Messaggi del 06/11/2011

Pippipù trova marito

Post n°1146 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Ricordate Pippipù,la moglie africana di Dio ci scampi?
Si è trovata così bene a S.Tobia che ha deviso di restarci ed ha anche trovato qualcuno che per lei ha fatto cose da pazzi,che ora mi accingo a narrarvi.
LUNEDI'- A casa Capricorni,dove risiede Pippipù,sono arrivati solo oggi 389 mazzi di fiori,uno diverso dall'altro.Ogni singolo fiore era stato spruzzato con l'esclusivo profumo francese "Pisch du chat n 5"
Non si sa chi abbia mandato i fiori
MARTEDI'- Pippipù va pazza per la cioccolata.Beh,adesso ne ha almeno per dieci anni.Oggi sono arrivate 1343 scatole di cioccolatini.La generosa ciccionazza ha regalato due scatole ad ogni famiglia di S.Tobia,ma anche così ce ne sono ancora tante.
L'identità del donatore è rimasta ignota.
MERCOLEDI'- Fin dall'infanzia Pippipù voleva un porcospino di peluche,ma non ha mai potuto coronare il suo sogno.
Il misterioso corteggiatore ha provveduto:a casa Capricorni sono arrivati tre enormi scatoloni di cartone,pieni all'inverosimile di porcospini di peluche diversi l'uno dall'altro.Non vi dico la gioia di Pippipù
GIOVEDI'- Pippipù è una fan sfegatata del neomelodico Aniello Pummarò.
L'anonimo le ha fatto arrivare cd e dvd in quantità industriale,una gigantografia con dedica personalizzata e.dulcis in fundo, un introvabile biglietto in prima fila per il prossimo e attesissimo concerto a Prato del cantante.
Per la gioia Pippipù è svenuta.
VENERDI'- Pippipù adora l'alta moda,ma la sua stazza le impedisce di vestirsi come vorrebbe.
Oggi a casa Capricorni è arrivato un intero guardaroba di elegantissimi abiti dell'atelier di Elvira Taripijo,e la stessa stilista si è presentata a S.Tobia proponendole di essere il testimonial della sua nuovissima linea per donne "over 200" (kg,si intende).Pippipù è al settimo cielo.
SABATO- A casa Capricorni è arrivato un grandissimo pacco regalo.Quando Pippipù lo ha aperto,si è trovata faccia a faccia col corteggiatore misterioso:si trattava di Be'erino,miracolosamente sobrio,che le si è inginocchiato davanti e l'ha chiesta in moglie.La ciccionazza ha accettato con entusiasmo.
DOMENICA- Accompagnati da tutto il paese,i promessi sposi sono partiti per Las Vegas.
Sono passate due settimane.
Tutti aspettano il ritorno degli sposini per festeggiare degnamente il matrimonio.
E su questa nota lieta passo e chiudo

 
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La pallina presuntuosa

Post n°1145 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

l Mago Ascanio era tanto vecchio quanto saggio e girava continuamente il mondo col suo maestoso carro volante, alla cui guida vi erano due grandi aquile.
Un giorno passò da una vecchia villa disabitata; si fermò e volle visitarla. La polvere e le ragnatele erano dappertutto e i mobili erano consumati dai tarli.
Il Mago pensò di ridarle vita e, pronunciata la formula magica, subito i mobili cominciarono a splendere, la polvere e le ragnatele sparirono, alle uscite dei balconi comparvero tende pregiate di broccato, sui tavoli negli ampi saloni apparvero tovaglie ricamate e servizi di piatti e posate in cristallo e argento.
Il Mago Ascanio, molto soddisfatto della sua opera, pensò anche di porre nel salone principale un grande albero di Natale, visto che mancava solo una settimana a questa grande ricorrenza. L’albero grandissimo contava decine e decine di palline colorate e luccicanti.
Ascanio pensò così di metterle alla prova; ebbe un’idea e quindi disse loro:
“Sta per avvicinarsi il Natale e ho pensato di farvi un regalo; la notte di Natale passerò di qui e con la mia bacchetta magica metterò dentro a ciascuna di voi una pietra preziosa che io stesso sceglierò”.
Ascanio se ne andò, lasciando le palle dell’albero incuriosite. Quasi al vertice vi era un’enorme palla di un bel rosa vivo, lucente più delle altre, la quale conscia della sua bellezza, cominciò a pavoneggiarsi e a dire alle sue vicine:
“Sicuramente il Mago mi assegnerà la pietra più bella; io la merito perché sono posta più in alto rispetto a tutte voi e poi basta guardarmi per vedere che sono anche la più bella”.
Le altre palline si guardavano tra loro infastidite e tacevano.
Venne dunque la notte di Natale e ogni pallina colorata ebbe la sua gemma, come Ascanio aveva promesso. La mattina dopo tutti gli addobbi dell’albero si svegliarono e con essi anche le palline; ebbene, la loro gioia fu immensa quando ciascuna si trovò dentro una gemma: alcune avevano avuto un rubino, altre uno zaffiro, altre ancora una ametista o una giada o un’acquamarina. Ma ancora più grande fu la meraviglia della grande palla posta in alto, la quale si ritrovò vuota. Stava per urlare di rabbia quando arrivò il Mago, che parlò a tutte dicendo:
“Ho voluto mettervi alla prova; sapevo che qualcuna di voi, trovandosi più in alto e vedendosi più grande di tutte le altre, avrebbe ostentato la sua bellezza pretendendo di essere premiata. Questo purtroppo succede spesso anche tra gli esseri umani, che non hanno il dono dell’umiltà; essi sanno solo vantare pregi che a volte non hanno nemmeno, ma dentro sono molto molto poveri”.

Morale: “Generalmente chi è presuntuoso è vuoto dentro”.

 
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Giada fata non innamorata

Post n°1144 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Questa è la storia di Giada
Fata non innamorata
che avendo rifiutato Krifau
foglia e scoglio diventò,
ma Candida aiutò la sua protetta
e fu così che venne fatta vendetta.


C’era un tempo e c’è ancora, visto che alcuni esseri sono immortali, una Fata bella da togliere il fiato. Veniva corteggiata da tanti Maghi, però non voleva metter su famiglia. Diceva spesso alla madre:
- Le fate non si sposano. Devono girare il mondo per aiutare gli esseri umani con le loro magie.
Il suo nome era Giada e al collo aveva sempre appesa, come portafortuna, la giada imperiale, pietra di grande valore dal colore verde smeraldo regalatole da sua madre pochi giorni dopo la nascita.
Il Mago Krifau, orgogliosissimo e feroce, si era invaghito di lei ed era disposto a tutto pur di conquistarla. Avvenne dunque che a una festa tra Fate e Maghi, la nostra protagonista aveva persino rifiutato di ballare con lui e quando lui aveva insistito con aria di superiorità, la Fata si era inviperita e gli aveva gettato addosso quel poco di vino rosso che le era rimasto nel bicchiere e che stava gustando. Krifau, ovviamente arrabbiatissimo aveva incassato senza proferir parola, ma la sera stessa si era recato dal vecchio Mago Telet e gli aveva raccontato l’accaduto. L’amico Mago, potentissimo nelle magie, volendo dimostrare che nonostante la vecchiaia ancora era valente, aveva preso una piccola bacchetta tra le migliaia che aveva e dandola a Krifau aveva detto:
- Falle toccare questa e la tua bella si trasformerà in foglia.
Al che Krifau aveva risposto, digrignando i denti giallognoli:
- Oh vendetta, già ti assaporo!
Il giorno dopo si era recato nei pressi della casa di Giada e appena lei era uscita, le aveva detto mieloso:
- Giada, dolcissima creatura, accetta questo mio dono.
Giada pensò che era proprio un gran testardo; in più non si fidava di lui, perciò aveva tirato dritto, senza nemmeno guardarlo. Ma egli le disse mieloso:
- E’ solo un dono che ti farà diventare più brava nelle tue magie. Non chiedo nulla, prendilo in segno di riconciliazione; vedi, io non ti porto alcun rancore.
E Giada c’era cascata. Appena toccata la bacchetta, era diventata una foglia di edera e si era ritrovata in un grande giardino pieno di verde. Krifau, con i suoi occhi da demonio, aveva gioito ed era scappato per andare da Telet e sapere da lui dove si trovava Giada e questi, facendogli guardare nel suo grande Libro degli Eventi, glielo aveva fatto vedere. Ora Giada, foglia d’edera, tremava al vento appesa a uno stelo.
Quel giardino circondava una fattoria; il figlio del fattore aveva appena quindici anni e già amoreggiava con una sua coetanea. Il ragazzo ogni pomeriggio prima di incontrarsi con la sua fidanzatina, strappava per lei uno stelo di edera e glielo portava.
Così fece anche quel pomeriggio, ma subito dopo lo strappo, udì una fievole voce femminile che diceva:
- Io so che mi hai strappata per la tua innamorata. E siccome il tuo è un gesto d’amore, appena le darai lo stelo io ti dirò chi sono.
Il ragazzo guardò tutte le foglie e poi ne vide una che sbatteva forte. Pensò: “Possibile che io abbia sentito parlare una foglia? Eppure a tavola non bevo vino”. Tuttavia si avviò verso il luogo dell’incontro con la ragazza e quando la vide le diede un bacio e poi l’edera come sempre; ed ecco che quella foglia nelle mani di lei, cadde a terra e si trasformò…in una Fata! Giada raccontò a entrambi la sua vicenda e poi ringraziò il ragazzo e fuggì via per andare a tranquillizzare sua madre.
Ma la cattiveria, si sa, non ha limiti. Nel Libro degli Eventi Telet aveva visto tutto e mandò a chiamare Krifau. Questi inferocito, chiese al vecchio un’altra magia. Telet pensò molto e poi disse:
- La trasformerò in scoglio. Ma devi sempre usare la bacchetta che ti darò.
Krifau replicò:
- Impossibile! Ormai non si fiderà più di me.
E Telet:
- Metti la bacchetta alla finestra della sua casa. Quando si affaccerà la toccherà.
E Giada felice di esser tornata a casa, la mattina dopo aprì la finestra e vide la bacchetta. Essendo una Fata, venne attratta da essa e la prese in mano. Subito si ritrovò scoglio in mezzo al mare. L’acqua si confuse con le sue lacrime. Chi l’avrebbe liberata ora? Ci voleva un altro atto d’amore; ma chi sarebbe passato di là e che cosa avrebbe fatto di amorevole?
Giada per sua fortuna conosceva anche lei una Fata più anziana, di cui era la pupilla. Il suo nome era Candida e anche lei possedeva il Libro degli Eventi. In realtà da molto tempo non lo guardava, perché suo figlio si era ammalato e lei lo aveva assistito senza curarsi di niente altro. Quando però egli si riprese, la madre pensò di andare a guardare il Libro, dimenticato nella libreria e tutto impolverato. Quando vide Giada trasformata in scoglio, pianse assai; poi studiò un modo per liberarla: ci voleva per l’appunto un gesto d’affetto. Candida sapeva che tutti i giorni un pescatore di sua conoscenza si recava con la barca in mare; andò a bussare a casa di costui che viveva con la moglie e il suo bimbo di appena un anno. Candida lo salutò, accolta festosamente dal pescatore, al quale si rivolse così:
- Ti piacerebbe dare a tua moglie un vestito nuovo da far invidia alle sue amiche?
Egli fu molto franco e le rispose:
- Tu Fata Candida metti il dito nella piaga. Sai bene che siamo poveri e mia moglie porta gli stessi vestiti da tre anni. Io non posso comprarle nemmeno una sciarpetta da mettere quando fa freddo. La Fata gli spiegò il suo piano. Doveva recarsi in mare insieme alla moglie il giorno dopo con vestiti stupendi che lei stessa gli avrebbe fornito. Avrebbe dovuto fermare la barca sullo scoglio in mezzo al mare sfumato di rosa e salire su esso; poi avrebbe regalato alla moglie quei vestiti, segno del suo amore per lei. E lo scoglio alla vista di ciò, sarebbe diventato ciò che era prima: una deliziosa Fata.
Il pescatore accettò e riferì tutto alla moglie, che fu anche lei ben contenta di ricevere dei vestiti nuovi. Giada, una volta liberata dalla terribile magia, corse subito stavolta da Candida e le si buttò quasi in ginocchio per ringraziarla. Candida le disse che doveva assolutamente liberarsi di Krifau; quel meschino avrebbe continuato a perseguitarla altrimenti, ma come fare? Bisogna sapere che anche i Maghi sono immortali, a meno che non vengono anch’essi trasformati in esseri mortali. E Candida, dopo essersi lambiccato il cervello per molto tempo, esultante disse a Giada:
- Bene, bene. Ci sono! Fa’ in modo di incontrarlo e digli che accetti finalmente di diventare sua moglie, che quello che hai sofferto ti ha convinta. Dagli questo anello – e la Fata Candida le mostrò un grosso anello in argento – dicendogli che tu per prima glielo metterai al dito, se lui vuole essere il tuo sposo. L’anello trasformerà il caro Krifau in un fagiano e lo porterà nel bosco qui vicino. Mio figlio va sempre a caccia e siccome questo uccello avrà una bianca macchia sulla testa, sarà facile riconoscerlo; appena lo vedrà mio figlio, gli sparerà e tu ti sarai definitivamente liberata di lui.
La nostra Giada non se lo fece ripetere due volte. Accettò, perché convinta che il crudele Mago le avrebbe reso la vita insopportabile. Candida prima di darle l’anello lo immerse in un liquido nero e pronunciò la formula magica.
Giada poi lo prese e se ne tornò a casa. La sera dopo aspettò il Mago nei pressi di casa sua; egli quando la vide sbigottì: che cosa ci faceva là? Non doveva essere in mezzo al mare? La Fata se ne accorse, ma fece finta di nulla, gli disse ciò che Candida le aveva consigliato e gli mostrò l’anello. Krifau sorrise, anche se il suo era più un ghigno di soddisfazione. Porse la mano senza nemmeno rispondere, per dimostrare che accettava l’anello il quale avrebbe dovuto suggellare il fidanzamento. Ma, ahi per lui, quando Giada glielo infilò, Krifau si ritrovò tra i cespugli nel bosco trasformato in fagiano. Quando Giada corse dalla Fata Candida, lei aveva già aperto il suo Libro degli Eventi sul quale visto tutto. Diede dunque disposizioni al figlio, come aveva promesso alla sua pupilla.
Il Mago Telet, che nel frattempo si era ammalato, non aveva visto nulla e non aveva potuto intervenire. Invece il figlio della cara Candida andò a caccia qualche giorno dopo e cercò il fagiano con la macchia bianca sulla testa; lo vide tra i cespugli e lo uccise con un colpo di fucile, mentre Candida e Giada con il Libro degli Eventi aperto, assistevano a tutto. Il ragazzo era stato pregato dalla madre di non prendere il fagiano morto, ma di lasciarlo là; Candida aveva sentenziato:
- Chi ha il cuore velenoso ha anche carni velenose. La trasformazione e la morte non fanno cessare la cattiveria.
Giada, alla morte dell’uccello, si era sentita sollevata. Aveva abbracciato forte la sua protettrice ed era tornata dalla madre tutta contenta.

Nota: Krifau, leggi Krifò (alla francese)

 
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Le ochine

Post n°1143 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

C'era una volta un branco di ochine che andavano in Maremma a far le uova. A mezza strada una si fermò.
- Sorelle mie, devo lasciarvi. Ho bisogno di far subito l'uovo, fino in Maremma non ci arrivo.
- Aspetta! - Trattienilo! - Non ci lasciare!
Ma l'ochina non ce la faceva piú. S'abbracciarono, si salutarono, promisero di ritrovarsi al ritorno, e l'ochina s'inoltrò in un bosco.
Ai piedi d'una vecchia quercia fece un nido di foglie secche e depose il primo uovo. Poi andò in cerca d'erba fresca e acqua límpida per desinare. Tornò al nido a tramonto di sole e l'uovo non c'era piú.
L'ochina era disperata.
Il giorno dopo, pensò di salire sulla quercia e fare il secondo uovo tra i rami, per metterlo in salvo. Poi scese dall'albero tutta contenta e andò a cercare da mangiare come il giorno prima. Al ritorno l'uovo era scomparso.
L'ochina pensò: "Nel bosco dev'esserci la volpe, che si beve le mie uova ".
Andò al paese vicino e bussò alla bottega dei fabbro ferraio.
- Signor fabbro ferraio me la fareste una casina di ferro?
- Si, se tu mi fai cento coppie d'uova.
-Va bene, mettetemi qui una cesta, e mentre voi mi farete la casina, io vi farò le uova.
L'ochina s'accoccolò e ogni martellata che il fabbro dava sulla casina di ferro, lei faceva un uovo. Quando il fabbro ebbe dato il duecentesimo colpo di martello, l'ochina scodellò il duecentesimo uovo e saltò fuori dalla cesta.
- Signor fabbro ferraio, ecco le cento coppie d'uova che le avevo promesso.
- Signora ochina, ecco la tua casina finita.
L'ochina ringraziò, mise la casa in spalla, se la portò nel bosco e la posò in un prato. "Questo è proprio il posto che ci vuole per i miei ochini; qui c'è l'erba fresca da mangiare e un ruscello per fare il bagno ". E tutta soddisfatta si chiuse dentro per fare finalmente le sue uova in pace.
La volpe intanto era tornata alla quercia e non aveva trovato piú uova. Si mise a cercare per il bosco, finché non capitò in quel prato e trovò la casina di ferro.
" Scommetto che c'è dentro l'ochina ", pensò, e bussò alla porta.
- Chi è?
- Sono io, la volpe.
- Non posso aprire, covo le uova.
-Ochina, apri.
- No, perché mi mangi.
-Non ti mangio, ochina, apri. Bada, ochina, che se non apri subito, Monto sul tetto, Faccio un balletto, Ballo il trescone, butto giú casa e casone.
E l'ochina:- Monta sul tetto, Facci un balletto, Balla il trescone, non butti giú né casa né casone.
La volpe saltò sul tetto e patapún e patapàn cominciò a saltare in tutti i sensi. Ma sí! Piú saltava piú la casa di ferro diventava solida. Tutta impermalita la volpe saltò giú e corse via, e l'ochina le rideva dietro a crepapelle. Per un po' di giorni la volpe non si fece vedere, ma l'ochina nell'uscire era sempre prudente. Le uova s'erano schiuse ed erano nati tanti ochini.
Un giorno, si sente bussare.
- Chi è?
- Sono io, la volpe.
- Cosa vuoi?
-Sono venuta a dirti che domani c'è la fiera. Vuoi che ci andiamo insieme?
- Volentieri. A che ora vieni a prendermi?
-Quando vuoi.
-Allora vieni alle nove. Piú presto non posso, devo badare ai miei ochini.
E si salutarono da buone amiche. La volpe già si leccava i baffi, sicura di mangiarsi l'oca e i suoi ochini in due bocconi. Ma l'oca la mattina dopo s'alzò all'alba, diede da mangiare agli ochini, li baciò, raccomandò loro di non aprire a nessuno e andò alla fiera.
Erano appena le otto, e'la volpe bussava alla casina di ferro.
- La mamma non c'è, - dissero gli ochini.
- Apritemi! - ordinò la volpe.
- La mamma non vuole.
La volpe disse fra sé: " Vi mangerò dopo ", e forte: - Quant'è che la mamma è andata via?
- E' uscita stamattina presto.
La volpe non stette a sentir altro: via di corsa.
La povera ochina, dopo aver fatto le sue spese, stava tornando a casa, quando vide arrivare la volpe di corsa, con la lingua fuori. " Dove mi metto in salvo? " Alla fiera aveva comprato una gran zuppiera. Mise il coperchio per terra, ci s'accovacciò sopra, e si tirò addosso il recipiente rovesciato.
La volpe si fermò.
- Guarda che bell'altaríno! Voglio dire una preghiera .
S'inginocchiò, pregò davanti alla zuppiera, ci lasciò un marengo d'oro come offerta, e riprese la sua corsa. L'ochina mise pian piano la testa fuori, raccolse il marengo, riprese la zuppiera e filò a casa a riabbracciare gli ochini.
Intanto la volpe girava per la fiera, guardava sotto i banchi senza riuscire a trovare l'ochina. " Eppure per strada non l'ho incontrata, dev'essere ancora qui ", e ricominciava il giro. La fiera era finita, i venditori riponevano le merci non vendute, disfacevano i banchi, ma dell'ochína la volpe non trovava traccia. " Anche stavolta me l'ha fatta! " Mezzo morta di fame tornò alla casetta di ferro e bussò.
- Chi è?
- Sono io, la volpe. Perché non m'hai aspettata?
- Faceva caldo. E poi pensavo d'incontrarti per strada.
- Ma che strada hai fatto?
- Ce n'è una sola.
-E come mai non ci siamo viste?
- Io t'ho vista. Ero dentro all'altarino...
La volpe era rabbiosa. - Ochina, aprimi.
- No, perché mi mangi.
- Bada, ochina, Monto sul tetto, Faccio un balletto, Ballo il trescone, Butto giú casa e casone.
E l'ochina:- Monta sul tetto, Facci un balletto, Balla il trescone, Nun butti giú né casa né casone.
Patapún e patapàn, salta e risalta, la casa di ferro diventava sempre piú forte. Per molti giorni la volpe non si fece piú vedere. Ma una mattina si senti bussare.
- Chi è?
-Sono io, la volpe, apri.
- Non posso, sono occupata.
- Volevo dirti che sabato c'è il mercato. Vuoi venire con me?
-Volentieri. Passa a prendermi. Dimmi l'ora precisa, che non succeda come per la fiera. Diciamo le sette, prima non posso.
- D'accordo, - e si lasciarono da buone amiche.
Il sabato mattina, prima di giorno, l'oca ravviò le penne degli ochini, dette loro l'erba fresca, raccomandò di non aprire a nessuno, e parti. Erano appena le sei quando arrivò la volpe. Gli ochini le dissero che la mamma era già partita, e la volpe si mise a correre per raggiungerla.
L'ochina era ferma davanti a un banco di poponi quando vide in lontananza la volpe che arrivava. A scappare non faceva piú a tempo. Vide in terra un popone grosso grosso, ci fece un buco col becco e ci entrò dentro. La volpe prese a girare per tutto il mercato in cerca dell'ochina. " Forse non è ancora arrivata ", si disse, e andò al banco dei poponi per scegliersi il piú buono. Dava un morso all'uno, assaggiava l'altro, ma la buccia era sempre troppo amara e li scartava tutti. Alla fine vide quello grosso grosso posato in terra. " Questo si che dev'essere buono! " e gli diede un morso piú forte che agli altri.
L'ochina che proprio da quella parte aveva il becco, si vide aprire una finestrino e sputò fuori.
-Puh! Puh! Com'è cattivo! - esclamò la volpe, e fece rotolare via il popone. Il popone rotolò giú per una scarpata, si spaccò contro una pietra, l'ochina saltò fuori e corse a casa.
La volpe, dopo aver girato per il mercato fino al calar del sole, andò a bussare alla casina di ferro.
- Ochina, hai mancato di parola, non sei stata al mercato.
- Sí che c'ero. Ero dentro quel popone grosso grosso.
-Ah, me l'hai fatta un'altra volta! Adesso apri!
- No, perché mi mangi.
- Bada, ochina, Monto sul tetto, Faccio un balletto, Ballo il trescone, Butto giú casa e casone.
E l'ochina:- Monta sul tetto, Facci un balletto, Balla il trescone, Non butti giú né casa né casone.
Patapún, patapàn, ma la casa di ferro non si scuoteva neanche piú.
Passò del tempo. Un giorno la volpe tornò a bussare.
- Via, ochina, facciamo la pace. Per dimenticare il passato, facciamo una bella cena insieme.
- Volentieri, ma non ho nulla di tuo gusto da offrirti.
-A questo penso io; tu penserai a cuocere e ad apparecchiare.
E la volpe cominciò ad andare e venire ora con un salame, ora con una mortadella, o un formaggio, o un pollo, tutte cose che rubava in giro. La casina di ferro ormai era piena zeppa di roba. Venne il giorno fissato per la cena. La volpe per aver piú appetito non mangiava da due giorni: ma lei, si sa, non pensava alle mortadelle o ai formaggi, pensava ai bei bocconi che si sarebbe fatti dell'oca o degli ochini.
Andò alla casa di ferro e chiamò: - Ochina, sei pronta?
-Sì, quando vuoi venire tutto è pronto. Devi però adattarti a passare dalla finestra. La tavola apparecchiata arriva fino alla porta e non la posso aprire.
- Per me è lo stesso. Tutto sta ad arrivare alla finestra.
-Butto giú una corda. Tu infila la testa nel cappio e io ti tiro su.
La volpe che non vedeva l'ora di mangiarsi l'ochina mise la testa nel cappio, ma non s'accorse che era un nodo scorsoio. Piú tirava, piú il nodo stringeva; piú sgambettava, piú soffocava. Restò strozzata, con gli occhi spalancati e la lingua ciondoloni. L'ochina ancora non si fidava; perciò la lasciò andar giú di colpo: cadde in terra stecchita.
-Venite, ochini, - disse allora aprendo la porta, - venite a mangiare l'erba fresca e a fare il bagno nel ruscello .
E gli ochíni finalmente uscirono di casa starnazzando, svolazzando, rincorrendosi.
Un giorno l'ochina sentí un batter d'ali e un gridío. Era l'epoca del ritorno delle oche dalla Maremma. " Fossero le mie sorelle! " Andò sulla strada e vide venirne un branco, con dietro tutti gli ochini nuovi nati. Si fecero tante feste, da buone sorelle, e l'ochina raccontò loro le sue traversie con la volpe. Alle sorelle piacque tanto la casina che andarono tutte dal fabbro ferraio a farsene fare una ciascuna. E anche adesso, non so dove, in un prato, c'è il paese delle ochine, tutte nelle casettine di ferro, al sicuro dalla volpe.

fiaba dalla Toscana

 
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Maestro Amore (Pirandello)

Post n°1142 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

- Perché l’accento oratorio, - seguitò il professor Vittorio Della Torre, dopo cena, prendendo sotto braccio il Pannelli, mentre il suo collega professor Taìti richiudeva la porta a vetri della trattoria, - l’accento oratorio, mio caro, è il respiro d’una lingua! Parlando una lingua straniera, se non ne possiedi l’accento oratorio tu non puoi quasi tirar fiato. Perché... mi spiego: ogni parola, certo, grammaticalmente, ha il proprio accento (tranne, s’intende, le enclitiche e le proclitiche)...

- Tranne... com’hai detto? - domandò aggrondato il Pannelli.

- Le enclitiche e le proclitiche, - ripeté il professor Della Torre, e seguitò, parendogli che la cosa, ovvia per se stessa, non avesse bisogno di chiarimento. - Ma poi, parlando, accentui tu forse ogni parola? Eh, staresti fresco! Su dieci parole, mio caro, ne accentuerai quattro - abbondiamo - cinque, secondo il ritmo affettivo, che governa l’alzarsi e l’abbassarsi del movimento vocale, capisci? E difatti, perché ogni straniero, che si esprima anche senza stento in italiano, ti sembra che parli inciso? Ma appunto perché gli manca, mio caro, l’accento oratorio, e a ogni parola dà il suo accento grammaticale, spesso anche storpiandone il tempo...

- Tranne alle...

- No! È da ridere, anche alle enclitiche e alle proclitiche talvolta! E che ne viene? Ne viene un discorso, ripeto, inciso, martellato, senza respiro. Per forza! L’accento oratorio è il segno del dominio su una lingua. Soltanto chi ha acquistato l’accento oratorio, può dire d’esser veramente padrone d’una lingua!

Rifocillato di fresco, il professor Vittorio Della Torre parlava forte, con felice fecondità verbale e s’abbagliava lui stesso ne’ suoi lumi, senza punto curarsi della fatica che doveva durare, a seguirlo, il piccolo, adiposo e affannato Pannelli, il quale s’era impigliato con disperata ambascia nel mistero di quelle encicliche. . . e di quelle pro. . . uhm, che non hanno accento grammaticale.
Il pover’uomo non ci vedeva più; gli pareva che tutta la gente, sotto le lampade elettriche di via Nazionale, andasse in tumulto, e che i campanelli dei tram e le trombe degli automobili chiamassero ajuto, disperatamente.
A un certo punto si voltò verso l’altro professore, collega di Della Torre, che gli stava all’altro lato, forse sperando soccorso da lui, ch’era anch’esso piccolino di statura, e per giunta, patituccio abbastanza, da non dover sopportare dopo cena siffatti discorsi; ma, dispettosamente rosso di pelo, costui, e lentigginoso, ecco qua, chinava il capo, approvando con profonda convinzione.
L’innocente Pannelli si vide perduto.

«Oh Dio!», pensò. «Non bastano le sciagure vere della vita? Anche questa sciagura dell’accento oratorio! Se potessi andarmene al cinematografo...»

E si provò a ritirare pian pianino il braccio, che il Della Torre teneva gagliardamente sotto il suo. Ma il Della Torre non glielo lasciò, e seguitò a lungo a parlare, per un bisogno cocente e prepotente, che il Pannelli non poteva in quel momento supporre in lui: il bisogno di dare uno sfogo, ora che il cibo senza gusto ingollato e il poco vino bevuto gli davano una certa baldanza, all’amarezza e all’avvilimento d’una crudelissima sconfitta, toccatagli di recente, tre mesi addietro, insieme col suo collega professor Taìti, ma dalla quale lui solo, purtroppo, non aveva alcuna speranza di rialzarsi.
Fino a tre mesi addietro, l’uno e l’altro, avevano studiato insieme, accanitamente, ogni sera, per prepararsi al concorso, indetto pe’ primi dell’anno venturo, a due posti di straordinario di lingua e letteratura tedesca nei due biennii dell’Istituto superiore di commercio. Avevano entrambi buoni titoli: pregevoli studii su la letteratura tedesca antica e moderna; numerose traduzioni in italiano di opere filologiche e storiche, e conoscevano benissimo, così nel lessico come nella grammatica, la lingua. Temevano soltanto per la lezione di prova, a cui - se riconosciuti idonei per i titoli - sarebbero stati chiamati dalla Commissione esaminatrice, in gara con gli altri concorrenti, forse meno dotti di loro, ma con più pratica della lingua. Avrebbero dovuto parlare per un’ora in tedesco, su un argomento estratto a sorte ventiquattr’ore prima. Non li sgomentava affatto la difficoltà dell’argomento, ma quella di parlare in tedesco. Non ne avevano l’abitudine. E tre mesi addietro appunto, di sera, dopo cena, in un caffè, avevano potuto misurare, inorriditi, l’abisso in cui irreparabilmente sarebbero precipitati, se la Commissione esaminatrice, il giorno appresso, li avesse chiamati a quella lezione di prova.
C’era in quel caffè, seduto a un tavolino accanto al loro, un Tedesco in viaggio, col solito Baedeker, il solito cappelluccio verde con gli edelweiss di pezza e i soliti calzettoni di lana a mezzagamba; e s’erano provati ad attaccar discorso con lui. Dio, che risate s’era fatte quel tedescaccio, che già doveva esser mezzo ubriaco, nel sentirli parlare! - Bitte... bitte.. schweigen Sie... bitte! - Ma che bitte! che schweigen! Per miracolo il bestione, frenetico dal troppo ridere, non aveva rovesciato addosso agli avventori del caffè, seggiole, bottiglie, bicchieri e tavolini! Tutto per causa di quel famoso accento oratorio.
Avvilitissimo, nella misera, rossigna e sudaticcia macilenza lentigginosa, il professor Bindo Tàìti, dopo questa sconfitta, aveva pensato di correr subito ai ripari.

Quali ripari?
Non ce ne potevano esser che due: o andare per alcuni mesi in Germania, che sarebbe stato il meglio; o esercitarsi a parlare a Roma con Tedeschi.
Ma quando? dove? con chi? Non era mica padrone del suo tempo, il professor Taìti. Scuola, tutte le mattine e tutti i pomeriggi; poi, le lezioni particolari; poi, la correzione di compiti... E dov’erano i Tedeschi? Bisognava andarli a cercare di qua e di là... fare amicizia con qualcuno d’essi... E poi? Discorsi vaghi... Oggi sì e domani no... Che profitto? Ma che! Ma che! Ci voleva un rimedio sicuro... Metodo e pazienza. Danari, danari, ci volevano! Pagare le conversazioni di un maestro, se non tutti i giorni, almeno tre volte la settimana.
Ebbene: non si è pallidi e macilenti per nulla: il professor Bindo Taìti aveva qualche migliajetto di lire in un libretto della Cassa di Risparmio.

- Te fortunato! - gli aveva detto il collega professor Della Torre, il quale - bell’uomo - vestiva bene, fumava molto, si svagava quanto più poteva, e non aveva potuto mai, perciò, metter da parte neanche un soldo. - Te fortunato! Ma... un maestro? Un maestro no, caro! Le dorme, caro, hanno più pazienza, non solo, ma anche più grazia, più affabilità. Le donne, lo sai, s’immedesimano con amorosa diligenza tutto quello che fanno. In poco tempo, con una maestra, tu imparerai a parlare, senza neanche accorgertene. Da’ ascolto a me!

Il professor Bindo Tàiti aveva dato ascolto al collega Della Torre, e da tre mesi «conversava» tre volte la settimana: il lunedì, il mercoledì e il sabato, dalle ore 17 alle 18, con una certa fräulein Wenzel, pescata negli avvisi economici della sesta pagina d’un giornale (tre lire a conversazione).
Faceva progressi? Era contento del consiglio? scontento?
Il professor Della Torre si struggeva di saperlo. Ma non riusciva a cavar nulla da quel benedetto omino color di zafferano, dall’aria sempre stanca, malaticcia, che pareva si nutrisse di limoni.
Aveva in verità il professor Taìti dipinta in volto la nausea e l’oppressione di ciò che si era condannato a fare per tutta la vita. Si provava ogni tanto a sollevare le sopracciglia sempre aggrottate, quasi per concedere agli occhi di volgere altrove uno sguardo di sfuggita, sottraendoli per un istante alla covatura del perpetuo incubo. Ma gli occhi stanchi, barlacchi, pareva non avessero alcun piacere di quella concessione e volgessero appena altrove, obliquamente, uno sguardo cattivo, denso di rancore e di fastidio, quasi per forzata obbedienza, e subito ritornavano sotto l’incubo delle sopracciglia aggrottate.

- Conversiamo, - aveva miagolato in risposta, tempo addietro, a una prima domanda del collega.

- Speditamente?

- Così...

- Insomma... Ia cosa va?

- Così...

A un’altra domanda, intorno alla maestra, signorina Wenzel:

- Fräulein, - aveva risposto misteriosamente.

Il professore Della Torre, credendo che il Taìti volesse correggergli la pronunzia, aveva ripetuto:

- Ebbene... fräulein, non ho detto bene?

- Benissimo.

- E allora? Ti domando com’è!

- E io ti rispondo: fräulein.

- Non capisco.

- Caro mio, fräulein, in tedesco, di che genere è?

- Oh bella! Neutro!

- E dunque!

Da parecchi giorni in qua, si mostrava però più stanco, più oppresso, più inacidito del solito. Qualche contrarietà doveva averla di sicuro. Riconosceva di trar poco profitto da quelle conversazioni? era sfiduciato? si sentiva male? che aveva?
Tutto poteva immaginarsi il professor Della Torre, tranne che il neutro fräulein per il suo collega Taìti cominciasse a divenire di genere femminile.
Errore di grammatica, gravissimo errore di grammatica, nel quale il professor Bindo Tàìti certamente si sarebbe guardato bene dal cadere, se lei, fräulein Wenzel a tutti i costi non avesse voluto dimostrargli che, in certi casi, o la natura è sgrammaticata, o la grammatica non va d’accordo con la natura.
Il professor Della Torre ne ebbe, quella sera stessa, la confessione al languido lume tremolante d’un lampione nella solitaria via Cernaja, allorché il povero Pannelli poté alla fine liberare il braccio e scappare a un cinematografo sotto i portici dell’esedra di Termini. - Innamorata? innamorata di te? Ma ne sei proprio sicuro? - Sicurissimo. - E me lo dici così? - Penso di non tornarci più, domani.

Il Della Torre finse di trasecolare; stette a contemplarlo un pezzo; poi disse:

- Ah, dunque, proprio... proprio non vuoi approfittare della fortuna, che t’ajuta in tutti i modi?

- Fortuna? - sghignò il Taìti. - Ma io me ne scappo, a gambe levate, caro mio, da certe fortune!

- Come: - riprese il Della Torre. - Ma dimmi... aspetta! Questa fräulein Wenzel com’è? vecchia, brutta?

- Non lo so.

- Come non lo sai? Perdio, l’avrai guardata!

- Io le guardo la bocca, quando parla - rispose il Taìti. - Ma tanto vecchia non è. Così... su la trentina.

- Bionda?

- Sì, mi pare...

- Con gli occhiali?

- Non mi pare... no, no, senza occhiali.

- Grassa? Magra?

- Né grassa, né magra.

- E sarà bianca! con quell’incarnato di pesca che hanno tutte le tedesche, no? E avrà gli occhi ceruli! Cerulea gens sincera. . .

- Sincera, no: si mescola.

Il professor Della Torre si voltò a guardarlo, stordito.

- Si mescola? Che vuoi dire?

- Eh, - fece il Taìti. - Tacito dice sincera, nel senso che non si mescolavano. Ora, questa fräulein Wenzel pare che sia dispostissima a mescolarsi.

- Già, già, - riconobbe il Della Torre. - Ma anzi, meglio! Caro mio, l’incrocio... Che vai cercando? Innamorata, bionda, non brutta, trentadue... abbondiamo, trentatré anni... che vai cercando? Ma non sai che non c’è miglior maestro dell’amore? Scherzi, avere una donna innamorata per maestra? Tu lo sai meglio di me, caro: perché si abbia la conoscenza reale e non astratta di una cosa, perché questa cosa divenga veramente nostra, bisogna che la conoscenza divenga sentimento. Finché conosciamo soltanto con l’intelletto, avremo una conoscenza astratta delle cose; chi si appropria delle cose è il sentimento! E dunque? Se tu riesci a rispondere all’amore di questa donna, subito tutta la tua conoscenza del tedesco si vivificherà, diventerà sentimento, vita, che scherzi? Acquisterai subito con l’amore il sentimento della lingua! Diventerà tua, per la vita, quella lingua: tu la vivrai, che scherzi? Non esiterei un momento, se fossi ne’ tuoi panni! Non esiterei un momento! Pensaci, Bindo!

Ci pensò tutta la notte, il professor Taìti. Le ragioni del collega lo avevano scosso. Senza dubbio, l’amore avrebbe facilitato l’insegnamento. Ma il difficile per il professor Tàìti era l’amore! Quell’amore italiano, che per fräulein Wenzel doveva essere così dolce, so süss, so süss... Si sentiva invece così agro lui, il professor Taìti, per tutti i limoni, che la sorte, dacché era nato, gli aveva dato da mangiare...
Tuttavia, se fosse riuscito a rispondere almeno un poco, spremendosi, all’amore di fräulein Wenzel, chi sa che davvero non avrebbe potuto cavarne qualche vantaggio.

- Qualche vantaggio? - incalzò la sera dopo, il professor Della Torre, all’uscita dalla trattoria. - Ma tutti i vantaggi, caro mio, che scherzi? Di’ un po’: hai notizie particolari della vita di lei?

- Qualche notizia, - rispose il Tàìti.

- Di che famiglia è?

- Il padre è un cappellajo di Koblenz.

- Cappellajo?

- Sì, un buon cappellajo, dice lei.

- Te ne puoi informare! E come, perché si trova in Italia?

- Perché due anni fa, fu chiamata a Milano istitutrice in una famiglia... non so... Bontini... Tombini, una cosa così... Morta la bambina per cui era stata chiamata, fu licenziata e se ne venne a Roma. Dice che ama l’Italia svisceratamente...

- E te!

Il professor Tàiti raggrinzò tutta la sua macilenza cartilaginosa per sorridere; alzò le spalle; socchiuse gli occhi dolenti, e disse:

- Fa’ il piacere...

- Ti ama, l’hai detto tu stesso! Ebbene, che aspetti? Se è come mi hai detto... se è di buona famiglia...

- Fa’ il piacere... - ripeté il Tàiti.

Il professor Della Torre non si trattenne più.

- Ma sai che io la sposerei?

- Ah, tu. . .

- Se fossi ne’ tuoi panni!

- Lo credo. Son cose che si farebbero, ma sempre nei panni d’un altro.

- Oh bella! Ma scusa, - esclamò il Della Torre - ama me, forse, fräulein Wenzel? Lo farei, se amasse me, intendo dir questo! Lo farei, se avessi gli anni tuoi! Io sono già troppo vecchio. ..

Il Taìti volse, a questo punto, uno de’ suoi sguardi obliqui, pieni di rancore e di fastidio, al collega e disse:

- Tu sei più giovine di me. Io sono malato.

- E perché sei malato? - rimbeccò il Della Torre. - Per la vita che fai! Mangi in trattoria, e ti rovini lo stomaco. Se avessi una casa, le cure amorose d’una donna...

- Questo è vero, - riconobbe il Tàiti.

- E poi, per noi, caro, - seguitò con più foga il Della Torre, - per noi che vogliamo dedicarci all’insegnamento del tedesco una moglie tedesca è l’ideale! Già le donne tedesche sono le migliori del mondo, è notorio! Sane, solide e cordiali... E poi, che scherzi? Tu paghi tre lire per un’ora di conversazione! Averla in casa, dalla mattina alla sera... Ia scuola! Moglie e maestra... Senza contare tutte le altre comodità! Già, il concorso lo vincerai di sicuro... E dunque, tra poco, la tua condizione finanziaria sarà di molto migliorata. Ti metti a posto! Ma potrai anche farti ajutare da lei, la sera a correggere i compiti, santo Dio! È maestra... Bindo, tu sei... così, dico, non molto adatto, per niente proclive... un po’ la salute che ti manca... un po’ l’indole troppo schiva... il tempo, tutto occupato nello studio... senza voglia di distrarti... guarda che una simile fortuna forse non ti capiterà due volte! Assecondala, approfittane, ora che, senza volerlo, ti trovi su la via... non t’avverrà forse mai più, pensa, mai più...

Il professor Bindo Taìti non poté chiudere occhio neanche quella notte.
L’idea... l’idea che avrebbe potuto anche dare a correggere alla moglie i compiti di tedesco... Ia scuola in casa... moglie e maestra... un piccione, cioè, due fave... no, due piccioni a una fava... Per Dio! quali e quante ragioni, una meglio dell’altra, aveva saputo escogitare per lui il collega Della Torre... Pareva che si struggesse dalla voglia di farlo felice, di fargli vincere il concorso, di salvarlo a ogni costo.
Questo, ecco, questo lo irritava, lo sconcertava, gli dava ombra... Che interesse poteva avere il collega Della Torre, spingendolo così, con tante ragioni una più persuasiva dell’altra, a sposare fräulein Wenzel?
Ci si scapò tutta la notte. Non riuscì a capacitarsene. Ma i vantaggi, sì, i vantaggi erano sicuri. Il guajo era l’amore! Fräulein Wenzel voleva assaporare in lui la dolcezza dell’amore italiano: e chi sa come lo avrebbe oppresso, per ispremere questa dolcezza da lui, che si sentiva il cuore più arido di una pietra pomice. Chi sa qual fastidio ne avrebbe avuto... Ma i vantaggi, i vantaggi erano sicuri. Pareva veramente sana e solida e cordiale, fräulein Wenzel. Il fastidio dell’amore glielo avrebbe certamente compensato con molte cure. Di tanto in tanto, pazienza! avrebbe serrato i denti e, sudando molto, si sarebbe lasciato amare.
Ci pensò ancora parecchi giorni e infine annunziò al collega il prossimo matrimonio.
Che abbracci, che baci, che festa, il professor Della Torre! Come se avesse preso un terno al lotto. E insieme col Pannelli, che sarebbe stato, senza dubbio, il secondo testimonio alle nozze, volle pagare lo champagne quella sera stessa, per festeggiare la felice risoluzione.

Il Tàiti se ne tornò a casa stordito, intronato di tutta quella festa del collega, di cui non riusciva a trovar la ragione; ma la trovò subito, la ragione, dopo il matrimonio, appena tornato dal viaggio di nozze a Koblenz.
Durante la luna di miele, aveva sofferto tutte le pene dell’inferno. Dopo trentacinque anni di struggente attesa, quella donna, divenuta sua moglie, si era gittata con furibonda voracità su le sue misere carni. Neanche un’ombra di compassione per lui, che in fondo, sposandola, non aveva preteso nulla da lei, nulla che dovesse costarle, non che un sacrifizio, ma neppure il minimo sforzo: parlare, ecco, solamente parlare in tedesco, cioè, nella sua lingua, a lui, che l’aveva sposata soltanto per questo... Ma che! In italiano, in italiano voleva essere amata; voleva amare in italiano, lei, adesso! Voleva ch’egli le parlasse d’amore in italiano e in italiano ella voleva rispondergli!
Ebbene, appena installato nella nuova casetta modesta, coi segni nello sparuto volto citrino del supplizio a cui s’era dannato, il professor Bindo Tàiti, due giorni dopo il suo ritorno da Koblenz, vide entrare nel salotto il collega professor Vittorio Della Torre, il quale, fresco fresco e sorridente, con imperterrita faccia tosta, attaccò subito con sua moglie una graziosa, interminabile conversazione in tedesco.
Senti tutto il poco sangue che gli restava, fargli impeto nella testa. Vide rosso. Ah, per questo? Tant’impegno prima, tanta festa poi, per questo? per aver modo di esercitarsi a parlar tedesco con sua moglie, senza alcuna spesa, senza alcun fastidio, senza alcun peso? per questo?
Si tenne a stento quella prima sera, divorato dalla rabbia. Il collega Della Torre lo guardava di tratto in tratto, e gli sorrideva:

- Non ti senti bene, caro?

E si voltava subito a domandare in tedesco alla moglie, se per caso il suo caro Bindo non stava male. E la moglie... ciaff cioff, ich, doch, nicht, ja, nein - quattr’ore, quattr’ore, quattr’ore di conversazione in tedesco, gratis, a quel suo boja.
Esplose la seconda sera, appena andato via il Della Torre. Alla moglie parve impazzito. Era tanto il suo furore, che non riusciva a esprimersi; strozzato, congestionato, annaspava, con gli occhi schizzanti dalle orbite.

- Se un’altra volta... se un’altra volta... costui viene... e tu t’arrischi... e tu t’arrischi di parlargli in tedesco...

Ah, l’amore italiano... si so süss, so süss... ma anche terribile! Eifersucht! Eifersucht! Gelosia... Gelosia...
E la buona, sana, solida e cordiale moglie tedesca - sicurissima che il suo povero marito, quel caro tesoro, fosse terribilmente eifersüchtig del suo collega Della Torre, gli si precipitò addosso con la bocca assetata di baci, con le mani prodighe di carezze, per rassicurarlo subito, per dargli subito la prova, la prova più convincente, che ella non amava altri che lui, non voleva altri che lui:

- Binto mio! Binto mio!

Poteva mai immaginarsi la povera donna, che il marito, in lei, non aveva sposato altro che la lingua tedesca, e che di lei non gli importava nulla, e che soltanto della sua lingua tedesca era egli geloso? Allibì, nel vedersi furiosamente respinta.
Pallido come un morto, con le narici dilatate, tutto vibrante, con un riso di scherno su le labbra divaricate, egli le fischiò tra i denti:

- Ah, per giunta, ora mi abbracci? Ora debbo darti io i baci e le carezze? Ora vuoi spremere a me le ultime gocce di sangue, dopo aver conversato quattr’ore, quattro, quattro ore in tedesco con quella canaglia? E come gli hai corretto bene tutti gli spropositi! Come gli hai insegnato bene come si dovesse dir questo, e come si dovesse dir quest’altro.

- Ma discorso... discorso onesto... - s’affannava a ripetere tra le lagrime la moglie sbalordita. - Discorso onesto, Binto mio, conversazione onesta...

- Per giunta, già! Sicuro, - incalzò egli, - onestissima! Discorsi di grammatica, discorsi di filologia, discorsi di letteratura... Onesto? Ti pare onesto da parte sua? È una canaglia, capisci che cos’è? Una canaglia! Ti proibisco... ti proibisco di parlargli in tedesco! Se domani sera egli torna, e t’arrischi di parlargli in tedesco, guai a te! guai a te! Non ti dico altro!

La sera dopo, il professor Della Torre, puntuale, tornò fresco fresco, al solito, e sorridente. Ma trovò il collega più morto che vivo, abbandonato con gli occhi chiusi su una poltrona. Evidentemente, la notte avanti, aveva fatto pace con la moglie! E questa gli sedeva accanto, freddissima al suo ingresso nel salotto, anzi rigida, interita. Appena si provò a domandare in tedesco, se per caso il caro collega seguitasse a sentirsi male, ella, ponendo una mano sul braccio del marito in atto di protezione, con uno scatto severo, gli rispose:

- No, precho, sigh-nor! Io parlare con ello italiano. Tetesco io parlare soltanto con mio marito. Con ello, precho, exerchitarmi parlare italiano.

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Perchè i' non spero di tornar giammai (Cavalcanti)

Post n°1141 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Perch'i' no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va' tu, leggera e piana,
dritt'a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli' e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m'abbandona;
e senti come 'l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch'i' non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l'anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu' amistate
quest'anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu' ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se' presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d'Amore».

Tu, voce sbigottita e deboletta
ch'esci piangendo de lo cor dolente
coll'anima e con questa ballatetta
va' ragionando della strutta mente.
Voi32 troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim', e tu l'adora
sempre, nel su' valore

 
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Libri dimenticati:Un'altra primavera

Post n°1140 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Delicatissimo romanzo di Marguerite Steen,la storia di una donna che si annulla per amore di un uomo e poi lo perde

 
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Frase del giorno

Post n°1139 pubblicato il 06 Novembre 2011 da odette.teresa1958

Il diavolo è un ottimista se crede di poter peggiorare gli uomini

 
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