Messaggi del 05/01/2012

Un amore insolito:Franco e Sibilla

Post n°1546 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

«Oggi sono trentaquattro anni che il mio primo libro venne pubblicato. Mi ripeto la cifra fino a rimanere stordita. Nella stanza sottostante, Franco intanto spera che io lavori. Non mi ha legato alla seggiola, come fece, un po’ per gioco e un po’ sul serio, una volta, due o tre anni fa, sa che all’incirca è come se legata fossi: gli ho promesso di non discendere fino a che non sarà notte». Così scrive sul suo diario, appena iniziato, Sibilla Aleramo. È il 3 novembre del 1940. La narratrice e poetessa ancora una volta è a Capri, dove ha preso alloggio nella Villa Falconara. L’isola, diventata una delle mete preferite dell’establishment del regime, è affollata da un eclettico turismo internazionale. Sibilla vi torna sempre con piacere per quell’atmosfera fuori del tempo, in cui può riposare e sognare, dedicandosi alla letteratura. La sera, poi, può passare qualche ora assieme alle sue amiche scrittrici Alba De Cespedes e Maria Luisa Astaldi, e abbandonarsi a lunghe passeggiate. Dopo tante sofferenze e numerosi amori sfortunati, è ora come rinata. Da quattro anni vive una grande, struggente passione: ama, riamata, Franco Matacotta, un ragazzo poco più che ventenne. All’incontro fatale, avvenuto nel gennaio del 1936, Sibilla è in uno stato d’animo penoso: ha da poco compiuto sessant’anni, è stata appena abbandonata da Salvatore Quasimodo ed è convalescente di una grave malattia. La nuova amicizia, iniziata con una lettera timida e affettuosa che il giovane, aspirante poeta, le ha inviato da Fermo, suo paese natale in Abruzzo, si trasforma presto in una passione che la travolgerà, ma che si rivelerà anche, come l’ultima illusione dell’“amante indomita”, come a coronare una vita di sofferenze e di “grandi amori” sempre delusi. Nata ad Alessandria nel 1876, a sedici anni Sibilla Aleramo, nome d’arte di Rina Faccio, viene violentata da un impiegato della fabbrica di vetro diretta dal padre a Civitanova Marche, dove la sua famiglia si era trasferita. Al matrimonio riparatore erano seguiti anni di sofferenza, che Sibilla cercava di compensare rifugiandosi nella lettura e nella scrittura. Dopo un tentativo di suicidio, era fuggita da quell’ambiente oppressivo, abbandonando la casa e il carissimo figlio, per correre verso la libertà e l’affermazione letteraria. Passava così da un sodalizio letterario ad un’infatuazione, che la lasciavano ogni volta più delusa. Giovanni Cena, Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Michele Cascella, Giovanni Boine, sono solo alcuni degli scrittori e artisti con i quali allaccia sfortunate relazioni amorose. Anche la straziante passione per Dino Campana, si conclude, tra inaudite violenze, con un fallimento. La movimentata vita sentimentale non la distoglie dalla collaborazione a varie riviste grazie alle quali diventa la bandiera del femminismo nascente. Pubblica numerosi romanzi, raggiungendo una certa notorietà, senza però mai arrivare ad una stabilità economica, anche se può contare su numerosi amici letterati che si offrono di sostenerla con generose elargizioni. Uno stile di vita disordinato che le causa grandi infelicità. Quando incontra il “grande amore” si trova in questa ormai delusa attesa, mentre la frezza bianca che ha sul capo sta inesorabilmente guadagnando tutta la chioma. All’inizio tutto le appare come l’ennesimo omaggio di un giovane alla sua musa inquieta. In breve, però, quel ragazzo triste e pessimista, gli entra nel cuore, in quel “vecchio cuore ancor non pago di sconfitte”. La fiamma divampa e non le lascia spazio per nient’altro, neanche per l’amata letteratura. Sibilla s’immerge in un’esaltata inattività, in muta contemplazione di quell’amore atteso per una vita intera. Lo stesso diario, infatti, che sarà poi pubblicato con il titolo di Un amore insolito, fu voluto dallo stesso Matacotta, perché lei non restasse in ozio. Capri fu il primo teatro del loro amore. L’isola che lei descriveva «una terra spontaneamente felice, non creata per la sofferenza», divenne un luminoso nido d’amore. La coppia, incurante della notevole differenza d’età, viveva in uno stato di esaltazione, alternando passeggiate romantiche ad intense ore di scrittura, per finire spesso la sera al Caffè Morgano, vero “gabinetto di biologia umana”, dove poteva riposare osservando l’eccentrica clientela internazionale dell’isola. I primi mesi di passione si svolsero tra Capri e Sorrento, in un frenetico viaggiare che illuse Sibilla che il nuovo amore potesse durare per sempre. Capri, in particolare, sembrava apparirgli come un’oasi, in cui vivere liberamente la grande passione. Quando si trasferivano per brevi periodi a Roma, si rinchiudevano per giorni in un altro rifugio, una soffitta traboccante di libri e carte, dove la scrittrice aveva raccolto tutte le sue memorie e dove sempre più raramente lavorava. Ora la sua mente e il suo cuore erano solo per l’amato, eletto come il grande amore della sua vita. Scriveva nel diario: «Gli ho donato in tutti questi anni, tutta la somma che è in me di vita, affinata, purificata, illuminata, l’ho creduto degno del dono, predestinato ad accoglierlo, lui unico dopo tanti, l’ho creduto e ancora oggi lo credo». E scavando nel suo cuore generoso annotava ancora: «E so che cosa di me ha attratto Franco…Tutto ciò che è stato vita in me, virtù di poesia, amore di poesia, destino di poesia e sì, è questo, certo. Ma poesia incarnata, fatta vita, forza vitale». Nonostante l’empito della passione, Sibilla cominciava a intuire quanto complesso fosse il sentimento che nutriva per Franco, e quanto questo somigliasse alla sua tragica maternità. Con dolore scriveva, infatti, sul diario, diventato ormai lo specchio fedele della sua disperante passione: «Come un mistero sacro questo fanciullo non generato dalle mie viscere mi ha fatto madre del suo spirito. Io che il figlio da me partorito non potei allevare se non da bambino, mi son trovata nel mio tramonto di fronte a questa seconda e più profonda missione». Erano così passati tre anni, con numerosi viaggi in Italia e in Grecia, con sempre più brevi permanenze nella soffitta romana, quando cominciarono a manifestarsi i primi scricchiolii. Sibilla volle allora tornare ancora una volta a Capri, nell’illusione che tutto potesse continuare come un tempo. La stesura del diario, nella sua data di nascita, a partire proprio dal novembre 1940, porta il segno indelebile di una rivelazione, di una storia ormai avviata verso la conclusione. Forse però sarà proprio la guerra e il servizio militare al quale sarà presto chiamato Franco a ritardare quello che era già un amore in crisi. Anche a Capri la guerra cominciava a dare i primi segni. L’isola non viveva più nella solita spensieratezza. Molti villeggianti europei e americani se ne erano allontanati. E alla scrittrice non restava che annotare: «Quanti allarmi che si susseguono, quasi ogni sera ormai! D’un sarcasmo sinistro, nella pace dell’isola, nel chiarore lunare, e con Giove fulgido nel mezzo del firmamento ». E ancora: «…si stanno installando batterie antiaeree in vari punti dell’isola». Le notti per Sibilla furono sempre più malinconiche e insonni. Franco appariva come distratto, a tratti sfuggente, e lei cercava di intuirne il perché annotando mestamente: «Quel mio sacrifizio iniziale forse gli uomini che ho amato non me lo hanno perdonato in cuor suo – e che credo che neppure Franco me ne assolva. Eppure, Franco ed essi tutti, ne hanno beneficiato, trovando in me, oltre che l’innamorata, la madre…». Riflessioni amare e sconvolgenti. Quando arriva la chiamata alle armi Sibilla ne è terrorizzata. Scrive: «Franco dovrà presentarsi soldato ai primi di gennaio…Abbiamo il cuore stretto. Parliamo poco. Come un gurgito di rinnovata tenerezza ci stringe l’uno all’altro…il tempo non potrebbe essere peggiore: bufere di vento, nevischio, lampi ». Non si dà pace e impegna tutte le sue conoscenze, per sottrarlo alla chiamata, e poi, una volta destinato in Sardegna, a farlo tornare a Roma. Proprio in Sardegna vivrà quella che lei stessa chiamerà la mia “odissea sarda”. Dopo averlo accompagnato a Civitavecchia alla nave che lo porterà a Cagliari, destinazione Macomer, non passano che poche settimane che Sibilla si precipita a raggiungerlo, spinta da un’insopprimibile desiderio. S’imbarca allora su un traballante idrovolante e coraggiosamente lo insegue tra Cagliari e Sassari, prima di raggiungerlo, due giorni dopo, in un malandato albergo di provincia dove può ancora una volta stringerlo tra le braccia. Sibilla però sente che Franco è sempre più assente e lei stessa si convince dell’ineluttabilità della fine, annotando nel diario: «Sento l’imminenza del nostro distacco. Sarà fatale un giorno lasciarsi, – ed è questa fatalità che ha costituito il tragico del nostro rapporto, tragico sempre crescente e che ora minaccia di soverchiarmi». Sibilla, però, ancora innamorata, non vuol rinunciare, anche se è costretta a scrivere: «Sofferenza, sofferenza. Abbiamo avuto altri periodi io e Franco d’angosciosi dissensi, in cui ci pareva a tratti di non poter oltre sopportare la vita in comune e perfino ci parve di non più amarci. Li abbiamo sempre superati. Ma in questi giorni lo sgomento minaccia di travolgere ogni nostra più profonda difesa. Siamo alla deriva. Incapaci di vedere più chiaramente dentro di noi. Sbattuti, cenciosi». La guerra, con le sue immani tragedie, alimenterà una corrispondenza fitta e numerose pagine dolorose del diario. Franco le scriverà, alla fine del conflitto, una lettera d’addio, ricordandole con cinismo: «Della nostra lunga storia si salvano soltanto due stagioni, una mia, una tua. La mia quando tornai tra la mia gente, che combatteva contro i tedeschi per sopravvivere e mi unii a loro. La tua, quando nell’inverno di Roma occupata, sei rimasta senza di me, dotata solo della tua forza e della tua sofferenza, che era la forza e la sofferenza di migliaia di altre donne intorno a te, le donne e le madri che si angustiavano per i due chilogrammi di pane da dare ai loro figli». E il nostro amore, si domandava angosciata Sibilla? Nel 1947, quando Franco si sposa, è tutto finito. Si era spenta anche l’ultima illusione. Sibilla continuerà però a covare nel cuore quell’amore impossibile che le farà scrivere ancora nel 1954: «Mi sento atterrita dinanzi alla grandezza di quella mia ultima, per fortuna, illusione d’amore». Fino alla definitiva ammissione della sconfitta, tre anni dopo: «Mi sono chiesta come ho potuto talmente illudermi e per tanto tempo che quel ragazzo mi amasse». Sibilla sopravvisse fino ad ottantaquattro anni, spegnendosi nel 1960. Nonostante l’ultima atroce disillusione, rimase fino alla fine fedele alla sua indomabile utopia di credere nell’amore e nella poesia alla quale chiedeva che le fossero restituiti i suoi tanti, infelici amori scrivendo: «…e tu che sei mai poesia, / se fra le mie mani non riporti il suo viso?».

 
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Amalia Guglielminetti a Guido Gozzano

Post n°1545 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

nedì mattina (23 marzo 1908)

Che avete, Guido, contro di me? Vi sento fasciato di freddezza e di ostilità. Vi avevo riservato libero il pomeriggio di mercoledì. Non potete. Domani devo una visita a Mantovani. Sarà breve: Voi attendetemi nella piazza del monumento a Vittorio Em. sotto i portici presso l’ufficio postale. Vi raggiungerò verso le cinque. Prenderemo, se credete, una vettura e andremo fuori. Bisogna ch’io vi guardi negli occhi e nel cuore un momento... (Amalia Guglielminetti)


Martedì (24 marzo 1908)

Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me? Non dovevo venire con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così, per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino. E così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci concede?

Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, o vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano. Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.

Io non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglio che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi lucenti.

Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura.

Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.

Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino. No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te. Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto.

Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli.

E un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno. Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa.

Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione, quale ribellione era in me, allora, davanti a quel nuovo tu che lottava contro la mia volontà aspra di solitaria! Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca umiltà di cose umili e nascoste. Ma come puoi non volermi bene se mi rivedi ancora in quell’atto? Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza.

Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi.

Scrivimi che ci vedremo ancora quando e come il destino lo vorrà, semplicemente, come due amici buoni che la fedeltà riconduce tratto tratto l’uno all’altro. Ho bisogno di sentirti parlare, di te, di me, de’ tuoi e dei miei sogni, del tuo e del mio avvenire, di tante cose piccole e grandi e vane. E’ così buona l’amicizia ed io non ho amiche vere, non ho forse amici veri, non mi sento legata che a te.

Non voglio che ci cerchiamo con l’ansia del desiderio, ma che ci vediamo naturalmente come vogliono le vicende della nostra vita. Non farmi ancora piangere e rimpiangere, Guido, dammi ancora le prove e se vuoi qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza. Vieni a dirmi addio prima di lasciare Torino. Ci sapremo stringere le mani con dolcezza ma senza fremito. Verrai? Non dirmi, non dirmi di no... (Amalia Guglielminetti)


30 marzo 1908

Rileggo ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con una grande malinconia. E indugio nella risposta, preso da un’indolenza dolorosa: forse perché non so bene come dirti...

Da molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno. Penso a tante cose, sopra tutto, avvenire; e penso anche a te, con molta tenerezza e con molta serenità.

Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere crudele con me e forse — perdonami — anche un po’ con te...

Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino. E quale felicità, Amica mia!

Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese! (così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia alla nostra follia! E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti sogni! Avremmo voluto pellegrinare la nostra passione in tutti i dintorni favorevoli al sentimento: quanti sogni! Io li ho già sognati tutti e t’ho già vista in tutti: con a sfondo i paesi sconosciuti, le viuzze di provincia dove si sarebbe delineata al mio fianco la tua svelta parigina figura primaverile.

Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia... Perché non confessartelo, mia buona sorella? L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in un modo atroce.

Non sento non vedo non godo non soffro di altro.

Come puoi tu, che pure hai tra le mani i germi di mille speranze e segni la stessa mia via, come puoi rivolgere ancora le forze della tua giovinezza verso altri destini? Per me, camminando diritto, con l'occhio fisso alla mia meta lontana (o quanto!) tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante, come su un fiore, al margine del sentiero, ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo...

Ah! Se io potessi darti una parte soltanto di questo mio orgoglio latente, anche il dolore che tu dici di avere in te impallidirebbe e l’amore ti apparirebbe qual è: un inganno della giovinezza e un episodio trascurabile in un destino come il mio e come il tuo.

E mai come in questi tempi che tale smania mi fa soffrire, ho avuto tanto disprezzo per le mie attitudini artistiche e ho tanto sentito la necessità di affinarle con lo studio, con la meditazione, col silenzio.

Tu hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che passa: per me anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio sentiero.

Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi ed una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualunque...

Ho rilette queste sei pagine, amica mia: oimé! Parlo, parlo, e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami.

Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. E non t’avrei amata nemmeno restando qui, pur sotto il fascino quotidiano della tua persona magnifica; no: avrei goduto per qualche mese di quella piacevole vanità estetico-sentimentale che dà l’avere al proprio fianco una donna elegante ed ambita. Non altro. Già altre volte l’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’avidità del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo...

Ora con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia incontrato mai, e con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio essere ancora sincero: non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il distacco. Partirei pur non dovendo partire. Invece il Destino è propizio: m’impone l’esiglio anche per altre cause ch’io tolgo a pretesto.

Rivederci? A che scopo? Un colloquio di più nulla aggiungerebbe (o sottrarrebbe forse) alla fraterna benevolenza che noi dobbiamo portare l’uno dell’altro.

Addio, mia buona amica! Ti bacio. (Guido Gozzano)


Mattino di lunedì 30 marzo (1908)

Caro Amico,

vi pensavo più buono di quanto vi dimostrate. Credevo di meritare almeno una parola di risposta se vi pareva troppa concessione accordarmi una visita come vi chiedevo.

Un’amicizia come la nostra non deve morire così fra la vostra indifferenza inerte e la mia esasperata tristezza.

Perché io non credo possibile per Voi e per me una fedeltà che resista alle lontananze e agli oblii. Siamo entrambi troppo egoisti per i culti essenzialmente spirituali. Mi costringete a mendicare dagli amici vostri le vostre notizie con parola leggera e anima febbrile.

Mi costringete a mendicare da Voi una condiscendenza che non dovrebbe esservi grave.

E mi è duro, sapete, curvarmi così. Vorrei parlarvi di cosa che non posso affidare a una lettera. V'aspetterò a casa mia mercoledì fra le quattro e le cinque, o, se preferite un luogo aperto, giovedì alle tre e mezza laggiù a’ piedi della collina dove già v’ho atteso una volta soffrendo.

Non rispondetemi se vi pesa, ricordate solo ch’io v’aspetterò con intenso desiderio, e che vi prego di venire.

Stamani io scrivevo questo mentre tu forse aggiungevi per me tristezza a tristezza nello otto pagine della tua lettera.

Non distruggo e non disdico il mio biglietto. Ho troppa sete di te per saziarmi delle tue parole amare.

Non è vero ch’io abbia cose segrete a dirti, era una menzogna per indurti a venire.

Porta pure con te la tua ambizione, la tua freddezza, la diffidenza che hai verso di me. Sarà meglio, forse mi guarirai; ma non inasprire ancora il mio male con un rifiuto. Se anche non mi ami perché vuoi ch’io ti perda? Perché vuoi farmi sentire così nera così crudele la mia solitudine, così completo il mio isolamento? Ah! la gloria, Guido, come ne sogghigno! Io non so come tu possa amare sognare darti a una così vacua cosa. Io voglio più bene a te che alla gloria, quella non mi farà mai piangere né aspettare in ansia. (Amalia Guglie

 

 
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Amalia Guglielminetti

Post n°1544 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nata a Torino nel 1885 da una famiglia di industriali benestanti, rimase orfana di padre molto giovane. La sua raccolta di poesie, Voci di Giovinezza (1903), pubblicata a diciotto anni, fu dedicata a suo padre. Dopo la morte del genitore, la piccola fu mandata in una scuola religiosa, i cui ricordi ritrasse nella sua seconda raccolta di poesie intitolata Le vergini folli (1907). Voci di giovinezza creò scompiglio nella società benpensante di Torino, Le vergini folli la consacrò come poetessa di spicco, ed attirò l'attenzione del giovane poeta Guido Gozzano. Tra i due iniziò una intensa relazione epistolare, inizialmente mossa da reciproca ammirazione, ma che ben presto si tramutò in una tormentata storia d'amore, dalle cui Lettere d'amore, scritte tra il 1907 e il 1910, è possibile ricostruire un'immagine fedele del clima culturale di quegli anni. I critici e gli scrittori reagirono esprimendo i propri pregiudizi verso una scrittrice donna, cosa che suscitò più divertimento che rabbia, nella Guglielminetti.
Nel 1909, uscì la terza collezione di poesie, Le seduzioni, con la quale la poetessa costruì la sua fama di donna perversa e sensuale. Questa è la raccolta che definisce maggiormente la Guglielminetti, e che sintetizza la sua natura come "colei che va da sola".
La morte della sorella Emma, sopraggiunta nel 1909, diede vita ad un altro volume di poesie, che però uscì solo nel 1934, incluso nella raccolta I serpenti di Medusa.
La natura della poesia della scrittrice, unite al suo aspetto inusuale, con lunghi capelli neri e vestiti dell'ultimo grido parigino, la resero una figura stridente nel panorama culturale torinese. La natura essenzialmente solitaria di Amalia Guglielminetti, inoltre, la rese un personaggio del tutto anticonformista.
Tra il 1916 e il 1925, pubblicò anche dei libri per bambini: Fiabe in versi (1916); La reginetta Chiomadoro (1923); Il ragno incantato (1923) e La carriera dei pupazzi (1925). Negli anni successivi, però, una tormentata relazione sentimentale, con lo scrittore Pitigrilli, le causò un collasso nervoso ed un ricovero; esperienze, che segnarono per sempre lo stile della poetessa, che da quel momento divenne più duro.
Negli stessi anni, uscirono diverse raccolte di racconti brevi, e furono messe in scena diverse commedie, che riscossero un grandissimo consenso di pubblico. La Guglielminetti scrisse anche due romanzi, il secondo dei quali, La rivincita del maschio (1923), fu preso di mira dalla Lega della Pubblica Moralità, poiché ritenuto immorale ed osceno.
Questa scrittrice fu anche una delle poche donne italiane a lanciare e a dirigere un giornale letterario, che lei chiamò Seduzioni, come la sua raccolta di poesie più famosa.
Amalia Guglielminetti morì nel 1941, a cinquantasei anni, per delle complicazioni dovute ad un incidente, accadutole durante un raid aereo. Rimase sempre una figura solitaria, tormentata da sbalzi depressivi.

 

 
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Pitigrilli

Post n°1543 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Ad oltre trent’anni dalla sua scomparsa, la controversa figura di Pitigrilli, al secolo Dino Segre, rimane ancora sepolta nel vasto e ben curato cimitero della disinformazione e del pregiudizio e, salvo alcune meritorie e coraggiose opere di rivalutazione (vedi gli scritti e le memorie di Fabio Andriola, Sergio Andreoli, Enzo Magrì e Maurizio Bonfiglio e il saggio di Umberto Eco), pochi fino ad oggi sono stati i critici che si sono cimentati nella riscoperta di questo importante giornalista e romanziere.

Scrittore brillante e disincantato, attento osservatore della società italiana, dei suoi costumi e delle sue debolezze, Pitigrilli è stato oltre che un autore di indubbio talento anche e soprattutto un notevole ed atipico talento giornalistico. Un cronista che, complici il suo stile provocatorio, paradossale e anticonformista riuscì - nobile impresa - ad attirare su di sé l’antipatia e persino l’odio di gran parte degli intellettuali e dei potenti d’ogni schieramento e colore.

Dino Segre nacque a Torino nel 1893 da una famiglia borghese (“Avrei voluto nascere a Torino al principio del secolo scorso [...] invece vi nacqui cent’anni dopo [...] Mia madre discende da una famiglia di farmacisti piemontesi, mio padre era ufficiale dell’esercito”). A ventidue anni si laurea in Giurisprudenza, ma non intraprende la carriera forense, preferendo dedicarsi subito alla letteratura, allo studio delle lingue moderne e antiche e al giornalismo. E a neanche ventitré anni inizia a scrivere per importanti testate, tra cui L’Epoca, evidenziando in poco tempo straordinarie capacità come inviato in Turchia e in altri Paesi. Fondamentalmente scettico circa le possibilità di riscatto di un’umanità perennemente alla ricerca di facili soluzioni alla morte, all’ingiustizia sociale o al dolore mentale; decisamente dubbioso circa le capacità intellettive dell’uomo medio (“ammetto il bacio al lebbroso ma non concepisco la stretta di mano al cretino), Pitigrilli, nel corso della sua lunga carriera, ha prodotto un numero esorbitante di articoli, servizi ed elzeviri, trovando il tempo per dare alle stampe parecchi romanzi cosiddetti “leggeri”, parte dei quali, in realtà, molto profondi ed acuti: ricchi di annotazioni ed osservazioni sulla psicologia del singolo e delle masse, e quasi tutti gradevoli (anche se ad un’analisi attuale, un po’ “datati”) sotto il profilo stilistico.

Pitigrilli fu anche un abile e conteso conferenziere, al punto che tra il 1929 e il 1930 egli venne invitato dalle più importanti Università europee, tra cui la Sorbona, a diversi simposi internazionali per disquisire su temi piuttosto complessi ed interessanti: come il concetti di “assurdo” e di “ipocrisia” (Nel collegio dei Barnabiti - scrisse nel suo romanzo Cocaina - aveva imparato il latino, a servire messa e a giurare il falso. Tre cose di cui si può aver bisogno da un momento all’altro. Ma uscendo dal collegio le dimenticò tutte e tre”) e quello della “decadenza del paradosso” in letteratura.

L’abilità e la colpa di Dino Segre, in arte Pitigrilli (oltre a questo pseudonimo, utilizzò talvolta anche quello di Mathesis) consistettero nel sapere coniugare l’abilità professionale al gusto estetico e a quello del profitto: un’attitudine piuttosto rara che gli procurò fama, denaro, ma anche molti guai. Contrariamente alla prassi, Pitigrilli utilizzò sempre il suo fiuto giornalistico, letterario e commerciale facendo a meno di assimilarlo e adoperarlo per praticare uno dei più frequenti esercizi di molti intellettuali e giornalisti italiani: la piaggeria nei confronti dei politici e dei potenti di turno. Contrariamente a quanto è stato più volte scritto dai suoi detrattori, di Pitigrilli tutto si può dire tranne che abbia fatto o capito qualcosa di politica, scienza che ben di rado gli rubò il sonno la notte, pur stimolandogli gli insaziabili appetiti della polemica.

D’altra parte, l’intera storia di Segre fu caratterizzata da un costante e determinato esercizio nei confronti di uno studiato e raffinato “disimpegno”: conflitto che il giornalista torinese ingaggiò a colpi di articoli e di romanzi - come si direbbe oggi - “politicamente scorretti”. Ma se i suoi numerosi scritti, che la quasi totalità dei critici (cattolici, marxisti e fascisti) hanno sempre condannato o snobbato giudicandoli superficiali, qualunquisti, vacui e addirittura pornografici, furono forse i suoi articoli (quelli meno noti) a procuragli i più grossi grattacapi. Non a caso, all’inizio del 1919, il grande D’Annunzio, infastidito dalle dolorose punzecchiature inflittegli del giovane cronista del quotidiano romano L’Epoca, arrivò addirittura a sfidarlo a duello. In effetti, Pitigrilli - al contrario della quasi totalità dei prudenti ed untuosi cronisti italiani del periodo - non aveva pensato due volte a sputtanare il Vate impegnato nella “grottesca” conquista di Fiume del novembre 1918 (“Una nave da guerra mi portò a Fiume, della cui italianità Gabriele D’Annunzio si era appena accorto […] E con l’entusiasmo tipico dei poeti guerrieri, egli trovò facile scovare qualche migliaio di individui disposti a corrergli dietro”). Incaricato dal direttore della testata di scrivere un servizio sull’impresa dannunziana, Pitigrilli ci era andato dentro con la zappa, infischiandosene altamente della sacralità dell’Eroe del Volo su Vienna e smitizzando le ragioni storiche e i fini politici su cui poggiava la spedizione militare di Fiume. “Giunto nella città, trovai della gente che parlava una strana lingua. Non uno che sapesse l’italiano. Qualche rudere qua e là, qualche impronta lasciata nei secoli dalle nostre repubbliche marinare; qualche leone di San Marco. Non vidi molta italianità ma percepii il colore dell’Oriente: mercanti di tappeti levantini, sigaraie da strada, profumo di cocomeri e di uva moscata, venditori di belzuino, di mirra e di incenso…Mi sedetti sulla banchina del porto e scrissi di getto un articolo intitolato: “Fiume, città asiatica”. Come dire: che c’entra l’Italia e la sbandierata italianità con questo posto? Manco a dirlo la totalità degli intellettuali si scagliò contro il giovane cronista che nel suo polemico pezzo tutto aveva riportato, tranne la menzogna. Il questore di Roma, “che molto probabilmente fino al giorno prima non avrebbe saputo trovare Fiume sulla carta geografica” arrivò addirittura a sequestrare la testata (L’Epoca) sulla quale era comparso l’articolo. Questo episodio la dice lunga sulla spavalda propensione alla libertà che Dino Segre sempre evidenziò nel corso della sua lunga carriera. Sì, perché egli non solo si rivelò una penna vivace ed insubordinata, ma fu anche in grado di “resocontare” con lucidità e coraggio un qualsiasi avvenimento, trasformandolo in dettagliata analisi.

Ma come si è detto, Pitigrilli è stato anche un buon imprenditore, oltre che di sé stesso, anche di testate. Basti pensare all’enorme successo ottenuto dal suo periodico Le Grandi Firme, tirato e venduto in decine di migliaia di copie, o agli allori conseguiti nel 1948 quando - essendo dovuto emigrare nel dopoguerra in Argentina per schivare le accuse (per altro mai provate) di collaborazionismo con i servizi segreti fascisti - egli riuscì a fare raddoppiare le vendite del quotidiano La Razon (che arrivò a quasi 500.000 copie al giorno) con la sua rubrichetta settimanale Peperoni dolci. Fatti, questi, decisamente straordinari, soprattutto se si considera che Pitigrilli non ebbe mai del giornalismo quella sacrale concezione che sta alla base dell’atteggiamento serioso e spesso spocchioso di molti sedicenti maestri della penna.La servitù del giornalismo – annoterà lo scrittore torinese alla fine degli anni Quaranta – consiste nell’arrivare alle nove del mattino in un paese sconosciuto, e a mezzogiorno spedire il primo articolo, dopo avere scambiato quattro chiacchiere col primo venuto, e avere visto della città il tratto che va dalla stazione all’albergo”. E’ proprio per sopperire alla noia e alla sostanziale frustrazione che, a parer suo, contraddistinguerebbero il mestiere del giornalista, che Pitigrilli interpretò quest’ultimo sempre a suo modo, con quella incredibile verve surrealista che gli procurò grandi successi, ma anche grandi dolori ed infine l’esilio. “Un giorno il direttore dell’Epoca mi disse: Vada al Lyceum femminile. Il senatore Morello tiene una conferenza sulle bellezze di Roma. Mi raccomando, prenda una carrozzella e faccia presto – aggiunse. Io presi la carrozzella e, invece di farmi portare al Lyceum femminile, feci una passeggiata di un’ora al Foro, al Gianicolo e al Pincio. Rientrato in redazione feci il racconto della conferenza, passando in rivista tutte le bellezze di Roma che avevo viste e di cui probabilmente quel signore doveva aver fatto l’elenco. Ci vuole una bella impudenza, io pensavo, per parlare a Roma delle bellezze di Roma. Però non lo scrissi. Scrissi invece una pagina di elogi al fine conferenziere, e diedi il nome delle signore intellettuali che erano fra il pubblico. La cosa non mi fu difficile, perché erano sempre le stesse. L’articolo ebbe un successo sbalorditivo, anche perché all’ultimo momento il conferenziere si sentì male e la conferenza venne rinviata di un mese”.

Nonostante la sua spiccata propensione all’invenzione scanzonata e al folle rischio (più di una volta fu sul punto di essere linciato dai suoi superiori), Pitigrilli non ebbe mai problemi a dimostrare di essere un preciso e corretto inviato, a tal punto che gli vennero affidati, fino dai suoi esordi, servizi di notevole spessore. Nell’autunno del 1919, Pitigrilli fu a Napoli per seguire l’andamento delle prime elezioni politiche a suffragio universale che si tennero in Italia. E come da copione dalla sua penna ne uscì un saggio godibilissimo e puntuale. “Partii per Napoli e vi rimasi un mese. Scrissi, Dio sa come, trenta articoli stracarichi di colore come dei Van Gogh. L’Epoca, di cui prima si vendevano a Napoli tre o quattro copie, salì a 100 mila. Fu un vero trionfo”.

Con il passare del tempo il suo impegno giornalistico iniziò a lasciare sempre più spazio alla narrativa. Ad appena 27 anni, egli venne inviato quale corrispondente nientemeno che a Parigi, che per un giornalista rampante di oggi sarebbe un po’ come andare a fare un servizio su una delle lune di Giove. Nella viziosa, colta, debosciata e fantasmagorica capitale francese, il giovane scrittore torinese ebbe modo di assaporare tutte quelle trasgressive ed in buona parte fantasiose esperienze che troveremo in seguito nel suo primo e più celebre libro, Cocaina (1920). Romanzo in cui Tito Arnaudi, il protagonista di questa ardita e sensuale fiaba surreale, è proprio un giornalista come lui: atipico, contraddittorio, indagatore e al tempo stesso rassegnato. “Ci si rifugia nel giornalismo come ci si rifugia nel teatro dopo aver fatto i mestieri più disparati e disperati: il prete, il dentista, l’agente di assicurazione. E ancora: “Quanti servi che non parlano ci sono nel giornalismo! Noi non siamo esseri che vivono nella vita. Noi siamo sul margine della vita; dobbiamo sostenere un’opinione che non abbiamo, e imporla al pubblico; trattare questioni che non conosciamo, e volgarizzarle per la platea; noi non possiamo avere un’idea nostra; dobbiamo avere quella del direttore del giornale: ma nemmeno il direttore del massimo giornale ha il diritto di pensare col suo cervello, perché quando è chiamato dal consiglio d’amministrazione deve soffocare la sua opinione, quando ce l’ha, e sostenere quella degli azionisti”.

Ma torniamo a parlare della professionalità di Pitigrilli, di quella sorta di innata capacità di coniugare la più assoluta libertà d’espressione al successo di pubblico: una dote che lo rese inviso allo stesso regime fascista. Ridicola, a questo proposito, la vulgata popolare che nell’immediato secondo dopoguerra volle fare di Pitigrilli uno spietato e cinico collaborazionista del regime. A questo proposito giova ricordare che, tra il dicembre del ‘26 e il marzo del ‘27 due temibili testate - Il Popolo d’Italia e Il Regime Fascista - avviarono contro il giornalista e scrittore torinese di origine ebraica un’isterica e grottesca campagna denigratoria, accusandolo di essere un anti-italiano, un maniaco sessuale e un cocainomane pederasta. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, il cosiddetto “collaborazionista del regime” Pitigrilli venne perseguitato e costretto ad interrompere la sua attività. E il 10 giugno 1940 fu addirittura mandato al confino di polizia, in un paesino della riviera ligure. Temendo il peggio, Pitigrilli cercò allora di defilarsi, pur continuando a scrivere e a pubblicare i suoi romanzi. Ma anche così facendo proseguì nel procurarsi rinnovati attacchi da parte di tutti gli esponenti di un’Italia che, al di là delle indubbie colpe del regime, evidenziava però i limiti di una vecchia cultura sessuofobica e bigotta.

L’ostentata ammirazione manifestata da Pitigrilli nei confronti della frizzante e cosmopolita cultura francese, oltre che ad irritare gli alfieri di un fascismo proteso alla rivalutazione della romanità, provocò anche forti pruriti moralistici in non pochi intellettuali cattolici e di sinistra. Ma fu soprattutto il grande, immenso successo commerciale ottenuto dai suoi romanzi e dalle Grandi Firme a rendere Pitigrilli, il re dei best-seller piccanti, detestabile tout court. D’altra parte, in una nazione dove sia la cultura social-fascista che quella clericale continuavano bene o male a convivere, impedendo il sorgere di stili letterari affrancati dagli sciatti e provinciali stilemi allora in voga nella cosiddetta narrativa “leggera”, non c’era da attendersi nulla di diverso. Ciò che i tromboni della critica proprio non sopportavano di Pitigrilli era il disinvolto anticonformismo stilistico con il quale egli inumidiva la punta della sua penna e, come si è detto, lo strepitoso successo commerciale delle sue iniziative editoriali e dei suoi romanzi. Certo è che a Pitigrilli - uomo gaudente fortemente incline alle spese - il successo e il denaro interessavano parecchio, come pure il consenso dei lettori: “Questo fascicolo ha la pretesa di conquistare il grande pubblico - reciterà l’editoriale del primo numero di Grandi Firme - Per riuscirci userà un solo mezzo: essere divertente. Presenterà novelle dei massimi scrittori, non per lusso e non per feticismo, ma perché essi offrono meno degli altri probabilità di narcosi […] Non miriamo a rigenerare gli uomini, fustigare i tempi, segnare nuovi indirizzi alla civiltà, per mezzo di racconti morali. La letteratura non ha funzione depuratrice, e noi non siamo missionari chiamati a convertire il traviato lettore, né trappisti che ogni quarto d’ora lo riconducano a meditare sulla morte inevitabile. Escluderemo tutto ciò che può avere anche un vago sapore politico. I letterati che fanno della politica sono uggiosi e incompetenti come i politici che fanno della letteratura”.

Non stupisce quindi che sia gli intellettuali in orbace che quelli in doppiopetto non potessero nutrire alcuna stima nei confronti del creatore di una simile testata. Manifestando un coraggio che non di rado sconfinava nella temerarietà, Pitigrilli usò Grandi Firme come sua privata tribuna dalla quale canzonò gerarchi e critici. Rischiò sempre di persona e di suo (anche dal punto di vista finanziario) per avviare e sostenere le sue spericolate imprese editoriali. Fondò diverse testate, alcune fortunate, altre meno. E senza tema di smentita si può dire che molto raramente nel panorama e nella storia dell’editoria italiana sia possibile annoverare esempi analoghi. Alla creatività e all’intensa produttività di Pitigrilli si deve Il Dramma (testata nata negli anni Venti e sopravvissuta, anche dopo il disastro della guerra, fino agli anni Settanta). Curiosamente, di questa creatura del giornalista torinese l’Enciclopedia del Teatro riporta soltanto il nome del suo direttore, Lucio Ridenti, che fu messo al timone della rivista proprio da Segre. Caduti nell’oblio sono anche altri suoi prodotti dai contenuti veramente interessanti, come Le Grandi Novelle, La Vispa Teresa e Crimen, il primo periodico italiano interamente dedicato al racconto giallo. Meno fortuna ebbe invece I Vivi, prodotto anticipatore del moderno rotocalco.

Ce n’è abbastanza per sostenere che Pitigrilli, grazie alla sua istintiva vocazione alla comunicazione, seppe rivolgersi ed offrire ad un vasto pubblico non tanto un messaggio o una lezione, ma la suggestione di uno stile di vita sostanzialmente critico e libertario. E tutto ciò in un’epoca caratterizzata da una drammatica e tetra uniformità di pensiero. Dino Segre fu uno dei pionieri della cosiddetta “letteratura popolare”, mettendosi in luce come stimolatore di idee e come scopritore di talenti. Parecchi dei i quali nel tempo gli sono sopravvissuti, rinnegandolo.

Per sfuggire alla caccia alle streghe del secondo dopoguerra, Pitigrilli visse il tramonto della sua carriera e della sua vita in assoluta solitudine, emarginato dagli stessi pregiudizi che lo avevano perseguitato da giovane e bollato dei più infamanti delitti. Dopo l’epurazione politica del 1945, Dino Segre continuò a lavorare a modo suo, sfornando rubriche ed elzeviri: specialità per la quale riteneva di avere una particolare attitudine: “Se c’è un campo in cui credo di aver scoperto il segreto del successo - confiderà in una delle ultime interviste - è quello della corrispondenza con i lettori. Ecco, io penso di sapere che cosa la gente del popolo si aspetta da queste rubriche. Ho una tecnica per arrivare diritto al cuore di chi legge. E se le lettere che arrivano sono sciocche, non importa, si possono sempre inventare, e saranno proprio le lettere che la maggioranza dei lettori avrebbero voluto avere scritto”.

Ma questo suo ultimo impegno non gli fu certo agevole. Convertitosi al cattolicesimo nel 1948 (con La piscina di Siloe e con Gusto per un mistero Pitigrilli dichiarò pubblicamente questa sua scelta, confermata nella sua autobiografia Pitigrilli parla di Pitigrilli; fondamentali risultano a questo proposito i suoi successivi incontri con Padre Pio da Pietrelcina, Eva Lavallière e con grandi medium dell’epoca) rientra in Europa nel 1957 accompagnato da una nuova raffica di critiche per questa sua scelta.

Nell’Italia del dopoguerra Dino Segre visse come un profugo appestato. Costretto a tirare avanti ai margini di un’editoria libera da vincoli di regime, ma non per questo scevra di pregiudizi. Ormai anziano, Pitigrilli cercò allora di proporsi presso le testate più “politicamente scorrette” del Paese, ma invano. Il sospetto che ch’egli avesse potuto svolgere (come sempre sostennero i suoi detrattori) il fantomatico ruolo di informatore dell’Ovra indusse anche personaggi come Guareschi e perfino Giorgio Almirante a rifiutargli la collaborazione al Candido e al Secolo d’Italia. Obbligato a campare soltanto di piccole collaborazioni, alla fine degli anni Cinquanta egli poté prestare il suo genio e il suo stile, ormai corretti e resi più saggi dal dono della vecchiaia e della fede, al microscopico Messaggero di Sant’Antonio: un destino piuttosto curioso (ma forse non troppo) per un intellettuale ribelle che dedicò tutta la sua esistenza al paradosso.

Morirà solo e quasi completamente dimenticato nella sua Torino, l’8 maggio 1975, nella casa di via Principe Amedeo.

 


 

 
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Guido da Verona

Post n°1542 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

eramente quel «da», tra il nome e il cognome, ce lo appiccicò lui stesso, un modo per omaggiare Gabriele D'Annunzio, di cui era grande estimatore. E nella città di Verona - particolare curioso di una vita già di per sé parecchio bizzarra - non ci capitò mai, neppure per sbaglio.

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Del resto Guido Da Verona (Saliceto Panaro 1881 - Milano 1939) fu personaggio quanto mai anomalo, "protagonista", contraddittorio. Oggi, a settant'anni dalla morte, non lo ricorda più nessuno, se non qualche italianista, ma subito dopo il suo mito Gabriele D'Annunzio (del quale tradusse l'ideale eroico e superumano in pagine ricche di fascinoso realismo borghese) fu probabilmente lo scrittore più popolare tra le due guerre, o per lo meno di tutti gli anni Dieci e Venti.
Dopo gli infelici esordi come poeta e a partire da «Colei che non si deve amare», capostipite del romanzo d'appendice e della letteratura erotica, pubblicato nel 1901, il bel Guido - dandy, raffinato, dissipatore, amante delle belle auto e dei cavalli, accanito giocatore, vero tombeur de femmes - iniziò ad inanellare successi da centomila copie a titolo, come «Con tutte le vele» (1910), «La vita comincia domani» (1913) o il celeberrimo (per l'epoca) «Mimì Bluette, fiore del mio giardino» (1918), «La mia vita in un raggio di sole» (1922) fino a «Mata Hari: la danza davanti alla ghigliottina» e «Azyadeh, la donna pallida», entrambi del 1927. Tutti romanzi massacrati dalla critica, che considerava Guido da Verona un insignificante pennivendolo (Adriano Tilgher lo definì il «D'Annunzio delle dattilografe e delle manicure», anche se altri recensori scrissero molto peggio...) ma coronati da uno straordinario successo di pubblico e di vendita. I soldati nelle trincee della Prima guerra mondiale e le "sartine" nelle case di provincia (ma anche qualche signora dei salotti cittadini, e poi studenti, camerieri, impiegati, segretarie...) non aspettavano che l'uscita di un suo nuovo libro. Come attesissimo fu anche un romanzo «anomalo» rispetto allo stile dello scrittore modenese come «Sciogli la treccia, Maria Maddalena», del 1920, un bestseller di quella stagione e che oggi torna in una nuova edizione curata per la casa editrice Avagliano da Riccardo Reim, sempre sulle tracce del curioso, del finto morboso, del gioco letterario datato ma molto gustoso. Romanzo «impudente», «morboso» e «blasfemo», di certo problematico e polemico, il romanzo disorientò la critica contemporanea ma incontrò ancora una volta un clamoroso favore del pubblico - scatenando i consueti scandali - grazie all'innegabile capacità dell'autore di interpretare le fantasie snob ed erotiche della borghesia del suo tempo, adattando i miti decadenti e dannunziani a quegli strati sociali che nel secolo precedente erano stati i consumatori della narrativa d'appendice: in queste pagine, estetismo e superomismo trovano (non senza una punta di ironia e una spruzzata di esotismo) la loro consacrazione a livello di una destinazione di massa. Come scrive Riccardo Reim nella sua prefazione al romanzo, Guido Da Verona, vero autore "da incasso", più di tutti segnò «il passaggio dal romanzo d'appendice al romanzo di consumo».
Guido Da Verona fu a suo modo un simbolo della Belle époque, di cui seguì i luminosi fasti e poi l'improvviso tramonto. Firmatario del «Manifesto degli intellettuali fascisti» nel 1925, nel 1929 pubblicò ancora una fortunatissima parodia dei «Promessi Sposi» (appena ripubblicata dalle edizioni Otto/Novecento, è una strepitosa rivisitazione dai toni goliardici della celebre opera di Alessandro Manzoni trasposta nell'attualità degli anni Venti: Lucia è una tipica bellezza di provincia, parla francese e per farsi strada a ogni costo, non si rifiuta a nessuno, tranne che a Renzo, che viaggia su una Fiat 525, mentre Don Rodrigo su una Chrysler. L'astuto Don Abbondio, invece, va a letto con la perpetua e converte i vecchi Buoni del Tesoro in Prestito del Littorio. Per non parlare della monaca di Monza, lasciva e con spiccate tendenze lesbiche...) ma poi, diventato un'intellettuale inviso dal Regime, al quale non piacevano certo le alcove, gli amori saffici e le passioni di una notte narrati nei suoi scandalosi romanzi, Guido Da Verona si chiuse progressivamente nel silenzio

Di famiglia ebraica, fece a tempo ad assistere l'approvazione delle leggi razziali e poi nell'aprile del 1939, ormai depresso, impaurito e malato, si suicidò. Una fine per alcuni ancora avvolta nel mistero. Come misterioso rimane l'ostracismo critico-storiografico postumo. Dettato forse da ragioni assai più politiche che letterarie
 
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Insonnia a S.Tobia

Post n°1541 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Chi non ha sofferto d'insonnia alzi la mano,lettori miei!
Di solito l'insonne va dal medico,prova rimedi naturali,e se proprio va male si tiene il suo problema e via.
Questo se siete persone normali,ma se vivete a S.Tobia?
Nessuno meglio della famiglia Scozzagalli può rispondere a questa domanda,visto che si sono trovati a dove fronteggiare il problema dell'insonnia dell'Elvira
Pur di riuscire a dormire infatti questa settimana la poverina ne ha fatte di tutte,con risultati ovviamente catastrofici.
LUNEDI'- L'Elvira si è messa a contar le pecore.Purtroppo, perdeva sempre il conto e doveva ricominciare da capo e per sapere dov'era rimasta svegliava il marito (e vista la voce bassa anche paesani,pratesi e pistoiesi)Dopo 1244 risvegli forzati in meno di tre ore Virgilio,disperato,si è presentato in caserma ed ha chiesto e ottenuto di passare il resto della notte in guardina.
MARTEDI'- Alle due di notte,con l'intento di stancarsi e dormire,l'Elvira si è messa a fare le pulizie con l'aspirapolvere.
Per poco marito e figli non sono stati linciati dalla folla inferocita.
MERCOLEDI'- La Carolina ha portato all'Elvira un decotto dall'odore nauseabondo che secondo lei faceva dormire chiunque.
Siccome l'Elvira è fautrice del mal comune mezzo gaudio,l'infernale bevanda non l'ha bevuta da sola,ma sotto la minaccia dello schioppo ha costretto i familiari a farle compagnia.
Lei è più sveglia di prima, loro fanno a pugni per andare in bagno (diarrea micidiale)
GIOVEDI'- Evaristo ha prestato all'Elvira il libro del fratello "Cronaca e storia di S.Tobia",un polpettone di 4399 pagine,sostenendo che sarebbe caduta addormentata dopo le prime due pagine.
Quella lo ha letto due volte di seguito da cima a fondo,più sveglia di un grillo.
VENERDI'- La Mortulescu ha provato a ipnotizzare l'Elvira per farla dormire.Risultato:la Lugubrescu è in catalessi,l'Elvira è sveglissima.
SABATO-Su consiglio di Be'erino l'Elvira,astemia dalla nascita,ha preso una ciucca tremenda.
Ubriaca fradicia, ha fatto irruzione in canonica seminuda ed ha tentato di sedurre Belva.
Per staccarla dal cagnazzo ci sono voluti gli sforzi congiunti dei dieci uomini più forti di S.Tobia.
DOMENICA-Ricoverata alla clinica Luminaris,l'Elvira appena toccato il cuscino si è addormentata senza bisogno di farmaci.
Sono passati dieci giorni.
L'Elvira dorme ancora tranquilla e beata,mentre ora sono i parenti a non dormire e passano le notti giocando a scopone.
Mentre sorge il sole,il qui scrivente passa e chiude

 
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Grazia De Nasi

Post n°1540 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Le movimentate e a volte rocambolesche vicende di Donna Gracia Mendes, la Seniora, figura femminile emblematica del XVI secolo, sono state fonte d’ispirazione per tanti scrittori di romanzi di avventura; la sua vita è sicuramente stata un romanzo ed il suo essere marrana, cioè appartenente a due identità così differenti e differenziate l’ha consegnata alla storia come modello attivo di donna, forse precursore dell’emancipazione femminile e vivace protagonista all’interno della società del suo tempo.
Al di là dei contributi romanzati, che solo talvolta si avvalgono di fonti storiche, non mancano, nella storiografia specifica sulla cultura ebraica rinascimentale, e su quella sefardita, gli apporti di studiosi come Roth, Bonfil, Leoni, Yoli Zorattini, per citarne solo alcuni, che hanno sicuramente ricostruita e ben documentata l’interessante ed intrigante figura di Grazia Mendes.
Roth ne ha anche pubblicato una biografia, ormai introvabile, ripresa da una studiosa dell’Università di Urbino, uscita nel 2004.   
 
Chi è allora questa donna che ha cercato di cambiare il destino del popolo ebraico nel XVI secolo?
Grazia Ha-Nasì nasce nel 1510 (o forse nel 1511 secondo alcune fonti) in Portogallo, da una famiglia di probabile provenienza spagnola in seguito all’Editto di espulsione del 1492; il percorso di vita del suo gruppo familiare, come di tanti altri, rientrò in quel evento che Cecil Roth definisce il più romanzesco episodio della storia umana: il marranesimo (il fenomeno del cripto giudaismo) che per quanto ancora abbastanza enigmatico, costituisce infatti un capitolo fondamentale e allo stesso tempo tragico, della storia degli ebrei della diaspora in molti paesi dell’Europa occidentale, soprattutto fra XVI e XVII secolo.
 
La complessa identità dei marrani (gli anussim,” i costretti “) era caratterizzata da forme ben determinate di esercizio della vita religiosa, basate sulla dissimulazione di un'appartenenza proibita, quella ebraica e sulla simulazione di una falsa appartenenza, quella cristiana.
Il termine marrano che lo storico spagnolo Carobaroja intende riferito ad un gruppo di persone non del tutto omogeneo nel tempo e nello spazio è un antico termine spagnolo dispregiativo dalla radice araba, con cui s’indicava il maiale giovane, attribuito prima ai mussulmani, poi agli ebrei, alludendo alla prescrizione sia per gli uni che per gli altri di considerarlo animale impuro, associandoli quindi a questo.
L’uso del termine partì dalla regione di Castiglia in epoca medievale, luogo in cui si verificarono le prime conversioni forzate. 
In Italia si affermò nel secolo XVI con l’arrivo dei profughi portoghesi dove prese accezione comune dell’ebreo che dopo essere stato battezzato tornava ad essere ebreo apertamente.
Roth fa coincidere l’origine del marranesimo portoghese col fenomeno dei nuovi cristiani, nato in Spagna verso la fine del 1300.
In seguito la Riconquista da parte degli stati cristiani, che dominarono poi tutta la penisola iberica, la condizione degli ebrei andò gradualmente peggiorando fino ad arrivare al momento in cui le intense predicazioni domenicane portarono ondate di violenza che travolsero le juderias, i quartieri ebraici di Castiglia e di Aragona; le fonti riportano come più cruenta la strage di Siviglia perpetrata il mercoledì delle ceneri del 1391.
 
Fu così compromessa in modo irrimediabile la vita delle comunità ebraiche spagnole e poste le basi per una serie di limitazioni all’autonomia degli ebrei, che nel volgere di un secolo sarebbero sfociate nell’espulsione del 1492, decretata da Isabella e Ferdinando dopo la riunificazione dei regni di Castiglia ed Aragona.
In questo contesto nasceva il problema dei converso, i nuovi cristiani, convertiti a forza o spontaneamente per salvarsi la vita, che costituirono per le autorità cristiane un elemento di disagio ideologico.
Gli esuli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492 si sparsero in ogni angolo del bacino del Mediterraneo, in gran numero si recarono oltremare, soprattutto nei paesi mussulmani, ma anche in alcuni stati italiani, seppure in piccola percentuale; è quanto sostiene Roberto Bonfil che scrive che la loro consistenza numerica fu piuttosto trascurabile tranne forse all’inizio quando gruppi abbastanza elevati numericamente stazionarono in Italia in transito per l’oriente.
 
Ma la maggior parte varcò il confine e si fermò in Portogallo in cui gli ebrei erano ancora abbastanza tollerati, fino al 1497, quando fu imposto il battesimo forzato;
pena pagata per non adempiere a tale ordine era l’espulsione.
Se per alcuni storici (Roth per primo) il termine marrano è sinonimo di converso secondo altri, il vero fenomeno del marranesimo, inteso proprio come cripto giudaismo, dilagò in Portogallo quando quasi tutti, per salvare anche le proprie attività, presero il battesimo continuando però segretamente, nel proprio interno, ad essere ebrei.      
 
Con l’introduzione nel 1536 dell’Inquisizione anche in Portogallo ed il conseguente rischio di essere scoperti e processati, la maggior parte dei marrani partirono alla volta dei Paesi Bassi (Amsterdam e Anversa furono i centri più importanti) e dell’Italia.
Roma, ed Ancona (nello Stato pontificio), Venezia, Ferrara e più tardi Livorno, furono i luoghi in cui maggiormente si concentrarono le comunità marrane.
 
Anche alla famiglia di Gracia, gli ha Nasì (i principi), come a tutti gli ebrei rifugiati in Portogallo, toccò la sorte del battesimo forzato imposto il 4 marzo 1497; Gracia nacque quindi col nome cristiano di Beatriz de Luna.
Nel 1528 sposò in Portogallo Franzisco Benveniste Mendes, ricco mercante marrano ma forse anche rabbino, con cerimonia pubblica di rito cattolico, preceduta da quello ebraico celebrato privatamente in tutta segretezza, quindi con regolare ketubbà che ne fissava anche la dote.
Ciò provocò parecchie complicazioni di carattere giuridico di cui accennerò soltanto ai fini della narrazione degli eventi riguardanti la sua vita e la sua storia.
Seguì poco dopo la nascita di una figlia, Reyna.
 
Nel 1536, anno dell’Inquisizione Gracia rimase vedova in giovane età.
Il marito, in una dichiarazione testamentaria prima della morte, affidò le sorti della moglie nonché la gestione della metà del proprio patrimonio al fratello Diogo, uomo abile negli affari, con interessi nei Paesi Bassi, che alla morte di Francisco gestì e controllò anche tutte le sue finanze.
A seguito l’istituzione dell’Inquisizione, Gracia lasciò il Portogallo con la figlia Reyna, il nipote Joao Miguez (alias Yosef ha-nasì), la sorella Brianda e qualche altro membro della famiglia, diretta ad Anversa, dove la comunità marrana portoghese
(in prevalenza mercanti di spezie ) trovò in parte rifugio.
 
Ad Anversa Gracia ebbe contatti col medico Amato Lusitano (alias Giovanni Rodrigo Amato) che troverà in seguito anche a Venezia e a Ferrara.
Dopo questo primo passaggio già maturava in lei il desiderio ed il progetto di ritornare apertamente all’ebraismo.
Poco dopo il trasferimento dei beni ad Anversa, Gracia affiancò il cognato dimostrando una grande capacità imprenditoriale e stabilendo alleanze con le più facoltose famiglie dei Paesi Bassi tanto che le fu proposto dalle alte sfere, un matrimonio combinato fra la figlia Reyna e un rampollo cristiano, richiesta che ella rifiutò categoricamente, ma che dovette scontare fuggendo da Anversa. 
I legami di Grazia con la famiglia del marito divennero sempre più stretti quando nel 1540 Diogo Mendes sposò la sorella Brianda con la quale ebbe una figlia.
Diogo emise un documento in cui Grazia e la figlia erano ugualmente beneficiate dal patrimonio di Francisco. Alla morte di Diogo nel 1542 Gracia divenne amministratrice del patrimonio dei Mendes, cosa che indispettì non poco la sorella.  
 
Nel 1546, Grazia lasciò Anversa e passando da Lione approdò a Venezia, crogiuolo di genti e di culture dove l’ondata migratoria sefardita era prevalentemente marrana; nel 1541 venne infatti creato il ghetto vecio per gli ebrei levantini residenti temporaneamente in città, in realtà ex marrani tornati all’ebraismo nell’Impero turco. Qui scoppiò la disputa fra Gracia e la sorella per il patrimonio dei Mendes che finì con la denuncia da parte di Brianda alle autorità veneziane con l’accusa di essere giudaizzante.
 
Dopo essere stata imprigionata Gracia o Beatriz come la si vuol chiamare, nel 1549   raggiunse Ferrara, importante polo di riferimento per tutti gli esuli, chiedendo garanzie per la sua permanenza ai reggenti e dove iniziò il cammino di ritorno all’ebraismo.
A Ferrara la clemenza degli Estensi nei confronti degli ebrei era ormai risaputa; infatti avevano trasformato, nel corso di pochi anni i loro territori in luoghi di rifugio in cui attirare mercanti portoghesi provenienti da Anversa e dalla Turchia, tendenza già concretizzata con l’arrivo degli esuli dalla Spagna prima e quelli provenienti dalla Boemia nel 1532, a cui furono accordati gli stessi privilegi (riguardanti soprattutto lo svolgimento delle proprie attività) del già stabile gruppo italiano.
 
Difficile capire quando giunsero i primi marrani portoghesi (mercanti per lo più, ma anche medici, rabbini, artigiani) probabilmente fra il 1531 e il 1536 quando in Portogallo fu stabilita in modo definitivo l’Inquisizione.
Nel 1538 Ercole II, che confermò i decreti già emessi dai suoi predecessori in favore degli ebrei spagnoli, delegò al marchese Moreto “ampia facoltà e piena autorità di poter convenire circa li datii et franchigie … con tutti li singuli spagnoli et parimenti Con tutti i singuli che haverano la lingua spagnola e con tutti i singuli che haverano la lingua portugallese…”
Questo fu il clima che Gracia trovò al suo arrivo a Ferrara; nel breve periodo della sua permanenza, si è già accennato, abbandonò l’identità cristiana e tornò all’ebraismo studiando i testi tradizionali sotto la guida del rabbino Soncino.
Importante per la sua formazione ebraica fu l’amicizia con Benvenida Abravanel, grazie la quale si avvicinò allo studio della mistica ebraica.
Ma sia per Gracia che per tutti gli altri marrani approdati a Ferrara e nelle altre città italiane la condizione di doppia identità religiosa aveva sicuramente creato non pochi problemi, disagi psicologici e spirituali che sconvolgevano la vita di ogni singolo individuo.
“Il marrano giudaizzante (cito lo storico Yovel) visse in alienazione non solo nell’ambiente cristiano ma anche nella propria intima essenza, che non poteva esprimersi nella sua vita attuale; e così, in effetti la sua vita e la sua natura rimasero in reciproca opposizione”.  
 
Gracia quindi percepì questi disagi provandoli lei stessa e si adoperò per alleviare le sofferenze dei suoi corregionali ad aiutarli ad uscire dalla clandestinità e recuperare la religione d’origine; divenne benefattrice della comunità, cooperando per affermare la cultura sefardita, che aveva già grandi esponenti come l’umanista Abraham Farissol e la famiglia Abravanel, Isacco e Yeudà Abravanel, filosofo ed esegeta noto anche come Leone ebreo, giunti a Ferrara dal regno di Napoli dopo il 1542.
In particolare fu proficua la collaborazione che Gracia ebbe col tipografo Avraham Usque a cui offrì la sua disponibilità finanziaria per pubblicare opere tradotte dall’ebraico in giudaico - spagnolo, al fine di renderle accessibili alla popolazione sefardita, in particolare ai marrani che stavano per tornare all’ebraismo.
In particolare una traduzione della Bibbla in lengua espagnola (conosciuta poi come la Bibbia di Ferrara, di cui ne esistono ancora due esemplari dedicati, uno a Gracia e l’altro ad Ercole II), a cui fece seguito un Lybro de Oracyones de todo l’anno che sempre Avraham Usque pubblicò con Yom Tov Attias.
Avraham Usque insieme a Shemuel Usque (di cui non è accertata la parentela) furono due personaggi rappresentativi della cultura sefardita ferrarese dell’epoca.
Anch’essi godettero dei privilegi accordati dai reggenti di casa d’Este che permise loro non solo di essere i promotori dell’attività tipografica ferrarese ma anche di essere intermediari fra gli Estensi e la nazione portoghese; non per niente Shemuel Usque definì Ferrara come il porto più sicuro e identificò nella protezione di Ercole II “la via che conduce alla consolazione finale di Israele”.
 
Sempre Shemuel pubblicò un testo in lingua portoghese “consolacao as tribolacaoens de Israel” (Consolazione delle tribolazioni d’Israele), narrazione in chiave metaforica della travagliata storia del popolo ebraico.  
Anche Ercole II fu un personaggio chiave nella vita di Gracia e di tutti i marrani ferraresi, lo fu anche riguardo gli eventi di Ancona di cui si parlerà più avanti.
 
Il 23aprile 1555 mentre ad Ancona infuriavano le persecuzioni Ercole II, su richiesta specifica di Gracia, emise un decreto sottoforma di salvacondotto ad alcuni profughi portoghesi e spagnoli ai quali accordò le stesse concessioni che i papi avevano concesso ai portoghesi di quel luogo.
A questo decreto di Ercole II ne seguì un secondo che invitava i mercanti levantini di Ancona di abbandonare la città promettendo loro accoglienza, motivata dal desiderio di “ empir questa nostra cittade di mercanti spetialmente di quella natione”.
Non sembra comunque che l’afflusso di portoghesi da Ancona a Ferrara sia stato ragguardevole.
Gli storici sono comunque concordi nell’affermare che i due decreti di Ercole II vanno interpretati come un aperto e coraggioso rifiuto alla politica repressiva di Paolo IV che sembrò assommare in sé i più fanatici aspetti della controriforma essendo anche il promotore, con l’emissione della Bolla Cum Nimis Absurdum, dell’istituzione dei ghetti e fautore della revoca dei privilegi accordati dai suoi predecessori ai marrani portoghesi di Ancona che furono i primi a soffrire del suo zelo religioso.
 
Il 30 aprile 1556 ritirò le lettere di protezione che aveva concesso sperando di fare di Ancona il centro di smistamento dei traffici col levante e ordinò immediati provvedimenti contro di loro.
I marrani pertanto predisposero la raccolta di denaro per ottenere una tregua ma tutto fu vano.
Fra tutti i processati, con l’accusa di essere cristiani e di giudaizzare in privato,
25 di loro, 24 uomini ed una donna (Donna Mayora), furono mandati sul rogo.
Fu inutile per loro negare di non avere mai ricevuto il battesimo.
Tutti sapevano che negli ultimi 60 anni nessun ebreo dichiarato aveva potuto vivere in Portogallo. Altri 26 si finsero pentiti e furono deportati a Malta, il rimanente trovò rifugio fuori dello Stato pontificio.
 
All’epoca degli avvenimenti di Ancona, Gracia e sua figlia, che nel frattempo aveva sposato il cugino Joao Miguez (Yosef ha Nasì) avevano abbandonato Ferrara e si erano già trasferite a Costantinopoli; inserite all’interno sia della corte del Sultano Selim II, che della comunità ebraica si prodigarono a rinnovarla e rinvigorirla con l’istituzione di sinagoghe e accademie di insegnamento e altre attività sociali.
Questo suo importante ruolo favorì l’intervento del Sultano che in data 9 marzo 1556 indirizzò al Paolo IV una lettera arrogante in cui protestava contro il disumano trattamento nei confronti dei marrani, alcuni dei quali erano suoi sudditi e ne chiedeva la liberazione.
 
I fatti che seguirono sembrano essere unici nella storia. Grazia Mendes si rese conto che l’unica arma che possedevano gli ebrei per opporsi all’odio del papa era quella economica; con l’aiuto del sultano organizzò un completo boicottaggio del porto di Ancona, dirottando su Pesaro tutti i traffici mercantili e commerciali con l’Oriente.
Secondo Roth il tentativo fallì soprattutto perché gli ebrei di Ancona si appellarono per revocare la decisione che avrebbe scatenato l’odio del Papa contro di loro. E ancor peggio, il Duca di Urbino che vide svanire un suo sogno, decretò l’espulsione dei marrani dal suoi territori.
 
Riguardo l’intervento di Gracia su Ancona, Ioshua Soncino, nota autorità rabbinica dell’epoca e suo tutor a Ferrara scrisse:
“La signora incoronata, il glorioso diadema delle genti d’Israele, vita signorile, gloria incoronata, bella ghirlanda, la più saggia delle donne d’Israele, con la sua forza e ricchezza tese una mano ai poveri per salvarli e renderli felici in questo mondo e nel prossimo”.
 
Per concludere non mi sembra azzardato mettere in relazione la figura di Grazia con Ester. Entrambe cambiano le sorti del loro popolo; Ester lo salva dallo sterminio decretato dal perfido Amman, Grazia, il cui nome ebraico dopo il ritorno definitivo all’ebraismo fu Hanna (nome composto dalle iniziale delle tre mizwot importanti della donna, challà, nerot e niddà, con cui sembra voler affermare la propria ebraicità) lotta per la salvezza dei marrani portoghesi, aggiudicandosi il primato di essere la donna più benefica e amata del mondo ebraico di quel tempo.
Nel già citato testo di Shemuel Usque l’autore stesso afferma che se Grazia non avesse lasciato il Portogallo e non avesse svolto la sua missione in favore dei marrani, la storia del popolo ebraico di quel periodo sarebbe stata diversa.
                                                                                  

 
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Un giorno vennero (Brecht)

Post n°1539 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari,
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei,
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.

 
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Libri dimenticati:L'ebrea errante

Post n°1538 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

L'appassionante storia di Grazia De Nasi raccontata magistralmente da Edgarda Ferri

 
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Frase del giorno

Post n°1537 pubblicato il 05 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Per forza non si fa neanche l'aceto

 
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