Messaggi del 25/10/2011

La storia della Fosca

Post n°1066 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

...Spesso quando la tempesta si scatenava, illuminando con tetro bagliore la selva, i valligiani vedevano scendere lentamente dal castello di Savignone una processione di spettri che si spargevano per le valli deserte e all'alba svaniva nel nulla.
Re, duchi, cardinali e baroni, vestiti magnificamente, accompagnati da una atmosfera lugubre e misteriosa, avvolti nella nebbia della notte, sembravano rievocare antichi riti. E la fantasia creava così personaggi ed avventure: passaggi segreti, tesori, grandi amori e raduni di streghe...


C'era una volta, tanto tempo fa, un sovrano, nel Ducato di Milano, che si innamorò perdutamente di una bellissima fanciulla, figlia di un conte del feudo di Savignone, e la volle in sposa. La felicità dei protagonisti si manifestò nell'organizzazione di uno splendido banchetto nuziale, che durò per oltre un anno ed al quale parteciparono tutti i migliori cavalieri dei due regni.
Un brutto giorno, però, la Fosca, così era timidamente chiamata la giovane principessa, perse il profumo delle virtù che la rendevano angelica, tra i corrotti costumi della corte milanese, e divenne malvagia e cattiva, tanto che il popolo del suo nuovo regno si vergognava dei suoi mondani comportamenti.
La giovane fanciulla decise fermamente di abbandonare il vetusto regno lombardo ed iniziò a viaggiare di corte in corte, da Mantova a Venezia, lasciando in tutti i posti una triste immagine di sé.
La fama, come si sà, è simile al vento e si accresce di luogo in luogo, di bocca in bocca, e quando giunse agli orecchi del principe era ormai offuscata a tal punto da indurlo alla tremenda vendetta. Solo uccidendo la Fosca ed il suo reale amante, egli avrebbe lavato la macchia recata al suo nome ed al suo casato.
La bellissima sovrana, consapevole del suo tragico destino, decise di trovare rifugio nella solitudine delle montagne del suo antico regno, Savignone, rifugiandosi all'interno dell'inespugnabile castello paterno.
Alcuni giorni dopo il suo segreto arrivo, un pellegrino dalla lunga barba cadente sul petto, coperto da un saio lacero, salì al castello e chiese, per misericordia, che gli fosse concessa ospitalità presso la Cappella di San Rocco, ai piedi del dirupo. Grazie alla diplomazia della giovane principessa, gli venne offerto ricovero ed ospitalità.
Ogni giorno la fanciulla si recava dal viandante a fargli visita, intrattenendosi per lunghe e frequenti orazioni.
In poco tempo la fama di quest'uomo, paragonata a quella di un santo, arrivò anche nei paesi vicini. Ben presto la Fosca dovette interrompere le sue visite, poiché intorno al castello giravano tipi sospetti, forse sicari di quel lontano marito bramoso di vendetta.
Il pellegrino, turbato e preoccupato dalla continua assenza della fanciulla alle loro ormai famose riunioni, decise di avere sue notizie.
In una notte tetra, dall'interno della piccola cappella si scorgeva un filo di luce, che rompeva la monotonia dell'oscurità circostante, mentre due occhi pensierosi e languidi cercavano invano dalle gotiche arcate del castello di lanciare un messaggio al cielo, che dominava il profondo burrone. Se un raggio di luna avesse illuminato le cavità della voragine, si sarebbe visto un baldo giovane, abile come uno scoiattolo, arrampicarsi lungo la parete rocciosa, afferrarsi agli sterpi, riuscire faticosamente a raggiungere la base del verone, che poco prima era stato malamente chiuso. Dall'alto di una torre, una fune gli veniva segretamente calata ed in un baleno il giovane scalatore sparire all'interno di una finestra.
Il giovane era il fedele amante della fosca, che per necessità aveva dovuto cambiare il luogo dei loro segreti incontri.
Al mattino la fanciulla sempre si affrettava a mandare le provviste al suo giovane amico, sinché un brutto giorno i servitori non lo trovarono da nessuno parte. Tutto il paese fu messo a ferro e fuoco, ma di lui nessuna traccia.
Poco tempo dopo venne ritrovato un giovane imberbe sfracellato in fondo al burrone del castello, avvolto da un enorme serpente. Gli scherani del principe milanese avevano compiuto tristemente il loro compito. L'infelice era passato in un attimo dagli amplessi al sepolcro.
Da quel giorno la rocca prese il nome di Salto dell'Uomo.
La Fosca si riconciliò con il principe suo marito e si vendicò avvelenandolo.
La leggenda continua dicendo che in certi periodi dell'anno si notano dall'alto della rocca due fiammelle che si agitano nel vento, volteggiando, unendosi ed infine dividendosi, una verso la strada per il castello e l'altra per il dirupo.
Come tutti sanno le leggende possono contenere anche un fondamento di verità.
Isabella Fieschi, figlia di Carlo Fieschi, conte del feudo di Savignone, e nipote di papa Adriano V, sposò Luchino Visconti, signore del ducato di Milano. La storia tramanda che la fanciulla fosse realmente bellissima e le cronache che narrano che si lasciò andare a numerose avventure amorose con i migliori cavalieri dell'epoca, tra cui il Doge di Venezia, Francesco Dandolo, e Ugolino Gonzaga, signore di Mantova.
La fantasia popolare identifica nelle due fiammelle le anime di due amanti, Isabella Fieschi ed un baldo giovane, mentre nella serpe Luchino Visconti, il cui stemma di famiglia era un enorme biscione a due teste.

 

 
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Il cigno e il cuoco

Post n°1065 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

el parco di un castello vivevano molti uccelli. Alcuni erano liberi di volare da un ramo all'altro e di cantare felici, altri erano uccelli domestici, che razzolavano sul terreno e attendevano il loro turno per finire in padella.
Un cigno e un'oca bianca, che s'incontravano ogni giorno nelle acque di un laghetto del parco, fecero amicizia. Nuotavano spesso fianco a fianco, scivolavano leggeri sull'acqua, si tuffavano inarcando il lungo collo, frugando insieme nel fondo basso, alla ricerca di animaletti. Da lontano si sarebbero detti fratelli, ma quando si osservavano da vicino si capiva subito che il cigno era di razza nobile. Aveva forme più slanciate, eleganti, mentre l'oca non riusciva a nascondere sotto le piume le forme tozze del suo corpo grassoccio.
Del resto, il cigno era considerato da tutti l'ospite illustre del giardino, destinato a rallegrare lo sguardo del padrone, mentre l'oca si sapeva destinata a finire in pentola non appena fosse arrivato qualche ospite al castello.
La differenza fra i due si notava ancor di più quando aprivano il becco: dalla gola del cigno usciva un dolce canto armonioso, mentre l'oca non sapeva che emettere qua qua sgraziati. Tuttavia quest'ultima, frequentando il cigno, aveva finito col credersi lei pure un nobile animale. E in segreto sperava che quando fosse venuta l'ora di finire in pentola, il cuoco si sarebbe sbagliato e avrebbe tirato il collo al cigno, anzichè a lei.
Avenne proprio che un giorno il cuoco, un po' brillo, scambiò il cigno coll'oca e lo afferrò per il collo.
Ma il cigno si lamentò con un canto tanto dolce che il cuoco, stupito, si avvide dell'errore ed esclamò:
-Cosa stavo facendo! Non sia mai che io tagli la gola a chi sa servirsene così bene!
E lo lasciò andare. L'oca invece finì in pentola





 
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La nascita delle caducifoglie

Post n°1064 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Nei giardini, negli spazi verdi sulla terra, una volta non vi erano troppe differenze tra le piante, se non quelle relative al tempo.
Le piante che erano nate prima, quindi oramai più grandette chiacchieravano tra di loro, e le nuove si guardavano intorno incuriosite.
La Novità, una particolare fata delle piante, già da tempo girava irrequieta tra la flora, senza riuscire a capire il perché di quel nervosismo. Il Pensiero, un vento che soffiava dolce, scrisse sulla sabbia del fiume due righe.
- Non ti preoccupare : succede sempre quando deve nascere qualcosa che vi sia una certa qual agitazione, in questo periodo anche io sarò agitato.
La fata comprese che stavano cambiando le cose, e non sarebbe stata proprio lei a tirarsi indietro di fronte a quel cambiamento.
Nei giorni seguenti, la forza del vento aumentò gradualmente sempre di più. Tanto aumentò che le piante più piccole, più delicate cercarono riparo tra quelle più adulte.
- Andiamo dalle grandi: ci ripareranno con la loro forza!
Ci fu una grande migrazione, e come succede sempre con la vita nuova, la cosa creò subito allegria, gioiosità, festa, per tutto quel trambusto.
- Sì, guarda quella come si agita al vento, vado lì, mi piace!
- Oh, io preferisco quella, guardala, com'è seria.
Ed i giorni passarono tra il vento che aumentava sempre di più, e le giovani piante che si divertivano da morire, rincorrendosi e girando intorno alle piante più adulte.
A tutta quella festa alcune piante reagirono bene, riscoprendosi anche loro "bambine" e partecipando alla gioia, altre, prima pian piano, poi sempre più manifestamente, cominciarono a dare segni di fastidio. Finché cominciarono a sbottare.
- Basta! noi siamo grandi! Che cos'è tutto questo chiasso, questo vociare tremendo ... insomma!!!
Però altre grandi piante presero le parti delle piccole.
- Ma, sì lasciamole fare, riusciamo a vederci alla loro età, allora eravamo troppo prese dal gioco per comprendere !
- Io non voglio vedermi piccola, sono adulta!
- Oh, che brontolona, tu degli adulti hai solo l'antipatia!
E cominciò una animata discussione sull'età, sulla gioia, su tutto quello che nasceva sul momento.
Il vento ascoltava, non visto ma percepito, anche se la festosità delle giovani piante ne attutiva gli effetti.
Alla fine, seppur con delle differenze, le grandi piante si divisero in due settori di opinione: quelle che amavano la gioia delle giovani piante e quelle che ne erano quasi infastidite.
Il vento (Il Pensiero) comprese l'origine di tutto ciò, e decise che occorreva far rinascere nelle ultime qualcosa che si era perduto.
Allora soffiò con sempre maggiore forza, sino a creare nelle piante una sorta di sonnolenza, di dormiveglia, quello che in seguito sarà chiamato il letargo.
Al risveglio, sentirono con la percezione propria di ognuna, che qualcosa era cambiato.
C'era di nuovo silenzio tra le piante, più pace, ma si sentiva, si percepiva che "qualcosa" non era più come prima.
I giorni passavano, mentre il cambiamento prendeva piede, con grande gioia della nostra fatina, e diventava parte dell'esistenza, il clima divenne più fresco, infine più freddo, ed alcune piante, quelle che erano rimaste in vario modo, infastidite dalle grida delle piante più giovani, cominciarono a sentirsi vecchie, ad addormentarsi e perdere le foglie, mentre le altre rimanevano verdi, in virtù della loro propensione alla vita .
Fu così che nacquero le piante che perdevano le foglie, nel periodo freddo, per poi rinascere con i tepori di quella che verrà chiamata la primavera.
Alcune piante tutte prese da se stesse avevano dimenticato la bellezza di tornare bambine, in questo modo, lo avrebbero ricordato in continuazione: ogni anno ricoprono il terreno dei gioiosi colori del tempo, e quando passa il periodo freddo, il tempo freddo in cui non volevano vedere la nuova vita, anch'esse rinascono.

 
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Visto che non piove (Pirandello)

Post n°1063 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Era ogni anno una sopraffazione indegna, una sconcia prepotenza di tutto il contadiname di Montelusa contro i poveri canonici della nostra gloriosa Cattedrale.
La statua della SS. Immacolata, custodita tutto l'anno dentro un armadio a muro nella sagrestia della chiesa di S. Francesco d'Assisi, il giorno otto dicembre, tutta parata d'ori e di gemme, col manto azzurro di seta stellato d'argento, dopo le solenni funzioni in chiesa, era condotta sul fercolo in processione per le erte vie di Montelusa, tra le vecchie casupole screpolate, pigiate, quasi l'una sull'altra; su, su, fino alla Cattedrale in cima al colle; e lì lasciata, la sera, ospite del patrono S. Gerlando.
Nella Cattedrale, la SS. Immacolata avrebbe dovuto rimanere dalla sera del giovedì alla mattina della domenica: due giorni e mezzo. Ma ormai, per consuetudine, parendo troppo breve questo tempo, si lasciava stare per quella prima domenica dopo la festa, e si aspettava la domenica seguente per ricondurla con una nuova e più pomposa processione alla chiesa di S. Francesco.
Se non che, quasi ogni anno avveniva che il trasporto, quella seconda domenica, non si potesse fare per il cattivo tempo e si dovesse rimandare a un'altra domenica; e, di domenica in domenica, talvolta per più mesi di seguito.

Ora, questo prolungamento d'ospitalità, per se stesso, non sarebbe stato niente, se la SS. Immacolata non avesse goduto per antichissimo privilegio d'una prebenda durante tutto il tempo della sua permanenza alla Cattedrale. Per tutti i giorni che la SS. Immacolata vi stava, era come se nel Capitolo ci fosse un canonico in più: tirava, su le esequie e su tutto, proprio quando un canonico; e i deputati della Congregazione sorvegliavano con tanto d'occhi perché nulla Le fosse detratto di quanto Le spettava, affinché più splendida, anche coi frutti di quella prebenda, potesse ogni anno riuscire la festa in Suo onore. Questo, oltre a tutte le altre spese che gravavano sul Capitolo per quella permanenza; spese e fatiche: cioè, funzioni ogni giorno, ogni giorno predica, e spari di mortaretti e di razzi e, anche per il povero sagrestano, lunghe scampanate tutte le mattine e tutte le sere.
Forse, per amore della SS. Vergine, i canonici della Cattedrale avrebbero sopportato in pace e sottrazione e spese e fatiche, se nel contadiname di Montelusa non si fosse radicata la credenza che la SS. Immacolata volesse rimanere nella Cattedrale uno e due mesi a loro marcio dispetto; e che essi ogni anno pregassero a mani giunte il cielo che non piovesse almeno la domenica che si doveva fare il trasporto.
Giusto in quel tempo accadeva che i contadini per i loro seminati non fossero mai paghi dell'acqua che il cielo mandava; e se davvero qualche anno non pioveva, ecco che la colpa era dei canonici della Cattedrale, a cui non pareva l'ora di levarsi d'addosso la SS. Immacolata.
Ebbene, a lungo andare e a furia di sentirselo ripetere, i canonici della Cattedrale in verità s'erano presi a dispetto, non propriamente la Vergine, ma quegli zotici villanacci, e più quei mezzi signori della Congregazione che, non contenti di tener desta nell'animo dei contadini quella sconcia credenza del loro dispetto per la Vergine, spingevano la tracotanza fino a spedirne tre o quattro ogni sabato, sul far della sera, tra i più sfrontati, su alla piazza innanzi alla Cattedrale, con l'incarico di mettersi a passeggiare con le mani dietro la schiena e il naso all'aria, in attesa che uno del Capitolo uscisse dalla chiesa, per domandargli con un riso scemo su le labbra:

- Scusi, signor Canonico, che prevede? pioverà o non pioverà domani?

Era, come si vede, anche un'intollerabile irriverenza.

Monsignor Partanna avrebbe dovuto farla cessare a ogni costo. Tanto più ch'era notorio a tutti che quei fratelloni della Congregazione, nella frenesia di far denari comunque, arrivavano fino a speculare indegnamente su la Madonna, mettendo anche in pegno alla banca cattolica di San Gaetano gli ori, le gemme e finanche il manto stellato, che la Madonna aveva ricevuto in dono dai fedeli divoti.
Monsignor Vescovo avrebbe dovuto ordinare che il ritorno della SS. Immacolata alla chiesa di San Francesco non andasse mai oltre la seconda domenica dopo la festa, comunque fosse il tempo, piovesse o non piovesse. Tanto, non c'era pericolo che si bagnasse sotto il magnifico baldacchino sorretto a turno dai seminaristi di più robusta complessione.
Erano invece le donne dei contadini, le femmine dei popolo - o come ripetevano i reverendi canonici del Capitolo - le sgualdrinelle, le sgualdrinelle, che avevano paura di bagnarsi; e dicevano la Vergine! Non volevano sciuparsi gli abiti di seta, con cui si paravano per quella processione dando uno spettacolo di sacrilega vanità atteggiate tutte come la SS. Immacolata, con le mani un po' levate e aperte innanzi al seno, piene d'anelli in tutte le dita, con lo scialle di seta appuntato con gli spilli alle spalle, gli occhi volti al cielo, e tutti i pendagli e tutti i lagrimoni degli orecchini e delle spille e dei braccialetti, ciondolanti a ogni passo.

Ma Monsignor Vescovo non se ne voleva dar per inteso.
Forse, ora ch'era vecchio e cadente, aveva paura di bagnarsi anche lui e di prendere un malanno, seguendo a capo scoperto il fercolo, sotto la pioggia; e poco gl'importava che il povero vicario capitolare, Monsignor Lentini, fosse ridotto, quell'anno, per le tante prediche, una al giorno, sempre su lo stesso argomento, in uno stato da far compassione finanche alle panche della chiesa.
Erano già undici domeniche, undici, dall'otto dicembre, che il pover uomo, levando il capo dal guanciale, chiedeva con voce lamentosa alla Piconella, sua vecchia casiera, la quale ogni mattina veniva a recargli a letto il caffè:

- Piove?

E la Piconella non sapeva più come rispondergli. Perché pareva veramente che il tempo si fosse divertito a straziare quel brav'uomo con una incredibile raffinatezza di crudeltà. Qualche domenica era aggiornato sereno, e allora la Piconella era corsa tutta esultante a darne l'annunzio al suo Monsignor Vicario:

- Il sole, il sole! Monsignor Vicario, il sole!

E il sagrestano della Cattedrale dàgli a sonare a festa le campane, din don dan, din don dan, ché certo la SS. Immacolata quella mattina, prima di mezzogiorno, se ne sarebbe andata via.
Se non che, quando già alla piazza della Cattedrale era cominciata ad affluir la gente per la processione e s'era finanche aperta la porta di ferro su la scalinata presso il seminario, donde la SS. Vergine soleva uscire ogni anno, e dal seminario erano arrivati a due a due in lungo ordine i seminaristi parati coi camici trapunti, e tutt'in giro alla piazza erano stati disposti i mortaretti, ecco sopravvenire in gran furia dal mare fra lampi e tuoni una nuova burrasca.
Il sagrestano, dàgli di nuovo a sonar tutte le campane per scongiurarla, sul fermento della folla che s'era messa intanto a protestare, indignata perché sotto quella incombente minaccia del tempo i canonici volessero mandar via a precipizio la Madonna.
E fischi e urli e invettive sotto il palazzo vescovile, finché Monsignor Vescovo, per rimettere la calma, non aveva fatto annunziare da uno de' suoi segretarii che la processione era rimandata alla domenica seguente, tempo permettendo.

Per ben cinque domeniche su undici s'era ripetuta questa scena.

Quell'undicesima domenica, appena la piazza fu sgombra, tutti i canonici del Capitolo irruppero furenti nella casa del vicario capitolare, Monsignor Lentini. A ogni costo, a ogni costo bisognava trovare un rimedio contro quella soperchieria brutale!
Il povero vicario capitolare si reggeva la testa con le mani e guardava tutti in giro come se fosse intronato.
S'erano avventati contro lui, più che contro gli altri, i fischi, gli urli, le minacce della folla. Ma non era intronato per questo il povero vicario capitolare. Dopo undici settimane, un'altra settimana di prediche su la SS. Immacolata! In quel momento il pover uomo non poteva pensare ad altro, e a questo pensiero, si sentiva proprio levar di cervello.
Il rimedio lo trovò Monsignor Landolina, il rettore terribile del Collegio degli Oblati. Bastò che egli proferisse un nome, perché d'improvviso si sedasse l'agitazione di tutti quegli animi.

- Il Mèola! Qua ci vuole il Mèola! Amici miei, bisogna ricorrere al Mèola!

Marco Mèola, il feroce tribuno anticlericale, che quattr'anni addietro aveva giurato di salvar Montelusa da una temuta invasione di padri Liguorini, aveva ormai perduto ogni popolarità. Perché, pur essendo vero da una parte che il giuramento era stato mantenuto, non era men vero dall'altra che i mezzi adoperati e le arti che aveva dovuto usare per mantenerlo, e poi quel ratto, e poi la ricchezza che glien'era derivata, non erano valsi a dar credito alla dimostrazione ch'egli voleva fare, che il suo, cioè, era stato un sacrifizio eroico. Se la nipote di Monsignor Partanna, infatti, la educanda rapita, era brutta e gobba, belli e ballanti e sonanti erano i denari della dote che il Vescovo era stato costretto a dargli; e, in fondo, i pezzi grossi del clero montelusano, ai quali non era mai andata a sangue quella promessa del loro Vescovo di far tornare i padri Liguorini, se non amici apertamente, avevano di nascosto, anche dopo quella scappata, anzi appunto per quella scappata, seguitato a veder di buon occhio Marco Mèola.
Tuttavia, ora, a costui doveva senza dubbio piacere che, senza rischio di guastarsi coi segreti amici, gli si offrisse un'occasione per riconquistar la stima degli antichi compagni, il prestigio perduto di tribuno anticlericale.
Orbene, bisognava mandar furtivamente al Mèola due fidati amici a proporgli a nome dell'intero Capitolo di tenere per la ventura domenica una conferenza contro le feste religiose in genere, contro le processioni sacre in ispecie, togliendo a pretesto i deplorati disordini delle scorse domeniche, quegli urli, quei fischi, quelle minacce del popolo per impedire il trasporto della SS. Immacolata dalla Cattedrale alla chiesa di S. Francesco.
Sparso per tutto il paese con molto rumore l'annunzio di quella conferenza, si sarebbe facilmente indotto il Vescovo a pubblicare un'indignata protesta contro la patente violazione che della libertà del culto avevano in animo di tentare i liberali di Montelusa, nemici della fede, e un invito sacro a tutti i fedeli della diocesi perché la ventura domenica, con qualunque tempo, piovesse o non piovesse, si raccogliessero nella piazza della Cattedrale a difendere da ogni possibile ingiuria la venerata immagine della SS. Immacolata.
Questa proposta di Monsignor Landolina fu accolta e approvata unanimemente dai canonici del Capitolo.
Solo quel sant'uomo del vicario, Monsignor Lentini, osò invitare i colleghi a considerare se non fosse imprudente sollevar disordini anche dall'altra parte, andare a stuzzicar quel vespajo. Ma, suggeritagli l'idea che da quella conferenza del Mèola avrebbe tratto argomento di predica per la settimana ventura contro l'intolleranza che voleva impedire ai fedeli di manifestare la propria divozione alla Vergine, con parecchi: - «Capisco, ma... capisco, ma...» - alla fine si arrese.

La trovata di Monsignor Landolina ebbe un effetto di gran lunga superiore a quello che gli stessi canonici del Capitolo se ne ripromettessero.
Dopo quattr'anni di silenzio, Marco Mèola si scagliò in piazza con le furie d'un leone affamato. Dopo due giorni di vociferazioni nel circolo degli impiegati civili, nel caffè di Pedoca, riuscì a promuovere una tale agitazione, che Monsignor Vescovo fu costretto veramente a rispondere con una fierissima pastorale e, nell'invito sacro, chiamò a raccolta per la ventura domenica non solo tutti i fedeli di Montelusa ma anche quelli dei paesi vicini.

«Piova pure a diluvio,» concludeva l'invito, «noi siamo sicuri che la più fiera tempesta non smorzerà d'un punto il vostro sacro e fervidissimo ardore. Piova pure a diluvio, domenica ventura la SS. Immacolata uscirà dalla nostra gloriosa Cattedrale, e scortata e difesa da tutti i fedeli della Diocesi, la SS. Ospite rientrerà nella sua sede.»

Ma, neanche a farlo apposta, quella dodicesima domenica recò, dopo tanta e così lunga intemperie, il riso della primavera, il primo riso, e con tale dolcezza, che ogni turbolenza cadde d'un tratto, come per incanto, dagli animi.
Al suono festivo delle campane, nell'aria chiara, tutti i Montelusani uscirono a inebriarsi del voluttuoso tepore del primo sole della nuova stagione; ed era su tutte le labbra un liquido sorriso di beatitudine e in tutte le membra un delizioso languore, un'accorata voglia d'abbandonarsi in cordiali abbracci fraterni.
Allora il vicario capitolare Monsignor Lentini, che dal lunedì al sabato di quella dodicesima settimana aveva dovuto fare altre sei prediche su la SS. Immacolata, con un filo di voce chiamò attorno a sé i canonici del Capitolo e domandò loro, se non si potesse in qualche modo impedire lo scandalo ormai inutile di quella conferenza anticlericale del Mèola, per cui si sentiva come una spina nel cuore.
Si poteva esser certi che né per quel giorno sarebbe piovuto, né più per mesi. Non poteva il Mèola darsi per ammalato e rimandar la conferenza ad altro tempo, all'anno venturo magari, per la seconda domenica di pioggia dopo l'otto dicembre?

- Eh già! Sicuro! - riconobbero subito i canonici. - Così il rimedio non andrebbe sciupato!

I due fidati amici dell'altra volta furono rimandati in gran fretta dal Mèola. Un raffreddore, una costipazione, un attacco di gotta, un improvviso abbassamento di voce:

- Visto che non piove...

Il Mèola recalcitrò, inferocito. Rinunziare? rimandare? Ah no, perdio, si pretendeva troppo da lui, ora ch'era riuscito a riacciuffare il favore dei liberali di Montelusa!

- Va bene, - gli dissero quei due amici. - Se pioveva... Ma visto che non piove...

- Visto che non piove, - tuonò il Mèola - il signor Prefetto della provincia che fa? Potrebbe lui solo, lui solo per ragioni d'ordine pubblico, proibire ormai la conferenza! Andate subito dal Prefetto, visto che non piove, e io potrò anche ricevere a letto, fra un'ora, con un febbrone da cavallo, l'annunzio della proibizione!

Così la SS. Immacolata ritornò, senz'alcun disordine, alla chiesa di S. Francesco d'Assisi dopo dodici domeniche di permanenza alla Cattedrale, il giorno 25 di febbrajo. E il giubilo del popolo fu quell'anno veramente straordinario per la sconfitta data dal bel tempo ai liberali di Montelusa.

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Non c'è pace a S.Tobia

Post n°1062 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Eccomi ancora qui,lettori,per raccontarvi l'ultimo disastro che ha colpito il nostro paesino.
Come sapete,tempo fa Evaristo Cornacchioni si è sposato con la celebre medium rumena Violeta Mortulescu e per un po' di tempo ha vissuto con la moglie in Transilvania,per lasciare che il fratello Ireneo si calmasse.
I coniugi Cornacchioni da quel soggiorno sono tornati in tre,perchè con loro è venuta la mamma di Violeta,Domitila Lugubrescu vedova Mortulescu.
La signora in questione ha pensato bene di importare da noi alcune discutibili usanze transilvane che ben presto hanno reso la vita del povero Ireneo un inferno in terra.
Ma bando alle ciance e leggete!
LUNEDI'- La Lugubrescu ha cucinato per figlia,genero e Ireneo il famoso piatto transilvano detto "leccornia del vampiro" (pare che l'abbia inventato Dracula in persona).
Il Cornacchioni,dopo il primo boccone,ha incendiato la tovaglia con uno starnuto
MARTEDI'- Ireneo dormiva della grossa sull'amaca.L'ha svegliato una gragnola di schiaffi e pugni all'accoppabue,sferrati dalla Lugubrescu.
Candidamente candida,ha spiegato all'imbufalito e dolorante pretone che quello era il metodo transilvano per accertarsi che una persona non fosse in stato di morte apparente.
Ireneo è svenuto.
MERCOLEDI'- Ireneo,insonne,passeggiava in giardino quando sul terrazzo è comparsa una figura nerovestita,ballonzolante e salmodiante,che gli ha rovesciato in testa un sacco di sale grosso.
Le urla hanno svegliato i paesani,che si sono scapicollati in massa,per sentirsi dire dalla Lugubrescu che quello era il rito transivano che protegge dal malocchio casa e abitanti.
La bestemmia collettiva si è sentita fino a Canicattì.
GIOVEDI'- La Lugubrescu ha sognato il defunto marito,che le ha detto che Belva era il demonio fatto cane (oddio,tanto tanto lontano dal vero non è!) e l'ha esortata ad impalarlo.
Belva,capite le intenzioni,si è dato alla fuga,così cagnazzo e pazzoide armata di palo hanno seminato il panico nel mercatino settimanale.
Belva si trova sull'unico lampione di S.Tobia.
VENERDI'- In sogno la mamma della Domitila ha detto alla figlia di incendiare la canonica,covo di vampiri assetati di sangue.
Per fortuna la Clementina ha chiamato i pompieri.
SABATO- Ireneo ha un grosso neo al centro della pelata.
Secondo i transilvani,quello è il segno di riconoscimento dei non morti,servitori dei vampiri,che si dissolvono nell'aria se spruzzati di succo d'aglio.
Ireneo è all'ospedale per choc anafilattico.
DOMENICA- Intuendo che per lui moglie e suocera non tirava aria buona,Evaristo è ripartito con loro per la Transilvania.
E' passata una settimana.
Belva è ancora in cima al lampione.
Ireneo intaglia tre lunghissimi pali di frassino,Credo sia inutile dire chi sono i destinatari di questo gentile pensiero,vero?
Da S.Tobia,almeno per ora,è tutto






 

Tornare in alto Andare in basso

 
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Lentamente muore (Medeiros)

Post n°1061 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

 

 
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Libri dimenticati:L'assedio

Post n°1060 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

In questo romanzo Maria grazia Siliato ricostruisce gli ultimi giorni dell'assedio di Famagosta da parte dei turchi,
con una precisione impressionante anche nei particolari più cruenti,come l'atroce fine di Marcantonio Bragadin,governatore veneziano dell'isola

 
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Frase del giorno

Post n°1059 pubblicato il 25 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

L'uomo comune,anche se non sa che farsene di questa vita,ne vuole una che duri per sempre (France)

 
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questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
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