Messaggi del 28/10/2011

Il castello della regina

Post n°1090 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

n una montagna sopra Brembilla, tra Sant'Antonio Abbandonato e la forcella di Bura, c'era un castello che era comandato da una regina.
Era una donna forte e guerriera, andava sempre in testa ai suoi soldati nelle battaglie e ritornava ogni volta vittoriosa al suo castello. Quando ritornava dalle sue guerre, appena giunta a Gualguari (questo luogo e' attualmente il centro del paese di Brembilla) si fermava nella piazza e provvedeva ad impiccare i suoi nemici, i traditori e i prigionieri.
Quando li aveva tutti impiccati, ripartiva per risalire al suo castello e dopo nessuno piu' poteva vederla per molto tempo.
Un bel giorno una staffetta portò alla regina questa notizia: in una localita' detta Lasiol, si era accampato un re con molti suoi soldati; questo re aveva una corona tutta d'oro, sacchi pieni di marenghi e un vitello tutto d'oro.
La regina udita la notizia, raduno' tutti i suoi soldati e raccontata la cosa, promise che avrebbe lasciato a loro tutto l'oro che avrebbero conquistato, per se' avrebbe tenuto soltanto il vitello d'oro e la corona.
La stessa sera l'esercito della regina parti' per la guerra e durante la notte si preparo' per la battaglia.
Era una notte d'agosto e c'era la luna piena. A mezzanotte i soldati della regina cominciarono l'attacco, che durò fin quando che il re si mise in fuga verso le rocce dell'orrido al di la di Brembilla.
Dall'orrido una alla volta i soldati del re precipitarono nel burrone, ma il re prima di morire mando' una maledizione alla regina che aveva preso il suo vitello d'oro, perchè questo vitello era il simbolo della sua religione.
La regina torno' al castello vittoriosa portando con se' il bottino di guerra: la corona del re e il suo vitello d'oro.
Quando si ritirò nella sua stanza, si scateno' un furioso temporale che fece tremare la montagna e le mura del castello. Dopo poco tempo la terra si spalanco, si aperse una voragine cosi' grande che inghiotti' tutto e tutti: la regina, il castello e il vitello.

 
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Il diavolo e la bella

Post n°1089 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

In epoca passata ,in Valle d'Aosta, era solito il ritrovarsi tra famiglie per trascorrere in allegria e compagnia le serate (Veglià), ma allo stesso tempo si approfittava dell'occasione per finire quei piccoli lavori indispensabili alla vita di allora.
All'inizio del secolo scorso, alcune famiglie di Roisan si ritrovarono in una stalla in Frazione La Cretaz, accanto alla casa parrocchiale, per trascorrere la "Veglià".(come allora era consuetudine fare in Autunno ed Inverno quando le serate si allungavano per via della stagione)
Una sera, intenti a sgusciare delle noci per la produzione dell'olio, sentirono bussare alla porta.
Si presentò un baldo giovane, molto elegante e attraente che affermò di essere di passaggio e cercò ospitalità per quella sera.
La richiesta gli fu accolta se in cambio avesse contribuito a sgusciare le noci.
La ragazza più bella della compagnia attratta dal giovane entrò con lui in una profonda confidenza ed insieme si misero vicini al tavolo.
Ad un tratto però un giovane del gruppo si accorse che il nuovo arrivato, forse distratto dall'affascinante ragazza del paese, eseguiva il lavoro al contrario, gettando a terra i gherigli e tenendo i gusci sul tavolo.
Chinatosi per raccogliere quel bene, un tempo assai prezioso, si accorse che il giovane al posto dei piedi umani e delle scarpe possedeva degli zoccoli d'animale.
Spaventato, usci' in tutta fretta senza farsi notare, per chiedere aiuto al parroco che munito di aspersorio si diresse assieme al giovane alla stalla.
Quando entrarono, lo straniero, alla vista del sacerdote, balzò in piedi e, dopo aver graffiato la bella sulla guancia, si dileguò attraverso un finestra munita di feritoia facendola cadere.
La bella rimase sfregiata per tutta la vita e, ancora oggi, ogni tentativo di fissare le feritoia della finestra ove e' fuggito il Diavolo è risultato invano.

 
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Favola a metà

Post n°1088 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Sono mesi ormai che vago in questa foresta disabitata.
Prima il luogo in cui vivevo era pieno di vita…..prima che arrivassero loro. Da dove sono arrivati poi, nessuno l’ha capito. Quello che tutti abbiamo capito è che hanno cercato di seminare il nulla.
C’è stato poco da resistere all’invasione, erano troppo forti. Quando un’intera armata di bianchi cavalieri, entrano in quella che e’ la tua patria, il tuo mondo, puoi solo soccombere.
Quando ci hanno condotto nei loro castelli, qualcuno di noi non ha resistito, qualcuno si è aggrappato a una fievole speranza, che nella maggiorparte dei casi, tale e’ rimasta, qualcuno ha iniziato a viaggiare con l’immaginazione….ed è appunto grazie a quest’ultima che mi trovo in questa foresta…domani andrò su una bellissima spiaggia tropicale…e poi ancora su fiumi impetuosi che terminano con splendide cascate.
Quando mi hanno catturato mi hanno tolto la mia spada, il mio cavallo oltre che il mio onore e la mia libertà.
Ma la libertà, secondo me, e loro non lo sanno, la vera libertà è un luogo che si trova nella mia mente e a quella catene non ne possono mettere.
In questo momento sono intrappolato in una cella insieme a mia figlia, come punizione per aver tentato la fuga. Elisa, questo e’ il nome di mia figlia, continua ad avere fiducia in me e nel fatto che un giorno torneremo a giocare liberi insieme. Io mi affido più alla sua, di speranza, che alla mia.
Sto scrivendo queste sensazioni alla calda luce gialla di una candela, che rende ancora più’ bianco tutto il bianco che mi circonda….ma perché tutto questo bianco?
Questa è una domanda che non finirà mai di assillarmi, come il perché continuano tutti a chiamare “bambola di pezza” mia figlia e “camici bianchi” le loro armature…….e queste cartelle cliniche che continuano a scrivere…..ma il quesito più strano è perché i cavalieri bianchi continuano a non vedere tutti questi fiori colorati, di colori mai neanche immaginati, che abbelliscono la mia stanza e a non sentire questa melodia, che fluttua per queste stanze….chissà se fuori da queste mura i colori sono così belli!

 
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Il chiodo (Pirandello)

Post n°1087 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

l ragazzo ha confessato che, quel chiodo, lui l’aveva trovato traversando una strada del quartiere negro di Harlem. Era un grosso chiodo arrugginito caduto forse da un carro passato poco prima per la strada.
Caduto apposta.

– Come, apposta?

Inutile sgranar gli occhi, o dare un balzo sulla seggiola. Se non si voleva tener conto di questo, e del modo come il ragazzo lo diceva, calmo, convinto, ma fissato negli occhi vitrei il terrore della cosa incomprensibile e inesplicabile che gli era accaduta, inutile seguitare a interrogarlo.
Quel chiodo era lì, in mezzo alla strada deserta, e vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo.
Il ragazzo infatti dice che lui non pensò mai che se ne sarebbe servito; che non ci pensò neppure nell’atto stesso di servirsene. L’aveva in mano perché non aveva potuto fare a meno di raccattarlo; ma non ci pensava già più. Il chiodo era ormai "quieto" nella sua mano (ha detto così, e tutti hanno avuto un brivido nel sentirglielo dire), il chiodo era ormai "quieto" nella sua mano perché, come voleva, era stato raccattato.
E così, sempre a suo dire, ugualmente apposta due monelle di strada, mentre lui stava per svoltare da quella dove aveva raccattato il chiodo, due monelle, l’una di circa quattordici anni e l’altra appena di otto, si erano azzuffate tra loro. Incendiate dentro un nembo di fuoco del sole estivo al tramonto, facevano un groviglio di braccia di gambe di stracci di capelli; e lì per lì, d’impeto, lui s’era gettato su loro, aveva alzato il pugno e ficcato il chiodo in testa alla più piccola; poi, subito dopo, ma veramente dopo un tempo infinito, nel vederla morta come da sempre, stramazzare ai suoi piedi tutta insanguinata, era restato basito tra l’orrore della gente accorsa.
Perché aveva colpito la piccola e non la grande non sapeva dire. Non conosceva né l’una né l’altra. Non aveva avuto tempo neppur di vederle in faccia. Aveva veduto soltanto che la grande teneva acciuffata la piccola per i capelli sulle tempie, e che questi capelli della piccola erano rossi di rame, e una sua mano, come artigliata, sulla faccia della grande, che le tirava da sotto orribilmente un occhio, scoprendone tutto il bianco, fin quasi a farlo schizzar fuori.
Era stato forse per quel colore dei capelli, per quell’occhio così tirato. Perché poi s’era saputo che il torto era della grande che voleva fare alla piccola una soperchieria, approfittandosi della gracilità di lei, malatina, come s’era visto bene dal suo visino smunto affilato, che lì per terra, tra il sangue, era sembrato di cera, una pietà, quel nasino, quella boccuccia, tutte quelle lentiggini. Nessun dubbio che nella zuffa avrebbe avuto lei, infine, la peggio.

E lui con quel chiodo l’aveva uccisa.
Ora, dopo l’interrogatorio, ascolta, curvo sulla seggiola, e con una cupa maraviglia negli occhi, le mani gracili sui ginocchi, segnate da graffii che forse lui stesso s’è fatti senza saperlo. Ascolta le ragioni che gli altri escogitano per spiegare il suo atto.
La sua maraviglia è che possano esser tante, queste ragioni, mentre lui non sa vederne nemmeno una; tante, e tutte parer vere e probabili sia quelle escogitate in suo favore, sia quelle contro di lui.
Ma sì, pajono vere e probabili anche a lui, se si lascia prendere però a considerarle come un costrutto di ingegnose supposizioni e invenzioni non propriamente riferibili a lui e al suo atto; altrimenti no; talune lo farebbero persino ridere, se non si sentisse trattenuto dallo sbigottimento e da un’altra cosa che gli tengono sotto gli occhi, sul tavolino del giudice: il chiodo, la cui ruggine s’è tinta d’un rosso più cupo; e da un’altra cosa ancora, più terribile di tutte, che lui si tien nascosta nel più profondo del cuore, quasi debba provarne vergogna. Ma non è vergogna. È spavento. E trema al solo pensiero che possa essere scoperta. Una disperata pietà, uno sconsolato amore che gli è nato e a mano a mano cresciuto per LEI, che solo adesso è venuto a sapere che si chiamava Betty; così soltanto, Betty; perché così soltanto di nome era conosciuta; e nessuno infatti è venuto a presentarsi per lei.
Con questo sentimento segreto, che lo cuoce, non gli importa se coloro che parlano offendono la verità, e dicono cose contro di lui; anzi n’è contento perché ogni cosa ingiusta che dicono gli dimostra sempre più che vera è invece soltanto quell’altra a cui nessuno vuol credere, di quel chiodo cioè caduto apposta e di Betty e dell’altra ragazza che, proprio mentre lui svoltava dalla strada, si erano azzuffate ugualmente apposta perché lui da quella loro zuffa trascinato a menar le mani, senza più pensarci armato di quel chiodo, commettesse la feroce ingiustizia d’uccidere una innocente.
E non è vero, Betty, dei tuoi capelli; che i tuoi capelli rossi non erano belli. Erano belli, erano belli e ti stavano bene. E che importa che sul visino affilato abbia tutte quelle lentiggini? Se aprissi gli occhi che non t’ho nemmeno visti! Ah, fosse avvenuto il miracolo che tu, là per terra, fra tutto quel sangue, per far passare a tutti lo spavento, d’improvviso scoprissi la furbizia di due occhietti vispi. Ma non è avvenuto questo miracolo. Gli occhietti te li ho visti soltanto chiusi, per sempre. Forse, malatuccia, non potevi più averli vispi. Non importa, non importa: aprili, aprili, Betty, e sorridi. Forse ti manca qualche dentino; non li avrai ancora rimessi tutti; non importa, sorridi. Ma queste labbra bianche, queste labbra bianche; bisogna lavare subito tutto questo sangue.

Insulto epilettico? Chi dice insulto epilettico?
Lo dicono per lui, e spiegano i sintomi del male. Ma lui è sicuro di non aver mai provato nulla di simile. Può darsi che sia affetto di quel male senza saperlo, rimasto nascosto fino al momento del delitto e tutt’a un tratto esploso in lui?
Se seguitano a dire di queste cose gli faranno scoppiare il cuore, o lo faranno impazzire.
Ma ora dicono istinto malvagio.

Preferisce che dicano così, perché non è vero. Lui, istinto malvagio? Non ha mai potuto assistere senza ribellarsi alle crudeltà dei suoi compagni di ricreazione contro qualche bestiolina o un insetto. Mai rivelato, lui, istinti malvagi. E se credono che ne sia prova quel chiodo raccattato per terra, fanno ridere. Non lo conoscono. Non parlano di lui. Nessun istinto s’era risvegliato in lui nell’atto di raccattare il chiodo; l’aveva raccattato senza neppur pensare a quello che faceva; ed era così al tutto alieno che, nel tratto di strada prima di svoltare, pensava soltanto al carro, a un carro da cui quel chiodo poteva esser caduto; un carro che forse s’avviava verso la campagna lontana. Perché lui tornava proprio dalla campagna in quei giorni, dov’era stato a villeggiare con la famiglia, l’estate, e ne aveva visti passare tanti di quei carri lungo i sentieri tra le erbe alte.
Ma, del resto, dicano quello che vogliono; inventino; facciano le più assurde supposizioni; non gli importa più di nulla: è già lontano, nella campagna di Old Lime dove ha passato l’estate; rivede la villa e tutti i dintorni deliziosi nell’aria serena; la barchetta a vela del padre ormeggiata presso la sponda del fiume, il Connecticut, più azzurro del mare tra tanto verde d’intorno; è andato col padre su quella barchetta fino all’oceano; più oltre la mamma non permetteva che si andasse: la barchetta con tutta la vela era così piccola; ma la villa era grande, con tante colonne per finta sulla facciata, e tutta circondata da tanti grandi alberi belli, che il nonno era sicuro fossero eucalipti e il babbo diceva platani e faggi; eucalipti, eucalipti; platani, faggi; ma il fatto era che facevano tanta ombra, che dentro la villa quasi non ci si vedeva ed era meglio passare le giornate all’aperto; del resto in campagna ci si va per questo; ma attento, gli gridava dietro la madre, di non allontanarti troppo; e loro, seduti sul davanti, restavano a spiegare agli amici che venivano a trovarli che quella villa era la più antica di Old Lime, e una delle più antiche di tutta l’America; mentre lui o correva felice come un pazzo lungo le sponde del fiume o si perdeva nella campagna, in mezzo all’erba così alta e spessa e che sentiva così di tutti i succhi della terra che quasi soffocava e ubriacava. Ma ora non può più esser solo. Ora è là in mezzo a tutta quell’erba, con Betty; vuole giocar con lei; ma Betty dapprima non vuole; poi gli dà la manina, una manina ancora fredda fredda, di gelo, che dà un brivido a toccarla; non bisogna più pensarci; si china a guardarla; lei ora lo segue a capo chino e col ditino dell’altra mano all’angolo della bocca. Vanno e vanno. Ma così è inutile, se non debbono giocare. Non vuole più giocare? Non può? E allora? Si vuol gettare di nuovo a terra? No! No! Betty ora è guarita, e dev’esser vispa di nuovo, e ridere, ridere, sì. Ma Betty si ferma e con la manina gli fa segno d’attendere un po’. Che cosa? Deve allontanarsi un momento, un momentino solo. Un bisogno. Lui resta un po’ mortificato. Non gli piace che le femminucce facciano saper certe cose. Ma ecco che invece di lei, dal punto dove è andata a nascondersi, vien fuori un’altra ragazza; no, non è quella della zuffa; è una sua cuginetta, grassa e brutta, quasi della sua età, venuta da Harlem con la madre per passare in campagna tutta la giornata; lui non la può soffrire. Dov’è andata Betty? Eccola là lontano che corre; ha preso questo pretesto per fuggire; ha paura di lui. No, no, Betty; lui non ti farà più male; lui darà la sua vita per farti rivivere e lascerà che tu prenda in casa il suo posto. Ora sei qui; ci penserà la mamma a lavarti bene; e via tutti questi straccetti; con un abitino nuovo ti vestirà, d’un colore che ti stia bene, d’accordo con questi tuoi capellucci rossi, un abitino color pervinca; oh come ora sei carina così; peccato che lui non ci debba esser più per vederti, se ha dato per te la sua vita; e tu resterai sempre piccina così, qua in campagna, senza mai farti grande per nessuno; in campagna, come in un paradiso, Betty.

Non l’hanno incriminato.
Dichiarato libero, il ragazzo non ha dato segno di nulla. Ha tratto soltanto un sospiro. È sicuro che lui morrà di pena per Betty.

Ma forse non morrà. Passeranno gli anni. E forse da grande penserà qualche volta a Betty. E la vedrà, sempre piccina, che lo aspetta in campagna a Old Lime, con l’abitino color di pervinca sempre nuovo, che s’accorda bene coi suoi capellucci rossi.

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Io non respiro (Machado)

Post n°1086 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

o non respiro più, nella tiepida aria d'estate,
i profumi del tuo corpo e dei tuoi capelli;
ma come una vampa segreta al fondo di un bruciore
il desiderio delle tue labbra è restato fra le mie labbra!

 
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Libri dimenticati:Vedi,non ho dimenticato

Post n°1085 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Splendida,intensa biografia di Yves Montand

 
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Frase del giorno

Post n°1084 pubblicato il 28 Ottobre 2011 da odette.teresa1958

Se non puoi avere quello che vuoi,cerca di volere quello che puoi avere (Ibn Gabirol)

 
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