Messaggi del 23/12/2011

"Fiori d'arancio" a S.Tobia

Post n°1456 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

No,cari lettori,nessun matrimonio in vista!Quando parlo di "Fiori d'arancio"mi riferisco all'agenzia matrimoniale creata nel nostro ameno paesino da isaia Martellacci e da Asmodeo Cuccurullo.
L'idea in sè e per sè non era affatto male,ma essendo a S.Tobia ed essendo detta idea venuta a due soggetti di quel calibro,poteva secondo voi finire bene?
Ma bando alle ciance e passiamo ai fatti.
LUNEDI'- Reduce dal suo soggiorno sul Monte Athos (vedi "Ma alle donne che ci faccio?")Melchiorre Scozzagalli ha deciso di cercarsi una compagna.
Oggi Isaia gli ha fatto incontrare quella che a parer suo era la donna giusta per lui:Cassiopea Puzzettoni,da lui piantata all'altare 60 anni prima e sdegnosamente rifiutata tempo fa (vedi "Ma alle donne che ci faccio?").
C'è da meravigliarsi se Melchiorre è stato quasi decapitato a morsi?
MARTEDI'- Stanco di vivere da single,il bidello Rimestoni si è rivolto all'agenzia,specificando che gli andava bene anche una donna un po' più vecchia di lui purchè respirasse.
Risultato:gli hanno affibbiato Prosperina Puzzettoni,che dopo anni di vedovanza ha deciso di rimettersi in gioco e potrebbe essere quasi la nonnna del Rimestoni.
Il poveraccio per lo choc ha perso la favella
MERCOLEDI'- Fatima Makimmazzameh cercava marito.
Isaia ha avuto la meravigliosa idea di proporle il suocero Zibidè,poligamo incallito che è alla ricerca della moglie numero 400 per arrivare al traguardo del 700mo figlio.
C'è da meravigliarsi se il computer dell'agenzia è stato giustiziato con un colpo della scimitarra del mitico pirata berbero Mohammazzpurateh?
GIOVEDI'- Sapendo di essere un caso disperato ,Maciste Trappoloni si è rivolto all'agenzia.
Impietositi, i due caposcarichi gli hanno proposto seduta stante la loro segretaria (per la cronaca,Zibidì)
Il bestione ha gradito tantissimo ,la ragazza molto meno,visto che ha inseguito per tutto il paese padre e cugino bombardandoli di sterco di vacca e urlando parolacce in swahili (prontamente tradotte da Pippipù per la gioia degli astanti)che avrebbero fatto invidia al proverbiale scaricatore di porto.
VENERDI'- Gennarino Sanfebiccio (vedi "Un bidello si ribella")cercava moglie.
Gli hanno fatto incontrare Enrichetta Menabò.
Alla vista l'uno dell'altra i due si sono avventati l'uno addosso all'altra,ben decisi a levarsi dal mondo a vicenda.
C' è voluto Cuccurullo per riportare la calma.
SABATO- Dopo la burrascosa fine del suo fidanzamento (vedi "Tutta colpa di Wanda") Ildebranda Mortimpiedi cercava un nuovo compagno.
Gli hanno proposto Teseo Scozzagalli!
Solo una fuga precipitosa ha salvato da morte certa Isaia e Asmodeo.
DOMENICA- L'agenzia è stata chiusa:secondo i due titolari,una simile iniziativa era sprecata per un posto di trogloditi come S.Tobia e quindi Isaia e Asmodeo sono partiti in volontario esilio per il Burundi.
I paesani han fatto festa fino all'alba.
Sono passate due settimane.
Melchiorre ha giurato su quanto ha di più sacro che resterà single (voi ci credete?)
Cassiopea Puzzettoni è ricoverata nella clinica Luminaris:si crede la Cianciulli e vuol saponificare Melchiorre,Isaia e Asmodeo.
Il Rimestoni,ricuperata la parola,ha deciso di farsi monaco trappista in Terrasanta.
Fatima decapita chiunque provi a parlarle di matrimoni.
Il Trappoloni,pazzo d'amore,sta portando i familiari sull'orlo della pazzia.
Zibidì ha ripudiato padre e cugino ed è partita per la Patagonia.
Il Sanfebiccio e la Mortimpiedi,conosciutisi grazie alla disgrazia comune,si sposeranno a breve.
Teseo è il solito bischero di sempre.
Asmodeo e Isaia, arrivati sani e salvi in Burundi,hanno aperto un'agenzia matrimoniale per scimmie piangine e stanno facendo affari d'oro.
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia

 
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Eleonora e Gabriele

Post n°1455 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato”.

Sono le parole di Eleonora Duse nei confronti di quello che fu l’unico amore della sua vita, anche se il loro rapporto fu parecchio tormentato. La Divina lo amò senza riserve, ma il Vate la tradì non solo dal punto di vista sentimentale, ma anche sul lato professionale. Il Vate si servì della Duse che fu costretta a pagare i tanti creditori del poeta, Gabriele D’Annunzio, amante del lusso, oltreché delle donne. Si contano ben quattromila amanti.

Lui ha cinque anni meno di lei e non se li porta molto bene. Non è mai stato un bell’uomo. Alto 1 metro e 64 aveva persino i denti cariati, ma era un grande affabulatore. Si erano intravisti in un paio di occasioni.

La loro storia comincia con uno scambio epistolare. La Duse che ha appena letto L’innocente convince il Vate a preparare un’opera per lei da portare in scena. Il poeta non ha altro testo pronto che Elegie romane.. Ma è dopo aver letto Il Trionfo della morte che la Duse comincia a sentire per lui un’attrazione morbosa. Lo chiama il poeta infernale. Lui esercita su di lei un fascino ambiguo di attrazione e insieme di ripulsa. “Preferirei morire in un cantone piuttosto che amare un’anima tale. D’annunzio lo detesto, ma lo adoro” confiderà ad Arrigo Boito, poeta, compositore, fino a quel momento l’uomo più importante della sua vita.

D’annunzio si dona, e la Duse si preoccupa di esaudire tutti i suoi capricci. Nell’autunno del 1895 i due amanti stringono il cosiddetto Patto d’Alleanza, come scrive Laura Laurenzi nel suo Amori e Furori (Bur). vagheggiando un teatro dell’avvenire, che non si realizzerà mai.

D'ANNUNZIO

I due, così, vicini, non lasciano i rispettivi partner. La situazione più complicata è quella del Poeta. “Dopo- scrive Laurenzi- il matrimonio riparatore con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, 18 anni, abbandonata al terzo figlio e l’appassionata relazione con Barbara Leoni, è legato ad una focosa principessa siciliana, che gli ha dato una bambina, Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, già separata e madre di quattro figli. Il marito tradito sfida D’annunzio a duello e lo trascina in tribunale con Maria. Saranno condannati a cinque mesi, ma no non sconteranno la pena per un’amnistia. Secondo alcuni biografi centocinquanta sarebbero state le sue amanti certe. Mezzo migliaio, secondo altri. Addirittura quattromila, quelle che affollarono il suo harem, dove non mancavano sniffate di cocacina.

La Duse, figlia di attori girovaghi, debutta sulle scene a cinque anni nella parte di Cosetta. A 21 anni viene sedotta e abbandonata da Martino Cafiero, giornalista napoletano e deputato, bello e brillante. Qualche anno più tardi Cafiero sarà stroncato dal colera. L’aveva messa incinta.

In tutte le sue disavventure la Divina poteva contare su un’amica vera: Matilde Serao.

Di nuovo in attesa di un bimbo, sposerà, ma senza esserne innamorata un amore di secondo piano Tebaldo Checchi. Da lui avrà Enrichetta, che vivrà sempre lontana dai genitori. I due figli di Enrichetta prenderanno entrambi i voti.

Ad infiammare l’attrice sarà solo D’annunzio, a cui un giorno lei scrive: “Ti amo, ti amo e non oso più dirtelo”. Ma il Vate è sempre sfuggente, capriccioso e soprattutto attivo. Per non dormire assumerà stricnina come stimolante del sistema nervoso. Perché “gli araldi della gloria-diceva - sono l’insonnia e l’attivismo”.

Intanto il suo Sogno di un mattino di primavera, sua opera teatrale andato in scena a Roma è un fiasco. E non viene accolto bene neanche a Parigi. Lui se la prende con Eleonora. Comincia a corteggiare l’attrice Sarah Bernhardt, che egli giudica più celebre e più adatta a soddisfare le sue ambizioni.

Tanta la differenza tra le due. La prima “molto più moderna- scrive Laurenzi- è un’interprete rivoluzionaria , detesta la gestualità ampia” olteché i belletti. L’altra è ottocentesca e trova il Vate parecchio brutto. Sembra abbia confidato ad un amico che gli occhi del Poeta sembravano due piccole cacche.

Per Sarah, 54 anni, D’annunzio scriverà Francesca da Rimini, altra tragedia che riscuote un discreto successo. “Alla Duse - è scritto nel libro di Laurenzi - l’allestimento è costato la cifra esorbitante di 400 mila lire. E quando il Vate, come invasato, scrive la Città morta, la Duse, indebitatissima, accetta una nuova tournèe in America pur di accantonare i fondi necessari a poter mettere in scena la pièce”. Ma una volta tornata, scopre che il ruolo di Anna, la cieca è stato affidato alla Bernhardt.

Cominciano i primi dissapori e il poeta continua a farle del male. Lei sembra più una madre rassegnata che un’amante. A lei toglierà il ruolo di protagonista nella Figlia di Iorio, scritto per la Duse, che invece sarà affidato, ad insaputa della Divina ad Irma Gramatica, più fresca per interpretare Mila di Codra. E’ la rottura. Ma D’annunzio non rimarrà solo. Si innamorerà della marchesa Alessandra di Rudinì, figlia dell’ex presidente del Consiglio.

Nel 1904 Eleonora scrive una lettera al Vate, in cui gli chiede di non scrivere più parole dolci.

A 51 anni ormai malata la Divina torna sul palco. Ma all’età di 66 anni, il lunedì di Pasqua del ’24 muore di tubercolosi. Sola. Anche se nel ’22 si erano rivisti per caso a Milano, dopo diciotto anni.

“Devastato dal rimorso- scrive Laurenzi- D’annunzio dice per la prima volta la verità: E’ morta quella che non meritai”.

 

 
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Luisa Baccara

Post n°1454 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Luisa Baccara era nata a Venezia il 14 gennaio 1892. Gabriele d’Annunzio la conobbe in casa di un’altra amante, se ne innamorò e decise di portarla con sé nell’impresa di Fiume. Era il 1919, Luisa aveva 27 anni, lui 56.

Pianista di discreta fama e bravura, non bella, “i capelli selvaggi solcati d’argento”, il “viso olivigno di piccola greca dell’Asia Minore”, suonava il pianoforte con una grazia languida che incantò Gabriele, Vate e Comandante, ormai celebre in tutto il mondo per le sue imprese letterarie, amatorie, belliche: la sua “ossatura era musicale come se l’avesse congegnata un bonissimo liutaio; sembrava talvolta che i suoni fossero dati dai suoi nervi tesi e non dalle corde percosse”. Dotata di una semplicità piuttosto inusuale nell’harem di Gabriele, anche lei ebbe, oltre all’ordinario effluvio di lettere e regali preziosi, un battesimo (Smikrà, “graziosa piccina”, in greco), e una serie interminabile di paragoni artistici. Ora accostata alla Psiche napoletana, ora a una cariatide, ora a una figura dei quadri di Giorgione, la Baccara era soprattutto paziente. Fu la sua mitezza a colpire il seduttore, che l’età rendeva sensibile alle qualità del carattere più che a quelle estetiche, tanto che la donna sarà sua compagna fedele per il resto della vita, anche se mai ricambiata con uguale fedeltà.

  A Fiume, il futurista/pilota/artdo Guido Keller arrivò a studiare - insieme a Giovanni Comisso, futuro grande scrittore - un piano segreto per rapire la Baccara, sospettata di distrarre troppo l’amante. Keller e Comisso avevano addirittura progettato di ripristinare un’antica festa veneziana, ancora in uso a Treviso: il “Castello d’amore” consisteva nel fingere una battaglia, nel corso della quale avrebbero messo la pianista “in una gabbia come una gallina”, ricorda Comisso, per portarla in un’isola deserta. D’Annunzio forse intuì il progetto, e comunque giudicò la festa “troppo dannunziana” e negò il permesso. Luisa era davvero vicina a Gabriele se, come risulta dai documenti acquisiti, nel 1920 d’Annunzio scrisse ben tre testamenti per lasciarle alcuni sui beni: pubblichiamo qui accanto quello del 24 dicembre 1920 (il “Natale fiumano di sangue”, mentre la città era sotto i bombardamenti governativi).

  Finità l’impresa fiumana, nel 1921 Luisa lo seguì al Vittoriale, a Gardone Riviera. D’Annunzio, però, non aveva ancora intenzione di ritirarsi davvero, osservava gli avvenimenti politici in attesa di essere convocato dal re come salvatore della patria, nella lotta sanguinosa tra fascisti e socialisti. La sua autorità era tale che – quello stesso anno - il suo acerrimo nemico Francesco Saverio Nitti (soprannominato dal Vate “Cagoja”) organizzò un incontro a tre, con il poeta e Mussolini, per trovare una soluzione politica a quello che sembrava l’avvio di una guerra civile. Il convegno si doveva tenere il 15 agosto, a Milano. Due giorni prima, alle undici di sera, d’Annunzio cadde dalla finestra della Sala della Musica, per fortuna al primo piano. Sappiamo per certo che il “volo dell’arcangelo”, come lo definì Gabriele, avvenne mentre Luisa suonava il pianoforte. Con loro c’erano sua sorella minore Jolanda, Aldo Finzi, protagonista del volo su Vienna, futuro sottosegretario fascista agli Interni, e un bambino, il figlio del giardiniere. Un’inchiesta avviata l’indomani dalla Pubblica Sicurezza insinuò che la caduta fosse dovuta a un “fatto colposo”, ma nessuna delle versioni e delle supposizioni dei giorni, dei mesi e degli anni successivi appurò per certo di chi fosse la responsabilità. Due figli di d’Annunzio, Mario e Renata, non ebbero dubbi e attribuirono la defenestrazione a Luisa, per un’improvvisa crisi di gelosia forse provocata dalle attenzioni eccessive dell’amante verso la sorella. Per tutta risposta, Gabriele cacciò di casa Renata, amatissima, rifiutandosi di incontrarla fino al 1925. Il poeta, peraltro, non fece nulla per chiarire l’accaduto, mantenendo un riserbo quanto meno insolito, per lui. L’ipotesi più accreditata è che si sia trattato di un incidente: d’Annunzio era seduto in bilico sulla finestra e Jolanda l’avrebbe spinto troppo per difendersi dalle sue attenzioni moleste.

  Resta il fatto che, da allora, la Baccara venne relegata nella schiera delle ex, benché il declassamento amoroso fosse risarcito dall’elezione a vera padrona di casa e da lunghe lettere d’amore che continuarono a scriversi, benché vivessero sotto lo stesso tetto, tranne che durante i viaggi di lei per le predilette cure termali. Da Luisa, Gabriele si faceva chiamare Ariel, il nome della sua giovinezza. Lei si adattò con riluttanza, pur di rimanergli vicina, a tollerare gli incontri di Gabriele con le rivali di ogni genere. Per tutto il 1924 a Gardone si installò una giovane francese dai modi eleganti, che ricomparirà anche nei due anni successivi. Bella e dal corpo sinuoso, aveva vent’anni e si chiamava Angèle Lager, prima di essere rinominata Jouvence. Ma, a più di sessant’anni, Gabriele non sopportò la pretesa di esclusività di Jouvence, e quando la nuova arrivata gli chiese di liberarsi della Baccara, la mise alla porta. Al Vittoriale, Gabriele ospitò spesso anche la moglie, Maria Hardouin, con la quale non viveva da decenni. Forse per evitarle il contatto con la Baccara, che la indispettiva, dal 1929 Maria venne sistemata in una dependance, Villa Romanelli, restaurata e ribattezzata Villa Mirabella. Quindici anni dopo, nella tragedia della Repubblica Sociale, sarà proprio lì che Mussolini si incontrerà con Claretta Petacci.

  A partire dal 1932 poté accedere anche agli anfratti più segreti della villa un’altoatesina di vent’anni, Emy, bionda e alta. Gabriele, che l’aveva reclutata come cameriera, cominciò presto a chiederle altri servizi, che la ragazza svolse con entusiasmo. L’ascendente di Emy crebbe a dismisura e in modo così repentino da suscitare l’ira della Baccara, e per un po’ la ragazza fu costretta a allontanarsi. Tornò, e rimase fin quasi alla morte di Gabriele. Un ritorno che ha dato vita a supposizioni romanzesche, ma non troppo: d’Annunzio era apertamente antitedesco, e è stato avanzato il sospetto che Emy fosse una spia nazista, incaricata di minargli la salute con il sesso e la droga. Certo è che, morto d’Annunzio, Emy ricomparve al servizio di Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri di Hitler, lo stesso che nel 1944 piazzerà frau Beetz vicino a Galeazzo Ciano, con lo scopo di carpirgli i diari.

  Negli anni, Luisa ebbe scatti di rabbia e di gelosia già usuali quando era la prediletta, figuriamoci dopo. L’harem di Gabriele aumentò con il sopraggiungere della vecchiaia: si sentiva “libinosissssssimo”, e aumentò il viavai di “badesse di passaggio”, come le definì. A umiliare di più la Baccara, però, erano i giochi erotici di d’Annunzio con l’intraprendente tuttofare francese Aélis Mazoyer. I rapporti fra le due donne si erano inaciditi per la convivenza forzata.

  Grazie anche alla fama del suo fascino e al fascino della sua fama, le candidate al letto di Gabriele si moltiplicavano. Da vecchio, riaprì – spalancò - la stagione del sesso con decine di signore e signorine, stupefatte dalla vivacità che gli dava la “polvere folle”, la cocaina che lo rendeva “afficato”. In molti casi, dietro i nomi rinascimentali scelti dall’Imaginifico, si celavano paesanotte lombarde dedite al meretricio. Per loro, Aélis e la Baccara non avevano rivalità. Aélis, anzi, aveva l’alto incarico di scegliere le prostitute, di informare le signorine più semplici sui gusti di Gabriele, addobbandole anche con adeguata biancheria intima. Di fronte a signore d’alto bordo, invece, l’invidia delle due si faceva nevrotica e incontrollata. Per placare la gelosia della Baccara, d’Annunzio le scrisse, il 6 maggio 1923, lamentando che il sesso per lui era una “infermità ereditaria”, un “orribile male”: “Ma non riesco a vincerlo. E, davanti alla mia anima, ho per giustificazione la ricerca dell’ignoto, del mistero che è in ogni creatura. Averne rivelato una parte, nei miei libri, non è il mio più alto pregio?” In un appunto più tardo, e più vero, scriverà con maggiore efficacia: “I miei desideri sono come un gregge nel deserto che, per ingannare la loro fame, montano l’un su la groppa dell’altro e masticano la lana polverosa.” La nuova documentazione acquisita dal Vittoriale è piena di frasi simili. Ricambiate con tenerezza e devozione da Luisa.

  Quando d’Annunzio morì, improvvisamente, a 75 anni, il 1° marzo 1938, Luisa abbandonò la casa. Lei, di anni, ne aveva appena 46, e si distrasse soprattutto con i prediletti viaggi alle terme di tutta Italia: amava in particolare quelle di Acqui, dove c’è ancora una sala intitolata a suo nome. Morì a Venezia, ultranovantenne, nel 1985: senza cedere a nessuna lusinga perché raccontasse la sua vita con Ariel o mostrasse i documenti di cui disponiamo oggi.

 
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Alessandra Di Rudinì

Post n°1453 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

uo padre era Antonio Starabba, marchese Di Rudinì, di Palermo, ma d’ascendenza spagnola. Verso la fine dell’Ottocento, diventò capo del governo italiano. Sua madre, contessa Maria de Barral, francese, di origine greca, donna dolcissima con una vita infelice.
Da questi genitori nacque a Napoli Alessandra Di Rudinì, il 5 ottobre 1876. La mamma depose nel suo cuore i primi germi della fede, ma Sandra, rimasta presto priva di lei, crebbe in un ambiente mondano dove conobbe i personaggi più illustri del suo tempo.
Compì gli studi nei migliori collegi d’Italia, a Trinità dei Monti a Roma, a Poggio Imperiale a Firenze. Nell’ambiente di collegio, Sandra, una ne pensava e cento ne faceva, come quella volta che le collegiali, entrate in cappella, per la preghiera della sera, si trovarono tutte ad avere le mani e fronte sporche d’inchiostro. L’unica a non essersi macchiata era Sandra, perché aveva riempito d’inchiostro la vaschetta dell’acqua santa all’ingresso della cappella e tutte, entrando si erano segnate la fronte con quell’inchiostro, meno lei.
Quando la somma delle marachelle divenne insopportabile, la cacciarono dal collegio. Fuori, qualcuno le mise in mano la Vita di Gesù, scritta dal negatore della fede Ernest Renan. «Quel giorno, dirà poi Sandra, fu uno dei più tristi della mia vita, perché perdevo la mia unica ragion d’essere: Gesù».

Una dea a cavallo

A 15 anni, era già una signorina perfetta: alta più di un metro e ottanta, aveva un volto di stupenda bellezza greca, folti capelli biondi, occhi azzurri vivissimi, intelligentissima, volitiva. Sembrava una dea apparsa dalle onde del mare. Dominatrice nei salotti con il suo fascino, mai schiava della moda, era signorile, elegantissima. La sua grande passione erano i cavalli, ne aveva una scuderia personale con 14 esemplari puro sangue che ella cavalcava come un’amazzone.
Suo padre la adorava e la sognava sposa di qualche principe di casa reale o imperiale d’Europa. Per un momento pensò a un matrimonio con il granduca Sergio, della famiglia dello zar di Russia, ma Sandra non ne volle sapere perché avrebbe dovuto rinunciare alla sua fede cattolica per farsi ortodossa.
A 18 anni, sposò chi sentiva di amare davvero: il marchese Marcello Parlotti di Verona, musico, scettico e stoico. A lui si diede con la sua fedeltà di sposa, diventando presto madre di due creature: Antonio e Andrea. Entusiasta anche della bellissima villa sul lago di Garda, Sandra, sposa e madre, poteva considerarsi una donna felice, ma non lo era, pur non mancandole nulla.

I giorni del dolore

Nella primavera del 1900, Marcello fu colpito da tubercolosi galoppante. Sandra lo curò con dedizione eroica: pur percorsa da una crisi di fede e ormai lontana da ogni pratica cristiana, per il suo Marcello morente chiamò un santo prete di Verona, Don Francesco Serenelli. Marcello morì lasciandola vedova a 24 anni, con due piccoli figli da crescere.
Suo padre, marchese Di Rudinì, cercò di distrarla con viaggi e feste: nell’aprile del 1903, a Roma per la visita del Kaiser Guglielmo di Germania, in maggio per la visita dello zar di Russia. A Parigi, frequentò i circoli letterari e partecipò a colazioni con Zola e Anatole France che la lasciarono di ghiaccio. Solo uno di quei viaggi l’aveva segnata in profondità: nel 1901, era stata in Marocco dove si era recata a consultare un vecchio marabutto, che guardandola a lungo le aveva detto: «Tu avrai tutto: splendore, ricchezza, amore... poi avrai ancora tutto: sofferenza, povertà, freddo... sulla tua fronte ci sono tre veli... uno l’avrai ancor... il più bello».
Sandra si allontanò in silenzio, senza chiedere altro. Nel cuore era come sommersa da una prorompente capacità di amare, sotto mille forme. Con il borsellino pieno, dava tutto in elemosina. Provava un gusto sottile a soppiantare altre donne, le quali, in salotto, a confronto con lei, erano costrette a eclissarsi.
Nel novembre 1903, partecipò a Firenze alle feste per il matrimonio del fratello. Vi era pure il poeta Gabriele D’Annunzio, che, benché legato ad Eleonora Duse, rimase folgorato da Sandra. La Duse si ritirò e Sandra diventò la “compagna” del D’Annunzio, senza badare allo scandalo né alle ire del Marchese Di Rudinì suo padre.

Con le mani sul volante, verso la verità

Ma neppure quella era la gioia per il suo cuore. Nel 1906, ricoverata in una clinica a Firenze, fu operata tre volte, sospesa tra la vita e la morte. Suo padre non si fece vivo. Il poeta le dedicò una pagina delle Faville del maglio e il poemetto Solus ad solam. Erano parole, solo parole, perché, quando iniziava la convalescenza, gli occhi di D’Annunzio si posarono su un’altra donna: Amaranta. L’avventura col vate d’Italia era finita.
Dunque, era altrove la fonte della gioia. Cercarla era per Sandra come inoltrarsi in una foresta senza sentieri. Tuttavia iniziò il cammino. A Renata, figlia del D’Annunzio, la quale era credente, un giorno disse: «Te beata e prega che ti sia risparmiata la terribile angoscia del dubbio».
Coltissima, plurilingue, poteva leggere di tutto, dai vangeli e San Paolo, in greco, ai filosofi contemporanei in tedesco. Immersa nella negazione di Dio non trovava risposta alcuna ai grandi interrogativi dell’esistere, del soffrire e del morire. Don Serenelli l’aiutò molto, ma in modo più decisivo l’aiutò l’abate Gorel che Sandra aveva chiamato dalla Francia, nel 1909, come cappellano di Villa Parlotti a Verona.
Don Gorel la mandò a Lourdes. Partì da Verona, guidando la sua lussuosa automobile, ella stessa. Nella mente il dubbio che la rodeva, eppure, consapevole, fino in fondo che solo nel Cattolicesimo sta la Verità assoluta ed eterna, Sandra aveva già ripreso a frequentare i sacramenti. Ma voleva una fede illuminata, sicura, adulta.
A Lourdes fu colpita dalla sconfinata sofferenza ai piedi della Madonna. Sotto i suoi occhi vide guarire una donna francese completamente cieca, dopo che aveva invocato la Madonna. Dunque, a Lourdes, Gesù, l’Uomo-Dio, operava miracoli servendosi di sua Madre? Era possibile. Quindi Sandra fece esperienza del miracolo della carità presso la santa Grotta, provandone un’impressione grandissima.
Andò ad inginocchiarsi davanti all’immagine della Madonna, invocandola come una bambina sperduta nel deserto. Tutti i dubbi caddero davanti alla forza di Maria Santissima, la rapitrice dei cuori, la condottiera delle anime a Cristo. «Il naturalismo, il positivismo, il razionalismo? Erano tutte chimere. Solo Gesù Cristo è la Verità», dirà più tardi.
Sandra abbracciò Gesù per sempre, Gesù che le era offerto in dono da sua Madre. Nella chiesetta del Carmelo di Lourdes, si confessò e si comunicò con la certezza assoluta ritrovata di aver toccato Dio in persona, di possedere finalmente la felicità: «Il miracolo più grande è ora quello della mia conversione in questo luogo santo. Solo la grazia divina può comunicare la fede con una nuova vita, una vera rinascita».

Il terzo velo

Ritornata da Lourdes nella sua villa sul Garda, prese a vivere come una carmelitana nel mondo: lunghe ore in preghiera davanti al Tabernacolo, ogni giorno il Rosario intero alla Madonna e la recita del Breviario come i sacerdoti. La meditazione delle opere di Santa Teresa e di San Giovanni della Croce. Decise: «Sarò carmelitana per sempre, per amare solo Cristo, per riparare, per intercedere per la Chiesa e per le anime».
Nell’ottobre 1911 a 35 anni, la marchesa Alessandra Starabba Di Rudinì, nel Carmelo di Paray-le-Monial, in Francia, diventò suor Maria di Gesù. Era il terzo velo che scendeva sulla sua fronte, dopo quello della sua prima Comunione e quello di sposa di un uomo: il velo, ora, della sposa di Cristo.
Dal suo Cahier vert, sappiamo che tra il 1912 e il ’13 passò attraverso prove interiori durissime. Tra il 1916 e il ’17 le morirono i due figli di tubercolosi, come il padre. «Non ho più su questa terra, alcun legame, nessun amore, nessuna tenerezza: l’unica ricchezza, l’unico amore che ho è la Croce di Cristo».
Nella preghiera continua, sotto la guida della sua Priora e di santi sacerdoti, diventò una carmelitana matura, dotata di singolari doni. La priora la volle maestra delle novizie, poi, fu eletta priora a Paray: una priora buona, materna, esigente, ma ricca di forte comprensione delle anime, capace di guidare a Gesù, all’unione totale con Lui.
Con l’eredità dei suoi genitori, con i suoi beni personali volle fondare tre nuovi monasteri. Valennienne fu la prima di queste fondazioni che le costò otto anni di fatiche. Il secondo fu il Carmelo di Montmartre, voluto e benedetto dallo stesso cardinal Amette, Arcivescovo di Parigi. Seguì la fondazione del Carmelo del Reposoir in Alta Savoia.
Nel cuore di suor Maria di Gesù, non c’era ormai che un grande amore che la divorava come il fuoco: l’amore per Gesù. Ella, che era stata letteralmente travolta da questo amore, dichiarava che «la vita religiosa al Carmelo doveva essere vita di amore senza confini e non solo osservanza formale delle regole». «Consacrarsi a Lui è amare Lui e, in Lui, la Chiesa e tutte le anime, e sperimentare che Lui ci ama alla follia».
Nel 1930, in autunno, sfinita dal lavoro e dalla dedizione a Dio, si recò al suo Reposoir: le sue condizioni di salute erano ormai disastrose. Venne ancora il dolore atroce a perfezionarla in un olocausto simile a quello di Gesù sulla croce. Nella notte tra il 1° e il 2 gennaio 1931, sentì che Gesù la chiamava per nome. Avvolta di pace e di gioia, ricevuti i Sacramenti, disse piano piano: «Nelle tue mani, Signore, consegno il mio spirito».
Capolavoro stupendo dell’amore di Dio che, accolto, trasforma a sua immagine e somiglianza.
                  
                                             

 
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Maria Gravina

Post n°1452 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Maria Gravina Cruyllas, figlia di Francesco Gravina, principe di Ramacca fu data in sposa al
conte Guido Anguissola di San Damiano, capitano di artiglieria. Ebbero tre figli, ma i
rapporti tra i coniugi non erano buoni: lei era trascurata dal consorte. Così ce la descrive lo
scrittore Giuseppe Tornello nel suo libro “Ramacca dall'origine ai nostri giorni”
Maria Gravina non era una donna leggera, era soltanto una sposa infelice, che aveva
contratto un matrimonio di convenienza e si era stancata presto del marito. Sotto l’apparente
alterigia, andava alla ricerca di un affetto sincero e di un legame duraturo per la vita.
Nell’alta aristocrazia napoletana conobbe Gabriele D’Annunzio, con cui intrecciò una
relazione sentimentale e passionale. La donna, trascurata dal marito, andò a vivere con il
D'Annunzio quel periodo che il poeta definì, nella sua opera «Contemplazione della morte»,
«di splendida miseria». Dalla relazione con D’Annunzio, il 9 Gennaio 1893 nacque Renata
(detta Cicciuzza) (1). Trasferitasi ad Ottaviano con i figli e il poeta, visse per qualche tempo
tra le ostilità dell'aristocrazia locale ed i tentativi del conte Anguissola di ricondurla a casa
che alla fine riuscirono.
L'anno successivo il D'Annunzio si ricongiunse alla Gravina ed alla figlia, ma la convivenza si
fece sempre più difficile. La contessa cominciò a sentire il peso dei disagi economici, era
gelosissima e iniziò a soffrire di turbe psichiche. Abbiamo una descrizione di Maria Gravina
in una delle tante biografie sul D'Annunzio: «Quando Maria Gravina s'incontrò con Gabriele
non era più nella prima gioventù, aveva trenta anni, ma aveva conservato una meravigliosa
bellezza: alta, slanciata, era bellissima tra le belle; aveva poi un curioso capriccio di natura:
tra i folti capelli neri aveva nascosta una ciocca di capelli così rossa che se scuoteva la testa si
poteva credere che fosse il segno di una ferita». (2)
Una descrizione un po' esagerata di una donna di tipica bellezza meridionale, come vediamo
dalla fotografia che la mostra; una donna forte in apparenza, ma molto fragile. Nel villino di
Mammarella, a Francavilla, la relazione si trascinò fino al 1897. Per il D'Annunzio
«L'innocente», che aveva dedicato alla Gravina, era diventato un successo che risollevò la sua
situazione economica. In uno dei suoi viaggi egli conobbe Eleonora Duse e fu per andare a
vivere con lei che il poeta abbandonò la contessa.
Nel maggio di quello stesso anno la Gravina ebbe un altro figlio, che il poeta non volle
riconoscere; di questo secondo figlio, che la contessa chiamò Gabriele Dante, abbiamo notizia
dalla corrispondenza della contessa Blandine Von Bulow e Giacomo Santagati; in una lettera,
infatti, la contessa Blandine scriveva: «...a Prato vidi il figlio di D'Annunzio; ha 15 anni e
mezzo, ma ne mostra 12, tanto è piccolo e meschino e poi rattrista sentirlo parlare del padre..>>
Finisce così la storia di un adulterio durato cinque anni. Per il D’Annunzio continuarono i
successi e le glorie, per Maria Gravina invece, l’oblio ed una vita non certo felice, più volte
condannata per debiti e destinata a finire i suoi giorni gestendo una pensione di seconda
categoria a Montecarlo.

 
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Io sono folle (Merini)

Post n°1451 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

IO sono folle, folle, folle d'amore per te.
io gemo di tenerezza perchè sono folle, folle, folle
perchè ti ho perduto.
Stamane il mattino era cosi caldo
che a me dettava quasi confusione
ma io era malata di tormento ero malata di tua perdizione.

 
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Libri dimenticati:Figli di nessuno

Post n°1450 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Ancora le esperienze di Torey Hayden con bambini molto speciali

 
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Frase del giorno

Post n°1449 pubblicato il 23 Dicembre 2011 da odette.teresa1958

Ridi e il mondo riderà con te piangi e sarai solo

 
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