fosse la cosa piú facile del mondo; t–o–to, fatto. La solita storia. Pare che stiano all'altro mondo, quelli della provincia: credono che basti venire a Roma per trovare un impiego: t–o–to, fatto. Anche mio fratello, sissignore! m'ha fatto questo bel regalo. Uno dei soliti spostati, sa: figlio d'un fattore di campagna, morto da due anni al servizio di questo mio fratello. Se ne viene a Roma, a far che? niente, il giornalista, dice. Mi presenta i titoli: la licenza liceale e uno zibaldone di versi. Dice: « Lei mi deve trovar posto in qualche giornale». Io? Roba da matti! Mi metto subito in giro per fargli ottenere il rimpatrio dalla questura. E intanto, potevo lasciarlo in mezzo alla strada, di notte? Quasi nudo, era; morto di freddo, con un abituccio di tela che gli sventolava addosso; e due o tre lire in tasca: non piú di tanto. Gli do alloggio in una mia casetta, qua, a San Lorenzo, affittata a certa gente... lasciamo andare! Gentuccia che subaffitta due camerette mobiliate. Non mi pagano la pigione da quattro mesi. Me n'approfitto; lo ficco lì a dormire. E va bene! Passano cinque giorni: non c'è verso d'ottenere il foglio di rimpatrio dalla questura. La meticolosità di questi impiegati: come gli uccelli, sa? cacano da per tutto, scusi! Per rilasciare quel foglio debbono far prima non so che pratiche là, al paese; poi qua alla questura. Basta: questa sera ero a teatro, al Nazionale. Viene, tutto spaventato, il figlio della mia inquilina a chiamarmi a mezzanotte e un quarto, perché quel disgraziato s'era chiuso in camera, dice, con un braciere acceso. Dalle sette di sera, capisce?

A questo punto il signore si china un poco a guardare nel fondo della vettura il dottore che, durante il racconto, non ha piú dato segno di vita. Temendo che si sia riaddormentato, ripete piú forte:

– Dalle sette di sera!

– Come trotta bene questo cavallino, – gli dice allora il dottor Mangoni, sdrajato voluttuosamente nella vettura.

Quel signore resta, come se al bujo abbia ricevuto un pugno sul naso.

– Ma scusi, dottore, ha sentito? – Sissignore.

– Dalle sette di sera. Dalle sette a mezzanotte, cinque ore.

– Precise.

– Respira però, sa! Appena appena. È tutto rattrappito, e...

– Che bellezza! Saranno... sì, aspetti, tre... no, che dico tre? cinque anni saranno almeno, che non vado in carrozza Come ci si va bene!

– Ma scusi, io le sto parlando...

– Sissignore. Ma abbia pazienza, che vuole che mi importi la storia di questo disgraziato?

– Per dirle che sono cinque ore...

– E va bene! Adesso vedremo. Crede lei che gli stia rendendo un bel servizio

– Come?

– Ma sì, scusi! Un ferimento in rissa, una tegola sul capo, una disgrazia qualsiasi... prestare ajuto, chiamare il medico, lo capisco. Ma un pover'uomo, scusi, che zitto zitto si accuccia per morire?

– Come! – ripete, vieppiú trasecolato, quel signore.

E il dottor Mangoni, placidissimo:

– Abbia pazienza. Il piú l'aveva fatto, quel poverino. Invece del pane, s'era comperato il carbone. Mi figuro che avrà sprangato l'uscio, no? otturato tutti i buchi; si sarà magari alloppiato prima; erano passate cinque ore; e lei va a disturbarlo sul piú bello!

– Lei scherza! – grida il signore.

– No no; dico sul serio.

– Oh perdio! – scatta quello. – Ma sono stato disturbato io, mi sembra! Sono venuti a chiamarmi...

Capisco, già, a teatro.

Dovevo lasciarlo morire? E allora, altri impicci, è vero? come se fossero pochi quelli che m'ha dati. Queste cose non si fanno in casa d'altri, scusi!

– Ah, sì, sì; per questa parte, sì, ha ragione, – riconosce con un sospiro il dottor Mangoni. – Se ne poteva andare a morire fuori dai piedi, lei dice. Ha ragione. Ma il letto tenta, sa! Tenta, tenta. Morire per terra come un cane... Lo lasci dire a uno che non ne ha!

– Che cosa?

– Letto.

– Lei?

Il dottor Mangoni tarda a rispondere. Poi, lentamente, col tono di chi ripete una cosa già tant'altre volte detta:

– Dormo dove posso. Mangio quando posso. Vesto come posso.

E subito aggiunge:

– Ma non creda oh, che ne sia afflitto. Tutt'altro. Sono un grand'uomo, io, sa? Ma dimissionario.

Il signore s'incuriosisce di quel bel tipo di medico in cui gli è avvenuto così per caso d'imbattersi; e ride, domandando:

– Dimissionario? Come sarebbe a dire dimissionario?

– Che capii a tempo, caro signore, che non metteva conto di nulla. E che anzi, quanto piú ci s'affanna a divenir grandi, e piú si diventa piccoli. Per forza. Ha moglie lei, scusi?

– Io? Sissignore.

– Mi pare che abbia sospirato dicendo sissignore.

– Ma no, non ho sospirato affatto.

– E allora, basta. Se non ha sospirato, non ne parliamo più.

E il dottor Mangoni torna a rannicchiarsi nel fondo della vettura, dando a vedere così che non gli pare piú il caso di seguitare la conversazione. Il signore ci resta male.

– Ma come c'entra mia moglie, scusi?

Il vetturino, a questo punto, si volta da cassetta e domanda:

– Insomma, dov'è? A momenti siamo a Campoverano!

– Uh, già! – esclama il signore. – Volta! volta! La casa è passata da un pezzo.

– Peccato tornare indietro, – dice il dottor Mangoni, – quando s'è quasi arrivati alla mèta.

Il vetturino volta, bestemmiando.

Una scaletta buja, che pare un antro dirupato: tetra umida fetida.

– Ahi! Maledizione. Diòòòdiodio!

– Che cos'è? s'è fatto male?

– Il piede. Ahiahi. Ma non ci avrebbe un fiammifero, scusi?

– Mannaggia! Cerco la scatola. Non la trovo!

Alla fine, un barlume che viene da una porta aperta sul pianerottolo della terza branca.
La sventura, quando entra in una casa, ha questo di particolare: che lascia la porta aperta, così che ogni estraneo possa introdursi a curiosare.
Il dottor Mangoni segue zoppicando il signore che attraversa una squallida saletta con un lumino bianco a petrolio per terra presso l'entrata; poi, senza chieder permesso a nessuno, un corridojo bujo, con tre usci: due chiusi, l'altro, in fondo, aperto e debolmente illuminato. Nello spasimo di quella storta al piede, trovandosi col sacco dell'ossigeno in mano, gli viene la tentazione di scaraventarlo alle spalle di quel signore; ma lo posa per terra, si ferma, s'appoggia con una mano al muro, e con l'altra, tirato su il piede, se lo stringe forte alla noce, provandosi a muoverlo in qua e in là, col volto tutto strizzato.
Intanto, nella stanza in fondo al corridojo, è scoppiata, chi sa perché, una lite tra quel signore e gl'inquilini. Il dottor Mangoni lascia il piede e fa per muoversi, volendo sapere che cosa è accaduto, quando si vede venire addosso come una bufera quel signore che grida:

– Sì, sì, da stupidi! da stupidi! da stupidi!

Fa appena a tempo a scansarlo; si volta, lo vede inciampare nel sacco d'ossigeno:

– Piano! piano, per carità!

Ma che piano! Quello allunga un calcio al sacco; se lo ritrova tra i piedi; è di nuovo per cadere e, bestemmiando, scappa via, mentre sulla soglia della stanza in fondo al corridojo appare un tozzo e goffo vecchio in pantofole e papalina, con una grossa sciarpa di lana verde al collo, da cui emerge un faccione tutto enfiato e paonazzo, illuminato dalla candela stearica, sorretta in una mano.

– Ma scusi... dico, o che era meglio allora, che lo lasciavamo morire qua, aspettando il medico?

Il dottor Mangoni crede che si rivolga a lui e gli risponde:

– Eccomi qua, sono io.

Ma quello alza e protende la mano con la stearica; lo osserva, e come imbalordito gli domanda:

– Lei? chi?

– Non diceva il medico?

– Ma che medico! ma che medico! – insorge, strillando, nella camera di là, una voce di donna.

E si precipita nel corridojo la moglie di quel degno vecchio in pantofole e papalina, tutta sussultante, con una nuvola di capelli grigi e ricci per aria, gli occhi affumicati ammaccati e piangenti, la bocca tagliata di traverso, oscenamente dipinta, che le freme convulsa. Sollevando il capo da un lato, per guardare, soggiunge imperiosa:

– Se ne può andare! se ne può andare! Non c'è piú bisogno di lei! L'abbiamo fatto trasportare al Policlinico, perché moriva!

E cozzando in un braccio il marito violentemente:

– Fallo andar via!

Ma il marito dà uno strillo e un balzo perché, così cozzato nel braccio, ha avuto sulle dita la sgocciolatura calda della candela.

– Eh, piano, santo Dio!

Il dottor Mangoni protesta, ma senza troppo sdegno, che non è un ladro né un assassino da esser mandato via a quel modo: che se è venuto, è perché sono andati a chiamarlo in farmacia; che per ora ci ha guadagnato soltanto una storta al piede, per cui chiede che lo lascino sedere almeno per un momento.

– Ma si figuri, qua, venga, s'accomodi, s'accomodi, signor dottore, – s'affretta a dirgli il vecchio, conducendolo nella stanza in fondo al corridojo; mentre la moglie, sempre col capo sollevato da un lato per guardare come una gallina stizzita, lo spia impressionata da tutta quella feroce barba fin sotto gli occhi.

– Bada, oh, se per aver fatto il bene, – dice ora, ammantata, a mo' di scusa, – ci si deve anche prendere i rimproveri!

Già, i rimproveri, – soggiunge il vecchio, cacciando la candela accesa nel bocciuolo della bugia sul tavolino da notte accanto al lettino vuoto, disfatto, i cui guanciali serbano ancora l'impronta della testa del giovinetto suicida. Quietamente si toglie poi dalle dita le gocce rapprese, e seguita: – Perché dice che nossignori, non si doveva portare all'ospedale, non si doveva.

– Tutto annerito era! – grida, scattando, la moglie. – Ah, quel visino. Pareva succhiato. E che occhi! E quelle labbra, nere, che scoprivan qua, qua, i denti, appena appena. Senza piú fiato...

E si copre il volto con le mani.

– Si doveva lasciarlo morire senza ajuto? – ridomanda placido il vecchio. – Ma sa perché s'è arrabbiato? Perché sospetta, dice, che quel povero ragazzo sia un figlio bastardo di suo fratello.

– E ce l'aveva buttato qua, – riprende la moglie balzando in piedi di nuovo, non si sa se per rabbia o per commozione. – Qua, per far nascere in casa mia questa tragedia, che non finirà per ora, perché la mia figliuola, la maggiore, se n'è innamorata, capisce? Come una pazza, vedendolo morire – ah, che spettacolo! – se l'è caricato in collo, io non so com'ha fatto! se l'è portato via, con l'ajuto del fratello, giú per le scale, sperando di trovare una carrozza per istrada. Forse l'hanno trovata. E mi guardi, mi guardi là quell'altra figliuola, come piange.

Il dottor Mangoni, entrando, ha già intraveduto nell'attigua saletta da pranzo una figliolona bionda scarmigliata intenta a leggere, coi gomiti sulla tavola e la testa tra le mani. Legge e piange, sì; ma col corpetto sbottonato e le rosee esuberanti rotondità del seno quasi tutte scoperte sotto il lume giallo della lampada a sospensione.
Il vecchio padre, a cui il dottor Mangoni ora si volta come intronato, fa con le mani gesti di grande ammirazione. Sul seno della figliuola? No. Su ciò che la figliuola sta leggendo di là fra tante lagrime. Le poesie del giovinetto.

– Un poeta! – esclama. – Un poeta, che se lei sentisse... Oh, cose! cose! Me ne intendo, perché professore di belle lettere a riposo. Cose grandi, cose grandi.

E si reca di là per prendere alcune di quelle poesie: ma la figliuola con rabbia se le difende, per paura che la sorella maggiore, ritornando col fratello dall'ospedale, non gliele lascerà piú leggere, perché vorrà tenersele per sé gelosamente, come un tesoro di cui lei sola dov'essere l'erede.

– Almeno qualcuna di queste che hai già lette, – insiste timidamente il padre.

Ma quella, curva, con tutto il seno su le carte, pesta un piede e grida: – No! – Poi le raccoglie dalla tavola, se le ripreme con le mani sul seno scoperto e se le porta via in un'altra stanza di là.
Il dottor Mangoni si volta allora a guardar di nuovo quella tristezza di lettino vuoto, che rende vana la sua visita; poi guarda la finestra che, non ostante il gelo della notte, è rimasta aperta in quella lugubre stanza per farne svaporare il puzzo del carbone.
La luna rischiara il vano di quella finestra. Nella notte alta, la luna. Il dottor Mangoni se la immagina, come tante volte, errando per vie remote, L'ha veduta, quando gli uomini dormono e non la vedono piú, inabissata e come smarrita nella sommità dei cieli.
Lo squallore di quella stanza, di tutta quella casa, che è una delle tante case degli uomini, dove ballonchiano tentatrici, a perpetuare l'inconcludente miseria della vita, due mammelle di donna come quelle ch'egli ha or ora intravedute sotto il lume della lampada a sospensione nella stanza di là, gl'infonde un così frigido scoraggiamento e insieme una così acre irritazione, che non gli è piú possibile rimanere seduto.
Si alza, sbuffando, per andarsene. Infine, via, è uno dei tanti casi che gli sogliono capitare, stando di guardia nelle farmacie notturne. Forse un po' piú triste degli altri, a pensare che probabilmente, chi sa! era un poeta davvero quel povero ragazzo. Ma, in questo caso, meglio così: che sia morto.

– Senta, – dice al vecchio che s'è alzato anche lui per riprendere in mano la candela. – Quel signore che li ha rimproverati e che è venuto a scomodarmi in farmacia, dov'essere veramente un imbecille. Aspetti: mi lasci dire. Non già perché li ha rimproverati, ma perché gli ho domandato se aveva moglie, e mi ha risposto di sì; ma senza sospirare. Ha capito?

Il vecchio lo guarda a bocca aperta. Evidentemente non capisce. Capisce la moglie, che salta su a domandargli:

– Perché chi dice d'aver moglie, secondo lei, dovrebbe sospirare?

E il dottor Mangoni, pronto:

– Come m'immagino che sospira lei, cara signora, se qualcuno le domanda se ha marito.

E glielo addita. Poi riprende:

– Scusi, a quel giovinetto, se non si fosse ucciso, lei avrebbe dato in moglie la sua figliuola?

Quella lo guarda un pezzo, di traverso, e poi, come a sfida, gli risponde:

– E perché no?

– E se lo sarebbero preso qua con loro in questa casa? – torna a domandare il dottor Mangoni.

E quella, di nuovo:

– E perché no?

– E lei, – domanda ancora il dottor Mangoni, rivolto al vecchio marito, – lei che se n'intende, professore di belle lettere a riposo, gli avrebbe anche consigliato di stampare quelle sue poesie?

Per non esser da meno della moglie, il vecchio risponde anche lui:

– E perché no?

E allora, – conclude il dottor Mangoni, – me ne dispiace, ma debbo dir loro, che sono per lo meno due volte piú imbecilli di quel signore.

E volta le spalle per andarsene.

– Si può sapere perché? – gli grida dietro la donna inviperita.

Il dottor Mangoni si ferma e le risponde pacatamente:

– Abbia pazienza. Mi ammetterà che quel povero ragazzo sognava forse la gloria, se faceva poesie. Ora pensi un po' che cosa gli sarebbe diventata la gloria, facendo stampare quelle sue poesie. Un povero, inutile volumetto di versi. E l'amore? L'amore che è la cosa piú viva e piú santa che ci sia dato provare sulla terra? Che cosa gli sarebbe diventato? L'amore: una donna. Anzi, peggio, una moglie: la sua figliuola.

– Oh! oh! – minaccia quella, venendogli quasi con le mani in faccia. – Badi come parla della mia figliuola!

– Non dico niente, – s'affretta a protestare il dottor Mangoni. – Me l'immagino anzi bellissima e adorna di tutte le virtú. Ma sempre una donna, cara signora mia: che dopo un po', santo Dio, lo sappiamo bene, con la miseria e i figliuoli, come si sarebbe ridotta. E il mondo, dica un po'? Il mondo, dove io adesso con questo piede che mi fa tanto male mi vado a perdere; il mondo veda lei, veda lei, signora cara, che cosa gli sarebbe diventato! Una casa. Questa casa. Ha capito?

E facendo scattar le mani in curiosi gesti di nausea e di sdegno, se ne va, zoppicando e borbottando:

– Che libri! Che donne! Che casa! Niente... niente. niente... Dimissionario! dimissionario! Niente.

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Quante volte (Holan)

Post n°949 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Quante volte già hai passeggiato, così, vicino a un orologio
o sotto una stenta acacia, cercando con gli occhi,
ma la sembianza dell'una o dell'altra s'altera facilmente...
Nei sensi la fatalità e in echi d'anima
conoscesti la paura della morte,
ecco che cos'è aspettare... Così dopo
sono reali soltanto gli spettri... Ma la gelosia
non ha chi la difenderebbe...

 
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Libri dimenticati:Peccatori di provincia

Post n°948 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Gabriel Chevallier con i suoi libri,di cui questo è il primo ci porta in un paesino del Beaujolais,Clochemerle, pieno di personaggi molto pittoreschi.
E' un libro umoristico,da leggere d'un fiato

 
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Frase del giorno

Post n°947 pubblicato il 09 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Non datemi consigli so sbagliare da sola!!!

 
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