Messaggi del 01/11/2011

Il ricordo

Post n°1118 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Questa e’ una storia che parla di amicizia. Non tra due esseri umani o tra due animali e neanche tra due piante.
I protagonisti di questa vicenda sono la scuola e il cinema di un paesino, Capracotta.
A Capracotta la vita scorreva tranquilla. La gente si alzava, andava al lavoro o a scuola, insomma la solita routine. Tra tutto questo affaccendarsi, si affaccendavano anche gli edifici di questo paese.
La scuola era proprio fiera di se stessa. Era un’antica, bellissima e signorile costruzione e sapeva di esserlo. Tra le sue mura, tutti i giorni, da almeno cento anni, pulsava la cultura.
Quello però che stava più a cuore alla scuola, che si chiamava Agnese, erano i rapporti umani che nascevano e si sviluppavano al suo interno. Aveva visto amori nascere, finire, aveva visto persone piangere e ridere e durante gli esami, sentiva anche lei le emozioni e la tensione degli studenti. Aveva visto professori andare in pensione e giovani professori venire assunti. Aveva assorbito praticamente parte dello spirito vitale di tutte le persone che avevano trascorso una parte della loro vita al suo interno.
Era il ritratto della saggezza.
Anche il suo amico, Amilcare, il cinema, era veramente fiero della sua vita. Certo, era più recente come costruzione ma aveva vissuto bellissime esperienze anche lui. Nella penombra della sua sala, le persone vivevano intense emozioni, tanto che il suo cuore era carico di tenerezza e di amore.
La notte, quando Agnese e Amilcare avevano finito di lavorare, si incontravano nel silenzio del paese. Amilcare raccontava bellissimi films ad Agnese che si divertiva tantissimo nel vederlo mimare le scene. Lei gli raccontava storie antiche o lo portava con l’immaginazione in luoghi geografici fantastici o ancora gli raccontava bellissime poesie.
Amilcare osservava con dolcezza Agnese e si rendeva sempre più conto che la sua amica stava invecchiando. Le crepe nelle sue mura erano sempre più profonde e grosse e anche se gli uomini la curavano, tra poco tempo l’avrebbe persa.
Qualche mese dopo, infatti, la scuola venne abbattuta in una fredda mattinata di novembre. Amilcare pianse, ma continuo’ a proiettare films, anche allegri, poiché il mondo non si era fermato.
Tempo dopo arrivo’ al suo interno una nuova pellicola, un bellissimo film girato proprio lì, a Capracotta.
Quella sera, tutto il paese era al cinema per vederlo. Amilcare assisteva alla proiezione con la solita tristezza quando apparve sullo schermo Agnese in tutto il suo splendore.
Fu allora che sentì due bambini dire:
”Hai visto, e’ la nostra scuola, com’è bella! Non la dimenticheremo mai! Mamma guarda la scuola dove sei andata anche tu! Com’è bella!”.

 
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L'asinello piangente

Post n°1117 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Lillo, il caprone, stava recandosi presso il campo di trifoglio fresco, di cui andava assai goloso. Mentre camminava, sentì, da dietro il pagliaio, una voce lamentarsi.
Preoccupato fece per andare a vedere, quando da dietro un covone spuntò fuori Aristotele, l’asinello grigio della fattoria.
-Che cosa ti è successo Ary? Perché piangi?- disse impensierito il barbuto caprone.
Il ciuchino continuò a singhiozzare, e mentre seguitava a versar lacrime rispose:
-E’ per via di Vento, il cavallo. Lui dice di galoppare tanto più forte di me, e mi indica come un ozioso e un ritardato. Quando vuole offendere qualcuno gli dà del somaro, ed io ne soffro. Va sparlando di me come di un bighellone, prendendosi gioco dei miei lunghi orecchi, dei fianchi grossi in confronto ai suoi, e della altezza ridicola rispetto al suo metro e sassantacinque al garrese!
Lillo rimase per un po’ serio, poi cominciò a ragionare ad alta voce.
-Eppure tu lavori molto! Ti impegni con la soma, traini il carretto con il fieno, fai muovere la macina, tutti ti dovremmo essertene grati!.....Purtroppo spesso la menzogna val più della verità!
L’asinello rispose:
-Di solito noi finiamo coll’essere quello che gli altri pensano di noi: e così assumiamo un ruolo. In questo modo forse hanno ragione Vento e gli altri membri della fattoria, sono un fannullone!
-Niente a fatto! Tu sei un gran lavoratore, ti impegni e sei mansueto. Noi non dobbiamo subire la realtà, né fuggirla, dobbiamo lavorare per quello che siamo e trarne soddisfazione. E’ nostro dovere costruire il proprio presente e anche il futuro!
Aristotele stette un po’ a riflettere, poi espresse, tutto consolato, un pensierino finale:
-Hai proprio ragione! Il mio padrone è contento di me! Io sono pago per quanto faccio, e l’appagamento di sé si ha quando i punti di riferimento per costruirsi la propria immagine non si cercano solo all’esterno, ma soprattutto dentro di sé!
E così il somarello grigio smise di piangere, e trotterellando corse verso la macina, per riprendere a lavorare lieto e sereno.


 
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Come nacque la rondine maschio

Post n°1116 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

La strada era in salita e pietrosa e l’asino faticava a camminare; il cielo era stellato, ma faceva molto freddo.
L’uomo stentava a tirarsi dietro l’animale sul quale era seduta la sua sposa in attesa di un bimbo, che sarebbe nato presto.
Nell’oscurità, mentre camminavano, l’uomo vide qualcosa di scuro che si dibatteva in un rovo; si avvicinò e vide che era un uccello che era rimasto impigliato tra le spine; era una rondine, nera come non se non s’erano mai viste, che forse, proprio a causa di questo incidente, non aveva fatto in tempo a migrare con le altre verso le zone calde.
L’uomo disse a sua moglie: “Guarda, poverina! Bisogna liberarla o morirà”.
La donna cominciava già a sentire i primi dolori del parto, ma solerte aggiunse: “Sì Giuseppe, ma stai attento a non romperle le zampine”.
Con la massima delicatezza, l’uomo liberò l’uccello senza fargli male ed esso subito cominciò a svolazzare intorno alla coppia, quasi volesse ringraziarli.
Ma la donna disse: “Proseguiamo Giuseppe; io comincio ad avere le doglie”.
L’uomo premuroso le rispose: “Bisogna allora trovare subito un alloggio e una donna esperta che ti aiuti a partorire. Non aver paura Maria; ci sono io con te”.
Ma la città era gremita di gente, venuta da ogni parte per un censimento, e gli sposi si dovettero accontentare di ricoverarsi in una stalla e qui, venne alla luce il bimbo.
E mentre Maria era distesa col bambino tra le braccia, Giuseppe vide arrivare alcuni pastori che chiesero di entrare nel misero rifugio e poi si inchinarono ad adorare la creatura appena nata.
Mentre i pastori erano ancora lì, si udì un battito d’ali vicino alla porta semiaperta della stalla, e poco dopo entrò la rondine che cominciò a volare qua e là, attirando lo sguardo dei presenti; anche la puerpera alzò la testa a guardarla, e i suoi occhi nero azzurri fissarono il volatile che si avvicinò a lei, quasi attratto da essi.
E qui avvenne il primo “miracolo”: le penne della rondine da nerissime che erano, divennero blu, quasi come gli occhi dolci di Maria.
Poi il volatile vide quel bimbo seminudo e volle poggiare il suo cuoricino sul suo per scaldarlo; ed ecco che il petto le divenne bianco, come l’anima candida che era appena venuta al mondo.
Infine l’uccello si avvicinò all’uomo che l’aveva strappato con le sue mani alla morte e gli toccò col petto la barba color ruggine; e sul piumaggio bianco si formò una macchia anch’essa rossastra.
Era nata la rondine maschio che ha il dorso di un blu lucente e il ventre chiaro sfumato di bruno ruggine.
Dopo tutte queste cose, essa uscì da quell’umile rifugio così come era venuta e volò in alto…molto in alto in quella notte magica, tanto che si pensa che arrivò a sfiorare con le sue ali quelle degli Angeli.

 

 
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La maschera dimenticata (Pirandello)

Post n°1115 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Nella sala già quasi piena per la riunione indetta dal Comitato elettorale in casa del candidato Laleva, tutti, vedendolo entrare zitto zitto zoppicante e con gli occhi fissi e cupi sotto la fronte grinzuta, s’erano voltati, stupiti, a mirarlo.
Don Ciccino Cirinciò? Possibile? E chi lo aveva invitato?
Si sapeva che da anni e anni non s’immischiava piú di nulla, tutto assorto com’era nelle sue sciagure: la morte della moglie e di due figliuoli, la perdita della zolfara dopo una sequela di liti giudiziarie, e la miseria: sciagure che avrebbe fatto meglio a portare in pubblico con dignità meno funebre, perché non spiccasse agli occhi di tutti i maldicenti del paese quel sigillo particolare di scherno con cui la sorte buffona pareva si fosse spassata a bollargliele, se era vero che la moglie gli fosse morta per aver partorito su la cinquantina non si sapeva bene che cosa: chi diceva un cagnolo, chi una marmotta; e che avesse perduto la zolfara per una virgola mal posta nel contratto d’affitto; e che zoppicasse cosí per una famosa avventura di caccia, nella quale invece dell’uccello era volato in aria lui con tutti gli stivaloni e lo schioppo e la carniera e il cane, investito dalle alacce d’un mulino a vento abbandonato sul poggio di Montelusa, le quali tutt’a un tratto s’erano messe a girare da sé; per cui ormai era inteso da tutti come don Ciccino Cirinciò «quello del mulino».
Cosa strana: se da qualche malcreato sentiva fare allusione a quel parto della moglie o a quella virgola nel contratto d’affitto, sorrideva triste o scrollava le spalle; ma nel sentirsi chiamare quello del mulino usciva dai gangheri, minacciava col bastone e urlava che il suo era un paese di carognoni imbecilli.
Ora questi carognoni imbecilli ecco che si maravigliavano del suo intervento alla riunione elettorale. Ma ci voleva tanto i pensare ch’egli doveva – prima di tutto – gratitudine eterna al vecchio avvocato don Francesco Laleva, padre del candidato d’oggi, l’unico tra tutti gli avvocati del fòro che lo avesse ajutato e difeso nell’occasione delle liti per la zolfara? Queste liti, è vero, le aveva perdute; l’ajuto, perciò, se vogliamo, era stato vano; ma che per questo? L’obbligo della gratitudine non restava forse per lui stesso, sacrosanto? E poi – a parte la gratitudine – ci voleva tanto forse a crederlo capace di un sentimento, che doveva in quell’ora esser comune a tutti i galantuomini, disgraziati e non disgraziati? Perdio, il sentimento della dignità del proprio paese! Era, sí o no, un cittadino anche lui? Le disgrazie, va bene; ma, come cittadino, non poteva essere forse indignato anche lui delle spudorate vergogne che il vecchio deputato uscente commetteva da venti anni impunemente? Non parlava; non aveva mai parlato, perché – le parole – vento! Ma ora ch’era venuto il tempo d’agire, sissignori; eccolo qua; si presentava da sé, non invitato, per mettersi a disposizione del figlio del suo antico e unico benefattore.
I radunati stettero un pezzo a mirarlo a bocca aperta; qualcuno si toccò con un dito la fronte, come per dire: «Eh, che volete? gli s’è voltato il cervello, poveretto!». Perché sapevano tutti che non era vero che dovesse poi tanta gratitudine al padre del Laleva, il quale non lo aveva né ajutato né difeso; ma solo dissuaso dal mettersi in lite per quella zolfara maledetta. Se non che, a forza di ragionare tra sé e sé le sue disgrazie, chi sa, povero Cirinciò, com’era arrivato adesso a rappresentarsi uomini e cose, tutti gli avvenimenti della sua vita; e quali parti in questi lontani avvenimenti della sua vita attribuiva a presunti amici, a presunti nemici! E chi sa da che strambe ragioni era stato perciò indotto a presentarsi ora lí non invitato; e che cosa, nei misteriosi arzigogoli, nelle segrete previsioni del suo spirito conturbato, doveva rappresentare per lui questa sua partecipazione alla lotta politica in favore del figlio di don Francesco Laleva; che beneficii sbardellati se ne riprometteva, che tremendi pericoli e responsabilità si immaginava di dovere affrontare... Ma sí, quegli occhi che lampeggiavano sotto la fronte aggrottata; quelle pugna serrate sui i ginocchi... Povero don Ciccino!
Cirinciò, invece, guardava cosí, perché non riusciva a spiegarsi il perché di tutta quella meraviglia per la sua venuta.
Vedendosi osservato, spiato da lontano con quell’aria di costernazione perplessa e afflitta, cominciò a entrare in sospetto, che non lo volessero lí. Aveva forse capito male l’invito del Comitato elettorale?
A un certo punto, non potendone piú, s’alzò sdegnoso, e, zoppicando, s’accostò a domandarlo al Laleva:

– Scusate, debbo rimanere o me ne debbo andare? Ho forse fatto male a venire?

– Ma no! perché, caro don Ciccino? – s’affrettò a rispondergli il Laleva. – Siamo tutti felicissimi, e io particolarmente, della sua venuta! Ma si figuri! Segga, segga. L’ho per un onore; e ne ho tanto piacere!

«E allora?» domandò a sé stesso Cirinciò, tornando a sedere. «Perché tutti mi guardano cosí?»

Che ci fosse in lui qualche cosa ch’egli non vedeva e che gli altri vedevano? Perché in quel momento gli pareva proprio che potesse, come tutti gli altri, occuparsi delle elezioni, e che non ci fosse, in questo, nulla di straordinario.
Capiva bene, sí o no? Ma sí, perdio, che capiva benissimo tutte le discussioni che ora si facevano attorno a lui su le probabilità piú o meno di vittoria, sulla disposizione dei varii partiti locali in questo e in quel comune del collegio, sul computo dei voti favorevoli e contrarii, non solo, ma gli pareva anzi di veder piú chiaro di certuni nella tattica da seguire verso qualche capo-elettore ancora neutrale nella lotta. Tanto che a un certo punto, dimenticandosi del dubbio che lo aveva finora tenuto ingrugnato e sospettoso, non poté piú trattenersi; s’alzò, prese la parola e in breve, con chiarezza e semplicità, espresse il suo concetto, come a lui pareva che si dovesse fare.
Fu nella sala uno sbalordimento generale; perché proprio nessuno riusciva a capacitarsi come mai don Ciccino Cirinciò potesse vedere cosí chiaro e giusto. Eppure, sí, era proprio quella la mossa da tentare; si doveva far proprio come diceva lui.
Tre quattro volte, durante la lunga discussione, si rinnovò quello sbalordimento per il retto giudizio e la giustezza dei consigli e la finezza degli espedienti da lui suggeriti. Non pareva vero! Signori miei, don Ciccino Cirinciò... Ma parlava benissimo! Chi l’avrebbe creduto? Un oratore... Ma bravo! Ma bene! Viva Cirinciò!
Piú sbalordito di tutti, alla fine, perché da un canto non gli pareva proprio d’aver detto cose cosí straordinarie da suscitare tanto stupore, tanto fervore d’ammirazione; ma, dall’altro canto, mezzo ubriacato dagli applausi Cirinciò si trovò designato da tutti a un posto di combattimento difficilissimo, nel comune di Borgetto, che si riteneva la cittadella inespugnabile del partito avversario.
Cercò di tirarsi indietro, con la scusa che non conosceva nessuno lí; che non c’era mai stato; disse anche che non erano imprese per lui; che aveva esposto cosí, in astratto il suo modo di vedere, ma che nell’atto pratico si sarebbe perduto. Non vollero neppur lasciarlo finire di parlare; lo costrinsero ad accettare quel posto di combattimento: cosí, la mattina dopo, don Ciccino Cirinciò, provvisto di mezzi e di commendatizie, partí per Borgetto.
Vi fece miracoli, a detta di tutti, nei quindici giorni che precedettero l’elezione politica. Veri miracoli, se in due settimane riuscí a cambiare la posizione del Laleva in quel comune da cosí a cosí.
Fu per il bisogno di raggiungere e toccare una realtà qualunque nel vuoto strano, in cui quell’avventura impensata lo aveva cosí d’improvviso gettato? Vuoto arioso e lieve, nel quale tutti gli aspetti nuovi, d’uomini e di cose gli apparivano come in una luce di sogno, nella freschezza di quell’azzurro di marzo corso da allegre nuvole luminose? O fu per il prorompere di tante energie ancor vive e ignorate, da anni e anni compresse in lui, soffocate dall’incubo delle sciagure? Energie giovanili, intatte, che lo avrebbero portato chi sa dove, chi sa a quali imprese, quali vittorie, se la sua vita non si fosse chiusa come s’era chiusa nel lutto di quelle sciagure?

Il fatto è che operò miracoli in quel paesello dove nessuno lo conosceva. E certo perché nessuno lo conosceva.
Tutto fuori di sé, là, in preda a quelle energie insospettate e scatenate d’un subito in lui, affrontò imperterrito gli avversarii, li forzò a discutere e a riconoscere prima gli errori e l’insipienza, poi la vergogna del loro vecchio deputato; e non si diede un momento di requie: ora qua a scrollare i titubanti; ora là a sventare un’insidia, a presiedere un comizio, a sfidare al contradittorio anche lo stesso deputato uscente, o chi per lui: tutto quanto il paese!
Cose che non avrebbe mai supposto non che di poter dire, ma neppure di pensare lontanamente, gli venivano alle labbra, spontanee, con un’abbondanza e facilità di parola, un’efficacia d’espressioni, che ne restava lui stesso come abbagliato. Pareva che una vena nuova di vita gli fosse rampollata dentro, e si fosse messa a scorrere in lui con urgenza impetuosa. Coglieva a volo tutto, comprendeva tutto a un minimo cenno; e ogni cosa, dentro, pur restandogli nuova e fresca, gli diventava subito nota e propria; se n’impadroniva con quelle forze vergini, che non avevano potuto aver mai uno sfogo in lui, e che ora lo rendevano àlacre e sicuro della vittoria, come un giovane, tra la frenesia che già aveva preso a bollire in tutti coloro che gli si facevano attorno sempre in maggior numero, e che a stento riuscivano a tenergli dietro in quella tumultuosa agitazione.
Non pensò piú neanche d’aver una gamba zoppicante. Non gli faceva piú male. Gli anni? Sessantadue, sí... Ma che voleva dire? Avanti! Era come se cominciasse ora la vita. Avanti! avanti! Qua, per il momento, c’era da correre a minacciare a quel signor assessore la denunzia delle cento schede trattenute ai soci del circolo operajo, poi a documentare il tentativo di corruzione del signor sindaco: il pagamento di cinquanta voti a dieci lire l’uno. Come documentarlo? Ma con le testimonianze, perdio! S’incaricava lui di far confessare quei contadini alla presenza d’un notajo, lui, lui... Avanti!

Arrivò cosí al giorno della vittoria che pareva un altro, ricreato in quell’aura di popolarità, tra gente nuova, in un paese nuovo, preso d’assalto, messo sottosopra e conquistato in pochi giorni. E, la sera della proclamazione del nuovo eletto, si presentò raggiante nella vasta sala del Circolo dei «civili» dove era imbandita una splendida mensa in suo onore; per quanto già gli apparissero evidenti i segni della stanchezza nella vecchia maschera dimenticata.
Circolava intanto in quella sala, nell’attesa che i posti fossero assegnati nella mensa, un certo squallido ometto scontorto, dal cranio d’avorio, luccicante sotto i lumi. Quasi a nascondersi, teneva il capo insaccato nelle spallucce ossute, ma cacciava in tutti i crocchi la punta della barbetta arguta, gialliccia, come scolorita, e figgeva in faccia a questo e a quello gli occhietti lustri, acuti come due spilli, che gli spiccavano maligni nel cereo pallore del viso. Si fermava un momento a ripetere una domanda insistente alla quale era chiaro che non riceveva una risposta che lo soddisfacesse; negava col dito, scrollava le spalle come se esclamasse: «Ma che! Ma che! Impossibile!», o stirava il volto sporgendo il labbro inferiore, come uno che non riesca a capacitarsi, e s’allontanava rivoltandosi a guardare di sfuggita e di sbieco, con quegli occhietti puntuti, Cirinciò.
Cirinciò se n’accorse subito.
Pur tra il fervore entusiastico dell’accoglienza, si sentí ferire fin da principio da quegli occhietti. Cercò di sfuggirli, rituffandosi in mezzo alla confusione della festa. Ma di qua, di là, da vicino, da lontano, donde meno se l’aspettava, si sentiva pungere dalla fissità quasi spasimosa di quegli occhietti persecutori; e, appena punto, raggelare, sconcertare, rimescolar tutto da un sentimento oscuro che, facendogli impeto rabbiosamente, gli occupava come di una tenebra di vertigine il cervello. Si ripigliava; ma avvertiva internamente che non gli era piú possibile ormai tenersi fermo, ché tutto, dentro, gli vagellava, non tanto per la persecuzione di quegli occhietti, di cui in fine non aveva nulla da temere, quanto perché... perché non lo sapeva bene lui stesso.
Non era timore, non era vergogna; ma si sentiva come tratto di dentro a nascondersi e a scomparire da quella festa.
Troppo chiasso, oh Dio... troppo chiasso.
E andando in giro per la sala, intronato, faceva atto con le mani di smorzare i rumori.
Ma piú faceva cosí, piú si acuiva proprio fino allo spasimo in quei tali occhietti una curiosità pazzesca.
E allora Cirinciò cadde in preda a una cosí cupa esasperazione, che di fuori ebbe lo strano effetto di farlo apparire quasi cangiato all’improvviso.
Si riebbe un momento allorché tutti lo presero e lo portarono in trionfo a sedere a capo tavola; ma, cessata l’agitazione della cerca dei posti, appena tutti si furono accomodati, Cirinciò, volgendo lo sguardo in giro, ricadde piú intronato che mai e nell’intronamento si fissò, come impietrato, vedendosi vicinissimo, a quattro posti di distanza, quell’ometto che seguitava a fissarlo, e ora – ecco – allungava il collo verso di lui, con l’indice teso come un’arma presso uno di quegli occhietti diabolici, quasi a prender la mira, e gli domandava:

– Ma scusate, non siete don Ciccino Cirinciò, voi?

Non era sul nome la domanda. Non potevano capirlo gli altri; ma lui, sí, Cirinciò lo intese benissimo.
Che quegli fosse don Ciccino Cirinciò, glielo dovevano aver detto e ripetuto tutti cento volte, a quell’ometto. Ma appunto di questo non riusciva a capacitarsi quell’ometto: che cioè don Ciccino Cirinciò ch’egli tempo addietro aveva conosciuto, fosse questo che ora gli stava davanti. .. Questo? Possibile!

– Quello del mulino?

Sí, sí, quello del mulino... Aveva ragione! Non era credibile! – Cirinciò adesso tutt’a un tratto lo riconosceva anche lui.

Non era credibile, non appariva piú credibile neanche a lui stesso, che quello del mulino, lui, proprio lui, potesse trovarsi lí, in mezzo a quella festa, e che avesse potuto fare tutto quel che aveva fatto, senza saperne piú il perché.
Che importava a lui, infatti, ora che con gli occhi di quell’ometto si vedeva rientrare in sé medesimo con tutte le sue sciagure e la sua miseria, che importava piú a lui della vittoria del Laleva? delle vergogne del deputato sconfitto?
Tutti i convitati, nel vederlo cosí d’un subito appassire, credettero in prima che fosse effetto di momentanea stanchezza, e cercarono di ravvivarlo con incitamenti e congratulazioni; ma si sentirono rispondere e agghiacciare con certi scemi e strascicati: «Già... già...» che rivelarono assente, lontano mille miglia dalla festa, lo spirito di lui E quando, il giorno appresso, Cirinciò se ne partí da Borgetto, ingrugnato, funebre, rispondendo a mala pena ai saluti, tutti restarono a guardarsi tra loro, non sapendo comprendere la ragione di un mutamento cosí improvviso, e parecchi avanzarono il sospetto che fosse un imbroglione, un miserabile impostore venuto a mistificarli.

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Un petshop a S.Tobia

Post n°1114 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

E' tornato e ci ha rifatto,lettori miei!
L'ineffabile Isaia Martellacci ha avuto la brillante idea di aprire nel nostro ameno paesino un negozio di animali esotici,di quelli che nessun individuo sano di mente si metterebbe in casa.
I risultati,essendo a S.Tobia e trattandosi di Isaia,sono stati catastrofici e passo senza indugio ad elencarveli.
LUNEDI- Isaia ha convinto Berengario a prendersi un gallinaccio rampino del Burundi meridionale,uccellaccio incrocio fra un condor e una gallina che gli adoratori delle formiche nane usano come cane da guardia.Il postino è stato quasi ucciso a beccate
MARTEDI'- Perseo ha chiesto a isaia un animale da compagnia per il nonno Melchiorre.E' tornato a casa con un ragno carnivoro dell'Indonesia che ha quasi scarnificato il naso al vecchiardo ed è stato per questo giustiziato a bastonate.
MERCOLEDI'-Odoacre ha regalato alla madre,in lutto per la morte del suo barboncino,un'iguana a pois del Burundi.Lui e la besta detengono il record di salto sul campanile.
GIOVEDI'- Asmodeo ha comprato un boa constrictor che ha concepito una folle passione passione per il Telesforo e ha tentato di uccidere la Cleopatra per prendere il suo posto.
VENERDI'- Tarquinio e l'Ermione sono tornati a casa con una pantegana-elefante del Burundi al guinzaglio.
Genitori e sorella hanno passato la notte al cimitero.
SABATO- Be'erino si è messo in testa di allevare formiche nane.
La Strombazzoni-Bon lo ha quais ucciso a colpi di bistecchiera e poi lo ha mollato.
DOMENICA- Isaia ha chiuso bottega perchè vendeva troppo poco.
Ireneo ha fatto suonare le campane a stormo per 48 ore e la Marianna ha dichiarato questo giorno festa nazionale.
Sono passate due settimane.
I gallinacci rampini in Lapponia non ci sono,quindi il postino ora vive lì.
Geppo e i cani hanno adottato l'uccellaccio.
Lo Scozzagalli èstato denunciato per aver ucciso un animale appartenente a una specie protetta.
Odoacre ha cacciato di casa madre e moglie e vive felice con l'iguana,che si chiama Pallino.
Dato che il boa in casa non può stare,Erode ha pensato bene di farne dono a Totonno O' Scornacchiato perchè si ricordi di lui (come fa a dimenticarsene,dico io?)
La pantegana è stata rispedita in Burundi.Tarquinio e l'Ermione,una tantum d'accordo,meditano sanguinose rappresaglie.
Be'erino si è liberato delle formiche,ma ha perso la moglie.
Isaia è in Burundi ed alleva gallinancci rampini,facendo soldi a palate.
Augurnadogli tutto il bene del mondo e sperando che non si faccia vedere mai più,passo e chiudo






 

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Il giorno più bello (Madre Teresa)

Post n°1113 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Il giorno più bello? Oggi.
L’ostacolo più grande? La paura.
La cosa più facile? Sbagliarsi.
L’errore più grande? Rinunciare.
La radice di tutti i mali? L’egoismo.
La distrazione migliore? Il lavoro.
La sconfitta peggiore? Lo scoraggiamento.
I migliori professionisti? I bambini.
Il primo bisogno? Comunicare.
La felicità più grande? Essere utili agli altri.
Il mistero più grande? La morte.
Il difetto peggiore? Il malumore.
La persona più pericolosa? Quella che mente.
Il sentimento più brutto? Il rancore.
Il regalo più bello? Il perdono.
Quello indispensabile? La famiglia.
La rotta migliore? La via giusta.
La sensazione più piacevole? La pace interiore.
L’accoglienza migliore? Il sorriso.
La miglior medicina? L’ottimismo.
La soddisfazione più grande? Il dovere compiuto.
La forza più grande? La fede.
Le persone più necessarie? I sacerdoti.
La cosa più bella del mondo? L’amore.

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Libri dimenticati:Rasputin

Post n°1112 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Un'affascinante biografia di Massimo Grillandi dedicata al controverso consigliere della zarina,che si legge come un romanzo

 
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Frase del giorno

Post n°1111 pubblicato il 01 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Tutto è relativo.Prendi un ultracentenario che rompe uno specchio:sarà ben lieto di sapere che ha ancora sette anni di disgrazie (Einstein)

 
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questi versi sono tanto struggenti quanto veritieri. Ciao e...
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il 23/03/2014 alle 04:38
 
 

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