Messaggi del 04/11/2011

Il semaforo blu

Post n°1131 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Una volta il semaforo che sta a Milano, in piazza del Duomo fece una stranezza.
Tutte le sue luci, ad un tratto, si tinsero di blu', e la gente non sapeva più come regolarsi.
"Attraversiamo o non attraversiamo? Stiamo o non stiamo?"
Da tutti i suoi occhi, in tutte le direzioni, il semaforo diffondeva l'insolito segnale blu', di un blu' che così blu' il cielo di Milano non era stato mai.
In attesa di capirci qualcosa gli automobilisti strepitavano e strombettavano, i motociclisti facevano ruggire lo scappamento e i pedoni più grassi gridavano:
"Lei non sa chi sono io!"
Gli spiritosi lanciavano frizzi:
"Il verde se lo sarà mangiato il commendatore, per farci una villetta in campagna.
Il rosso lo hanno adoperato per tingere i pesci ai Giardini.
Col giallo sapete che ci fanno? Allungano l'olio d'oliva."
Finalmente arrivò un vigile e si mise in mezzo all'incrocio a districare il traffico. Un altro vigile cercò la cassetta dei comandi per riparare il guasto, e tolse la corrente.
Prima di spegnersi il semaforo blu' fece in tempo a pensare:
"Poveretti! Io avevo dato il segnale di - via libera - per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio."

 
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La leggenda del presepio

Post n°1130 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Siamo ormai alle porte dell'inverno e un pensiero assillante dominava la mente di Francesco: l'avvicinarsi della ricorrenza della nascita del Redentore.
Il poverello di Cristo, nella sua innata semplicità si fece audace, e durante l'udienza pontificia, concessagli per lo scopo suddetto, umilmente chiese al Papa la licenza di poter rappresentare la natività.
Infatti, dopo il viaggio in Palestina, Francesco, rimasto molto impressionato da quella visita, aveva conservato una speciale predilezione per il Natale e questo luogo di Greccio, come dichiarò lui stesso, gli ricordava emotivamente Betlemme.
Tormentato dal vivo desiderio di dover celebrare quell'anno, nel miglior modo possibile, la nascita del Redentore, giunto a Fonte Colombo, mandò subito a chiamare Giovanni Velita, signore di Greccio, e così disse:
"Voglio celebrare teco la notte di Natale. Scegli una grotta dove farai costruire una mangiatoia ed ivi condurrai un bove ed un asinello, e cercherai di riprodurre, per quanto è possibile la grotta di Betlemme! Questo è il mio desiderio, perché voglio vedere, almeno una volta, con i miei occhi, la nascita del Divino infante."
Il cavaliere Velita aveva quindici giorni per preparare quanto Francesco desiderava e tutto ordinò con la massima cura ed " il giorno della letizia si avvicinò e giunse il tempo dell'esultanza!".
Da più parti, Francesco aveva convocato i frati e tutti gli abitanti di Greccio. Dai luoghi più vicini e lontani mossero verso il bosco con torce e ceri luminosi.
Giunse infine il Santo di Dio, vide tutto preparato e ne gode.
Greccio fu così la nuova Betlemme!
Con somma pietà e grande devozione l'uomo di Dio se ne stava davanti al presepio, con gli occhi in lacrime e il cuore inondato di gioia.
Narra Tommaso da Celano: "Fu talmente commosso nel nominare Gesù Cristo, che le sue labbra tremavano, i suoi occhi piangevano e, per non tradire troppo la sua commozione, ogni volta che doveva nominarlo, lo chiamava il Fanciullo di Betlemme. Con la lingua si lambiva le labbra, gustando anche col palato tutta la dolcezza di quella parola e a guisa di pecora che bela dicendo Betlemme, riempiva la bocca con la voce o meglio con la dolcezza della commozione".
E narrasi ancora come vedesse realmente il bambino sulla mangiatoia, scuotersi come da un sonno tanto dolce e venirgli ad accarezzare il volto.
Un cavaliere di grande virtù e degno di Fede, il signore " Giovanni da Greccio" asserì di aver visto quella notte un bellissimo bambinello dormire in quel presepio ed il Santo Padre Francesco stringerlo al petto con tutte e due le braccia.
La narrazione della visione di questo devoto cavaliere è resa credibile non solo dalla santità di colui che la vide con i suoi occhi, ma è confermata anche dai miracoli che ne seguirono: come quello della paglia di quel presepio, che serviva per sanare in modo prodigioso le malattie degli animali ed ad allontanare le pestilenze, per la misericordia del Signore.
Così ebbe origine il tradizionale Presepio che si costruisce in tutto il mondo Cristiano, per ricordare la nascita del Redentore.




tratto dalla Pro Loco di Greccio

 

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La casa delle farfalle

Post n°1129 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Un tempo, neppure troppo lontano, in un bosco ombroso e profumato dalla resina di abeti rossi ed alti larici, ai bordi di una fonte cristallina proveniente da un immenso e abbagliante ghiacciaio, viveva Asteria, la fata.
A lei obbedivano le nevi invernali, il disgelo, lo sbocciare dei fiori sui prati e lo sciamare delle farfalle, cui era lei a donare la varietà di colori.
Quello era il suo compito, da millenni, e ricordava di averlo sempre svolto con amorevole precisione. Quando l'inverno stendeva su tutto la sua coltre di silenzio, Asteria si addormentava, chiusa tra pareti di cristallo.
Appena il sole primaverile scioglieva quelle gelide mura, la fata si destava e quello era sempre, per lei, un nascere nuovo alla vita. Allora nubi di farfalle, bianche come le nevi perenni, le si affollavano intorno.
Con un lieve accennare di ciglia ella ne colorava alcune di giallo, altre di rosso, altre di azzurro; quando, ormai stanca, si accorgeva che le ultime, più timide e timorose, non erano riuscite ad aggiungere alcun colore alle loro ali, le chiamava tutte presso di sè e, ruotando vorticosamente, le spruzzava del profumato umore dei suoi lunghi capelli.
Allora, le miti farfalle candide si screziavano di punti luminosi, con tutte le tinte dell'arcobaleno.
La fata, così, era felice : batteva le mani, gioiosa, le contemplava nei loro voli e spesso, assumendo le dimensioni di una libellula, gareggiava in volteggi sotto i raggi del sole. Quando la sera scendeva, Asteria cercava un morbido giaciglio tra i fiori e là riposava, aspettando il nuovo giorno.
Nessun umano, mai, si era spinto così in alto da poterla vedere : le cime dei monti, minacciosamente innevate, l'avevano protetta.
Al termine di una lunga giornata estiva, piena di voli, di canti, di soste lungo la fresca riva del ruscello, la fata era stanca. Scelse la corolla azzurrina di un convolvolo come sua stanza da notte e si adagiò tra quei petali, che si richiusero su di lei, come scrigno a custodire la perla. Il mattino, quando il primo raggio di sole la risvegliò, le farfalle azzurre le recarono il loro saluto. Ancora semiaddormentata, ella sentì tutto il fiore scuotersi, come per un violentissimo terremoto.
Non fece in tempo a volare via, e si trovò in un luogo buio e soffocante. Non poteva riacquistare le sue dimensioni abituali perchè le fate, quando sono prigioniere, perdono i loro poteri. Non si spaventò: la sua natura eterea la proteggeva da qualunque pericolo. Sentì che qualcuno la portava lontano. D'un tratto si fermarono. La luce apparve di nuovo ed ecco, un lembo del sacchetto in cui era stato infilato il fiore, si aprì.
Fu lesta a uscirne, furibonda per l'offesa subìta, ed a riprendere la figura usuale. La sua ira sbollì improvvisamente, però, quando vide l'essere che le era dinanzi.
Era alto più di lei, giovane, bruno, incredibilmente bello; i suoi occhi scuri avevano un'espressione curiosa e meravigliata: sembravano morbidi come petali di fiori. Non era un elfo dei boschi e neppure uno degli appartenenti al popolo magico.
-Chi sei? - gli chiese, e la sua voce aveva in sé il mormorio delle foglie del bosco.
-Sono Max, il cacciatore. Ma tu, piuttosto, chi sei, e dove eri nascosta? -
Asteria rise, e al giovane sembrò di udir scorrere l'acqua del ruscello.
- Sei certamente un uomo! Solo uno di loro può essere così impudente!- lo guardò di nuovo. -Sono diventati belli, gli uomini. Sei il primo che arriva quassù da più di mille anni. A proposito, - e qui sentì che la collera la riprendeva - come hai potuto strappare la corolla di quel fiore?-
Il giovane la contemplava, ammirato e intimidito.
- Ma sei vera? Credevo che le fate non esistessero più. Perchè tu devi essere una fata, oppure io sto sognando ad occhi aperti.
- Lei gli sorrise e tutta la sua persona rifulse come gemma.
- Si, Max il cacciatore, io sono Asteria, la fata; a me sono affidati questi monti, e tutto ciò che li fa vivere è sotto la mia cura. Non devi strappare le corolle dei fiori, o catturare gli esseri del bosco, perchè susciti la mia ira; sei bello, cacciatore, per questo non ti punirò. Dovrai però andare via di qui. Potrai restare un po' -aggiunse poi, notando che lui si rattristava in volto- soltanto promettendo di non far nulla che rechi danno ai miei protetti.-
Il giovane acconsentì all'istante. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di restare con lei: mai aveva visto essere più affascinante. La sua veste lieve era composta di multicolori ali di farfalle, i suoi capelli avevano la tinta delle viole che crescevano sulla riva del ruscello; quando lo guardava, nei suoi occhi brillava il cielo stellato delle notti d'agosto.
-Vieni con me, cacciatore. Ti mostrerò la bellezza del mio regno.-
Battè leggermente le mani: nell'aria apparve una barchetta bianca, trainata da farfalle azzurre.
Salirono su di essa senza difficoltà, quasi fossero privi di peso. A Max sembrava di vivere un sogno.
Le acque, i fiori, i profumi lo stordivano. La sua compagna lo guardava e quel sorriso contribuiva ad accrescere la confusione dei suoi pensieri. Lo scenario attorno cambiava continuamente: un momento immersi nelle nubi bianche, subito dopo a sfiorare la superficie dei ghiacciai. Intanto Asteria cantava una canzone antica, che mai essere umano aveva udito: al giovane sembrava che fosse il sole a far tintinnare i ghiacci, il vento a far mormorare erbe e fiori. Senza suoni conosciuti essi dicevano :
ama, sii felice, ama .
La sera li sorprese sull'altipiano: avevano bevuto il nettare rosato delle primule e riposavano sotto un abete pluricentenario, che li proteggeva coi suoi rami odorosi.
-Eccoti, finalmente!-
Una voce stridula ruppe quell'incanto silenzioso. Max sembrò svegliarsi da un sogno :
-Irma! Ma...perchè sei qui? Io sono a caccia...-
-A caccia! E' lei la tua preda? Volevi ingannarmi? E dicevi di amare me! -
La fata dapprima fu infastidita da quel chiasso, poi capì. Si levò in piedi e la sua figura si erse maestosa, nuove stelle brillarono sul suo capo. I due giovani ammutolirono. Ella prese a parlare e, pur nell'ira, la sua voce era dolce come la musica dei mondi.
-Ragazza! E anche tu, cacciatore! Non potete turbare questa pace. Voi umani non siete cambiati!Sempre aspri e litigiosi come mille anni fa. Non imparerete mai, dunque?-
Guardandoli, li vide tremare di paura. Si impietosì.
-Non dovete temere. Irma, non essere gelosa di me: alle fate non è concesso amare gli umani. E tu Max, conserva nel tuo cuore il ricordo di questo giorno : forse potrai salire ancora fino a me, e per sempre. Sappi, però, che lo potrai solo se il tuo animo sarà stato sempre puro e sincero.-
I due giovani ascoltavano silenziosi.
-Andate ora. Le lucciole vi guideranno fino al grande sentiero. Poi ci sarà la luna.-
All'improvviso disparve al loro sguardo.
Essi si incamminarono, tenendosi per mano.

 
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Lo spirito maligno

Post n°1128 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Carlo Noccia fu da giovane per circa sette anni in Africa, a Bona, commerciante, vi soffrí anche la fame nei primi tempi, e soltanto a furia di stenti, di rischi e d’incredibili fatiche riuscí a metter da parte un gruzzolo modesto.
Ritornato in Sicilia, per non apparire ingenuo in mezzo ai commercianti suoi compaesani, produttori e sensali d’agrumi e di zolfo, gente ladra, usa a combattere tra le insidie e con ogni sorta d’inganni, provò il bisogno di lasciar loro intendere che con quelle stesse arti egli aveva guadagnato colà il suo danaro. Dovette insomma confarsi al modo di pensare di quelli e disonorar le sue fatiche e il frutto di esse per aver pregio e considerazione agli occhi loro. E s’aggirò, faccente, con l’aria d’un furbo matricolato, in mezzo al traffico rumoroso del piccolo porto di mare, tra i grandi depositi di zolfo accatastati su la spiaggia; a bordo dei piroscafi d’ogni nazione, tra marinai e interpreti e scaricatori e stivatori, aspirando con voluttà l’odor del catrame e della pece, mentre gli occhi gli lacrimavano bruciati dalla polvere dello zolfo diffusa nell’aria. Stordito dai gridi dei barcajoli e dei facchini del porto, tra un continuo sbaccaneggiar di liti, e i fischi delle sirene e il fumo delle macchine, credette sinceramente che la necessità d’ingannare, i cattivi pensieri venissero dal fermento stesso di quella vita esagitata, esalassero dalle bocche delle stive, dall’acqua stessa del mare sporca di zolfo e di carbone, dal mufffido pacciame delle alghe secche su la spiaggia solcata, scavata dal transito incessante dei carri striduli, carichi di minerale; credette sinceramente ch’egli, senza volere, vivendo lí, respirando in quell’aria, avrebbe appreso quell’arte in poco tempo; e fu felicissimo quando poté aver la dimostrazione che già gli altri credevano che non avesse piú bisogno d’apprender altro. Si vide tutt’a un tratto posto a capo d’uno dei piú grossi depositi di zolfo. Il proprietario, giovanotto ambizioso, che aveva dovuto interrompere gli studi universitarii per la morte improvvisa del padre, era affatto ignaro di commercio e attendeva piuttosto a ingraziarsi con servigi e favori gli animi dei suoi compaesani per essere eletto sindaco del Comune Naturalmente, diventò subito preda dei piú furbi speculatori di piazza, e segnatamente di un certo Grao, il quale cominciò a irretirlo in una vasta impresa da tentare col nobilissimo scopo di allibertare il commercio dello zolfo dallo sfruttamento delle case estere d’esportazione che avevano sede nei maggiori centri dell’isola; impresa per cui egli, in poco tempo, centuplicando le sue ricchezze (e diceva poco!) avrebbe avuto gloria di salvatore dell’industria zolfifera siciliana, e sarebbe stato eletto sindaco subito, senza alcun dubbio.
Il Noccia ammirava sopra tutti questo Grao; lo teneva in conto d’un oracolo. Forse, a destare in lui tanta ammirazione e cosí cieca fiducia aveva gran parte una figliuola, che costui aveva, bellissima, e della quale egli si era innamorato. Il fatto è che quando il Grao gettò in quella vasta impresa il suo principale, e questi domandò a lui, suo magazziniere e amministratore, consigli e schiarimenti sui giuochi ora al rialzo ora al ribasso a cui quegli lo esponeva, egli, con la massima buona fede, gli dette sempre quei consigli e quegli schiarimenti che il Grao di nascosto e senza parere gli aveva suggeriti. Se non che, sempre, alla scadenza degli impegni, il suo principale, se aveva giocato al ribasso, s’era trovato di fronte a uno spaventoso rialzo, e viceversa; sicché in meno d’un anno era stato liquidato.
Nessuno volle credere alla buona fede del Noccia. Come mai non s’era accorto che il Grao faceva volta per volta di soppiatto il giuoco inverso?
Non se n’era accorto, perché anche lui credeva a occhi chiusi che quella vasta impresa commerciale, se non proprio centuplicato, avrebbe certo accresciuto di molto le ricchezze del suo principale. Al primo, al secondo, al terzo colpo fallito, credette sinceramente alla disperazione del Grao, e che nel nuovo giuoco proposto fosse la salvezza e il rifacimento dei danni.
Del resto, ad attestar la sua buona fede stava il fatto che alla fine nella rovina del suo principale egli vide anche la sua: perduto il posto e, quel che piú gli dolse, anche la speranza di far sua la figlia del Grao; e che si sentí come cascar dalle nuvole allorché il Grao gli venne avanti con le braccia aperte per ringraziarlo di quanto aveva fatto e dargli in premio la figliuola con più di trecentomila lire di dote.
Protestò allora, di fronte al Grao stesso, la sua innocenza e la sua buona fede ma quegli, ammiccando furbescamente e battendogli una mano sulla spalla, gli fece intendere che lo riteneva, anche per quella protesta, suo degno compare, anzi suo degno genero; e un’altra cosa gli fece intendere: che nessuno lo avrebbe lodato di non essersi approfittato del suo posto e di quel giuoco per arricchire, e che anzi sarebbe stato stimato da tutti uno sciocco, un buono a nulla, proprio come quel suo principale e degno come questo d’esser giocato e poi buttato là in un canto con una pedata.

Avvenne intanto che per invidia dell’agiatezza che gli era venuta da quelle nozze con la figlia del ricchissimo speculatore, si vide addosso inaspettatamente l’odio feroce di tutti i suoi compaesani. Presero a chiamarlo Giuda e a stimarlo capace d’ogni infamia, di ogni perfidia e ad avvelenargli con questa stima anche l’amore per la sposa.
Volle dimostrare che non era, non era, perdio, quel che tutti lo stimavano; ma ecco che in tre o quattro occasioni, senza che ne sapesse né il come né il perché, dai suoi atti e dalle sue buone intenzioni era saltata fuori all’improvviso la dimostrazione contraria, fino al punto che, un giorno, per una inesplicabile intestatura su un conto sbagliato, si era visto citare in tribunale per poche centinaja di lire da un suo subalterno colmato di beneficii.
Il Noccia cominciò a credere allora all’esistenza d’un certo spirito maligno nato e nutrito dall’odio, dall’invidia, dal rancore, dai cattivi pensieri e insomma da tutto il male che ci vogliono i nostri nemici; uno spirito maligno che ci sta sempre attorno agile vigile e pronto a nuocerci, approfittando dei nostri dubbi e della nostra perplessità, con spinte e suggerimenti e consigli e insinuazioni che hanno in prima tutta l’aria della piú onesta saggezza, del piú sennato consiglio, e che poi tutt’a un tratto si scoprono falsi e insidiosi, sicché tutta la nostra condotta appare all’improvviso agli occhi altrui e anche ai nostri stessi sotto una luce sinistra, dalla quale non sappiamo piú, cosí soprappresi, come sottrarci.
Certo era stato questo spirito maligno a fargli sbagliare quel conto.
E intanto, ecco qua, anche capace d’approfittarsi di poche centinaja di lire a danno d’un poveretto lo avevan creduto i suoi compaesani. E d’allora in poi ciascuno s’era sentito in diritto di negargli quel che gli doveva, sicché per riavere il suo si vedeva ogni volta costretto a intentare una lite.
Ora, per una di queste liti, che da un pezzo si trascinava nei tribunali e che forse il Noccia, stanco e avvilito, avrebbe volentieri mandato a monte, se la rabbia non lo avesse forzato a dimostrare ancora una volta che la giustizia stava dalla sua, eccolo in viaggio per Roma a sollecitare di persona il patrocinio del deputato del suo collegio.
Aveva già quarantasette anni, e l’animo gli s’era profondamente incupito per tutta quella guerra d’odio e di invidia.
Come una bestia, ferita in una caccia feroce, e ricoverata in una tana non sua, egli si guardava ormai davanti e dietro, diffidente e ombroso.
I grandi occhi chiari, d’acciajo, negli sguardi obliqui, davano in quel suo volto fosco, bruno, cotto dal sole nelle lontane arrabbiate spiagge di Sicilia, l’impressione d’un vuoto strano. E in quel suo volto egli sentiva ora quasi un disagio insolito per certe rughe che di tratto in tratto gli si spianavano, ammirando lo splendore della città.
Aveva in petto il portafogli gonfio di molte migliaja di lire. Forse, partendo dalla Sicilia, s’era proposto di con cedersi, se non tutti, parecchi di quegli svaghi per lui affatto nuovi, che una città come Roma poteva offrirgli. Ma in quattro giorni, per quel ritegno ombroso, divenuto in lui quasi istintivo, non aveva ancora ceduto a nessuna tentazione, e si sentiva stanco, oppresso e inquieto.

Aveva preso alloggio nell’albergo della Nuova Roma presso la stazione, e faceva ogni volta chilometri e chilometri per andarvisi a rinchiudere per una mezz’oretta; ne riusciva poco dopo piú smanioso di prima e senza mèta. Cosí gli avvenne, la mattina del quinto giorno, di cacciarsi in un caffeuccio lí nei pressi della stazione, per passarvi un po’ di tempo. C’erano pochi avventori e molte mosche. Il Noccia ordinò una tazza di birra e stese la mano al tavolino accanto per prendere un giornale che vi stava posato. Ma le mosche lo tormentavano. Per cacciarne una, sfondò il giornale; voleva ripagarlo, ma il padrone non permise; per cacciarne un’altra per poco non rovesciò la tazza di birra. Smise allora di leggere e, sbuffando, allungò le mani sulla panca imbottita di cuojo; ma subito ne ritrasse una, la destra, che aveva toccato qualche cosa, e si voltò a guardare.
Era una vecchia borsetta, evidentemente lasciata lí da qualche avventore.
Forse era vuota. Se non vuota, che poteva mai contenere? pochi soldi, qualche lira d’argento. E il Noccia rimase un pezzo perplesso, se prenderla o farla prendere dal caffettiere, perché la restituisse al proprietario, se fosse venuto a cercarla. Guardò il caffettiere dietro il banco. Non gli parve che avesse faccia da restituir la borsetta, se ci fosse dentro qualche cosa. Forse sarebbe stato meglio accertarsene, prima. Allungò cautamente la mano e la prese. Pesava. L’aprí un poco; vi intravide una piastra d’argento e due monetine da due centesimi. Tornò a guardare il caffettiere, e non ebbe alcun dubbio che quella piastra e quelle due monetine sarebbero andate a finire nella ciotola dentro il banco.
Che fare? Pensò che il giorno avanti aveva letto nella cronaca d’un giornale un nobile esempio da imitare: quello d’un fattorino di telegrafo che aveva trovato per istrada un portafogli con piú di mille lire, ed era andato a depositarlo in questura. Imitare quel nobile esempio? In questura avrebbero voluto il suo nome e lo avrebbero stampato sui giornali nel dar l’annunzio della borsetta trovata. Pensò che nel circolo di compagnia gli sfaccendati del suo paese leggevano i giornali di Roma dall’articolo di fondo all’ultimo avviso di pubblicità in sesta pagina. Quantunque lo ritenessero capace di approfittarsi anche di poche lire, avrebbero detto sghignazzando che la borsetta, lui, l’aveva consegnata alla questura perché conteneva soltanto una piastra e quattro centesimi. Veramente, darsi per cosí poco tutta quell’aria d’onestà gli parve troppo. Che fare allora? Durando quell’esitazione, non stimò prudente tenere ancora la borsetta in mano, alla vista di tutti, e se la ficcò nel taschino del panciotto per riflettere con comodo se non gli sarebbe meglio convenuto, per non aver tanti impicci, rimetterla al posto dove l’aveva trovata. Ma forse allora qualche altro avventore senza scrupoli se la sarebbe presa senza pensar due volte; e quel poveretto che l’aveva smarrita...

– Oh via, – fece tra sé a questo punto il Noccia. In fin dei conti, son cinque lire...

E stava per trarre dal taschino la borsa, quando entrò di furia nel caffeuccio e s’avventò verso il suo tavolino un sudicia vecchia dalla faccia aguzza, che soffiava come un biacco, col naso da civetta e il muso irto di grigi peluzzi tirandosi via dagli occhi i capelli lanosi, scarmigliati sotto il decrepito cappellino annodato al mento.

– C’è lí la borsetta! la mia borsetta! l’ho lasciata lí!

Cosí investito, il Noccia guardò la grinta della vecchia, e subito concepí il sospetto che, essendosi egli messo i tasca la borsetta, quella dovesse ritener per certo che avesse voluto appropriarsela, e allora le rivolse un sorriso vano da scemo, e si finse ignaro: – Una borsetta? dove? – I prima si scostò e poi si alzò per farla cercar bene; e quando la vecchia, dopo aver cercato su la panca, sotto la panca tra i piedi dei tavolini con irosa smania che lasciava in tender chiaramente quel sospetto, levò l’arcigna faccia gli domandò, squadrandolo biecamente: – Lei non l’ha trovata? – egli, che pur si struggeva di non poter più ormai cacciarsi due dita in tasca per restituirgliela, ebbe naturalmente, per quello stesso struggimento, un fiero scatto e, arrossendo fin nel bianco degli occhi, le rispose:

– Siete matta?

Il caffettiere e i pochi avventori gli diedero ragione e, appena la vecchia piangendo e brontolando se ne fu andata, gli dissero che era una poveraccia da compatire, mezza svanita di cervello e stordita sempre dal caffè e dai liquori che ingozzava, dacché le era morta all’ospedale l’unica figliuola.
Il Noccia ora si sentiva su le spine; voleva subito pagare e andar via. Intanto, aveva messo la borsetta della vecchia nello stesso taschino ove teneva la sua. Se nel cavar questa, fosse venuta fuori anche quell’altra? si sentiva tutto il sangue alla testa, e gli occhi gli brillavano come per febbre. Trasse dalla tasca in petto il portafogli gonfio di carte da cento.

– Non avrebbe spicci? – gli domandò il caffettiere, meravigliato.

Ed egli non trovò la voce per rispondergli; disse di no, col capo. Uno degli avventori si profferse di cambiar lui il biglietto, e il Noccia, lasciando una mancia di cinque lire, uscí dal caffeuccio.
Appena fuori, il suo primo pensiero fu quello di buttar via la borsetta in qualche angolo nascosto. Ma quell’ultima notizia che gli avevano dato della vecchia nel caffè, che ella cioè era una poveretta mezzo impazzita per la morte della figliuola, gli fece stimare piú che mai indegno quell’atto. Pur ammesso che la vecchia avesse avuto il sospetto ch’egli volesse tenersi la borsetta trovata, questo sospetto in fondo non era ingiusto, poiché egli veramente, contro la sua volontà, ridendo prima come uno scemo, poi scostandosi e alzandosi per farla cercar lí nel posto, aveva agito come se in realtà avesse voluto appropriarsi quella borsetta. E buttandola via, ora, non avrebbe avuto sempre la colpa della sottrazione? L’avrebbe trovata un altro, che non avrebbe sentito l’obbligo di restituirla, l’obbligo che ne aveva lui, lui che conosceva a chi essa apparteneva e gliel’aveva negata in faccia. No, no: buttarla via sarebbe stato un atto anche piú vile di quel che aveva dianzi commesso. Pensò allora che quei pochi avventori del caffeuccio e il caffettiere avevano dovuto accorgersi dal suo portafogli ben fornito ch’egli era un signore, un signore il quale poteva permettersi il lusso d’offrire a quella povera vecchia un compenso di dieci o venti lire per la borsetta perduta. Ecco, sí. Avrebbe lasciato al banco venti lire alla presenza di quei testimoni, o avrebbe domandato al caffettiere l’indirizzo della vecchia per recarsi lui stesso a dargliele.
E il Noccia ritornava con questo proposito sui proprii passi, quand’ecco, lí presso l’entrata del caffeuccio, di nuovo la vecchia che, tenendosi con ambo le mani i cerfugli lanosi spioventi su gli occhi, andava curva e piangente, guardando in terra, ancora in cerca della sua borsetta. Il Noccia la fermò, toccandole lievemente una spalla, trasse dal portafogli due biglietti da dieci lire e, tutto commosso per la buona azione che faceva, glieli porse, balbettando che li accettasse per la perdita sofferta. Ma si vide tutt’a un tratto acciuffato dalla vecchia, la quale, scrollandolo furiosamente, si mise a strillare:

– Venti lire? A chi le dai? Ah, ladro! E il resto? Venti lire sole mi dai? Al ladro! al ladro!

Accorse gente da tutte le parti, accorsero anche due guardie di questura e al Noccia che, dapprima stordito, poi abbrancato da cento braccia aveva preso a divincolarsi inferocito, fu trovata addosso la borsetta, nella quale, sissignori, c’era la piastra da cinque, ma c’erano anche due vecchi marenghi da venti lire e non due monetine da due centesimi, come al Noccia era sembrato a prima vista, là, nel caffeuccio. Perciò la vecchia reclamava con tanta rabbia il resto.
Ma anche cento lire, anche duecento, anche mille, glien’avrebbe date ora il Noccia. E cavava dalla tasca il portafogli. Se non che, anche quel portafogli, come la borsetta siamo giusti, poteva ormai credersi rubato. E il Noccia fu trascinato in questura.
Ora, è certo che a un ladro non passa per il capo di restituire una parte del suo furto. Ma anche generalmente si crede che neppure a un galantuomo possa passare per il capo di mettersi in tasca una borsetta che non gli appartiene, e di negarlo poi in faccia, cosí come il Noccia aveva fatto. Bisognava dunque trattenerlo in arresto e domandare ragguagli in Sicilia sul conto di lui. Non sarebbe stato serio prestar fede alla persecuzione di un certo spirito maligno, di cui quell’arrestato farneticava.

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«Il Marzocco»,

 
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Il destino è nelle stelle

Post n°1127 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

ari lettori,chi di voi non ha mai letto il suo oroscopo?Sono certo,però,che nessuno ci ha mai riposto tanta fiducia come Marietta Patacon,prof di lettere della locale scuola media.
Esagero,mi dite? Leggete qua
LUNEDI- "Il vostro partner da tempo vi tradisce e oggi ne avrete la conferma" Così diceva l'oroscopo radiofonico del Mago Babbeus (alias Oronzo Caperapa di Alberobello).
La Patacon,recatasi a Firenze in Provveditorato,ha beccato in Piazza Signoria il marito in compagnia di una rossa mozzafiato,che è finita a mollo nel Biancone.
Al pover'uomo ci è voluto del bello e del buono perspiegare alla Marietta,che voleva fargli fare la fine di Oloferne,che quella è la sua commercialista.
MARTEDI'- "Attenta all'uomo nero!"
Andando a scuola la Marietta si è accorta di essere insistentemente seguita da un omone nerovestito.
Pensando al maniaco,ha chiamato il 113.
Il presunto maniaco era ireneo,che voleva ridarle il portafoglio che ieri aveva lasciato in chiesa.
MERCOLEDI'- "I colleghi tramano contro di voi.Reagite!"
Beccate la Spelacchiati e la Saccentoni a confabulare,la Marietta le ha aggredite a scarpate..per scoprire che le stavano preparando una festa a sorpresa!
GIOVEDI'- "Non aprite quella porta!"
Marietta si è barricata in casa col telefono staccato.
Il marito,credendola come minimo morta,ha chiamata 112,113,115 e 118,beccandosi una denuncia per procurato allarme.
VENERDI'- "Il vostro capo ci proverà.Difendete il vostro onore!"
Stamani la Patacon è rimasta chiusa in ascensore con il preside Guglielmomaria Mortimpiedi.
Convinta che lo avesse fatto apposta per zomparle addosso,la Patacon ha rispolverato il suo passato di cintura nera e lo ha atterrato.
SABATO- Il marito della Marietta l'ha fatta ricoverare di forza nella clinica Luminaris,poi,accompagnato dalla comercialista,la Spelacchiati,la Saccentoni,Ireneo e il Mortimpiedi,ha fatto irruzione in casa di Babbeus e lo ha costretto a partire seduta stante per Tukambakabalo.
E' passata una settimana.
La Patacon è in clinica.Lo Sperandio è parecchio scettico.
Babbeus ora lavora per la tv privata "Birimbobirambo" e fa soldi a palate,perchè è diventato l'astrologo più famoso del Continente Nero.
Adesso vi lascio,lettori miei,Devo telefonare al mago di Pistoia per sapere se e quando troverò l'anima gemella!






 

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L'Angelo (alberti)

Post n°1126 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Venne quello che amavo,
quello che chiamavo.
Non quello che spazza cieli senza difese,
astri senza capanne,
lune senza patria,
nevi.
Nevi di quelle cadute da una mano,
un nome,
un sogno,
una fronte.
Non quello che ai suoi capelli
legò la morte.
Quello che io amavo.
Senza graffiare i venti,
senza ferire foglie né muovere cristalli.
Quello che ai suoi capelli
legò il silenzio.
Per scavarmi, senza farmi male,
una riviera di luce dolce nel petto
e rendere la mia anima navigabile.

 
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Libri dimenticati:La collina dei conigli

Post n°1125 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

La struggente,avvicente storia di un branco di conigli che lottano per la libertà e la sopravvivenza

 
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Frase del giorno

Post n°1124 pubblicato il 04 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Una carriera di successo è una cosa meravigliosa,ma non ti scalda la notte quando hai freddo (Marylin)

 
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