Messaggi del 10/10/2011

Se Steve fosse nato in provincia di Napoli (Antonio Menna)

Post n°961 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Mettiamo che Steve Jobs sia nato in provincia di Napoli. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi.

Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare.

Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”.

I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano.

Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi?

Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista a Napoli che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”.

I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare.

Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”.

Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro.

Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”.

I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti.

La Apple in provincia di Napoli non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più

 
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L'isola dei nasi neri

Post n°960 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nei miei viaggi intorno al globo, una volta capitai nell’isola di Neronia, dove, per legge, tutti i cittadini dovevano avere il naso nero. Ma nero: color del carbone, dell’inchiostro, dei pull-over antracite che usano adesso, della divisa degli arbitri nelle partite di calcio.
Sulle prime, girando per le strade di Neronia, capitale dell’isola di Neronia, pensai che fosse Carnevale: la gente aveva facce normali, di colore normale, chi con la pelle bianca, che un po’ più abbronzata dal sole, chi rosea; ma in mezzo alla faccia tutti quanti portavano un naso che pareva uscito da una scatola di lucido per le scarpe.
Entrai in un’osteria e all’oste, che aveva naturalmente un naso più nero delle sue bottiglie, domandai allegramente:
- Non avete per caso un po’ di tintura verde?
- Signore, - mi disse, - se siete del paese, fareste bene a non scherzare; se siete forestiero accettate un mio consiglio: tingetevi subito il naso di nero oppure ripigliate la strada dalla quale siete venuto e allontanatevi senza guardarvi indietro.
- Sono un forestiero, - risposi. – Ma non me ne andrò. Anzi, questa faccenda dei nasi neri mi interessa moltissimo, e se non me la spiegherete, mi metterò sulla porta della vostra osteria per attirare l’attenzione delle guardie.
- Per carità, - esclamò l’oste, congiungendo le mani, - non fate una cosa simile, o mi toccherà di chiudere bottega. Dovete sapere che nell’isola di Neronia esiste una legge antichissima, la quale stabilisce che tutte le persone debbono avere il naso nero.
- E che cosa succede se uno, la mattina, non si ricorda di farsi il naso nero?
- Il meno che gli possa capitare è di essere arrestato e condannato a cento frustate sul naso. Naturalmente perde anche il posto di lavoro ed è ridotto a chiedere l’elemosina. Se poi è trovato una seconda volta senza naso nero, viene rinchiuso in prigione per il resto della vita, e ci rimane anche dopo morto, perché nella prigione c’è anche il cimitero.
- E voi tollerate tutto questo?
-I o faccio l’oste, caro signore: io bado agli affari miei. Ogni sera faccio i conti: tanto le spese, tanto il guadagno. Che cosa m’importa del colore del mio naso?
Lascia l’oste al suo destino e ai suoi conti e me ne andai a spasso per l’isola, col mio naso color naso. La gente, dopo un primo rapido sguardo pieno di terrore, fingeva di non vedermi, oppure fingeva di esser in un altro posto, o addirittura fingeva che io non esistessi, e guardava attraverso il mio corpo come se fosse trasparente.
A mezzogiorno in punto una guardia mi arrestò.
- Cittadino, - mi disse severamente, - siete in contravvenzione. Seguitemi.
Una piccola folla si era raccolta attorno a noi. Proprio in quel momento cominciò a piovere.
In pochi istanti la pioggia fece colare la tintura dai nasi, che, non essendo mai stati esposti al sole, apparvero bianchi come usciti dal bucato.
- Anche voi siete in contravvenzione, - dissi io alla guardia. –Il vostro naso è più bianco del mio.
- E’ vero, - disse un ragazzetto anche vendeva i giornali. –Anche la guardia ha il naso bianco. Tutti abbiamo il naso bianco.
- Per l’amore del cielo, - cominciò a pregare la guardia, - io ho famiglia, ho cinque figli da mantenere. Non fatemi perdere il posto. Seguitemi.
- Seguite me, invece, - gridai alla folla.
- Andiamo davanti al palazzo del Re a mostrare i nostri nasi bianchi.
- Andiamo, - gridò il ragazzetto, gridarono altri con lui, gridò tutta la folla.
- Basta coi nasi neri! - gridò qualcuno.
Fu così che cominciò la rivoluzione di Neronia: in poche ore le strade furono gremite di gente col naso bianco, il Re e i suoi ministri scapparono, l’oste giurò che sempre, quando andava in cantina a mettere il vino nei fiaschi, si era tolto la tintura dal naso, le guardie affittarono i bambini dei vicini per mostrare che avevano tanti figli da mantenere.
E io, ancora adesso, ho un dubbio: sarà stato merito della pioggia improvvisa, o sarà stato merito di quell’unico cittadino, forestiero, per giunta, che ebbe il coraggio di mostrare il suo naso bianco anche prima, quando splendeva il sole?



 
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Il re che voleva la luna

Post n°959 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

In un regno molto lontano viveva un re molto ricco ma anche molto avaro: voleva sempre tutto per se!
Un giorno decise di donare metà di tutte le sue ricchezze a chi gli avrebbe portato la luna.
Nessuno aveva prestato ascolto a questa proposta se non tre pescatori che si misero in viaggio .
Naviga e naviga una bella notte raggiunsero il punto nel quale la luna cade nel mare per riposare , e i tre pescatori astuti e assai veloci la rinchiusero dentro un sacco.
Le notti successive tutti gli abitanti della terra si chiesero dove fosse finita la luna, alcuni dicevano perfino che fosse caduta per sempre nel mare.
Nel frattempo i tre pescatori avevano raggiunto la terra ferma e chiedevano a tutti dove si trovasse il regno di quel re che voleva la luna.
La gente li scherniva e loro impauriti cercavano di nascondere come meglio potevano il loro bottino.
Ma un notte la luna cominciò a risplendere in maniera meravigliosa e, nonostante tutti i nascondigli, emanava una luce troppo forte.
La gente al vedere quella luce si rallegrò e molte persone cominciarono a cercarla.
Capirono il tranello dei tre pescatori ladri, li rincorsero e li presero .
Scovarono il nascondiglio della luna che tornò a illuminare il cielo.
Ed anche ora tutte le notti quando è piena, ride come una pazzerellona.

 
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La leggenda dell'albero di Natale

Post n°958 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

In un remoto villaggio di campagna, la Vigilia di Natale, un bambino si recò nel bosco alla ricerca di un ceppo di quercia da bruciare nel camino, come voleva la tradizione, nella notte Santa.
Si attardò più del previsto e, sopraggiunta l'oscurità, non seppe ritrovare la strada per tornare a casa. Per giunta incominciò a cadere una fitta nevicata.
Il bimbo si sentì assalire dall'angoscia e pensò a come, nei mesi precedenti, aveva atteso quel Natale, che forse non avrebbe potuto festeggiare.
Nel bosco, ormai spoglio di foglie, vide un albero ancora verdeggiante e si riparò dalla neve sotto di esso: era un abete.
Sopraggiunta una grande stanchezza, il piccolo si addormentò raggomitolandosi ai piedi del tronco e l'albero, intenerito, abbassò i suoi rami fino a far loro toccare il suolo in modo da formare come una capanna che proteggesse dalla neve e dal freddo il bambino.
La mattina si svegliò, sentì in lontananza le voci degli abitanti del villaggio che si erano messi alla sua ricerca e, uscito dal suo ricovero, poté con grande gioia riabbracciare i suoi compaesani.
Solo allora tutti si accorsero del meraviglioso spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi: la neve caduta nella notte, posandosi sui rami frondosi, che la piana aveva piegato fino a terra. Aveva formato dei festoni, delle decorazioni e dei cristalli che, alla luce del sole che stava sorgendo, sembravano luci sfavillanti, di uno splendore incomparabile.
In ricordo di quel fatto, l'abete venne adottato a simbolo del Natale e da allora in tutte le case viene addobbato ed illuminato, quasi per riprodurre lo spettacolo che gli abitanti del piccolo villaggio videro in quel lontano giorno.
Da quello stesso giorno gli abeti nelle foreste hanno mantenuto, inoltre, la caratteristica di avere i rami pendenti verso terra.

 
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La paura (Pirandello)

Post n°957 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Si ritrasse dalla finestra con un atto e un’esclamazione di sorpresa; posò sul tavolinetto il lavoro a uncino che aveva in mano, e andò a chiudere, in fretta, ma cauta, l’uscio che metteva quella camera in comunicazione con le altre; poi attese mezzo nascosta dalla tenda dell’altro uscio su l’entrata.

- Già qui? - disse piano, contenta, levando le braccia al petto erculeo di Antonio Serra, lei gracile, piccola, col volto proteso per ricever subito il solito bacio furtivo.

Ma l’uomo si schermì, turbato.

- Non sei solo? - domandò, ricomponendosi a un tratto, Lillina Fabris. - Dov’hai lasciato Andrea?

- Son tornato prima, stanotte... - rispose con tono ruvido il Serra, e aggiunse, come per mitigar la prima espressione: - Con una scusa... Era vero, per altro: dovevo trovarmi qui di mattina, per affari...

- Non m’hai detto nulla... - lo rimproverò ella dolcemente. - Potevi avvisarmene... Che hai?

Il Serra la guardò quasi odiosamente negli occhi; poi, a bassa voce, ma vibrata, proruppe:

- Che? Temo che tuo marito sospetti di noi...

Ella restò, come se un fulmine le fosse caduto da presso; e, con stupore pieno di spavento:

- Andrea? Come lo sai? Ti sei tradito?

- No, tutti e due, se mai! - s’affrettò egli a rispondere. - La sera della partenza...

- Qui?

- Sì; mentr’egli scendeva... Andrea scendeva innanzi a me, te ne ricordi? con la valigia... Tu facevi lume dalla porta, è vero? e io nel passare...

Lillina Fabris si portò ambo le mani sul volto; poi le scosse in aria:

- Ci ha visti?

- M’è parso che si sia voltato, scendendo... - aggiunse egli con voce arida e cupa. - Non ti sei accorta di nulla tu?

- Io no, di nulla! Ma dov’è? Andrea dov’è?

Il Serra, come se non avesse udito la domanda angosciosa della piccola amante, di cui non aveva mai intuito la grandezza dell’animo e dell’amore, riprese cupamente: - Dimmi: m’ero messo a scendere, quand’egli ti chiamò?

- E mi salutò! - esclamò ella. - Anche con la mano... Fu dunque nello svoltare dal pianerottolo giù?

- No, prima... prima...

- Ma se ci avesse visti...

- Intravisti, se mai... Un attimo!

- E t’ha lasciato venir prima? - rispose ella con crescente angoscia... - Ma sei ben sicuro che non è partito?

- Sicurissimo! Di questo, sicurissimo... E prima delle undici non c’è altra corsa dalla città...

Guardò l’orologio, e si rabbuiò in volto.

- Sta per venire... E intanto noi... in questa incertezza... sospesi così in un abisso...

- Taci, taci, per carità! - pregò ella. - Calma... Dimmi tutto... Che hai fatto? Voglio saper tutto.

- Che vuoi che ti dica? In questo stato, le cose più insignificanti ti sembrano allusioni; ogni sguardo, un cenno...

- Calma... calma... - ripeté ella.

- Sì, calma: trovala!

E il Serra si mise a passeggiare per la stanza, storcendosi le mani. Poco dopo riprese, fermandosi:

- Qui, ti ricordi? prima di partire, discutevamo io e lui su la maledetta faccenda da sbrigare in città... Lui s’accalorava...

- Sì, ebbene?

- Appena in istrada, Andrea non parlò più: andava a capo chino; lo guardai, era turbato, le ciglia aggrottate... «S’è accorto!» pensai. E non parlavo: temevo che la voce mi tremasse; tremavo tutto... Ma, a un tratto, con aria semplice, naturale, nella fresca tranquillità della notte, per via: «Triste, è vero.», mi fa «viaggiar di sera, lasciar di sera la casa...»

- Così?

- Sì. Gli sembrava triste anche per chi resta... Poi, una frase... (sudai freddo!): «Licenziarsi a lume di candela su una scala...».

- Ah questo... come lo disse? - esclamò ella colpita.

- Con la stessa voce... - rispose il Serra - naturalmente... Io non so; lo faceva a posta! Mi parlò dei bambini che aveva lasciati a letto, addormentati; ma non con quella amorevolezza semplice che rassicura... - e di te.

- Di me?

- Sì, ma mi guardava.

- Che disse? - domandò ella tutta sospesa.

- Che tu ami molto i suoi bambini...

- Nient’altro?

- In treno, ripigliò il discorso sulla lite da trattare... Mi domandò dell’avocado Gorri, se lo conoscevo.

- Zitto! - lo interruppe ella, pronta.

Entrò la serva a domandar se era tempo d’andare pei bambini mandati quella mattina dai nonni paterni. Non doveva ritornare quel giorno il padrone? Le vetture erano già partite per la stazione.
Lillina, indecisa, rispose alla serva che attendesse ancora un poco, e che intanto finisse d’apparecchiare di là. Rimasti novamente soli, si guardarono smarriti; e lui ripeté:

- Sarà qui tra poco...

Ella gli strinse forte il braccio, rabbiosamente:

- Ma dimmi qualche cosa! Non hai saputo accertarti di nulla? È mai possibile che lui, così violento, col sospetto nell’anima, abbia saputo fingere in tal modo con te?

- Eppure... - fece egli battendo le mani. - Che la mia diffidenza m’abbia reso insensato fino a tal segno? Più volte, vedi, attraverso le sue parole m’è parso di legger qualcosa... Un momento dopo mi dicevo rinfrancandomi: «No, è la paura!».

- Paura, tu?

- Io, sì! Perché egli ha ragione... - dichiarò, nella sua grossezza, il Serra con la spontaneità del più naturale convincimento. - L’ho studiato, spiato tutti i momenti: come mi guardava, come mi parlava... Sai ch’egli non è solito di parlar molto... eppure, in questi tre giorni, avessi inteso! Spesso però si chiudeva a lungo in un silenzio inquieto; ma ne usciva, ogni volta, ripigliando il discorso sul suo affare. «Era preoccupato di questo?», allora mi domandavo, «o di ben altro? Forse ora mi parla per dissimularmi il sospetto...» Una volta mi parve finanche che non avesse voluto stringermi la mano... Bada, s’accorse che gliela porgevo: si finse distratto; era un po’ strano veramente - fu il domani della nostra partenza. Fatti due passi, mi richiamò. «S’è pentito!» notai subito. E infatti disse: «Oh, scusa... dimenticavo di salutarti! Fa lo stesso...». Mi parlò altre volte di te, della casa; ma senz’alcuna intenzione apparente... Mi pareva tuttavia che evitasse di guardarmi in faccia... Spesso ripeteva tre, quattro volte la stessa frase, senza senso comune... come se pensasse ad altro... E mentre parlava di cose aliene, a un tratto, trovava modo d’entrar bruscamente a riparlarmi di te o dei bambini, figgendomi gli occhi negli occhi, e mi faceva qualche interrogazione... Ad arte? chi sa! sperava di sorprendermi? Rideva; ma con una gaiezza brutta nello sguardo...

- E tu? - domandò ella pendendo dalle labbra di lui.

- Io? sempre sull’attenti... Lillina Fabris scosse il capo con sdegno iroso: - Si sarà accorto della tua diffidenza... - Se sospettava di già! - fece egli, scrollando le grosse spalle.

- Si sarà confermato nel sospetto! - rimbeccò lei. - Poi, null’altro?

- Sì... la prima notte, all’albergo... - riprese avvilito il Serra. - Ha voluto prendere una stanza in comune, con due letti. Eravamo coricati da un pezzo... s’accorse che non dormivo, cioè... s’accorse, no: eravamo al buio! - lo suppose. E bada... figurati! io non mi movevo - lì di notte... nella stessa camera con lui, e col sospetto ch’egli sapesse... - figurati! tenevo gli occhi sbarrati nel buio, in attesa... chi sa! per difendermi, se mai... A un menomo atto, sarei balzato dal letto... E allora... Ma, capisci? vita per vita, meglio la sua che la mia... A un tratto, nel silenzio, sento proferire queste precise parole: «Tu non dormi».

- E tu?

- Nulla. Non risposi. Finsi di dormire. Poco dopo egli ripeté: «Tu non dormi». Io allora lo chiamai. «Hai parlato?» gli domandai. E lui: «Sì, volevo sapere se dormissi». Ma non è vero, non interrogava sai, dicendo: «Tu non dormi», proferiva la frase con la certezza ch’io non dormivo, ch’io non potevo dormire... capisci? O almeno, m’è parso così...

- Null’altro? - ridomandò ella.

- Null’altro... Non ho chiuso occhio due notti.

- Poi, con te, sempre lo stesso?

- Sì, lo stesso...

Ella stette un po’ a pensare, con gli occhi appuntati nel vuoto; poi disse lentamente come a se stessa:

- Tutte queste finzioni... lui!... Se ci avesse visti...

- Eppure s’è voltato, scendendo... - obbiettò il Serra

Ella lo guardò negli occhi un tratto, come se non avesse inteso.

Sì, ma non si sarà accorto di nulla! Possibile? Nel dubbio... - fece egli.

- Anche nel dubbio! Non lo conosci... Dominarsi così lui, da non lasciare trapelar nulla... Che sai tu? - Nulla! Ammetti pure, che ci abbia visti, mentre tu passavi e ti chinavi verso me... Se fosse nato in lui il menomo sospetto... che mi avessi baciata... ma sarebbe risalito... oh, sì!, pensa, pensa come saremmo rimasti!... No, senti, no: non è possibile! Hai avuto paura, nient’altro! Paura, tu, Antonio!... No, no, egli non ha potuto pensar male... Non ha ragione di sospettar di noi: mi hai trattata sempre familiarmente innanzi a lui...

Rallegrato internamente dall’improvvisa fiducia concepita dall’amante, il Serra volle tuttavia insistere nel dubbio angoscioso per il piacere d’essere maggiormente rassicurato da lei:

- Sì; ma il sospetto può nascere da un momento all’altro. Allora, capisci?, mille altri fatti avvertiti appena, tenuti in nessun conto, si colorano improvvisamente; ogni accenno indeterminato diventa una prova; poi il dubbio, certezza: ecco il mio timore.. .

- Bisogna esser cauti... - rispose ella.

Deluso, il Serra provò un senso d’irritazione contro l’amante:

- Ora? Te l’ho sempre detto!

Ella lo guardò sdegnosa:

- Mi rinfacci adesso?

- Non rinfaccio nulla! - rispose egli vieppiù irritato. - Ma puoi negare che tante volte t’ho detto: Bada! E tu...

- Sì... Sì... - confermò ella, come nauseata.

- Non so che gusto ci sia - continuò egli - a lasciarsi scoprire così... per nulla... per una imprudenza da nulla... come tre sere fa... Sei stata tu...

- Sempre io, sì...

- Se non era per te!

- Sì, - fece ella alzandosi con un ghigno di scherno - la paura!

Sferzato, il Serra irruppe:

- Ma ti pare che ci sia da stare allegri, tu e io? tu, specialmente!

Si rimise a passeggiar per la stanza, fermandosi di tratto in tratto e parlando quasi tra sé:

- La paura... Credi che non pensi anche a te? La paura... Ci fidavamo troppo, ecco! Sì, e adesso tutte le nostre imprudenze, tutte le nostre pazzie mi saltano agli occhi, vedi, e mi domando, com’ha fatto a non sospettar di nulla finora...

Colpita dall’accusa dell’amante, ella si portò le mani al volto e confermò:

- È vero... è vero... lo abbiamo troppo ingannato...

Stettero un lungo tratto in silenzio; poi riaprendo il volto, ella riprese:

- Mi rimproveri adesso? È naturale! Sì, ho ingannato un uomo che si fidava di me, più che di se stesso. Sì, e la colpa è mia, infatti.

- Non ho voluto dir questo - diss’egli sordamente, continuando a passeggiare.

- Ma sì, ma sì... - riprese ella con febbre, andandogli incontro. - Lo so, e guarda, puoi anche aggiungere che con lui ero fuggita da casa mia, sì, e che lo spinsi io, quasi, a fuggire - io, perché lo amavo, sì - e poi l’ho tradito con te! È giusto che ora tu mi condanni, giustissimo! Ma io, senti, io ero fuggita con lui perché lo amavo, non per trovare qui tutta questa quiete, tutta questa agiatezza in una nuova casa: avevo la mia; non sarei andata via con lui... Ma egli si sa, doveva scusarsi innanzi agli altri della leggerezza a cui s’era lasciato andare, egli uomo serio, posato... Eh già! la follia era commessa: rimediarvi, adesso! riparare, e subito! Come? Col darsi tutto al lavoro, col rifarmi una casa ricca, piena d’ozio... Così, ha lavorato come un facchino; non ha pensato che a lavorare, sempre; senza desiderare mai altro da me che la lode per la sua operosità, per la sua onestà... e la mia gratitudine, anche! Già, perché sarei potuta capitar peggio!... Era un uomo onesto, lui; mi avrebbe rifatta ricca, lui, come prima, più di prima... A me, questo, a me che ogni sera lo aspettavo impaziente, felice del suo ritorno... Tornava a casa stanco, affranto, contento della sua giornata di lavoro, preoccupato già delle fatiche del domani... Ebbene, alla fine, mi sono stancata anch’io di dover quasi trascinar quest’uomo ad amarmi per forza, a rispondere per forza al mio amore. La stima, la fiducia, l’amicizia del marito pajono insulti alla natura in certi momenti... E tu te ne sei approfittato, tu che ora mi rinfacci l’amore e il tradimento, ora che il pericolo è venuto, e hai paura, lo vedo: hai paura! Ma tu che perdi? Mentre io...

- Consigli a me la calma! - disse freddamente il Serra. - Ma se ho paura... è pure per te... pe’ tuoi figli...

- I miei figli, tu, non nominarli! - gli gridò ella ferita, con gli occhi lampeggianti d’odio. - Innocenti! - soggiunse poi, rompendo in lacrime.

Il Serra la guardò un pezzo, poi più urtato che turbato, disse:

- Adesso piangi... Me ne vado...

- Ora? ora? - singhiozzò ella. - Si sa, ora non hai più nulla da far qui...

- Sei ingiusta! - riprese egli pigiando su le parole. - T’ho amata, come tu mi hai amato, lo sai! T’ho consigliato prudenza: ho fatto male? Più per te, che per me: sì, perché io, nel caso, non perderei nulla - lo hai detto tu... Su, su, Lillina... rimettiti... È inutile adesso ogni recriminazione... Egli non saprà nulla; tu lo credi, e sarà così... Anche a me ora par difficile ch’egli si sia potuto dominare fino a tal segno... Non si sarà accorto... e così... su, su... nulla è finito... Noi saremo...

- Ah, no! - lo interruppe ella alteramente. - No! come vuoi, ormai? No, è meglio finirla...

- Come credi... - fece il Serra semplicemente.

- Ecco il tuo amore! - esclamò ella indignata.

Il Serra le venne incontro quasi minaccioso: - Ma vuoi farmi impazzire?

- No, è meglio veramente finirla... - riprese ella - e fin da ora; qualunque cosa sia per accadere. Tra noi tutto è finito. Senti, e sarebbe anche meglio, ch’egli sapesse ogni cosa... Meglio, meglio, sì! Che vita è la mia? Te la immagini? Non ho più diritto d’amar nessuno io! Neanche i figli miei... Se mi chino per dar loro un bacio, mi par che l’ombra della mia colpa si projetti su le loro fronti immacolate! No... no... Mi torrebbe di mezzo? Lo farei io, se non lo fa lui!

- Adesso non ragioni più... - disse egli placido e duro.

- Davvero! - continuò Lillina. - L’ho sempre detto! È troppo... è troppo... Non mi resta più nulla, ormai...

Poi, facendo forza a se stessa per rimettersi, soggiunse:

- Va’, va’ adesso... ch’egli non ti trovi qui...

- Come... debbo andare? - fece il Serra perplesso. - Lasciarti? Ero venuto a posta... Non è meglio che io...

- No, - lo interruppe ella - qui non deve trovarti. Torna però, quand’egli verrà, da qui a poco. La maschera dobbiamo portarla ancora insieme. Torna presto, e calmo, indifferente... non così! Parlami innanzi a lui, rivolgiti spesso a me... intendi? Io ti seconderò...

- Sì... sì...

- presto. Ma... se mai...

- Se mai?

Ella stette soprappensiero un tratto; poi, scrollando le spalle:

- Nulla, tanto...

- Che cosa? - domandò il Serra confuso.

- Nulla... nulla... Ti dico: addio!

- Ma dunque, davvero... - si provò egli a dire.

- Va’ via! - lo interruppe subito ella sprezzante.

E il Serra andò via promettendo:

- A tra poco.

Ella restò in mezzo alla stanza, con gli occhi appuntati biecamente, come in un pensiero truce, che assumesse forma d’immagine reale innanzi a lei. Poi scosse il capo ed esalò l’interna ambascia in un sospiro di stanchezza desolata. Si stropicciò forte la fronte, ma non riuscì a scacciare il pensiero dominante. Andò un po’, inquieta, per la stanza; si fermò innanzi a uno specchio a bilico in fondo, presso l’uscio; la propria immagine riflessa dallo specchio la distrasse, e si allontanò. Andò a sedere innanzi al tavolinetto da lavoro, e vi si piegò sopra, col volto nascosto tra le braccia; poco dopo rialzò il capo mormorando:

- Non avrebbe risalito la scala? con una scusa... Mi avrebbe trovata lì... dietro la finestra a guardare...

Scosse di nuovo la testa, atteggiando il volto a sprezzo e nausea, e aggiunse:

- Se non fu la paura... Ha tanta paura! Ah, ma ora è finita... È finita... Dio, ti ringrazio! I miei bambini.. i miei bambini... Povero Andrea!

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La musica (Baudelaire)

Post n°956 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Spesso è un mare, la musica, che mi prende ogni senso!
A un bianco astro fedele,
sotto un tetto di brume o nell'etere immenso,
io disciolgo le vele.

Gonfi come una tela i polmoni di vento,
varco su creste d'onde,
e col petto in avanti sui vortici m'avvento
che il buio mi nasconde.

D'un veliero in travaglio la passione mi vibra
in ogni intima fibra;
danzo col vento amico o col pazzo ciclone
sull'infinito gorgo.

Altre volte bonaccia, grande specchio ove scorgo
la mia disperazione!

 
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Libri dimenticati:In nome dei miei

Post n°955 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

La storia di Martin Grey,reduce dal Ghetto di Varsavia e dai campi ,delle sue tragedie familiari e della sua voglia di vivere nonostante tutto

 
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Frase del giorno

Post n°954 pubblicato il 10 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Usque tandem???

 
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