Messaggi del 12/01/2012

Scrittori dimenticati:Edward Bulwer Lytton

Post n°1614 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Edward George Earle Bulwer-Lytton, primo barone Lytton (25 maggio 180318 gennaio 1873), è stato uno scrittore, drammaturgo e politico britannico. Personaggio molto popolare al suo tempo, coniò alcune espressioni che sono rimaste nell'uso comune, come "la penna è più potente della spada" e il celeberrimo "era una notte buia e tempestosa".

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Vita e opere [modifica]
Edward Bulwer-Lytton

Edward era il figlio minore del generale William Earle Bulwer di Heydon Hall e Wood Dalling e di Elizabeth Barbara Lytton, figlia di Richard Warburton Lytton di Knebworth, nell'Hertfordshire; dei suoi due fratelli, William intraprese la carriera militare ed il maggiore Henry, futuro Lord Dalling, fu anch'egli politico, drammaturgo e romanziere. Suo figlio Robert fu viceré dell'India dal 1876 al 1880.

Il padre morì quando Edward aveva quattro anni e la sua famiglia si trasferì a Londra: il bambino si dimostrò subito molto cagionevole di nervi, ma altrettanto precoce. All'età di quindici anni, su esortazione di un istitutore pubblicò la sua prima opera, Ishmael and other Poems. Nel 1822 entrò al Trinity College di Cambridge ma presto si trasferì al Trinity Hall, dove nel 1825 vinse il premio Chancellor per la poesia. Nell'anno successivo si laureò e pubblicò un altro piccolo volume di poesie, Weeds and Wild Flowers. Nel 1827 sposò, contro il volere della madre, la scrittrice Rosina Doyle Wheeler: dopo il matrimonio gli venne così tolta ogni rendita ed Edward si trovò in seri problemi economici. I suoi impegni in letteratura ed in politica per guadagnare un sostentamento per la famiglia minarono il rapporto con la moglie, e si separarono nel 1836: tre anni dopo, pubblicò un romanzo dal titolo Cheveley, or the Man of Honour, in cui veniva fatta una feroce caricatura di Rosina. Nel giugno 1858, durante la sua candidatura al parlamento per l'Hertfordshire, la moglie fece una comparsa in aula e lo denunciò pubblicamente: venne rinchiusa per squilibrio mentale ma rilasciata qualche settimana dopo, come scrisse successivamente nel suo A Blighted Life.

Nel 1828, pubblicò Pelham, uno studio sul fenomeno dei dandy. Nel 1833 aveva già raggiunto l'apice della sua popolarità con Godolphin, seguito da The Pilgrims of the Rhine (1834), Gli ultimi giorni di Pompei (The Last Days of Pompeii, 1834, per cui coniò il nome Nydia)[1], Rienzi (1835)[2] e Harold: Last of the Saxon Kings (1848).

The Last Days of Pompei gli venne ispirato da un dipinto del russo Karl Briullov, che Bulwer-Lytton ebbe modo di ammirare a Milano nel 1833. È probabile che Pelham sia invece stato ispirato dal romanzo Vivian Grey di Benjamin Disraeli, col cui padre, Isaac D'Israeli, rimase a lungo in corrispondenza. Nel 1842 pubblicò Zanoni, un romanzo d'amore con una forte componente esoterica.

Scrisse numerose altre opere, tra cui La razza ventura (The Coming Race, 1871)[3][4], che risentì profondamente dei suoi interessi per l'occulto[5] e che contribuì alla nascita della fantascienza e del filone dei "mondi perduti". È opinione comune che l'opera abbia contribuito a creare l'immaginario misticheggiante del nazismo, oltre ad aver probabilmente influenzato La macchina del tempo di Herbert George Wells per la sua tematica di una razza sotterranea che attende di conquistare il proprio posto al sole.

Dopo la sua morte venne pubblicata la sua ultima opera, incompiuta, a soggetto storico: Athens: Its Rise and Fall.

 
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Scrittori dimenticati:Virgilio Brocchi

Post n°1613 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Discendente da nobile e cospicua famiglia di Bassano del Grappa, nacque il 19 genn. 1876 da Ippolito e da Emilia Lanza a Orvinio (Rieti). Studente di ginnasio a Crema, quindi di liceo a Cremona, frequentò l'università di Padova, dove si laureò, poco più che ventenne, in lettere e filosofia. Vinti alcuni concorsi, grazie a diversi saggi di critica storico-letteraria e artistica (Un novelliere del sec. XVII,Gir. Brusoni, Padova 1897; Il Padovanino, Venezia 1900), fu per qualche mese professore di storia all'istituto tecnico provinciale di Vicenza. Cominciò così quella vita nomade di insegnante, che per circa una quindicina di anni lo vide professore di lettere a Modica in Sicilia, a Macerata nelle Marche, più tardi a Bologna, dove ebbe colleghi G. Rocchi e A. Albertazzi, e infine a Milano, dove già insegnava nel suo stesso istituto Alfredo Panzini. Furono anni di una vita oscura, pressata dal bisogno, anni divisi tra l'arte e la scuola, tra i doveri delle lezioni e gli abbozzi di un romanzo. Non abbandonò l'insegnamento nemmeno quando assunse nella Giunta comunale di Milano, presieduta dal socialista Caldara, l'assessorato della Istruzione superiore e delle Belle Arti, e insieme, per tutta la durata della prima guerra mondiale la presidenza dell'Ufficio di assistenza morale ai soldati malati e feriti.

Il B. abbandonò invece prestissimo la sua attività di critico storico-letterario, per dedicarsi interamente alla narrativa. A diciannove anni aveva già scritto Il fascino (Catania 1899). A venticinque, mentre era professore all'istituto tecnico di Modica, pubblicò per i tipi dell'editore catanese Giannotta Le ombre del vespero (1901), rimettendoci le trecento lire richieste come contributo per la stampa. Di questi due primi libri, usciti poi anche a Milano, vietò successivamente la ristampa. In seguito a curiose vicende, raccontate più tardi in Confidenze (Milano 1946), l'editore Emilio Treves pubblicò a Milano nel 1906 il suo primo romanzo non ripudiato, Le Aquile, che in successive ristampe superò il sessantesimo migliaio. Si trattava di un quadro mosso di accento rovettiano più che fogazzariano, che metteva a fuoco talune scene della vita provinciale veneta, nel torbido e inquieto '98, mescolando romanzescamente, con ingenua premura, casi d'amore, episodi di vita mondana e fermenti politici. Questo romanzo segnò il principio della fortuna del B. come narratore. Nel 1912, quando da poco era uscita L'isola sonante (Milano 1911), un notevole articolo di E. janni apparso sul Corriere della Sera e il premio Bagutta (l'unico premio al quale il B. abbia concorso in tutta la sua lunga e operosa carriera) confermarono questa prima notorietà.

L'isola parla di una borgata immaginaria del Cremonese prevalentemente socialista, dove fervono e si impaludano le trame pettegole, gli intrallazzi e le meschinerie di una ristretta vita provinciale in piena atmosfera giolittiana. Su uno sfondo piuttosto esagitato di contrasti economici e di lotte politiche, tra scioperi rossi, contromisure cattoliche, mene clericali e rivalse giacobine, tra urti violenti ora seriamente intesi e descritti e ora tragicomici di "podrecchiani" e di "paolotti", mentre si chiudono i cotonifici, si avviano processioni per scongiurare il maltempo, si minaccia fuoco al comune, su questo sfondo di diritti e doveri, di agitazioni, scioperi e brogli elettorali, si snodano le vicende di due preti modernisti e innamorati. Uno dei quali, don Stringari, a un certo momento, butta via la tonaca e prende moglie; l'altro invece, don Rangoni, trova la forza di staccarsi dall'umile e devota Gesuina, alla quale pure vuol bene, accetta la dura rinunzia e si incammina per la via che lo condurrà ai più alti fastigi della gerarchia sacerdotale. Borgese, recensendo il romanzo, parlò di un B. che "pensa con Oriani e sente con Fogazzaro", ammettendo per altro che i propositi di modernismo religioso e civile di don Stringari e don Rangoni sono ben lontani dall'impegno, dalla determinatezza di propositi, sia pure utopistici, di un Daniele Cortis e di un Benedetto Maironi. Meglio descritti e più felicemente riusciti se mai altri personaggi, come il prevosto e Tommasone Valdari, una vigorosa e volitiva figura di bottegaio anticlericale.

L'isola sonante, oltre ad essere una testimonianza delle condizioni politico-sociali dell'epoca, soprattutto per quanto riguarda l'azione clericale nell'Italia settentrionale, rivela la formazione e le idee dominanti del B. in questo periodo. Socialismo in politica ("il socialismo fu per me una religione"), positivismo alla Roberto Ardigò in filosofia; e in religione un modernismo mistico-utopistico, derivato in parte dal Fogazzaro del Santo.

A proposito tuttavia del socialismo del B., un socialismo piuttosto evangelico, deamicisiano e turatiano, si deve tener conto di questa sua precisazione (sull'Italia che scrive, VI [1923], p. 77): "Alcuni per esaltarmi, altri per deprimermi, hanno detto che io ho abbandonato le vie tradizionali, per accogliere nel romanzo la politica e avvivarla della mia fede nella palingenesi sociale. Non è vero: non ho mai né sognato, né preteso di rifare Balzac o Zola o Victor Hugo: non ho scritto romanzi meramente politici o sociali; solo ho voluto studiare come una sincera fede politica possa trasformare e colorare l'istinto fondamentale della vita, e la passione che di quell'istinto è l'espressione più veemente: l'Amore". A questi ideali socialisti, abbracciati per la carica umanitaria e passionalmente redentrice che potevano contenere, a questi propositi di democrazia evangelizzante e nonostante tutto ottimistica, si ispira l'intero ciclo de "L'isola sonante", distribuito in quattro volumi: L'isola sonante appunto che inaugura il ciclo, La bottega degli scandali (Milano 1916), Sul caval della morte amor cavalca (ibid. 1920), Il lastrico dell'inferno (Verona 1920).

Un ulteriore allargamento e una defifinitiva stabilizzazione della popolarità del B. si ebbero con Miti (Milano 1917) e Ilposto nel mondo (ibid. 1920), primo volume quest'ultimo della tetralogia del Figliuol d'uomo,Il destino in pugno (Milano 1923), La rocca sull'onda (ibid. 1926) e Il tramonto delle stelle (ibid. 1928). Il B. abbandonò così l'insegnamento, attività dalla quale decise di staccarsi anche per ragioni morali.

Scrisse infatti il B. (sull'Italia che scrive, cit.): "Sapevo che alla letteratura non bisogna domandare né ambiziose soddisfazioni, né agiatezza; per non esser tentato di sacrificarne l'austerità al bisogno di guadagnare per vivere, volli chiedere il pane all'insegnamento. Ma anche l'insegnamento fu per me un ministero sacro; quando venne il giorno in cui vidi la scuola affondata nella melma delle basse condiscendenze e della trafficante svogliatezza, la lasciai accorato, come il sacerdote che abbandona l'altare, poiché ha perduto la fede. E continuai a servire - male, ma con umiltà e lealmente - al mio povero sogno".

Insieme con l'insegnamento, abbandonò anche la vita politica, pur restando fedele ai suoi antichi ideali. A cominciare dal 1924 si ridusse a vivere con la moglie e la figlia nella sua villa della "Serenetta", a Sant'Ilario Ligure, una specie di buon ritiro, aperto sul mare. Di qui, impegnato in un assiduo e fervido lavoro, interrotto da frequenti corse a Milano, si mosse solo durante l'estate, per vivere alcuni mesi in montagna, a Courmayeur, Chamonix, a Zermatt, sulle Dolomiti e a Cortina d'Ampezzo; e per continuare, sempre con la famiglia, i viaggi all'estero.

Alla "Serenetta", con paziente e artigianale serenità, il B. scrisse anno per anno quasi tutti i suoi libri: romanzi, novelle, ricordi. Una produzione metodica e vastissima, che supera i cinquanta volumi, tra i quali ricorderemo il cic già citato del Figliuol d'uomo, incentrato intorno alla onesta e simpatica figura di Pietro Barra, un giovane forte, dotato di buon senso e di sana volontà, che riesce dal nulla a crearsi la propria fortuna di ricco industriale; i quattro volumi celebrano le qualità fattive e le conquiste della laboriosa borghesia lombarda, nel quadro della vita inquieta e febbrile delle fabbriche. Interessante anche il romanzo Casa dei pazzi casa di santi, che passando dalle colonne del Mondo milanese (dove apparve a puntate) alla Biblioteca di Treves prese il nuovo titolo di Secondo il cuor mio (Milano 1919). Uscito durante il periodo della guerra, questo romanzo - che tentava d'allargare l'orizzonte, introducendo situazioni e problemi nuovi (meglio forse di quanto non facessero in quello stesso periodo Salvator Gotta e Lucio D'Ambra) - fu invece respinto, investito e sommerso dalla taccia di "nefando disfattismo", "caporettismo", e "tradimento". Accuse per le quali il B. dovette subire un processo; assolto, volle pubblicata la relazione dettagliata della vicenda alla fine del libro, che fu dedicato ai suoi avvocati.

Il protagonista del libro è Gigi Leoni, un artista, un "sacerdote" votato all'arte della scultura, che allo scoppio del conflitto mondiale si arruola volontario, dopo giorni e giorni di crisi del dubbio e angosciosa perplessità. Se gli altri combattenti, per una loro fede "sia pure disumana, avrebbero patito la fame, il gelo, i disagi tremendi" per essere "dilaniati dalla mitraglia, schiantati dalla morte", egli, trattenuto dal comando divino di non uccidere e dalla solitudine gioiosa della sua arte, rimarrà assente, neutrale, lontano dal teatro di guerra nella pace dell'Australia (dove si è recato esule, per espiare un suo colpevole amore)? Ma appartarsi, peggio ancora che protestare e resistere, sarebbe come ridurre la lezione del cristianesimo a una misura di ignavia, equivarrebbe alla mari-canza di fraterno amore verso il prossimo. E allora Gigi Leoni decide di arruolarsi. Tuttavia la sua coscienza gli impone un solo dovere, al quale egli sente di non poter rinunziare: il dovere "di non giurare e di non uccidere" e di scegliersi di conseguenza un compito ugualmente pericoloso, quello del portaferiti. A questo posto di rischio e di carità lo sorprende appunto la morte, durante un'azione eroica intrapresa generosamente per salvare il suo capitano ferito.

Un altro ciclo, I casti libri delle donne che mi hanno amato, comprendente Nétty,La storia di un'umile vita (Milano 1924) e Rosa mystica (ibid. 1931), assieme a Confidenze (ibid. 1946), si ispira a ricordi autobiografici e di famiglia, presenta ritratti, sempre un poco ottocenteschi, di donne amate e perdute (la soave Nétty, così ridente e rassegnata, con la sua anima umile e fresca che trionfa del destino e degli anni), rievoca memorialisticamente figure dell'arte e personaggi della realtà: il ricordo di Mitì, del fratello Valerio e delle dolci sorelle, di Antonio Fogazzaro e di Emilio Treves, di Giovanni Pascoli e di Alfredo Oriani.

Non mancano altri cicli, come L'ansia dell'eterno (che comprende Ilvolo nuziale, Milano 1932) e i sette Romanzi del piacere di raccontare, tra i quali spicca Gagliarda (ibid. 1947). Piacevoli anche i volumi di novelle La coda del diavolo (Milano 1915), L'amore beffardo (ibid. 1915) e Fragilità (Roma-Milano 1922). Da non dimenticare alcuni libri per ragazzi, scritti con fresca grazia e cordiale delicatezza: La storia di Allegretto e Sirenella, in tre volumi: Alba,Santa natura e Piccoliamici (Verona 1920); Zebrù. Storia di un cane,il grande amico di Allegretto e di Sirenella (Milano 1948); Partecipazio. Storia di un cane che ha molto giudizio e di un ragazzino che non ne ha (Torino 1956).

Fecondo e inesauribile fino all'ultimo, morì nella sua villa di Sant'Ilario, sulle alture di Nervi, il 7 apr. 1961.

Se fece difetto in genere il consenso della critica, al B. non mancò certo la larga e fedele simpatia del pubblico. Un ampio giro di pubblico, oggi si direbbe "non qualificato", che senza badare troppo agli scoperti influssi fogazzariani e rovettiani, senza adombrarsi per il diffuso e minuto cronachismo (anzi se mai godendone, come incentivo di lettura), e per la vena soverchiamente ottimistica che percorre le pagine prefabbricando le situazioni, i personaggi e gli stessi dialoghi, amò piuttosto ritrovare nei libri del B. una garbata fluenza e facilità di lettura, una mdubbia correttezza e poeticità di dettato, soprattutto in certe ariose descrizioni di paesaggio e d'ambiente.

Altri scritti: Una sosta nel Seicento, Modica 1900; E. Zola, Recanati 1902; Victor Hugo, Macerata 1902; L'amore e la lirica di F. Petrarca, ibid. 1904; Carlo Goldoni e Venezia nel sec. XVIII, Bologna 1907; La polemica a teatro, Roma 1907; La gironda, Milano 1909; I sentieri della vita, ibid. 1913; Il labirinto, ibid. 1913; Il poco lume e il gran cerchio d'ombra, ibid. 1926; L'arcolaio, ibid. 1926; Il sapore della vita, ibid. 1929; La gios

 
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scrittrici dimenticate:Mura

Post n°1612 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Quando morì all'età di quarant'otto anni nel cielo di Stromboli il 16 marzo 1940, allorché precipitò l'aereo su cui si era imbarcata a Tripoli, i funerali a Gavirate furono imponenti, alla presenza di persone illustri, Amedeo Nazzari, Milly Dandolo, Elsa Merlini e il commendator Angelo Rizzoli. Qualche mese dopo Flavia Steno nella prefazione del romanzo postumo Camelia tra le fiamme scrisse di Mura: Venti anni di lavoro; trenta romanzi; quattro volumi di studi femminili, altrettanti di narrazioni di viaggi, centinaia di novelle; trame di film; racconti, consigli, aforismi; articoli per quotidiani a getto continuo, conferenze. Una scrittrice prolifica che, pur non raggiungendo tirature elevate, ebbe comunque risultati considerevoli.

La sua attività versatile comprese anche esperienze teatrali con la stesura di copioni e libri per l'infanzia. Ma la Mura più vera - scrive Romano Oldrini - la prosatrice che si abbandona felicemente ad una scrittura sorgiva e nello stesso tempo letteraria è quella dei "Caroselli", sorta di elzeviri scritti lungo l'arco di anni per il "secolo - Sera" e raccolti successivamente in tre volumi. Mura citò in alcuni suoi romanzi il paese in cui abitava con il fratello e la mamma. Ci sono luoghi a Gavirate che la ricordano: dapprima la sua casa in stile veneziano in via Enrico Toti sulla cui facciata spicca, con obbligo di inamovibilità, una lapide a suo ricordo risalente al 1943: In questa casa ora ricostruita, rifugio di lavoro e di affetti, Mura scrisse le sue prime pagine, poi la cappella al cimitero, dove il suo busto spicca tra le scritte a mosaico riportanti il titolo di alcune sue opere. Ma è soprattutto nella Biblioteca Comunale "Giuseppe Abbiati" che si trova l'anima della scrittrice: le tante opere (tradotte in francese, spagnolo, tedesco, ceco, polacco, rumeno) costituiscono una fonte indispensabile per comprendere l’evoluzione culturale della scrittrice, le sue influenze scapigliate, dannunziane e della narrativa femminile e popolare.

 
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scrittrici dimenticate:George Eliot

Post n°1611 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

George Eliot was the pseudonym of novelist, translator, and religious writer Mary Ann Evans (1819-1880). This article by Virginia Woolf was first published in The Times Literary Supplement, 20th November, 1919.

To read George Eliot attentively is to become aware how little one knows about her. It is also to become aware of the credulity, not very creditable to one's insight, with which, half consciously and partly maliciously, one had accepted the late Victorian version of a deluded woman who held phantom sway over subjects even more deluded than herself. At what moment and by what means her spell was broken it is difficult to ascertain. Some people attribute it to the publication of her Life. Perhaps George Meredith, with his phrase about the 'mercurial little showman' and the 'errant woman' on the dais, gave point and poison to the arrows of thousands incapable of aiming them so accurately, but delighted to let fly. She became one of the butts for youth to laugh at, the convenient symbol of a group of serious people who were all guilty of the same idolatry and could be dismissed with the same scorn. Lord Acton had said that she was greater than Dante; Herbert Spencer exempted he novels, as if they were not novels, when he banned all fiction from the London library. She was the pride and paragon of all her sex. Moreover, her private record was not more alluring than her public. Asked to describe an afternoon at the Priory, the story-teller always intimated that the memory of those serious Sunday afternoons had come to tickle his sense of humour. He had been so much alarmed by the grave lady in her low chair; her had been so anxious to say the intelligent thing. Certainly, the talk had been very serious, as a note in the fine clear hand of the novelist bore witness. It was dated on the Monday morning, and she accused herself of having spoken with due forethought of Marivaux when she meant another; but not doubt, she said, her listener had already supplied the correction. Still, the memory of talking about Marivaux to George Eliot on a Sunday afternoon was not a romantic memory. It had faded with the passage of years. It had not become picturesque.

Indeed, one cannot escape the conviction that the long, heavy face with its expression of serious and sullen and almost equine power has stamped itself depressingly upon the minds of people who remember George Eliot, so that it looks out upon them from her pages. Mr Gosse has lately described her as he saw her driving through London in a victoria:

a large, thick-set sybil, dreamy and immobile, whose massive features, somewhat grim when seen in profile, were incongruously bordered by a hat, always in the height of Paris fashion, which in those days commonly included an immense ostrich feather.

Lady Ritchie, with equal skill, has left a more intimate indoor portrait:

She sat by the fire in a beautiful black satin gown, with a green shaded lamp on the table beside her, where I saw German books lying and pamphlets and ivory paper-cutters. She was very quiet and noble, with two steady little eyes and a sweet voice. As I looked I felt her to be a friend, not exactly a personal friend, but a good and benevolent impulse.

A scrap of her talk is preserved. 'We ought to respect our influence,' she said. 'We know by our own experience how very much others affect our lives, and we must remember that we in turn must have the same effect on others.' Jealously treasured, committed to memory, one can imagine recalling the scene, repeating the words, thirty years later, and suddenly, for the first time, bursting into laughter.

In all these records one feels that the recorder, even when he was in the actual presence, kept his distance and kept his head, and never read the novels in later years with the light of a vivid, or puzzling, or beautiful personality dazzling his eyes. In fiction, where so much of personality is revealed, the absence of charm is a great lack; and her critics, who have been, of course, mostly of the opposite sex, have resented, half consciously perhaps, her deficiency in a quality which is held to be supremely desirable in women. George Eliot was not charming; she was not strongly feminine; she had none of those eccentricities and inequalities of temper which give to so many artists the endearing simplicity of children. One feels that to most people, as to Lady Ritchie, she was 'not exactly a personal friend, but a good and benevolent impulse'. But if we consider these portraits more closely, we find that they are all the portraits of an elderly celebrated woman, dressed in black satin, driving in her victoria, a woman who has been through her struggle and issued from it with a profound desire to be of use to others, but with no wish for intimacy, save with the little circle who had known her in the days of her youth. We know very little about the days of her youth; but we do know that the culture, the philosophy, the fame, and the influence were all built upon a very humble foundation - she was the granddaughter of a carpenter.

The first volume of her life is a singularly depressing record. In it we see her rising herself with groans and struggles from the intolerable boredom of petty provincial society (her father had risen in the world and become more middle class, but less picturesque) to be the assistant editor of a highly intellectual London review, and the esteemed companion of Herbert Spencer. The stages are painful as she reveals them in the sad soliloquy in which Mr Cross condemned her to tell the story of her life. Marked in early youth as one 'sure to get something up very soon in the way of a clothing club', she proceeded to raise funds for restoring a church by making a chart of ecclesiastical history; and that was followed by a loss of faith which so disturbed her father that he refused to live with her. Next came the struggle with the translation of Strauss, which, dismal and 'soul-stupefying' in itself, can scarcely have been made less so by the usual feminine tasks of ordering a household and nursing a dying father, and the distressing conviction, to one so dependent upon affection, that by becoming a bluestocking she was forfeiting her brother's respect. 'I used to go about like an owl', she said, 'to the great disgust of my brother'. 'Poor thing', wrote a friend who saw her toiling through Strauss with a statue of the risen Christ in front of her, 'I do pity her sometimes, with her pale sickly face and dreadful headaches, and anxiety, too, about her father.' Yet, though we cannot read the story without a strong desire that the stages of her pilgrimage might have been made, if not more easy, at least more beautiful, there is a dogged determination in her advance upon the citadel of culture which raises it above our pity. Her development was very slow and very awkward, but it had the irresistible impetus behind it of a deep-seated and noble ambition. Every obstacle at length was thrust from her path. She knew everyone. She read everything. Her astonishing intellectual vitality had triumphed. Youth was over, but youth had been full of suffering. Then, at the age of thirty-five, at the height of her powers, and in the fulness of her freedom, she made the which was of such profound moment to her and still matters even to us, and went to Weimar, alone with George Henry Lewes.

The books which followed so soon after her union testify in the fullest manner to the great liberation which had come to her with personal happiness. In themselves they provide us with a plentiful feast. Yet at the threshold of her literary career one may find in some of the circumstances of her life influences that turned her mind to the past, to the country village, to the quiet and beauty and simplicity of childish memories and away from herself and the present. We understand how it was that her first book was Scenes of Clerical Life and not Middlemarch. Her union with Lewes had surrounded her with affection, but in view of the circumstances and of the conventions it has also isolated her. 'I wish it to be understood', she wrote in 1857, 'that I should never invite anyone to come and see me who did not ask for the invitation.' She had been 'cut off from what is called the world', she said later, but she did not regret it. By becoming thus marked, first by circumstances and later, inevitably, by her fame, she lost the power to move on equal terms unnoted among her kind; and the loss for a novelist was serious. Still, basking in the light and sunshine of Scenes of Clerical Life, feeling the large mature mind spreading itself with a luxurious sense of freedom in the world of her 'remotest past', to speak of loss seems inappropriate. Everything to such a mind was gain. All experience filtered down through layer after layer of perception and reflection, enriching and nourishing. The utmost we can say, in qualifying her attitude towards fiction by what we know of her life, is that she had taken to heart certain lessons learnt early, if learnt at all, among which, perhaps, the most branded upon her was the melancholy virtue of tolerance; her sympathies are with the everyday lot, and play most happily in dwelling upon the homespun of ordinary joys and sorrows. She has none of that romantic intensity which is connected with a sense of one's own individuality, unsated and unsubdued, cutting its shape sharply upon the background of the world. What were the loves and sorrows of a snuffy old clergyman, dreaming over his whisky, to the fiery egotism of Jane Eyre? The beauty of those first books, Scenes of Clerical Life, Adam Bede, The Mill on the Floss, is very great. It is impossible to estimate the merit of the Poysers, the Dodsons, the Gilfils, the Bartons, and the rest with all their surroundings and dependencies, because they have put on flesh and blood and we move among them, now bored, now sympathetic, but always with that unquestioning acceptance of all that they say and do, which we accord to the great originals only. The flood of memory and humour which she pours so spontaneously into one figure, one scene after another, until the whole fabric of ancient rural England is revived, has so much in common with a natural process that it leaves us with little consciousness that there is anything to criticize. We accept; we feel the delicious warmth and release of spirit which the great creative writers alone procure for us. As one comes back to the books after years of absence they pour out, even against our expectation, the same store of energy and heat, so that we want more than anything to idle in the warmth as in the sun beating down from the red orchard wall. If there is an element of unthinking abandonment in thus submitting to the humours of Midland farmers and their wives, that, too, is right in the circumstances. We scarcely wish to analyse what we feel to be so large and deeply human. And when we consider how distant in time the world of Shepperton and Hayslope is, and how remote the minds of farmer and agricultural labourers from those of most of George Eliot's readers, we can only attribute the ease and pleasure with which we ramble from house to smithy, from cottage parlour to rectory garden, to the fact that George Eliot makes us share their lives, not in a spirit of condescension or of curiosity, but in a spirit of sympathy. She is no satirist. The movement of her mind was too slow and cumbersome to lend itself to comedy. But she gathers in her large grasp a great bunch of the main elements of human nature and groups them loosely together with a tolerant and wholesome understanding which, as one finds upon rereading, has not only kept her figures fresh and free, but has given them an unexpected hold upon our laughter and tears. There is the famous Mrs Poyser. It would have been easy to work her idiosyncrasies to death, and, as it is, perhaps, George Eliot gets her laugh in the same place a little too often. But memory, after the book is shut, brings out, as sometimes in real life, the details and subtleties which some more salient characteristic has prevented us from noticing at the time. We recollect that her health was not good. There were occasions upon which she said nothing at all. She was patience itself with sick child. She doted upon Totty. Thus one can muse and speculate about the greater number of George Eliot's characters and find, even in the least important, a roominess and margin where those qualities lurk which she has no call to bring from their obscurity.

But in the midst of all this tolerance and sympathy there are, even in the early books, moments of greater stress. Her humour has shown itself broad enough to cover a wide range of fools and failures, mothers and children, dogs and flourishing midland fields, farmers, sagacious or fuddled over their ale, horse-dealers, inn-keepers, curates, and carpenters. Over them all broods a certain romance, the only romance that George Eliot allowed herself- the romance of the past. The books are astonishingly readable and have no trace of pomposity or pretence. But to the reader who holds a large stretch of her early work in view it will become obvious that the mist of recollection gradually withdraws. It is not that her power diminishes, for, to our thinking, it is at its highest in the mature Middlemarch, the magnificent book which with all its imperfections is one of the few English novels written for grown-up people. But the world of fields and farms no longer contents her. In real life she had sought her fortunes elsewhere; and though to look back into the past was calming and consoling, there are, even in the early works, traces of that troubled spirit, that exacting and questioning and baffled presence who was George Eliot herself. In Adam Bede there is a hint of her in Dinah. She shows herself far more openly and completely in Maggie in The Mill on the Floss. She is Janet in Janet's Repentance, and Romola, and Dorothea seeking wisdom and finding one scarcely knows what in marriage with Ladislaw. Those who fall foul of George Eliot do so, we incline to think, on account of her heroines; and with good reason; for there is no doubt that they bring out the worst of her, lead her into difficult places, make her self-conscious, didactic, and occasionally vulgar. Yet if you could delete the whole sisterhood you would leave a much smaller and a much inferior world, albeit a world of greater artistic perfection and far superior jollity and comfort. In accounting for her failure, in so far as it was a failure, one recollects that she never wrote a story until she was thirty-seven, and that by the time she was thirty-seven she had come to think of herself with a mixture of pain and something like resentment. For long she preferred not to think of herself at all. Then, when the first flush of creative energy was exhausted and self-confidence had come to her, she wrote more and more from the personal standpoint, but she did so without the unhesitating abandonment of the young. Her self-consciousness is always marked when her heroines say what she herself would have said. She disguised them in every possible way. She granted them beauty and wealth into the bargain; she invented, more improbably, a taste for brandy. But the disconcerting and stimulating fact remained that she was compelled by the very power of her genius to step forth in person upon the quiet bucolic scene.

The noble and beautiful girl who insisted upon being born into the Mill on the Floss is the most obvious example of the ruin which a heroine can strew about her. Humour controls her and keeps her lovable so long as she is small and can be satisfied by eloping with the gipsies or hammering nails into her doll; but she develops; and before George Eliot knows what has happened she has a full-grown woman on her hands demanding what neither gipsies, nor dolls, nor St Ogg's itself is capable of giving her. First Philip Wakem is produced, and later Stephen Guest. The weakness of the one and the coarseness of the other have often been pointed out; but both, in their weakness and coarseness, illustrate not so much George Eliot's inability to draw the portrait of a man, as the uncertainty, the infirmity, and the fumbling which shook her hand when she had to conceive a fit mate for a heroine. She is in the first place driven beyond the home world she knew and loved, and forced to set foot in middle-class drawing-rooms where young men sing all the summer morning and young women sit embroidering smoking-caps for bazaars. She feels herself out of her element, as her clumsy satire of what she calls 'good society' proves.

Good society has its claret and its velvet carpets, its dinner engagements six weeks deep, its opera, and its faery ball rooms... gets its science done by Faraday and its religion by the superior clergy who are to be met in the best houses; how should it have need of belief and emphasis?

There is no trace of humour or insight there, but only the vindictiveness of a grudge which we feel to be personal it its origin. But terrible as the complexity of our social system is in its demands upon the sympathy and discernment of a novelist straying across the boundaries, Maggie Tulliver did worse than drag George Eliot from her natural surroundings. She insisted upon the introduction of the great emotional scene. She must love; she must despair; she must be drowned clasping her brother in her arms. The more one examines the great emotional scenes the more nervously one anticipates the brewing and gathering and thickening of the cloud which will burst upon our heads at the moment of crisis in a shower of disillusionment and verbosity. It is partly that her hold upon dialogue, when it is not dialect, is slack; and partly that she seems to shrink with an elderly dread of fatigue from the effort of emotional concentration. She allows her heroines to talk too much. She has little verbal felicity. She lacks the unerring taste which chooses one sentence and compresses the heart of the scene within that. 'Whom are you doing to dance with?' asked Mr Knightley, at the Weston's ball. 'With you, if you will ask me,' said Emma; and she has said enough. Mrs Casaubon would have talked for an hour and we should have looked out of the window.

Yet, dismiss the heroines without sympathy, confine George Eliot to the agricultural world of her 'remotest past', and you not only diminish her greatness but lose her true flavour. That greatness is here we can have no doubt. The width of the prospect, the large strong outlines of the principal features, the ruddy light of her early books, the searching power and reflective richness of the later tempt us to linger and expatiate beyond our limits. But is it upon the heroines that we would cast a final glance. 'I have always been finding out my religion since I was a little girl,' says Dorothea Casaubon. 'I used to pray so much - now I hardly ever pray. I try not to have desires merely for myself...' She is speaking for them all. That is their problem. They cannot live without religion, and they start out on the search for one when they are little girls. Each has the deep feminine passion for goodness, which makes the place where she stands in aspiration and agony the heart of the book - still and cloistered like a place of worship, but that she no longer knows to whom to pray. In learning they seek their goal; in the ordinary tasks of womanhood; in the wider service of their kind. They do not find what they seek, and we cannot wonder. The ancient consciousness of woman, charged with suffering and sensibility, and for so many ages dumb, seems in them to have brimmed and overflowed and uttered a demand for something - they scarcely know what - for something that is perhaps incompatible with the facts of human existence. George Eliot had far too strong an intelligence to tamper with those facts, and too broad a humour to mitigate the truth because it was a stern one. Save for the supreme courage of their endeavour, the struggle ends, for her heroines, in tragedy, or in a compromise that is even more melancholy. But their story is the incomplete version of the story that is George Eliot herself. For her, too, the burden and the complexity of womanhood were not enough; she must reach beyond the sanctuary and pluck for herself the strange bright fruits of art and knowledge. Clasping them as few women have ever clasped them, she would not renounce her own inheritance - the difference of view, the difference of standard - nor accept an inappropriate reward. Thus we behold her, a memorable figure, inordinately praised and shrinking from her fame, despondent, reserved, shuddering back into the arms of love as if there alone were satisfaction and, it might be, justification, at the same time reaching out with 'a fastidious yet hungry ambition' for all that life could offer the free and inquiring mind and confronting her feminine aspirations with the real world of men. Triumphant was the issue for her, whatever it may have been for her creations, and as we recollect all that she dared and achieved, how with every obstacle against her - sex and health and convention - she sought more knowledge and more freedom till the body, weighted with its double burden, sank worn out, we must lay upon her grave whatever we have it in our power to bestow of laurel and rose.

 
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Guerre boere approfondimento

Post n°1610 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Uno dei tantissimi capitoli di storia che nessuno, se non gli studiosi, cita mai, riguarda due sanguinosi conflitti tra “bianchi”, che si combatterono a fine ottocento nel lontano Sudafrica. Al potente impero Britannico facevano gola i territori occupati dai coloni olandesi, i boeri, organizzati in due repubbliche: lo Stato libero dell'Orange e la Repubblica del Transvaal. Le continue frizioni tra inglesi e boeri portarono ai due conflitti su media scala, da cui però sono derivati dei cambiamenti geopolitici epocali.

Innanzitutto ne fecero le spese gli Zulu, il cui impero venne spazzato via. In secondo luogo le guerre anglo-boere ridisegnarono il futuro del Sudafrica, una terra insanguinata e ricca, che si è contraddistinta per una storia politica violenta e contradditoria fino agli anni dell'Apartheid.

 

 

Prima guerra boera

 

La prima guerra boera scoppiò nel 1877, quando gli inglesi decisero di annettersi il Transvaal e le sue ricche miniere di diamanti. Con provvedimento chiamato Peace Preservation Act il Governo di Sua Maestà si portò a casa il piatto forte delle ricchezze naturali sudafricane, scatenando però l'orgoglio degli afrikaners, che riunirono un gran numero di movimenti indipendentisti sotto un unica bandiera nazionale, quella del Genootskaap van Regte Afrikaners (Asssociazione dei Veri Afrikaners).

Il primo a reagire alle nuove imposizioni (in particolare al disarmo imposto dal Peace Preservation Act) fu il Re Zulu Cetshwayo. La situazione degenerò rapidamente e si trasformò ben presto in una sanguinosa guerra in cui la netta superiorità tecnica e logistica delle truppe britanniche vanificò la superiorità numerica dei nativi e si tradusse in un massacro di Zulu. Come conseguenza di questa serie di scontri l'Impero Zulu cessò di esistere diventando colonia britannica.

In risposta a questa azione di forza si originò la Afrikaner Bond, un vero e proprio movimento politico che promuoveva l'indipendenza e l'autogoverno dei Boeri.

 

La guerra civile scoppiò nel 1880, quando i Boeri attaccarono i più potenti e ben armati inglesi, impegnandoli in una serie di scontri ferocissimi, che culminarono con la proclamazione del Transvaal indipendente. Evidentemente i britannici avevano sottovalutato i nemici, che conoscevano meglio il territorio e avevano più motivazioni per combattere come leoni.

Piccoli drappelli di Boeri riuscirono ad avere la meglio sulle formazioni inglesi, sia in fase di “liberazione” del Transvaal, che durante la guerra contro la spedizione comandata da George Pomeroy Colley, spedita sul posto per ripristinare l'ordine. La battaglia di Laing's Nek vide prevalere nettamente gli afrikaners, che le suonarono ai 1200 inglesi di Sir Colley.

 

La prima guerra boera si concluse così con un armistizio, in cui il governo coloniale britannico riconosceva l'autonomia (ma non l'indipendenza) del Transvaal. Il risultato del conflitto fu umiliante per gli inglesi, che pagarono l'innata superbia e il mal riposto senso di superiorità. Pochi afrikaners ben determinati avevano sconfitto l'impero più potente al mondo perdendo solo una manciata di uomini.



(Sir Colley alla battaglia di Laing's Nek)

Seconda guerra boera


Ovviamente la situazione era tutt'altro che pacificata. Del resto le terre dell'Africa meridionale erano così ricche che facevano gola a molti. Nel 1885 vennero scoperte nuove vene d'oro nel Transvaal. Esse attirarono una marea di cercatori, tra cui molti non boeri. Cecil Rhodes, il noto politico e imprenditore britannico (vi dice niente il nome Rhodesia?) che aveva vastissimi interessi economici nell'area, finanziò un colpo di stato, che però fallì miseramente.

Intanto la situazione per i britannici peggiorò ancora, visto che le repubbliche boere sondavano con ottimismo una possibile alleanza coi “vicini” tedeschi, che controllavano la neonata Deutsche Kolonialgesellschaft für Südwest-Afrika, ossia la colonia tedesca africana del sudovest. Inutile dire che un'alleanza del genere sarebbe stata davvero nociva per gli inglesi, che già in Europa guardavano con preoccupazione l'incredile crescita politica ed economica dell'Impero Tedesco.

Nel giro di pochi mesi si arrivò dunque alla guerra coi boeri, che gli inglesi tentarono di giustificare con presunti motivi di nobiltà umanitaria: proponendosi come paladini anti-schiavisti. In realtà erano gli stessi uomini preposti al governo coloniale inglese ad avere preconcetti razziali, visto che combattevano per la “naturale sovranità britannica”, oltre che per mettere le mani sulla ricchezza delle terre occupate dai boeri.

 

La guerra scoppiò ufficialmente il 12 ottobre del 1899 e vide – di nuovo – gli iniziali successi degli afrikaners. A quanto pare gli inglesi non avevano imparato la lezione dalla precedente batosta. I boeri invasero il Natal e la Colonia del Capo, assediando le città di Ladysmith, Mafeking, e Kimberley (in quest'ultima città si precipitò Rhodes, allarmato per il suo traffico di diamanti). A Ladysmith in particolare vennero intrappolate le truppe del generale sir George White (circa 12.000 uomini), che agì in maniera sconsiderata e dopo alcuni successi iniziali (con gravi perdite) mise in pericolo l'intero Natal. Questo afflisse sia i civili che i soldati, mentre lottavano per la sopravvivenza circondati dalle forze boere per mesi.

A metà dicembre gli inglesi vissero il loro momento peggiore, “la settimana nera”, subendo una serie di sconfitte devastanti a Magersfontein, Stormberg e Colenso. Il comandante boero Koos De Le Rey ideò una serie di strategie innovative per allargare i vari fronti delle battaglie, disorientando gli ufficiali inglesi e riportando un impressionante numero di vittorie.

Tuttavia gli inglesi, superiori in numero e come armamenti, riuscirono presto a ribaltare la sorte della guerra. Questi iniziarono con l'alleviare l'assedio di Ladysmith, Mafeking e Kimberly e con l'attaccare le capitali del Transvaal e dello Stato Libero di Orange. I britannici furono in grado di costringere alla resa il generale Piet Cronje e 4.000 dei suoi uomini, indebolendo ulteriormente le forze combattenti boere. Grazie a questa vittoria, i britannici entrarono e catturarono Bloemfontein, la capitale dello Stato Libero di Orange.

 

I boeri erano però ben lontani dalla resa. Cambiarono strategia e diventarono dei veri e propri guerriglieri, impegnandosi in una serie di azioni di disturbo, atte a colpire le ferrovie, i telegrafi e le retrovie inglesi. Le loro nuove tattiche mutarono di nuovo il corso della guerra e resero superflui e inefficaci i tipici grandi raggruppamenti di truppe britanniche.

A replicare alla nuova strategia boera ci pensò però lord Kitchener, nuovo comandante in capo degli inglesi, che adottò dei nuovi e spietati provvedimenti per piegare la resistenza dei coloni afrikaners.



(Artiglieria Boera - 1899)

La nascita dei campi di concentramento inglesi

 

In sostanza la strategia repressiva di Kitchener prese di mira i boeri non combattenti: gli inglesi iniziarono a bruciare e demolire le case e le fattorie dei nemici. L'ordine era quello di fare terra bruciata. Le famiglie dei combattenti afrikaners venivano poi deportate in veri e propri campi di concentramento ante litteram, che presto furono stipati di donne e bambini. Inizialmente questi campi erano intesi come rifugio per i civili che non volevano essere coinvolti nella guerra, ma ben presto divennero dei lager, gestiti in modo spietato. Nei campi morirono più bambini che la somma dei soldati caduti da ambo le parti. Nel 1901 morirono fino a 28.000 donne e bambini. Fu una atrocità che avrebbe macchiato la reputazione di Kitchener negli anni a venire, ma che va vista anche nel contesto delle malattie che falciarono 16.000 soldati britannici e della generale inadeguatezza dell'apparato medico militare britannico dell'epoca.

Le terribili contromisure britanniche ottennero il risultato che si erano proposti, tanto che i boeri si arresero nel 1901, non più in grado di sostenere una guerriglia in cui a patirne le conseguenze erano mogli, sorelle, madri e figli.
Le conseguenze delle due guerre incisero per anni sulla civiltà sudafricana, dando poi vita al Sudafrica moderno che solo con Mandela avrebbe infine trovato un po' di pace. Quando, nel 1885, i coloni trovarono nuove vene d'oro nel Transvaal, il presidente Paul Kruger, leader politico della repubblica boera, si dimostrò buon profeta: al posto di festeggiare per l'inaspettata ricchezza, commentò che quell'oro avrebbe inzuppato la terra di sangue per anni.



(Lord Kitchener)

La legione volontaria italiana

 

Attorno al 1885 alcuni nostri connazionali si erano trasferiti nel lontanissimo Sudafrica, spinti dalla febbre dell'oro appena scoperto nel Transvaal. Circa cinquemila italiani vivevano nelle maggiori città del Sudafrica, con un picco di presenze a Johannesburg, dove esisteva il quartiere “Little Italy”. Molti di essi lavoravano – in condizioni indecenti – nelle fabbriche inglesi. Proprio in una di queste, la Thomas Begbie and Son Foundry, si verificò un tremendo incidente che causò la morte di dodici italiani e il ferimento di molti altri immigrati, tra cui austriaci, olandesi e tedeschi. Fu solo uno dei tanti episodi che iniziò a far propendere le simpatie dei nostri connazionali verso la causa boera.

Un militare italiano di grande esperienza, Camillo Ricchiardi, formò un piccolo battaglione di partigiani, la Legione Volontaria Italiana, che contava duecento uomini. Ricchiardi, ex soldato, mercenario, avventuriero, era uno che la sapeva lunga: reduce della guerra d'Etiopia, di Adua, della guerra d'indipendenza delle Filippine, era un uomo pronto all'azione e dotato anche di un intelletto fine.

La Legione si mise al servizio dell'esercito boero, guadagnandosi una reputazione soprattutto nelle operazioni di guerriglia e di sabotaggio. Si specializzarono nel far saltare le ferrovie che garantivano i rifornimenti inglesi. La loro strategia era di far esplodere le cariche solo quando i britannici - riconoscibili dai caschi coloniali bianchi - erano in vista. In tal modo le truppe erano così vicine che non riuscivano a vedere e a spegnere le micce sotto un ponte.

 

Man mano che i combattimenti proseguivano i guerriglieri italiani cominciarono a temere per la loro sorte: l'Italia era tradizionalmente amica della Gran Bretagna e non fece mancare il proprio sostegno neanche durante questo conflitto. Perciò chiunque di loro fosse stato catturato rischiava di dover affrontare il processo e l'esecuzione come traditore. Per lo stesso motivo erano in pericolo quegli agricoltori italiani che avevano simpatie per i discendenti dei coloni olandesi. Ma, paradossalmente, anche quelli che non ne avevano subirono i saccheggi e la deportazione nei campi di concentramento da parte degli inglesi. Altri italiani erano già stati rimpatriati a forza quando erano emersi i loro sentimenti pro-Boeri.

Famosa è la cattura da parte di Camillo Ricchiardi di un treno sul quale era il giovane Churchill che era in Sud Africa come giornalista inglese. Durante la cattura risultò troppo compromesso con l’esercito nemico e fu trovato in possesso di una pistola Mauser C96 con pallottole proibite (dum-dum), tanto da rischiare di essere fucilato, ma il pronto intervento del comandate Ricchiardi gli salvò la vita. Tuttavia Churchill, nelle sue memorie, omette di essere stato catturato da degli italiani.

 

Curiosamente Peppino Garibaldi, nipote di Giuseppe, si unì agli inglesi e si ritrovò a combattere contro suo zio Ricciotti e l'esploratore Pilade Sivelli, il cui padre Giovan Battista fu il più giovane delle Camicie rosse che avevano partecipato alla Spedizione dei Mille.


 
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Guerre boere

Post n°1609 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

e guerre boere o guerre anglo-boere ebbero luogo in Sudafrica, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, e contrapposero gli inglesi e i coloni sudafricani di origine olandese, detti boeri. La prima guerra boera si svolse dal 1880 al 1881 e la seconda dal 1899 al 1902. I due conflitti portarono alla supremazia britannica in Sudafrica e posero fine alle repubbliche boere (la Repubblica del Transvaal e lo Stato Libero dell'Orange), inglobandole nella Colonia del Capo.


Prima guerra boera


Il primo scontro venne causato dalla politica di Sir Theophilus Shepstone che decise di annettere il Transvaal (la Repubblica Sud Africana) all'Impero Britannico nel 1877. I Boeri protestarono e nel 1880 si ribellarono. Vestiti in abiti color kaki che ben si confondevano col campo di battaglia, i Boeri non ebbero problemi ad avvistare da grande distanza ed infliggere pesanti perdite nei ranghi degli avversari britannici, che indossavano invece uniformi rosso brillante. Dopo che una forza britannica comandata da George Pomeroy-Collery venne gravemente sconfitta nella Battaglia di Majuba Hill, nel febbraio 1881, il governo britannico di Gladstone diede ai Boeri l'autogoverno nel Transvaal, sotto la teorica supervisione britannica.
Seconda guerra boera

In seguito alla scoperta dell'oro nel Transvaal nel 1885 nel crinale di Witwatersrand, ci fu una corsa all'oro di coloni non Boeri, detti uitlanders. I nuovi coloni venivano scarsamente considerati dai Boeri e in cambio ci furono pressioni per rimuovere il loro governo. Nel 1896 Cecil Rhodes sponsorizzò un inefficace colpo di stato, l'incursione di Jameson e il fallimento di ottenere migliori diritti per i britannici venne usato come scusa per giustificare un ammasso di forze militari nella zona del Capo. C'era un'altra ragione per l'intenzione britannica di prendere il controllo della Repubblica Boera: all'epoca ci fu un tentativo della Repubblica del Transvaal di legarsi all'Africa Sud-occidentale Tedesca, una possibilità che i britannici, che temevano uno scontro imminente con l'Impero tedesco, decisero di contrastare.

I Boeri, guidati dal presidente Paul Kruger (che convinse anche il presidente dello Stato Libero dell'Orange Steyn), colpirono per primi, attaccando nella Colonia del Capo e nel Natal tra l'ottobre 1899 e il gennaio 1900. I Boeri furono in grado di assediare con successo le guarnigioni britanniche nelle città di Ladysmith, Mafeking (difesa dalle truppe comandate da Robert Baden-Powell) e Kimberley e inflissero ai britannici tre diverse sconfitte nel giro di una settimana, dal 10 al 15 dicembre 1899. Non fu fino all'arrivo dei rinforzi, il 14 febbraio 1900, che le truppe britanniche comandate da Lord Roberts poterono lanciare una controffensiva per soccorrere le guarnigioni (la liberazione di Mafeking il 18 maggio 1900, provocò violente celebrazioni in Inghilterra) e permettere ai britannici di prendere Bloemfontein il 13 marzo e la capitale Boera, Pretoria, il 5 giugno. Le unità Boere si diedero alla guerriglia per altri due anni, mentre i britannici, ora sotto il comando di Lord Kitchener, risposero costruendo fortini, distruggendo fattorie e confiscando il cibo per evitare che cadesse in mano ai Boeri e ponendo i civili Boeri in campi di concentramento.

Gli ultimi Boeri si arresero nel maggio del 1902, e la guerra finì con il trattato di Vereeniging, stipulato nello stesso mese. Si stima che 22.000 soldati britannici morirono, così come 25.000 civili Boeri. Il trattato pose fine all'esistenza del Transvaal e dello Stato Libero dell'Orange come Repubbliche Boere, rendendole parte dell'interno dell'Impero Britannico. Ma ai Boeri vennero dati 3 milioni di sterline come risarcimento e venne loro promesso l'autogoverno (l'Unione del Sud Africa venne stabilita nel 1910).

I Boeri chiamano le due guerre Guerre di liberazione.

 
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Vita pericolosa (Cendrars)

Post n°1608 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

ono forse oggi l’uomo più felice del mondo
Possiedo tutto quello che non desidero
E alla sola cosa alla quale io tenga nella vita ogni giro dell’elica mi ci avvicina
E avrò forse perduto tutto arrivando

 
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Libri dimenticati:Il caso Maurizius

Post n°1607 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Un giovane studente mette in discussione l'operato del padre giudice in un caso di omicidio e comincia la sua indagine personale.Dove lo porterà?

 
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Frase del giorno

Post n°1606 pubblicato il 12 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Public be damned! (Vanderbilt)

 
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