Messaggi del 18/10/2011

Al peggio non c'è fine

Post n°1014 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Mai frase fu più vera,lettori miei!
Avevamo già avuto la nostra razione di spogliarellisti ("Pandemonio a S.Tobia")ma non bastava,se mi devo ancora occupare di quest'argomento.
Tutto è iniziato quando Bernabò Trogoloni è venuto a sapere che a Monsummano si sarebbe disputato il primo Festival degli spogliarellisti ed ha pensato bene di contattare altri 4 bei tomi par suo,costituire un gruppo e partire verso la gloria.
Dato che a S.Tobia i grulli abbondano,è nato il fantastico gruppo "Gli zozzoni ruspanti",costituito da lui,Leone,Orestino,Evaristo e (tocco esotico) Ayomama,emigrato da Tukambakabalodisotto al nostro paesino (eh,di bischeri non ne avevamo abbastanza).
Per i nostri è stato un gioco da ragazzi superare le selezioni e guadagnarsi la finalissima.
Tutto bene? Sì,se non fosse stato che la moglie dell'organizzatore e presentatore del festival Protesilao Frollocconi (uno dei 56 nipoti dell'Ildebrando) non fosse la migliore amica dell'Armida e non le avesse raccontato tutto quanto e anche altro.
L'Armida ha immediatamente allertato la famiglia,la Bradamante,i genitori di Leone,la Marianna e ireneo,che ha telefonato alla direttrice della missione di Tukambakabalo,suor Hildegard Asinonen (per gli amici Adolf).
La sera della finalissima i nostri hanno stravinto ed al momento della premiazione è cascato l'asino.
Urlando pittoreschi improperi in swahili (che Adolf,anche lei della partita,traduceva a beneficio del popolo ciuco),sul palcoscenico è piombata la mamma di Ayomama armata di zagaglia.La gentile signora si è accinta a levare di mezzo il frutto del suo ventre e i suoi compagni.
Il Frollocconi ha provato a chiamare la sicurezza,ma quelli erano tenuti a bada dai 15 ringhiosissimi,pelosissimi e pulciosissimi cani di Geppo,nonchè da Belva.Cagliostro e la gatta.
Dalla quinta di sinistra è comparso Cesarone con in groppa la Bradamante armata di schioppo,da quella di destra sono sbucati la Sargenta e l'Anarchico con un piccone per uno in mano,mentre dalla platea,armati di forcone,arrivavano Teobaldo e la cesira.
Quando Ireneo,con un assordante fischio alla pecoraia,ha dato il segnale di carica, tutti quanti somno zompati sul palco,scatenando un parapiglia pazzesco.
Per sedare gli animi ci sono voluti 70 agenti in tenuta antisommossa.
E' passata una settimana.
Ayomama è stato riportato a Tukambakabalo ed ha dovuto sposare la figlia del capotribù,una cicciona di 140 kg,sdentata e dall'alito mefitico.Avrebbe voluto ribellarsi,ma l'alternativa era l'abbraccio di un boa constrictor,quindi ha dovuto cedere.
Leone,Bernabò,Orestino ed Evaristo sono stati impiumati e impeciati e costretti a mangiare 10 teglie di pastone dle porco a testa.
Le loro amorevoli madri li hanno poi condannati a un anno di domiciliari nella stalla di Cesarone,guardati a vista dai cani di Geppo.
Conoscendo le 16 bestiacce,la vedo molto nera
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia



 
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Il re Mida

Post n°1013 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Il re Mida era un grande spendaccione, tutte le sere dava feste e balli, fin che si trovò senza un centesimo.
Andò dal mago Apollo, gli raccontò i suoi guai e Apollo gli fece questo incantesimo:
-Tutto quello che le tue mani toccano deve diventare oro.
Il re Mida fece un salto per la contentezza e tornò di corsa alla sua automobile, ma non fece in tempo a toccare la maniglia della portiera che subito la macchina diventò tutta d'oro: ruote d'oro, vetri d'oro, motore d'oro. Era diventata d'oro anche la benzina, così la macchina non camminava più e bisognò far venire un carro coi buoi per trasportarla.
Appena a casa il re Mida andava in giro per le stanze a toccare più cose che poteva, tavoli, armadi, sedie, e tutto diventava d'oro.
A un certo punto ebbe sete, si fece portare un bicchiere d'acqua, ma il bicchiere diventò d'oro, l'acqua pure, e se volle bere dovette lasciarsi imboccare dal suo servo col cucchiaio.
Venne l'ora di andare a tavola. Toccava la forchetta e diventava d'oro e tutti gli invitati battevano le mani e dicevano:
- Maestà, toccatemi i bottoni della giacca, toccatemi questo ombrello.
Il re Mida li faceva contenti, ma quando prese il pane per mangiare anche quello diventò d'oro e se volle cavarsi l'appetito dovette farsi imboccare dalla regina.
Gli invitati si nascondevano sotto il tavolo a ridere e il re Mida si arrabbiò, ne acchiappò uno e gli fece diventare d'oro il naso, così non poteva più soffiarselo.
Venne l'ora di andare a dormire, ma il re Mida, senza volerlo, toccò il cuscino, toccò le lenzuola e il materasso, diventarono d'oro massiccio ed erano troppo duri per dormirci. Gli toccò di passare la notte seduto su una poltrona, con le braccia alzate per non toccare niente, e la mattina dopo era stanco morto.
Corse subito dal mago Apollo per farsi disfare l'incantesimo, e Apollo lo accontentò.
- Va bene, - gli disse, - ma sta' bene attento, perché per far passare l'incantesimo ci vogliono sette ore e sette minuti giusti, e in questo tempo tutto quello che toccherai diventerà cacca di mucca.
Il re Mida se ne andò tutto consolato, e stava bene attento all'orologio, per non toccare niente prima che fossero passati sette ore e sette minuti.
Purtroppo il suo orologio correva un po' più del necessario, e andava avanti un minuto ogni ora.
Quando ebbe contato sette ore e sette minuti il re Mida aprì la macchina e ci montò, e subito si trovò seduto in mezzo a un gran mucchio di cacca di mucca, perché mancavano ancora sette minuti alla fine dell'incantesimo.


da Favole al telefono di Gianni Rodari

 
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La storia del cerino

Post n°1012 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Un Cerino triste e rassegnato, si era messo in disparte su un lato della scatola e una Candela dispiaciuta, incominciò a parlargli:
-La Conosci la Storia del Cerino? Esclamò la Candela.
-No! Rispose il Cerino.
-Caro Cerino non sai quanto sei importante! -Parli bene tu! – Disse con voce rammaricata il Cerino – Sei una Candela ti accendesti tempo fa e la tua fiamma ancora brucia nel consumarti lentamente. Io sono un Cerino mi accenderò per poi spegnermi rapidamente, in meno di un istante.
-Cerino c’è verità in quel che dici, ma credimi non conta quanto sia lunga un esistenza, ma è importante il realizzo della sua Essenza.
Il Cerino ci rifletté su e poi aggiunse:
-Tu credi che valga sempre e comunque la pena vivere? Seppur consapevole di nascere per poi morire, di accendersi per poi finire?
-Ascolta prima la Storia, figlio mio!
C’era un volta una Candela, accesa nel buio della notte, essa era una faro per tutti i viandanti del mondo, chiunque poteva scorgerla anche dai luoghi più remoti, quella luce calda e confortante li carezzava ed era davvero tanto ma tanto importante.
Una notte come tante, i viandanti ebbero però un amara sorpresa, la luce della Candela si spense.
Del resto era un Candela non poteva durare in “Eterno” avrebbero dovuto prevederlo, ed invece nel restare completamente al buio, panico e sconforto avvolsero l’Animo di ogni Viandante.
Passarono alcuni istanti che parvero lunghi come secoli, ed improvvisamente qualcuno s’ingegnò, chi ricordò che in soffitta aveva conservata una vecchia candela, chi trovò una torcia, chi un lumino, e ci fu persino chi scoprì nella propria casa un camino, ma ahimè era tutto inutile senza un Cerino.
E fu così che nell’affanno di risolvere il danno, qualcuno in tasca trovò un Cerino.
La tristezza avvolse l’animo di quel poverino, conosceva bene la durata di un Cerino, ma la vita del mondo era in declino e allora lo usò per accendere un camino.
Da quel camino ogni candela trovò fiamma, ogni cero luce, ogni lume scintilla.
E nel giro di qualche secondo, scanditi come secoli dal mondo la luce si riaccese a tutto tondo, e grazie a quel Cerino il mondo venne salvato dal declino.

-Che storia incantevole Candela, e come si chiamava quel Cerino?
-Ma come? Quel Cerino lo conosci anche tu, si chiamava Gesù!
Il Cerino sorrise di una Luce interiore che lo fece accendere con tanto Amore e quella sua breve esistenza la trascorse nel dare realizzo alla sua Essenza.

 
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La quercia e il diavolo

Post n°1011 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Tanto tempo fa, quando ancora era cosa comune incontrare per strada il Signore Iddio, un giorno il diavolo mogio mogio si recò da lui. Fattosi coraggio, gli rivolse rispettosamente la parola:
"Tu, o Signore, sei il padrone di tutto l'universo, mentre io, povero diavolo, non posseggo nulla in questo mondo...
...Ti prego pertanto di concedermi la potestà su una minima parte del creato."
E Dio, di rimando: "Cosa desidereresti avere?"
E il diavolo: "Il potere su boschi e foreste!"
E Dio decretò: "Così avvenga. Il potere su boschi e foreste ti apparterrà quando questi d'inverno saranno senza fogliame. Tornerà a me, invece, nelle altre stagioni, quando gli alberi saranno coperti di foglie."
Saputa la notizia dell'avvenuto patto, tutti gli alberi del bosco cominciarono a preoccuparsi, finchè l'inquietudine si trasformò in agitazione.
Il carpino, il tiglio, il platano, il faggio, l'olmo si chiedevano avviliti:
"Cosa possiamo fare? A noi le foglie cadono proprio in autunno!"
...Finché al faggio venne l'idea di consultare la quercia, l'albero saggio tra i saggi.
Quando sentì la storia del patto, la quercia rifletté gravemente ed alla fine sentenziò:
"Faremo così, cari amici. Io tenterò di trattenere sui rami le foglie secche, finché a voi non saranno spuntate le nuove! In tal modo il demonio non potrà avere il dominio su nessuno di noi."
Così avvenne e il diavolo rimase beffato.
Da allora la savia quercia trattiene il fogliame secco per tutto l'inverno, finché in primavera spuntano le prime foglie verdi.

 
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Lucilla (Pirandello)

Post n°1010 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Prato al sole, erba nuova, fili di suono, nel silenzio che pare uno stupore. Stupore di come s’accendono qua questi fiorellini d’oro e là bruciano quei rossi.
Ma già comincia a cadere, di sbieco e pericolante sul verde, l’ombra azzurra del conventino con la tozza crocetta in cima alla cuspide, così allungata che va a sbattere, e si rizza spezzata, su quel bianco muretto a riparo degli orti.
Lucilla, da un pezzo addossata al muro del conventino, smette di piangere, d’un tratto facendo caso all’ombra di quella crocetta.
Possibile, così lunga?
Ha sempre pensato, mandando gli occhi fin lassú, che veramente avrebbero potuto anche farla meno tozza, quella crocetta; ma in fondo, non dicendoselo, ha pure approvato ch’essa se ne stia lì quasi accovacciata su quella cuspide puntuta, senza mai desiderio di stirarsi un po’ per diventare nel cielo una crocetta snella, alta.
Ed ecco che ora il sole, per conto suo, si piglia questo piacere, e anche così inverosimilmente esagerato: bum! fin addosso al muretto... E allora, se lei Lucilla si mette al sole, dove arriverà?
Esce dall’ombra e s’espone al sole sul prato.

O com’è?
Uno sgorbio, di traverso.
Il dispetto che ne prova, con la sorpresa e l’incomprensione del fenomeno, si fa rabbia feroce, una rabbia che le torce le viscere dentro come una fune, non appena là sul prato l’ombra di qualcuno che sopravviene si stende accanto alla sua e subito la supera la supera, fino a far parere in un niente, la sua, men che l’ombra d’una bambina.
Si volta di scatto (perché ha riconosciuto dall’ombra la conversa che viene a cercarla) e, col faccino contratto dalla rabbia e certi occhi da gatta fustigata, le grida mostrando i pugni:

– No! No! No! Hanno voglia d’aspettarmi, non ci torno! non ci torno piú! –

E corre all’ombra, a risedere sull’erba, con le spalle appoggiate al muro del conventino.
La conversa, a quello scatto furioso, resta lì; la segue con gli occhi; poi fa per accostarsi, ma la vede scattar di nuovo in piedi pronta a fuggire, e si riferma:

– Ma via, non far la sciocca – le dice. – Non sei piú una bambina! –

Proprio ciò che fa al caso, in quel momento, per Lucilla.
Tutta un fremito, col volto avvampato dal sangue che, a quelle parole, s’è sentito montare alla testa, torna a stringere i pugni e – le viene innanzi gridando:

– Ah sì? lo sai dire? Ma appunto perchè non sono piú una bambina! –

Le parole stesse, man mano che le dice, danno questo spettacolo atroce negli occhi e nella bocca di Lucilla: che gli occhi, insanguati dal pianto e fosforescenti dalla rabbia, schizzano lagrime, e subito, con quelle lagrime, nel faccino piccolo da bambina, diventano occhi da grande; mentre, nella bocca digrignata, la voce, la voce diventa quella di una donna che già sa tutto.
La conversa, a questo spettacolo, si chiude in sé rattristata; par che diventi piú gialla e piú magra; non trova piú nulla da dire; cava dallo scialle nero che le pende dalle spalle le mani, due mani secche che pajono di pietra logora, e le congiunge per scuoterle pietosamente.

– Ma che vuoi fare? – le domanda alla fine. – Dove vuoi andare? –

E Lucilla, scrollandosi:

– Lo so io! Non ve n’incaricate! –

Quella si muove per ritornare al convento. Fatti due passi, si volta appena, per nascondere il pianto, e, indicando con una di quelle mani, sospira:

– Il tuo conventino... –

E se ne va.
Resta della voce, nel vano dell’aria, come l’ombra di quello che c’era: il rimpianto e il rimprovero. E Lucilla guarda il conventino.
C’è nata. Davvero, dentro di sé, pur senza volerlo piú riconoscere, sente che le è caro. Caro, perché, da convento grande grande, come potevano farlo, l’hanno fatto invece così piccolo piccolo, quasi apposta per lei. Come apposta per lei, suo padre che vi fu tant’anni sagrestano, prima che morisse, costruì i mobiletti del suo stanzino là dentro: mobiletti quasi da bambola, per non farla avvilire: il lettino, le sedioline, il tavolinetto, tutto in proporzione della sua statura. Perché lei per quel padre, e per quella madre che certo non poteva far figliuoli (tant’è vero che, appena fece lei così piccola piccola, morì), lei è rimasta come una figliuola guardata da lontano lontano, là dal punto della sua nascita, vent’anni fa. E così guardata da quegli occhi di madre che si sono allontanati d’anno in anno sempre piú, tutto quello che ha potuto crescere, eccolo qua, è poco, è niente, si sa; di anni solo è cresciuta; ma a vederla, è rimasta come una bambina: tanta così. Non nana, non nana! della nana non ha niente; tutti anzi si voltano a guardarla stupiti, da come è bella con la sua testina ricciuta sul collo svelto, che può girarla di qua e di là, come vuole, e tutti i riccioli intorno, come tanti serpentelli; il corpo perfetto, una miniatura. E lei lo sa, lo sa meglio di tutti, com’è il suo corpo, dacché ha imparato a conoscerselo, da come certi maschiacci la guardano, imbecilli!
Il dispetto è questo, la rabbia, la tortura: che lei, dentro di sé, quando senza vedersi sta a pensare, pensa da grande, ormai, da donna, da donna fatta come tutte le altre. Vedersi allora trattata come una bambina da quelle stupide teste fasciate delle suore, che loro sì, anche vecchie con quelle facce siero di latte, guardano parlano ridono e fanno attucci da bambine sceme; vedersi trattata come una bambola, come un giocattolo, presa in collo e passata dalle braccia dell’una a quelle dell’altra, che tutte per carezzarla la mungono e nessuna si vuole accorgere che lei è già tutta formata come una donna; no, no, no, questo non le è piú tollerabile, deve finire, deve finire; è già finito. Ne ha Graffiate oggi tre o quattro in un momento che s’è sentita artigliare le dita, e non sa piú che ingiurie e vituperii ha scagliato loro in faccia, con la schiuma alla bocca.
Le hanno fatto la carità di tenerla con loro, in quello stanzino, anche dopo morto il padre? Sì, grazie, per aver quello spasso della bambolina viva, da giocarci nelle ore di ricreazione! Le hanno cucito con le loro stesse mani, alla bambola, il corredino, abiti, biancheria? Lascerà loro tutto, tutto; non si porterà via nulla così com’è, questa sera stessa, se n’andrà da Nino

Da Nino, da Nino, sì. Tra poco. Alle sette. Nino gliel’ha detto.

Si metterà con lui. Lei sa far tutto: badare alla casa, preparargli da mangiare, curargli gli abiti, rammendare, stirare. Col suo piccolo ferro da stiro, lei, barche di panni così, ha stirato in convento!
E Nino lo sa bene, che lei è già donna. Fin dalla prima volta che anche lui per chiasso se la prese in collo, passando come fa spesso la sera qua dal prato di ritorno dalla staccionata dov’ha l’allevamento dei cavalli, col suo cappellaccio da buttero, ma signore, e i bei gambali lucenti con gli sproni, nel sollevarla per le ascelle, subito, toccandole coi due pollici il petto fece un atto furbesco col capo, lui, e sorrise d’una certa maniera, strascicando un ahh... di sorpresa e d’ammirazione e guardandola con gli occhi imbambolati. E lei si punse le mani, puntandogliele sulle guance per tenergli discosta la bocca che voleva baciarla, là proprio sul petto, Nino. Che occhi! Neri e ridenti: forano, quegli occhi! E che denti, quando ride!

Già la sette?

Da quanto è stata a rimuginare tra sé là sul prato, presa la risoluzione di romperla con le monache, Lucilla è ormai come ubriaca; non vede piú nulla; va, vola come una farfallina abbarbagliata; e alla fine, quando si ritrova nell’androne della casa dove sta Nino, le par d’esservi giunta come una trottola, tra le vertigini, in un capogiro. Non tira piú fiato; e ora, ah Dio, c’è da fare tutte quelle scale, e che scale! per salire fino all’ultimo piano di quel vecchio casone decaduto.
Finalmente, un po’ reggendosi al muro, un po’ alla ringhiera, ci arriva; ma una volta lassú, davanti alla porta, per quanto si rizzi sulla punta dei piedini, non arriva a premere col braccino levato il campanello troppo alto; e allora si mette a tempestare di pugni la porta:

– Apri, apri, Nino! Sono io! Sono venuta! –

Nel bujo della saletta non discerne bene chi sia venuto ad aprirle. Sente accosto come un tanfo di stalla, mentre una mano ruvida cerca goffamente la sua per prenderla, come si fa coi bambini quando si vogliono portare davanti a qualcuno. La confusione, anzi peggio, lo sgomento da cui subito è presa, non è però per quel tanfo né per quell’atto goffo a cui lei istintivamente si sottrae; è per un gran baccano di voci e di risa che viene dalla stanza di là, attraverso l’uscio socchiuso, che dallo spiraglio dà a Lucilla l’impressione che crepiti e fiammeggi come un forno.
Lucilla comincia a tremare; vuol fuggire; ma l’uscio si spalanca: ominacci di campagna ubriachi, vestiti di velluto, con gambali e speroni ai piedi; facce bestiali pavonazze, urlando, barcollando, allungando le manacce, la tirano dentro, in mezzo a una nuvola di fumo; tutti sghignazzano come in un ribollimento di grassa sodisfazione; chi posa la pipa, chi la bottiglia e il bicchiere, e si buttano su lei; vogliono giocare con lei anche loro, ma in che altro modo! la spremono, la strizzano, la vogliono scoprire; e lei grida, strilla, si dibatte, finché Nino, sghignazzando anche lui e torcendosi tutto, con le lagrime agli occhi dal troppo ridere, con uno strattone non la libera e, tornando a sedere, non la ripara tra le sue gambe gridando:

– Basta! basta! Le sento battere il cuore, oh Dio ma sì, ma sì, le sento battere il cuore qua sul ginocchio!

Non s’accorge che Lucilla gli s’è abbattuta su quel ginocchio e che, se egli apre le gambe, gli casca giú a terra, come un cencio, svenuta.
Afferra con una mano un sudicio ragazzaccio di campagna, sui quattordici anni, scemo, che gli sta accanto tutto arruffato e intenerito (quello stesso che è venuto ad aprir la porta) e scuote Lucilla per presentarglielo:

– Eccoti qua lo sposino! Abbiamo tutto preparato

Lucilla non sa piú quanto tempo sia passato; che cosa le sia veramente accaduto là; s’è dibattuta, s’è svincolata, liberata, mordendo, graffiando, e ora va nella notte, non sa dove, piccola piccola, per strade grandi, deserte, ignote; è come impazzita, inebetita; e guarda, così piccola, i tronchi giganteschi degli alberi, di cui a stento riesce a scorgere le cime, e piú su, piú su, finestre vane illuminate come nel cielo, dove vorrebbe sparire, sparire, se Dio, come spera, vorrà alla fine darle le ali.

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Nel mutar degli anni (Swinbourne)

Post n°1009 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nel mutar degli anni, nella spirale delle cose,
nel clamore, nel rumore della vita futura,
noi, bevendo amore alle più lontane fonti,
protetti dall'amore come da un albero,
saremmo divenuti simili agli angeli, lassù,
pieni d'amore dal cuore alle labbra,
stretti nella sua mano, nel calore delle sue ali,
o amore, mio amore, se tu mi avessi amato!

Fermi come le stelle saremmo stati,
e ci saremmo mossi come si muove la luna,
che ama il mondo; avremmo visto
il dolore sparire come cosa rifiutata,
e la morte consumarsi come una cosa triste.
Due metà di un cuore perfetto, un'anima
Stretta all'altra dinanzi al cadere degli anni;
se una volta mi avessi amato, ma non mi hai amato;
se avessimo avuto fortuna, ma non l'abbiamo avuta.

Andrò per la mia strada, sul mio cammino,
riempirò i giorni del mio quotidiano respiro
con effimere cose di cui non far tesoro,
farò come fa il mondo, dirò quello che dice.
Ma se non ci fossimo amati...
Se tu avessi sentito sotto i tuoi piedi,
il mio cuore battere forte dal piacere
e calpestato farsi polvere e morire,
non avrei accettato la mia vita e dato
tutto quello che la vita e gli anni concedono,
il vino e il miele, il balsamo e il lievito,
i sogni elevati e le speranze cadute.
Vieni vita, vieni morte, e basta parole!
Dovrei perderti vivendo e morto tormentarti?
Non te lo dirò sulla terra, mai; e in cielo,
se allora griderò a te, tu sentirai o saprai?

 
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Libri dimenticati:Io Giuda

Post n°1008 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Questo romanzo di Taylor Calwell è dedicato alla figura di Giuda Iscariota

 
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Frase del giorno

Post n°1007 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Chiamiamo libero che esiste per se stesso e non per un altro (Aristotele)

 
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