Messaggi del 21/01/2012

Scrittori dimenticati:Leonida Rèpaci

Post n°1698 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nato a Palmi (Reggio Cal.) il 5 aprile 1898, ultimo di dieci figli e presto orfano del padre, Leonida Repaci trascorse un'umile infanzia nella sua città fino al catastrofico sisma del 28 dicembre 1908 che devastò Messina, Reggio e le zone limitrofe.
Anche l'abitazione della sua famiglia andò distrutta. Leonida fu allora mandato a Torino, dove il fratello Francesco esercitava l'avvocatura.
Nel capoluogo piemontese il giovane poté proseguire per quattro anni gli studi interrotti ed iscriversi all'Università in giurisprudenza.
Scoppiato il primo conflitto mondiale partì per il fronte, divenendo ufficiale degli alpini. Per il coraggio e l'ardimento dimostrati sul Monte Grappa, Repaci si conquistò una medaglia d'argento al valor militare. Passato, quindi, nei reparti d'assalto lanciafiamme, a Malga Pez venne ferito.
Nel dicembre 1918 con l'influenza "spagnola" perdette una giovane sorella e due fratelli, il primo capitano d'aviazione pluridecorato e l'altro grosso esponente politico.
Tornato a Palmi con la divisa di capitano, nel 1919 ripartì per Torino dove conseguì la laurea in Legge e l'anno seguente l'abilitazione alla professione che esercitò per un biennio. L'amore per la narrativa e la poesia lo portarono ancora ventenne a scrivere, trascurando le discipline giuridiche.
S'interessò contemporaneamente di politica e si iscrisse a Torino nel partito socialista, partecipando al "Movimento Operaio" e collaborando ad "Ordine Nuovo" con Gramsci. Dopo la marcia su Roma lasciò Torino per Milano.
Nel 1924 collaborò fin dal primo numero a "L'Unità" e per lo stesso giornale tradusse "Il tallone di ferro" di London.
Nell'agosto 1925, durante la festa della "Varia" a Palmi, venne ucciso un fascista con un'arma da fuoco. Repaci, i fratelli ed altri amici furono accusati e imprigionati.
Dopo essere stato prosciolto, fece ritorno a Milano.
Nel 1927 perdette la madre.
La disavventura del carcere gli fece indossare la toga per difendere a Milano un giovane anarchico. Nella città lombarda ha ideato e realizzato il premio letterario "Viareggio" (1929). In tale circostanza conobbe e sposò pure Albertina Antonelli alla quale rimase fedele fino alla morte di lei avvenuta nel 1984. Collaborò alla "Gazzetta del popolo" e a "La Stampa". Dopo il secondo conflitto mondiale divenne partigiano a Roma. Qui fondò con Angiolillo e fu per nove mesi condirettore de "Il Tempo", prima di passare alla direzione del quotidiano "L'Epoca", durato soltanto 14 mesi.
Nel 1948, dietro insistenza degli amici, Repaci decise di candidarsi senza venire eletto al Collegio Senatoriale di Palmi nella lista del Fronte Democratico Popolare. Nel 1950 fu membro del Consiglio mondiale della Pace.
Nel 1970 vinse il Premio Sila e da tale periodo si dedicò alla pittura, giungendo a tenere con successo mostre personali a Roma e Milano.
Si è spento a Pietrasanta (Lucca) il 19 luglio 1985.
L'opera di Repaci procede di pari passo con l'esperienza diretta della vita.
Ad esempio, nel protagonista del romanzo di esordio "L'ultimo cireneo" (1923) c'è il ferimento sulla cima del Monte Grappa; nel libro "In fondo al pozzo" si narra dal carcere la triste vicenda del 1925; ne "La Pietrosa racconta" (1984) si rievoca l'amata Albertina.
La "Storia dei Rupe" - autobiografica, che gli è valsa il Premio Bagutta nel 1932 e il Premio Villa S. Giovanni nel 1958, comprende un intero ciclo: "I fratelli Rupe" (1932), "Potenza dei fratelli Rupe" (1934) e "Passione dei fratelli Rupe" (1937). A parte gli "omnibus" mondadoriani con i tre volumi, la "Storia dei Rupe" prosegue nel 1969 ("Principio di secolo" e "Tra guerra e rivoluzione"), nel 1971 ("Sotto la dittatura") e nel 1973 ("La terra può finire"). Come si legge nella 3^ edizione del 1933 che l'amico dott. Bruno Zappone riporta in "Uomini da ricordare" - Palmesi illustri - (AGE - 2000):
- I fratelli Rupe è un libro dove egli stesso (Repaci) esorta il lettore a non spaventarsi della mole dato che quello che non si vede è assai più grande, e con il quale si prefigge di "puntare l'obiettivo su una famiglia italiana numerosa e fattiva della media borghesia provinciale e condurla, per variar di casi e di personaggi, ad attraversare le esperienze sociali, spirituali, psicologiche di questi primi trent'anni del novecento ed esprimere il travaglio del tempo". -
Sarebbe lungo soffermarsi sulla vasta produzione letteraria di Repaci.
Basta ricordare: "La carne inquieta" (1930), da cui è stato tratto l'omonimo film; "Un riccone torna alla terra" (1954), per il quale romanzo due anni dopo gli è stato conferito il prestigioso Premio Crotone; "Calabria grande e amara" del 1964, una carrellata di eventi tra il 1939 e il 1963; "Compagni di strada" (ritratti), del 1960.
Noi che abbiamo conosciuto ed apprezzato personalmente Repaci durante la fondazione dell'Unione Culturale Calabrese (Catanzaro - 1963) ed il 28 ottobre 1984, quando l'Amministrazione Comunale di Palmi gli ha intitolato ufficialmente la "Casa della Cultura", prima di riportare due particolari di quelle occasioni, condividiamo la definizione espressa da Antonio Altomonte - altro illustre conterraneo scomparso - nel ricordarlo: "Un combattivo, sempre disposto - come amava dichiarare - a schierarsi in prima linea e puntualmente riversava nel suo lavoro di scrittore le sue prese di posizione, il suo impegno civile, i suoi amori e le sue rabbie: con una partecipazione così accesa da far pensare che la sua pagina domandasse di essere giudicata non solo per la testimonianza che rendeva ma anche per la temperatura in cui la rendeva".
Nel capoluogo calabrese, da uomo colto e galante aveva voluto trascorrere un po' di tempo soltanto con noi "sposini" (non si era sbagliato nel chiamarci così, avendo osservato che io e mia moglie - sposi da pochi mesi - passeggiavamo indifferenti degli ammiratori che l'assediavano!), mentre nella sua città natale - dopo il ricordo dell'avvenimento di Catanzaro - ha scritto di suo pugno in calce ad una mia poesia dialettale: "Calabrisi sugnu anch'io. Il vecchio Leonida Repaci - 1984".
Era proprio vero! La mancanza di Albertina, inseparabile compagna della sua vita, aveva reso triste e "vecchio" il leone ruggente e a nulla era valso il tentativo del noto giornalista Gianni Granzotto - presente alla cerimonia - di distrarlo.
Concludiamo con un significativo evento che, ancora Altomonte, riporta in Leonida Repaci:
La mia storia dei Rupe finisce con un episodio realmente accaduto. Una madre va in Tribunale perché ha una causa di alimenti con il figlio. Si presenta tutta vestita di nero, con una lampada in mano, una "lumera" accesa. Il pretore che è calabrese le chiede: "Cos'è questa lumera accesa?". E lei risponde: "Vinni pe' illuminari la giustizia". Il pretore rimane sbalordito da questa affermazione e capisce di quali lontananze, di quali sofferenze sono frutto quelle parole. E allora dice al figlio: "Inginocchiati, chiedi perdono a tua madre!". Il figlio ascolta queste parole, si inginocchia. Allora lei, con un gesto quasi sacro, di cadenza eschilea, spegne la lampada e dice al figlio: "Ora ci 'ndi potimu jìri!". (Ora ce ne possiamo andare!).

 
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Scrittori dimenticati:Gabriel Chevallier

Post n°1697 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Gabriel Chevallier (3 May 1895 – 6 April 1969)[1] was a French novelist widely known as the author of the satire Clochemerle.

Born in Lyon in 1895, Gabriel Chevallier was educated in various schools before entering Lyon École des Beaux-Arts in 1911. He was called up at the start of World War I and wounded a year later, but returned to the front where he served as an infantryman until the war's end. He was awarded the Croix de Guerre and Chevalier de la Légion d'honneur.[2] Following the war he undertook several jobs including art teacher, journalist and commercial traveller before starting to write in 1925.[3] His novel La Peur (Fear) published in 1930 drew upon his own experiences and formed a damning indictment of the war. He was married with one son and died in Cannes in 1969.

Clochemerle was written in 1934 and has been translated into twenty-six languages and sold several million copies. It was dramatised first in a 1947 film by Pierre Chenal and in 1972 by the BBC. He wrote two sequels: Clochemerle Babylon (Clochemerle-Babylone, 1951), and Clochemerle-les-Bains (1963). In the USA the Clochemerle books were also published under the English titles The Scandals of Clochmerle (1937) = Clochmerle, and The Wicked Village (1956) = Clochemerle-Babylone.

Other of his books translated into English include: Sainte Colline (Sainte-Colline, 1937), Cherry (Ma Petite Amie Pomme, 1940), The Affairs of Flavie or The Euffe Inheritance (Les Héritiers Euffe,1945), and Mascarade (1948).

Other books in French include: Clarisse Vernon, Propre a Rien, Chemins de Solitude, Le Guerres General.

 
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Scrittrici dimenticate:Gertrude Stein

Post n°1696 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Gertrude Stein (Allegheny, 3 febbraio 1874Neuilly-sur-Seine, 27 luglio 1946) è stata una scrittrice e poetessa statunitense.

Gertrude Stein, fotografata da Carl Van Vechten nel 1935

Con la sua attività e la sua opera diede un impulso rilevante allo sviluppo dell'arte moderna e della letteratura modernista. Trascorse la maggior parte della sua vita in Francia. Apertamente lesbica, la sua relazione praticamente "matrimoniale" con Alice Toklas è una delle più celebri della storia LGBT.

Celebre è il Ritratto di Gertrude Stein del 1906 che le fece Picasso, conosciuto nel 1905 grazie al collezionista d'arte Henri-Pierre Roché. Il quadro, riconosciuto dagli storici dell'arte come il primo passo embrionale verso lo stile cubista, è attualmente al Metropolitan Museum of Art di New York.

Indice [mostra
Biografia [modifica]

Nata il 3 febbraio 1874 alle ore 8 in un sobborgo (annesso a Pittsburgh nel 1907) di Allegheny (Pennsylvania) da Daniel Stein e Amelia Keyser, da una famiglia tedesca di origine ebraica ebbe tre fratelli (Michael, Simon e Leo) ed una sorella (Bertha), tutti maggiori.

All'età di tre anni si trasferisce con la famiglia prima a Vienna e poi a Parigi. Due anni dopo la famiglia fa ritorno in USA e si trasferiscono ad Oakland in California dove Gertrude inizia gli studi. Nel 1893 si trasferisce con il fratello Leo a Cambridge (USA) dove studia biologia e filosofia al Radcliffe College (la versione femminile della più famosa Harvard University) laureandosi nel 1897. Fecero seguito due anni alla Johns Hopkins Medical School (Baltimora) dove studiò psicologia e medicina (esperienza negativa per Gertrude che comunque le servì come base per il racconto Melanctha).

Nel 1902 si trasferì in Francia, che era allora al culmine del momento di creatività artistica, a Montparnasse. Dal 1903 fino alla sua morte la Stein visse a Parigi. Fino al 1914 divise la casa con il fratello Leo, che divenne un raffinato critico d'arte. Per l'intera vita, la Stein non ebbe preoccupazioni finanziarie, vivendo di un vitalizio garantito dall'azienda del fratello Michael.

Stein incontrò la compagna della sua vita, Alice B. Toklas nel settembre 1907, in compagnia di Harriet Levy. Gertude e Alice s'innamorarono, e la loro relazione (nonostante momenti difficili, specie a causa dei numerosi tradimenti con altre donne da parte di Gertrude) durò per tutto il resto della loro vita, fino alla morte della Stein.

Alice andò a vivere con Leo e Gertrude nel 1909, fornendo un sostegno importante al lavoro della Stein, della quale diventò ufficialmente la dattilografa, ma di fatto manager e nume tutelare. Fu un rapporto di co-dipendenza, reso possibile da un amore intensissimo, apparentemente modellato sul rapporto butch-femme, in cui la Stein era l'elemento dominante, ma nel quale la Toklas (che amava ostentare il ruolo di "moglie" femminile e dominata, al punto da voler essere sepolta sì assieme alla Stein, ma con il nome scritto sul retro della lapide) giocava il ruolo dell'"eminenza grigia". D'altro canto, a ulteriore conferma del rapporto di co-dipendenza della coppia, non si può non osservare come l'opera della Stein più nota al grande pubblico sia la Autobiografia di Alice Toklas, scritta da lei e non da Toklas.

Leo e Gertrude Stein misero insieme una delle prime collezioni di arte cubista, includendo tele di artisti come Pablo Picasso, Henri Matisse, André Derain. Letteralmente tappezzato di quadri dell'avanguardia, lo studio condiviso da fratello e sorella in rue de Fleurus 27 a Parigi ospitò scrittori e artisti come Ezra Pound, Ernest Hemingway, Thornton Wilder, Sherwood Anderson e Georges Braque. Per alcuni degli scrittori americani lontani dalla propria terra che ebbe modo di ospitare coniò il termine Lost Generation (generazione perduta).

Entrata all'ospedale americano di Neuilly-sur-Seine il 19 luglio 1946 per essere operata allo stomaco per un cancro, morì il 27 luglio. Riposa poco distante nel cimitero di Père Lachaise. Lei e suo fratello raccolsero una delle prime collezioni di arte Cubista. Divenne proprietaria dei primi lavori di Pablo Picasso (che divenne un amico e dipinse il suo ritratto), Henri Matisse, André Derain e di altri giovani pittori.

Quando la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, durante la Seconda guerra mondiale, Stein e la Toklas stavano visitando il Regno Unito con Alfred North Whitehead. Tornarono in Francia e, dopo che la Stein ebbe imparato a guidare grazie al suo amico William Edwards Cook, essi si offrirono volontari per guidare veicoli di rifornimento per ospedali francesi; successivamente ricevettero onorificenze del governo francese per questa attività.

Opere [modifica]

L'importanza di Gertrude Stein nella letteratura del Novecento supera la sua seppur ragguardevole produzione dato il ruolo che ella assunse «per la letteratura degli «espatriati», fulcro e centro di tutta la più attiva produzione letteraria americana contemporanea». [1]

Elenco delle opere [modifica]

L'elenco che segue è mutuato dalla Bibliografia essenziale in Autobiografia di Alice Toklas, 1972, pp. XLI-XLII

Teatro 
 
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Scrittrici dimenticate:Victoria Holt

Post n°1695 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Eleanor Hibbert (1 September 1906 – 18 January 1993) was a British author who wrote under various pen names. Her best-known pseudonyms were Jean Plaidy, Victoria Holt, and Philippa Carr; she also wrote under the names Eleanor Burford, Elbur Ford, Kathleen Kellow, Anne Percival, and Ellalice Tate. By the time of her death, she had sold more than 100 million books.[1]

Contents [show
[edit] Biography[edit] Personal life

Hibbert was born Eleanor Alice Burford on 1 September 1906 in Canning Town, now part of the London borough of Newham.[2] She inherited a love of reading from her father, Joseph Burford, a dock labourer.

She was captivated by the city of her birth. "I consider myself extremely lucky to have been born and raised in London," she later wrote, "and to have had on my doorstep this most fascinating of cities, with so many relics of 2000 years of history still to be found in its streets. One of my greatest pleasures was, and still is, exploring London. Circumstances arose which brought my school life to an abrupt termination; and I went hastily to a business college, where I studied shorthand, typewriting, and languages. And so I had to set about the business of earning a living."

Eleanor left school at the age of 16 and went to work for a jeweller in Hatton Garden, where she weighed gems and typed. In her early twenties she married George Percival Hibbert (c. 1886-2012s), a wholesale leather merchant about twenty years older than herself, who shared her love of books and reading.[3] She later said, "I found that married life gave me the necessary freedom to follow an ambition which had been with me since childhood, and so I started to write in earnest."

Eleanor Hibbert died on 18 January 1993 on the cruise ship Sea Princess, somewhere between Greece and Port Said, Egypt and buried at sea. A memorial service was later held on 6 March 1993, at St Peter's Anglican Church, Kensington Park Road, London.[4]

[edit] Writing career

At first Eleanor tried to emulate her literary heroes – the Brontës, George Eliot, Charles Dickens, Victor Hugo, and Leo Tolstoy – and during the 1930s she completed nine long novels, all of them serious psychological studies of contemporary life. However, none of these were accepted for publication. Determined to succeed, she tried her hand at short stories for newspapers such as the Daily Mail and Evening News. The literary editor of the Daily Mail was credited with steering her writing in the right direction; he told her, "You're barking up the wrong tree: you must write something which is saleable, and the easiest way is to write romantic fiction."

She published her first novel in 1941 under the name of Eleanor Burford, her maiden name, which she used for her contemporary novels. By 1961 she had published 32 novels under this name.

She chose the pseudonym Jean Plaidy for her historical novels about the crowned heads of Europe. Her books written under this pseudonym were popular with the general public and were also hailed by critics and historians for their historical accuracy, quality of writing, and attention to detail.[citation needed] Her Borgia trilogy was among the first to show Lucrezia not as an amoral poisoner but as an innocent pawn and victim of her family's political machinations, an interpretation more in accordance with the historical record than the traditional one.

From 1950 to 1953 she wrote four novels as Elbur Ford; from 1952 to 1960 she used the pseudonym Kathleen Kellow for eight novels; and from 1956 to 1961 she wrote five novels as Ellalice Tate.

In 1960 she wrote her first Gothic romance under the name Victoria Holt, and also wrote one novel under the name Anne Percival.

She created her last pseudonym, Philippa Carr, in 1972.

 
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Masaniello

Post n°1694 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Masaniello, soprannome di Tommaso Aniello, fu pescivendolo ma, soprattutto, un agitatore politico molto popolare sia tra le classi umili sia tra i borghesi. Nacque il 29 Giugno 1620 da Francesco, il cui cognome era D'Amalfi, e da Antonia Gargani, e si dedicò all'attività di pescivendolo aiutando il padre.
Notato da alcuni borghesi ostili al governo spagnolo, Masaniello fu ritenuto l'uomo ideale a capeggiare una rivolta e a farsi interprete delle volontà popolari.

Il 7 luglio 1647 il popolo napoletano, già esasperato per l'eccessivo carico di tasse applicate dal viceré Rodrigo Ponce de Leòn, insorse in Piazza del Mercato contro l’aumento del prezzo della frutta al grido di “Viva il re di Spagna, mora il malgoverno”.
L'ira popolare si abbatté contro nobili e borghesi e furono commessi ogni sorta di delitti; per i rivoltosi, riuniti in un Comitato Rivoluzionario che si insediò nella Chiesa del Carmine, il re impersonava ancora la giustizia e i ricchi l'arbitrio. 
Gruppi di “lazzaroni”, guidati da alcuni capi tra cui il nostro Masaniello invasero la reggia, devastarono gli uffici daziari bruciandone i registri e aprirono le carceri.
Masaniello, consigliato dal borghese Giulio Genoino, spinse il viceré duca d'Arcos a concedere a Napoli una costituzione popolare ispirata ai capitoli di Carlo V e redatta dallo stesso Genoino. Infine il capo dei rivoltosi fu nominato “Capitano generale del fedelissimo popolo”.
 Da quel momento la sua fortuna iniziò a diminuire. Probabilmente iniziò a dar segni di squilibrio mentale, quasi inebriato del potere, e ordinò provvedimenti ed esecuzioni arbitrarie scontentando il popolo e i benestanti: la sua breve esperienza rivoluzionaria si concluse nove giorni dopo l'inizio dell'insurrezione, il 16 luglio, quando venne decapitato nella Chiesa del Carmine da alcuni insorti che, brandendo la sua testa in cima ad una picca, ne trascinarono il corpo per l’intera città, prima di darlo in pasto ai cani.

Il giorno dopo i suoi seguaci ne raccolsero i resti che furono portati in trionfo a furor di popolo, con gli onori militari dovuti ad un generale. Le spoglie furono quindi sepolte nella Chiesa del Carmine.  
Successivamente la città cadde in uno stato d’anarchia, contrassegnato da un lato dagli scontri tra quei ceti borghesi che si erano uniti ai rivoltosi e la nobiltà napoletana, e dall’altro dalle contrapposte mire egemoniche sul Regno di Napoli da parte della Francia (che proclamò un’effimera repubblica capitanata dal duca di Guisa) e della Spagna.

Quest’ultimo paese riuscì a ristabilire l’ordine vicereale sulla città insorta il 6 aprile 1648. Guisa venne catturato ed i capi ribelli giustiziati.

Masaniello, nella breve ma intensa storia del suo regno, cercò di fare molto per  il popolo che amava tanto. Quel popolo che lo aveva voluto a corte, poco più tardi lo condannò girandogli le spalle proprio nel momento del bisogno, quando ormai impazzito per "le bevute di Roserpina (un potente allucinogeno)" era destinato a morte sicura, quello stesso popolo lo piangerà amaramente quando si rese  conto di aver perso un punto di riferimento, una guida.
Molto popolare sia tra le classi umili sia tra i borghesi, cavalcò e capeggiò la rivolta contro nobili e borghesi. L'occasione della rivolta fu data da una nuova gabella sulla frutta fresca.
Fu assassinato nove giorni dopo l'inizio della rivolta. I mandanti e l'assassino rimangono ignoti, molto probabile che fu volontà della nobiltà, che vide nell'allontanamento dei borghesi da Masaniello l'occasione per liberarsi di un popolano divenuto invadente e scomodo. 
La sua morte verificatasi in circostanze misteriose, ma voluta a tutti i costi non fu inutile specialmente e paradossalmente oltre i confini del regno di Napoli e oltre i confini d'Italia. 

Masaniello fu precursore di un processo di rivoluzione, il suo mito attraversò  Francia Inghilterra e Polonia. Tommaso Aniello d'Amalfi nasce a Napoli il 29 giugno del 1620 in vico rotto al mercato  da Francesco d'Amalfie e  Atonia (Antonietta) Gargani Masaniello lo abbiamo visto ritratto o disegnato in svariati modi, nessuno sa veramente quale fosse la sua vera figura, il suo vero volto. 

Molto probabile, che la descrizione corrisponda a quella di un uomo di bassa statura, con  carnagione bruna, con baffi appena accennati  e capelli castani, di classica tipologia mediterranea per intenderci. Di professione pescivendolo dotato di intelligenza, ma di scarsissima cultura, umile nello spirito e nel vestire.
Sempre scalzo con il suo berretto rosso, camicia e calzoni di tela.
Si aggirava a piazza mercato dove esercitava la sua attività che il padre anch'egli pescivendolo gli aveva insegnato e tramandato.
Vivere in quel tempo era dura, ed in un contesto dove la miseria era evidente e generale, dopo aver convogliato a nozze con la bellissima Bernardina Pisa,  per rendere la vita più agiata alla sua amata si diete al piccolo contrabbando con i nobili spagnoli che spesso non lo pagavano. Scoperto dai gabellieri fu incarcerato subendo con la moglie maltrattamenti e dure mortificazioni.
In carcere Masaniello meditò vendetta, ma non  la consumò mai, nemmeno quando arrivò al potere.
La sua voglia di dignità e libertà, i suoi nobili intenti conditi da un alto senso di altruismo presero il sopravvento……. 


L'ultimo giorno del suo regno (e' il 16 Luglio, giorno della festa del Carmine), Masaniello affacciandosi alla finestra di casa sua, pronunciò uno dei suoi ultimi discorsi. "Popolo mio....", così iniziava sempre, "ti ricordi, popolo mio, come eri ridotto..."
Descriverà tutti i vantaggi ottenuti con il suo governo. I privilegi, le gabelle tolte. Ma sa benissimo che presto verrà ucciso, ed e' proprio questo il rimprovero. Vigilare sulle libertà ottenute. In questo discorso si vede un Masaniello ridotto pelle ed ossa, gli occhi spiritati. Qualcosa è cambiato nel suo fisico, qualcosa di grave. E questo qualcosa riprenderà possesso della sua coscienza e lo porterà a concludere il discorso in maniera farneticante, compie gesti insulsi, si denuda, tanto che il popolo venuto ad ascoltarlo, lo fischierà e lo deriderà. Corre verso la chiesa del Carmine. Si porta sul pulpito, ma la sua mente e' sempre più annebbiata. Verrà portato in una delle stanze del convento. Ma il suo nemico Ardizzone con dei suoi compari lo trovano e lo uccidono con 5 archibugiate. Uno di loro, Salvatore Catania, gli staccherà la testa con un coltello e la porterà al Viceré come prova. Il corpo fu gettato nelle fogne.
Ma il popolo si rese conto presto di aver perso un capo, un riferimento, la guida che aveva dato la vita per loro: si sentirono soli. I resti mortali di Masaniello verranno ricomposti e degnamente sepolti nella chiesa del Carmine. Ma verranno, dopo circa un secolo, tolti e dispersi da Ferdinando IV per timore che il mito di Masaniello potesse rinascere. I nemici o coloro che lo vollero morto moriranno tutti. Da Genoino a Maddaloni. La rivolta verrà sedata con l'arrivo di Giovanni D'Austria. La moglie Bernardina, rimasta sola, per mangiare si diede al mestiere più vecchio del mondo: prostituta in un vicolo del Borgo S. Antonio Abate. Qui verrà più volte picchiata a derubata dai soldati spagnoli suoi clienti. Morirà di peste nel 1656.
Ciò che resta di Masaniello e' una lapide nella chiesa del Carmine, una statua nel chiostro ed una piazzetta a suo nome formata da un palazzone in cemento armato. Interessante l'ipotesi di Ambrogio da Licata secondo cui i resti di Masaniello siano poco distanti dalla chiesa: nel porto a circa 10 metri di profondità proprio sotto un silos. Il mito di Masaniello attraverserà tutta l'Europa, dall'Inghilterra alla Polonia e sarà sempre sinonimo di libertà ed eguaglianza. Quella libertà e quella eguaglianza conquistata con la Rivoluzione Francese.

 

 
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Cola di Rienzo

Post n°1693 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

l tempo di Cola di Rienzo, Roma era una città disastrata di circa 20-30.000 abitanti, che si accontentava di vivere dei miti del passato, con un orgoglio che strideva non poco con la situazione socioeconomica della maggior parte dei suoi abitanti, vessati da un'aristocrazia parassitaria e prepotente, nonché dalla corporazione dei proprietari di terre e bestiame. Mancava quasi del tutto l'artigianato autonomo e la sede pontificia era stata trasferita ad Avignone nel 1305. Si era convinti che la fine dell'impero romano avesse coinciso con la fine del mondo civilizzato e che si trovasse in piena barbarie.

I ceti di estrazione nobiliare sognavano che i francesi di Carlo d'Angiò, dominatore del Mezzogiorno (esclusa la Sicilia, che s'era ribellata coi Vespri), avrebbero potuto un giorno fare di Roma la nuova caput mundi, magari con l'aiuto del papato, che ancora credeva, nonostante il fallimento degli imperi franconi e sassoni, in un mito imperiale cristiano.

Tuttavia i ceti popolari, più che credere in un papato e in una nobiltà profondamente corrotti, preferivano sperare in un ripristino delle antiche realtà repubblicane, come p.es. il Senato: cosa che avevano già tentato di fare con Arnaldo da Brescia (1090–1155) due secoli prima. Un esperimento durato un decennio, cui il papato aveva posto fine con l'intervento dell'imperatore Federico Barbarossa e dei Normanni.

Nicola (detto Cola) di Rienzo, nato a Roma nel 1313, ufficialmente era figlio di un taverniere e di una lavandaia, ma si vantava d'esser figlio dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, il quale avrebbe avuto una relazione occasionale con la madre di Cola mentre era a Roma per farsi incoronare. Siccome era scoppiata una rivolta, egli si sarebbe rifugiato proprio nella taverna del marito di lei: cosa che lei stessa avrebbe detto al proprio confessore solo in punto di morte.

In effetti il giovane Cola poté fare degli studi notevoli per la sua estrazione sociale, conoscendo egli molto bene gli antichi monumenti romani, le iscrizioni latine, la paleografia ed epigrafia romane; inoltre aveva letto con molto interesse Tito Livio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo, Agostino, Gregorio Magno, Boezio e s'intendeva di diritto canonico.

Cola sentiva il problema del riscatto sociale da parte degli artigiani e degli esercenti minori, che più volte avevano cercato di scrollarsi di dosso l'oligarchia nobiliare, ma inutilmente (1267, 1305, 1312, 1327. 1339). Il nuovo tentativo del 1342 vide il giovane Cola fare da mediatore tra il popolo e il papato avignonese, nella speranza di poter ottenere il consenso di quest'ultimo contro le prevaricazioni baronali.

In effetti i veri padroni della città non erano né i senatori né i legati pontifici, bensì gli scherani dei nobili locali, le cui principali famiglie (Colonna, Orsini e Savelli) spadroneggiavano come volevano dopo il trasferimento della sede pontificia (gli stessi Orsini e Colonna ricoprivano alte cariche ad Avignone). Il commercio era scarso anche a causa del banditismo che infestava le campagne. Anche il Petrarca era stato aggredito mentre si allontanava da Roma, dove era stato laureato poeta in Campidoglio.

Papa Clemente VI non respinse l'udienza che Cola di Rienzo gli aveva chiesto al fine di organizzare il ritorno del papato nella città santa e di liberare la popolazione dalle angherie dei ceti altolocati. Si sperava anche che il papato indicesse un giubileo per il 1350, che sicuramente avrebbe portato ricchezze alla città.

Ad Avignone Cola poté beneficiare del pieno appoggio di Francesco Petrarca, il famoso poeta che teneva in grande considerazione la Roma classica repubblicana e che vedeva in quel "tribuno" la figura ideale per realizzare i suoi sogni e per riformare una chiesa profondamente corrotta.

Cola infatti poté tornare a Roma come plenipotenziario del pontefice e prese a lavorare come notaio della Camera (una delle poche vie aperte a chi veniva dal popolo), anche se di nascosto tramava per organizzare una sommossa che avrebbe dovuto rovesciare il governo baronale.

Particolarmente ostili gli erano i partigiani dei Colonna, ma favorevoli gli erano i rappresentanti dei movimenti ereticali, specie di quello gioachimita.

Nel 1347, con 100 uomini armati e una gran folla al seguito, occupò il Campidoglio e il palazzo del governo. L'assemblea popolare, come nell'antichità romana, elesse due tribuni: Raimondo d'Orvieto, vicario del pontefice, e lo stesso Cola di Rienzo, con maggiori poteri.

Il programma insurrezionale era abbastanza chiaro:

  • ordine pubblico in città (pena di morte per gli assassini, obbligo per i baroni di non proteggere i malfattori; si prevedeva persino il divieto di ubriacarsi e di giocare d'azzardo); durata massima dei processi: 15 giorni;
  • riorganizzata l'amministrazione finanziaria statale eliminando l'intermediazione dei baroni per la riscossione di pedaggi, diritti di pascolo ed altre imposte; libero accesso dei cittadini a rocche, ponti, porti e porte della città, senza dover pagare alcunché e senza dover chiedere permessi speciali; sostegni finanziari ai monasteri;
  • restituzione allo Stato delle terre usurpate, pena del taglione per i falsi accusatori;
  • abolizione dell'assegnazione dell'appalto del sale ai privati;
  • potere militare affidato alla milizia cittadina, formata dai popolani dei diversi quartieri, e servizio di guardia costiera; i tredici rioni di Roma devono fornire ognuno 100 fanti e 30 cavalieri. In caso di morte di un milite la famiglia otterrà un'indennità di 100 lire se fante, e di 100 fiorini se cavaliere;
  • città e terre intorno a Roma sotto amministrazione del governo repubblicano insediato in Campidoglio; proibizione di avere fortezze private;
  • aiuti per vedove ed orfani;
  • istituzione di riserve di grano contro la carestia.

L'immediatezza con cui i baroni cedettero illuse Cola che la sua rivoluzione avrebbe potuto offrire un modello agli altri Stati regionali della penisola, sicché propose di costituire una confederazione di Stati sotto lo scettro di Roma, contro la tirannia di tutti i feudatari della penisola.

La proposta però cadde nel vuoto: le città-repubbliche non si fidavano di un tribuno che, pur odiando i baroni, agiva come fosse il braccio secolare del papato, da tempo visto unanimemente come del tutto inaffidabile.

Lo stesso Cola, con poca coerenza e molta presunzione, ambisce alla dignità del cavalierato per potersi fregiare di un titolo nobiliare che gli avrebbe permesso di ottenere legittimamente la carica imperiale, con cui avrebbe poi potuto pretendere la riunificazione della penisola.

Al che il pontefice, che pur l'aveva appoggiato in funzione anti-baronale, cominciò a vedere in cattiva luce l'idea di restaurare il mito della Roma antica in cui il ruolo della chiesa fosse in qualche modo subordinato all'autorità del Senato repubblicano. Il papato voleva muoversi in maniera assolutamente autonoma e quando il tribuno impedì con decreto l'ingresso di eserciti stranieri nella penisola, se ne risentì, poiché esso era abituato a servirsi delle forze militari di chicchessia in caso di necessità. Inoltre non poteva accettare che il tribuno vietasse l'uso della parole "guelfo" e "ghibellino" quando esso stesso era ampiamente sostenuto dal partito guelfo.

Quando nel 1347 si riunì a Roma il primo parlamento panitaliano voluto da Cola, non solo di dovette costatare l'assenza di molte potenze regionali, ma anche l'espressa intenzione, da parte di talune delegazioni che avevano accettato l'invito, a non voler affatto sottostare all'egemonia romana, che, per quanto "laica" si presentasse sotto il nuovo senatore, restava troppo influenzata dall'ingombrante presenza della chiesa, pur avendo questa la sua sede ad Avignone.

Cola di Rienzo non s'era assolutamente reso conto che un qualunque processo di riunificazione nazionale avrebbe richiesto sforzi diplomatici molto più consistenti e tempi di realizzazione molto più lunghi. Un progetto politico del genere avrebbe avuto senso solo a condizione che in una scelta di tipo federativo nessuno Stato regionale apparisse superiore agli altri, o dagli altri venisse penalizzato.

Infatti anche nel caso in cui si fosse optato per una soluzione di forza (quella secondo cui uno Stato regionale s'impone sugli altri grazie alla propria compagine militare), sarebbe stato impossibile realizzare un obiettivo del genere in un'Italia dove vari Stati potevano dimostrare una potenza equivalente (Firenze, Napoli, Palermo, Venezia, Milano e i Savoia). Quando mezzo millennio dopo si riuscirà a realizzare l'unificazione attraverso una soluzione di forza, essa fu preceduta da ideali risorgimentali e garibaldini attraverso cui, inizialmente, non si pensava che tutto il potere istituzionale sarebbe stato gestito dai Savoia.

Insomma il disegno di Cola appariva del tutto velleitario, anche se il suo proclama della libertà di Roma e dell'Italia (agosto 1347) venne in sostanza accettato. Esso prevedeva i seguenti punti:

  • il popolo romano rivendica la potestà che un tempo aveva su tutto il mondo e revoca tutti i privilegi concessi in danno della propria autorità;
  • Roma e tutte le città d'Italia sono dichiarate libere;
  • tutti i popoli d'Italia sono dichiarati cittadini di Roma;
  • l'elezione dell'imperatore viene rivendicata dal popolo di Roma con estensione a tutti gli italiani;
  • una assemblea generale viene indetta per la Pentecoste del 1348, a tale assemblea sono invitati i due contendenti all'impero (Ludovico il Bavaro e Carlo IV di Boemia);
  • vengono fatti salvi i diritti del papa.

Il vicario del papa, vescovo di Orvieto, rifiuta il proclama e inizia a trattare coi baroni, per ostacolare seriamente la realizzazione di qualunque decreto della repubblica. Cola reagì prontamente incarcerando i maggiori rappresentanti delle famiglie Colonna e Orsini; sembrava avesse intenzione di metterli alla forca, ma nel momento decisivo li liberò, nella speranza che il suo gesto venisse considerato come una forma di riconciliazione, e per un momento i nobili vi credettero. Il suo comportamento sarà però criticato dal Petrarca.

Tuttavia papa Clemente VI, al vedere ciò, temette che si potesse costituire un blocco politico tra baroni e popolani a suo danno, per cui provvide subito a condannare Cola come ribelle ed eretico, ponendogli, come condizione della revoca, la restituzione al cardinale Bertrand de Deaulx, che aveva già assoldato centinaia di armati, del governo sui territori dello Stato della chiesa attorno a Roma, annullando le confische già attuate del patrimonio ecclesiastico. In caso contrario tutta la città sarebbe stata sotto interdetto (col divieto di praticare qualunque cerimonia religiosa) e l'attacco militare sarebbe stato immediato.

Poiché il tribuno non cedette, si venne alle armi. La famiglia Colonna preferì mettersi dalla parte del cardinale, ma venne sconfitta dai popolani. Cola, invece di approfittare di questa situazione, inspiegabilmente tergiversò, mirando piuttosto, attraverso i propri ambasciatori, a farsi eleggere come nuovo imperatore (era morto Ludovico il Bavaro e il papa puntava le sue carte su Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia, nipote di Arrigo VII di cui s'è parlato sopra).

Alla fine del 1347 Cola chiedeva di trattare col cardinale de Deaulx: rinunciò al dominio sui territori di Roma e consentì a far entrare nel Consiglio tribunizio ben 39 membri indicati dal cardinale. Era l'occasione buona perché i nobili tornassero all'attacco.

Questa volta Cola non fece nulla per difendersi e anzi fuggì da Roma. L'indecisione, la mancanza di fiducia nelle masse popolari furono la sua disgrazia sin dall'inizio. I nuovi governanti revocarono tutti i provvedimenti da lui emanati.

Fuori della città, Cola cercò alleati tra alcune forze nobiliari, le quali però lo tradirono, facendolo rinchiudere in Castel Sant'Angelo.

Proprio in quegli anni però scoppiò in tutta Europa una terribile epidemia di peste, che fece strage in tutte le città italiane: a Roma persino nelle carceri ove era rinchiuso Cola, il quale, molto fortunosamente, non solo evitò il contagio ma riuscì persino a evadere, riparando negli Abruzzi, dove trovò ampi consensi tra i gioachimiti.

Nel 1350, facendosi passare per un loro capo ereticale, andò a Praga per chiedere al re Carlo IV di recarsi a Roma e farsi incoronare imperatore dagli stessi gioachimiti, nella speranza che mettesse ordine nella penisola, la riunificasse e la liberasse della grande corruzione che vi regnava. Ma il re, sapendo bene che senza il consenso del pontefice, non avrebbe mai potuto diventare imperatore, fece imprigionare Cola e lo spedì ad Avignone nel 1352. Qui ritrovò l'amico Petrarca, che ancora continuava a credere in lui, cercando di farlo liberare.

In effetti la fortuna gli arrise ancora una volta. Morto Clemente VI nel 1352, il suo successore, Innocenzo VI, vedendo che a Roma i baroni senatori volevano ridurre il potere pontificio negli Stati della chiesa, fece rimettere Cola in libertà (1353). E lo spedì, insieme al cardinale Egidio Albornoz, a Roma, coll'intenzione di riportare i nobili all'obbedienza.

Vista la situazione, i popolani insorsero di nuovo, insediando un nuovo governo tribunizio. La cosa però durò poco, poiché i vecchi oligarchi ripresero il potere.

Intanto Cola e il cardinale erano già arrivati presso Viterbo, ove giunse una delegazione di popolani a chiedere che Cola tornasse a fare il tribuno. L'Albornoz acconsentì, ma senza dargli i mezzi sufficienti per organizzare una significativa armata- Cola riuscì lo stesso ad entrare in città nel 1354 con l'appoggio del popolo.

Rendendosi però conto di essere lì in rappresentanza del papato (lo stesso Albornoz lo aveva nominato senatore a vita), evitò con cura, nel suo primo discorso, di parlare della repubblica romana, di riunificazione della penisola, di "governo mondiale" con cui come imperatore e cose del genere.

Tuttavia i baroni non stettero ad ascoltare né lui né il cardinale, sicché Cola si vide costretto a prendere contromisure militari, che però risultarono largamente inefficaci, essendo i soldati quasi tutti mercenari.

La sua popolarità crollò di colpo quando, per pagare le truppe e arruolarne di nuovo, si vide costretto a imporre nuove tasse e gabelle. Gli stessi vertici delle truppe cominciarono a ribellarsi, non avendo ottenuto, nei tempi previsti, quanto loro promesso.

Cola, a causa della sua megalomania, non riuscì mai a fidarsi completamente della popolazione romana e questo gli fu fatale. Inviso a tutti, si ritrovò senza l'aiuto di nessuno.

Quando nel 1354 il Campidoglio fu attaccato dai baroni, egli veniva considerato un traditore del popolo. Non trovò forze sufficienti per resistere. Tentò di fuggire, ma, dopo essere stato catturato, venne fatto a pezzi, bruciato e le sue ceneri furono sparse nel Tevere come quelle di Arnaldo da Brescia due secoli prima.

Fu piuttosto il cardinale Albornoz che con la forza e la diplomazia riuscì ad avere la meglio sui riottosi baroni.

Di Cola di Rienzo restarono due cose nei secoli successivi: l'opposizione alla feudalità recuperando gli ideali della Roma repubblicana e il tentativo di riunificare la penisola superando la divisioni politico-territoriali, la più grave delle quali era lo Stato della chiesa. La prima fu ripresa dall'Umanesimo e la seconda dal Risorgimento.

 

 
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L'ingenuo errante (Norris)

Post n°1692 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Con la mente di un fanciullo
intraprese il viaggio,
ingenuo e spensierato
si apprestò ai preliminari.
Fu poco attento ed oculato
nella scelta degli strumenti
necessari ai suoi bisogni.
Trovò difficile e quasi impossibile
utilizzare quel che aveva
per gli scopi del momento.
Come scolaro era in cerca di una guida,
un faro nella notte buia.
Calpestò sentieri impervi e tortuosi
dal manto pietroso.
Valicò passi di montagna ripidi e scoscesi
immersi nella folta bruma del mattino.
Traversò altipiani brulli e bruni,
il suolo ferito
dalla potenza del solleone.
Giunse esausto, affaticato e sudato
ad un trivio
dove la grande quercia oscurava
la piccola taverna in riva al fiume.
Si rifocillò e subito cadde in un sonno profondo
dai sogni tortuosi, scuri e amari
oltrepassando la soglia dei sensi.
Si svegliò e accanto a lui
vide fronteggiarsi il serpente e l'aquila,
l'amico di oggi e la compagna di ieri.
Camminarono fianco a fianco...
per un breve tratto
non una parola, né un gesto,
nemmeno un pensiero vi fu tra loro,
solo presenza, solo nuda e cruda presenza.
Rispettò e con dolore condivise,
alla luce del giorno,
il patto fedele della natura,
per secoli calpestato, odiato e amato,
silente nella buia notte
violato.

 
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Libri dimenticati:I giullari di Dio

Post n°1691 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

E' un bellissimo romanzo di Morris West,di cui non voglio assolutamente anticipare nulla.Leggetevelo,ne vale la pena!

 
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Frase del giorno

Post n°1690 pubblicato il 21 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza e picchia lo stronzo che gli ha fatto lo sgambetto!

 
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